“Toglimi le mani di dosso”: un libro su una storia vera di molestie e ricatti sul lavoro

Olga Ricci

“La violenza di genere nasce quando qualcuno dice chi sei al posto tuo, ti racconta come una decorazione muta e giudicabile, ti descrive come un oggetto a disposizione” (Michela Murgia)

“Sarebbe bello se gli uomini italiani provassero a immedesimarsi nella storia vera di questa giovane e coraggiosa collega. capirebbero meglio l’inferno di sofferenze, ricatti e vendette cui costringiamo le donne sui posti di lavoro. Un libro che parla a noi uomini” (Riccardo Iacona).

Due pensieri, di un giornalista e di una scrittrice, ci introducono al tema drammatico e grave del libro (pubblicato da Chiarelettere): quello delle molestie e ricatti sessuali che le donne subiscono sul luogo di lavoro.

IL LIBRO

POCHE DENUNCE, TROPPA VERGOGNA. Il racconto di Olga Ricci rompe il muro di silenzio e di ipocrisia che attraversa i luoghi di lavoro. “Il mio capo ci provava, ho resistito, avevo bisogno di lavorare. Non sapevo a chi chiedere aiuto. Poi ho mollato…”

Olga ha ricevuto avance e ricatti sessuali per mesi, in attesa di un contratto sempre promesso. Per non perdere il lavoro, ha cercato di resistere come ha potuto. “O ci stai, o te ne vai” il consiglio di colleghe e confidenti.

Tutto avviene, come sempre, in pubblico. Ammiccamenti, carezze, inviti a cena… Gesti apparentemente inoffensivi che invece servono a imporre IL POTERE DEL CAPO.

IN PRIVATO l’insistenza diventa ossessione violenta, ma la rabbia di Olga resta tutta dentro. In Italia nessuno considera molestie le battute a sfondo sessuale in ufficio, i massaggi sulle spalle, i complimenti imbarazzanti davanti ai colleghi. Chi si ribella passa per bacchettone.

Oggi Olga ha aperto un blog sotto pseudonimo. Si chiama IL PORCO AL LAVORO e ha avuto oltre 120.000 visite.

QUESTO LIBRO PARLA DI NOI, dell’Italia e del potere nelle relazioni e nei luoghi di lavoro. Della pigrizia mentale, di una rimozione collettiva e soprattutto della persistente disparità tra gli uomini e le donne, che continuano a essere penalizzate a livello economico e sociale.

L’autrice

Olga Ricci è lo pseudonimo di una giornalista trentenne italiana che oggi lavora come freelance per varie testate nazionali. Nel blog “Il porco al lavoro”, insieme alla sua testimonianza, ha dato visibilità alle tante storie di molestie in ufficio.

Chiude il libro un DECALOGO CONTRO LE MOLESTIE SUL POSTO DI LAVORO a cura di Rosa M. Amorevole, esperta in materia di lavoro e contrasto alle discriminazioni. Dal 2008 è consigliera di Parità per l’Emilia Romagna.

Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo un estratto del libro. 

In redazione

Cammino cercando di essere fiduciosa: è il mio primo giorno di prova al giornale e ho la prospettiva di un contratto a tempo indeterminato. Significherebbe stipendio dignitoso, ferie pagate, malattia, maternità, pensione. Potrei iniziare a fare progetti, senza chiudermi nell’orizzonte temporale dei soliti sei mesi. È così che mi sono abituata a ragionare, per non essere lacerata dall’incertezza. I sei mesi sono le colonne d’Ercole del mio futuro sprovvisto di garanzie e di soldi messi da parte. Sto per arrivare in redazione quando squilla il telefono. È il direttore, mi chiede di fare colazione con lui. Rifiuto, ma lui insiste per raggiungermi in un bar, nel viale stretto tra gli edifici bianchi, le palme e gli oleandri. Mi vede e si avvicina per baciarmi le guance. La sua pelle fredda mi si appiccica agli zigomi. Mi ritraggo e colgo il suo disappunto. Per non deluderlo gli regalo un sorriso nuovo di zecca. Ci sediamo a un tavolino all’aperto. Lui è in vena di confessioni. Racconta di quando era inviato e girava l’Europa per il suo giornale importante. Appena aveva un po’ di tempo libero, inseguiva per il mondo la fidanzata (l’amore della sua vita) che faceva la hostess. Parla molto e io lo ascolto, annuendo e dicendo: maddai, assì, chebbello, nonlosapevo. Ostento interesse e d’un tratto mi sorprendo interessata per davvero. La profezia sartriana, secondo la quale chi finge un sentimento è come se lo provasse, si sta avverando. Dico che è ora di andare. Sono io il direttore, ribatte, non devi preoccuparti di arrivare tardi, beviamoci ancora qualcosa. Chiedo un secondo caffè. Lui un tramezzino con gamberetti, maionese e insalata iceberg. Gli suona il cellulare. Si alza e si allontana. Apro i giornali sparsi sul tavolo, ma non riesco a leggere. Piego la bustina vuota dello zucchero fino a ridurla a un quadratino. La lancio sul marciapiede. Vedo che il direttore parla ancora. Faccio un cenno, me ne voglio andare. Lui sorride e, coprendo il telefono con una mano, mi chiede di aspettare. Resisto altri dieci minuti. Guardo la sua schiena allargata, la giacca blu di cotone forma pieghe umide all’altezza delle ascelle. Lui si gira. Io mi alzo. Protesta a gesti. Sono già lontana. Entro in redazione cercando di farmi piccola. Non conosco nessuno. […]

Nello stanzone senza finestre, illuminato al neon, c’è un tavolo ovale. Il direttore troneggia sulla sua poltrona mentre attorno i caporedattori e i capiservizio aspettano che parli di come organizzare il giornale, dalle pagine nazionali a quelle locali. Un discorso di un’ora infarcito di considerazioni sull’attualità e i massimi sistemi. A un certo punto sento il mio nome. Vedo che mi indica. Mi strizza l’occhio destro. Dice: da oggi qui con noi ci sarà Olga Ricci, la nostra nuova inviata. Seguirà gli eventi più importanti, in Italia e all’estero. Sessanta occhi si spalancano all’unisono e trenta bocche alitano incredulità e risentimento. Ho un capogiro. Vedo il comune pensiero astioso: chissà da dove viene questa raccomandata che ci passa davanti. Ricambio gli sguardi stupefatti con un sorriso abbozzato, facendo spallucce. Vorrei dire: non so di cosa stia parlando il direttore, non è possibile che io sia stata nominata inviata, non ho nemmeno un contratto. Ma resto in silenzio. Abbasso la testa e guardo il pavimento di piastrelle grigie a buon mercato fino alla fine della riunione.

Olga Ricci, TOGLIMI LE MANI DI DOSSO, Ed. Chiarelettere, Milano 2015, pagg. 144

“L’ora di lezione può cambiare la vita”. Un libro di Massimo Recalcati

 

Lo consigliamo a docenti e alunni. Vale la pena di leggerlo a scuola, offre molti spunti di riflessione sia per il docente e che per l’alunno.

Un libro intenso, pieno di pathos, questo libretto, “L’Ora di Lezione”, scritto da uno dei più noti psicanalisti italiani.

Il libro è un saggio ricco di analisi che tocca diversi livelli: dalla filosofia alla psicanalisi. Ma c’è anche un piccolo “tesoro”: sono le pagine dedicate alla sua esperienza di studente, uno studente cui “destino” pareva segnato dal fallimento: “Ero stato un bambino considerato idiota, fui bocciato in seconda elementare perché giudicato incapace di apprendere. Quando cerco di insegnare qualcosa, è a lui che mi riferisco.” “Andavo lento e ora mi rimproverano di andare veloce”.

Massimo Recalcati (Olycom)

Massimo Recalcati
(Olycom)

In quest’affermazione non c’è boria e trionfalismo. L’autore vuole sottolineare che era considerato una “vite storta”. E tutti siamo “vite storte”, la “stortura” può essere l’occasione di progredire nella conoscenza. Anzi è la condizione per conoscere la propria via. E’ la stortura, la nostra imperfezione, che accende il desiderio del sapere.

Ecco il punto, il tesoro del libro: in quel lontano 1977, gli anni del terrorismo, dell’esplosione della droga, in una classe dell’Istituto agrario, collocato alla periferia estrema di Milano, fa la sua apparizione una giovane e bella professoressa di lettere, Giulia, che incanta con la sua passione per la letteratura e la poesia il giovane studente annoiato dalla scuola. “Non esiste insegnamento senza amore. Ogni Maestro che sia degno di questo nome sa muovere l’amore, è profondamente erotico, è in grado di generare quel trasporto che in psicoanalisi chiamiamo transfert”. La parola diventa “corpo erotizzato”, accende il ionedesiderio. L’apprendimento, per Recalcati, non è pura ripetizione, plagio, sapere “morto” senza vita. L’insegnamento implica, per usare la metafora dell’amore, la trasformazione del soggetto che ascolta in soggetto attivo. Passare da “eromenos” a “erastes”. Ovvero passare al ruolo di “amante”.

La scuola come “sentinella dell’erotismo” del sapere, della possibilità del tuo futuro. Il luogo che mette in moto la vita che ti conduce all’altrove, verso mondi imprevisti.

Questo processo avviene nell’ora di lezione.

Ma oggi nel tempo della scuola “Narciso”, fatta di nozionismo pieno di efficienza fine a stessa, come se la mente degli studenti fosse da riempire con dei “file”, questo è assai complicato. Una scuola “narciso” che non contempla il fallimento, tutto è giocato sull’ansia della prestazione. Non è una bella evoluzione rispetto alla scuola, così viene definita dall’autore, “Edipo” (quella basata sull’Autorità). La proposta di Recalcati è quella di investire nella scuola lo spirito di “Telemaco”, ovvero dell’apertura al futuro delle possibilità.

La scuola come isola di anticonformismo sano, che rifiuta l’intruppamento, e ponga limiti all’indisciplina del godimento immediato.

La scuola come luogo della “legge della parola”. E senza legge non c’è desiderio.

Quindi come si trasforma un “libro in un corpo erotico”? ovvero come “tradurre ogni corpo che incontra in un libro da leggere”?

Per Recalcati gli autori di questa “magia” sono stati i suoi “maestri” :dalla splendida Giulia Terzaghi, “un corpo celeste che veniva da un altro universo”, la professoressa di lettere, ai grandi professori di Filosofia della Statale di Milano, “Heidegger e Sartre diventavano incredibilmente vivi, pulsanti, straripavano dalle loro cornici stabilite per entrarci dentro”.. Ecco perché – scrive Recalcati – “portare la parola è portare il suo fuoco”: è “il miracolo dell’insegnamento: mostrare che quel sapere che ritenevamo morto è vivo, è erotico, si muove, respira. In questo modo, il maestro, sempre, mentre insegna impara, ovvero ridà vita a tutto ciò che lo ha formato”. Ecco l’arte dell’insegnamento (che è un atto di amore).

E per ognuno di noi sicuramente c’è stato qualcuno che ha segnato il nostro destino, che ci ha aperto la via inesplorata o che ci ha consentito di “ripartire”. Ecco questi sono i “maestri” che ricorderemo a distanza di anni la voce, che è “espressione materiale e spirituale del desiderio di insegnare”. E’ Il desiderio d’insegnare che distingue il “maestro” dai replicanti. “Sei una presenza che insiste a vivere in me”, scrive della sua professoressa Recalcati. In-fine il sapere è, anche, un nome. L’amore è sempre, direbbe Lacan, l’amore per il nome. “Magia” dell’ora di lezione.

Massimo Recalcati, L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento, Ed. Einaudi, Torino 2014, pagg. 160, € 14,00

La “banda d’italia”, la super casta di intoccabili che governa i nostri soldi.
Un libro di Chiarelettere

 

La banda d'Italia Lannutti

IL LIBRO

Un libro, appena uscito nelle librerie, che denuncia gli ABUSI all’interno della BANCA D’ITALIA, quell’organismo che dovrebbe vigilare, sopra tutti, in un rapporto di indipendenza anche dal governo, sulla correttezza del mondo bancario per salvaguardare l’economia italiana e i soldi dei risparmiatori. Invece…

Questo libro dimostra, DOCUMENTI ALLA MANO, che proprio dove i controlli dovrebbero essere garantiti, c’è il massimo dell’opacità: un cono d’ombra che copre i troppi privilegi (i MAXI GUADAGNI del governatore e del Direttorio), le spese esorbitanti (ben 7000 dipendenti che costano più di un miliardo all’anno) e i sistematici conflitti d’interesse a danno dei correntisti ignari, in un gioco in cui controllori e controllati sono dalla stessa parte.

Sprechi (carte di credito per spese personali), privilegi (affitti regalati), favoritismi parentali (cariche tramandate DA PADRE IN FIGLIO) fanno dei dipendenti della Banca d’Italia una vera SUPERCASTA intoccabile. Nessuno, tanto meno la stampa, osa attaccarli. Eppure gli scandali non visti da via Nazionale sono tanti: da Parmalat a Mps, a Carige, fino alle banche più piccole.

I banchieri indagati sono troppi: com’è possibile? Nessun governatore si accorge di nulla: né Ciampi, né Draghi, né Visco. Poche le sanzioni, lievi e tardive. Intanto il denaro arriva a chi ce l’ha già o ha potere da far valere mentre i clienti normali pagano conti correnti e mutui più di tutti gli altri cittadini europei. Nessuno ha il coraggio e la forza di intervenire. FINO A QUANDO?

L’autore

Elio Lannutti (1948), ex bancario, giornalista e scrittore, nel 2008 è stato eletto al Senato come indipendente nelle liste Idv. Fondatore (1987) della Adusbef, l’associazione che difende gli utenti dei servizi bancari e finanziari, ha denunciato la lunga catena di scandali e la connivenza delle autorità di controllo (Consob e Bankitalia in primis). È autore di numerose pubblicazioni, tra le quali: EURO, LA RAPINA DEL SECOLO; I FURBETTI DEL QUARTIERINO (entrambi con Michele Gambino, Editori Riuniti); LA REPUBBLICA DELLE BANCHE (Arianna Editrice), prefazione di Beppe Grillo; BANKSTER (Editori Riuniti); CLEPTOCRAZIA (Imprimatur);
DIARIO DI UN SENATORE DI STRADA (Castelvecchi). Ha collaborato con importanti riviste e quotidiani tra cui “Il Messaggero” (1988-1991), “la Repubblica-Affari & Finanza” (1990-1993), “Avvenimenti”, che ha fondato, (1988-1999).

Per gentile concessione dell’Editore un estratto dell’introduzione del libro.

Nella polvere. E nel fango
Bankitalia, la più importante e antica istituzione della Repubblica, fondata subito dopo l’Unità d’Italia, ha disonorato il proprio nome. L’istituto di via Nazionale, che si era guadagnato un prestigio indiscutibile offrendo alla Repubblica italiana e al governo dirigenti stimati poi diventati capi di Stato (Luigi Einaudi e Carlo Azeglio Ciampi), presidenti del Consiglio (Lamberto Dini) e ministri del Tesoro (Guido Carli, Tommaso Padoa Schioppa, Fabrizio Saccomanni), è caduto nella polvere e nel fango.
Questo libro, grazie a ricerche e documenti inoppugnabili, tenta di descrivere il mutamento genetico della Banca d’Italia, passata in pochi anni da guardiana della moneta e del mercato bancario a un simulacro della vigilanza, incapace di prevenire crac e dissesti, arrivando sempre dopo la magistratura e accampando come ridicola giustificazione il meschino ritornello: «Noi non siamo poliziotti!».
Quando è iniziato il declino? Quale la data nera da cercare sul calendario della storia economica e finanziaria del nostro paese?
Le avvisaglie c’erano da tempo, ma chi scrive ritiene che il momento di svolta e di rottura definitiva con la gloriosa storia di questa istituzione sia da cercare nel dicembre del 2003, quando i «severi controllori» non si accorgono del crac Parmalat, il più grave scandalo industriale di Calisto Tanzi che aveva bruciato 14 miliardi di euro, con la Centrale rischi di Bankitalia che avallava Riba (ricevute bancarie) fasulle per 3 miliardi di euro. Da allora è stato un crescendo rossiniano di «disattenzioni».
Nel 2004 via Nazionale assiste impassibile e distratta alle scalate estive dei «furbetti del quartierino» che portarono il 19 dicembre 2005 alle dimissioni del governatore Antonio Fazio travolto da «Bancopoli». Nel febbraio del 2013 la polvere diventa melma maleodorante quando l’ex presidente di Abi (Associazione bancaria italiana) e Monte dei Paschi di Siena, Giuseppe Mussari, è costretto a dimettersi, seppellito sotto le macerie di un crac di 4,1 miliardi di euro. Tre gravissimi scandali che hanno segnato la storia di un milione di famiglie truffate. E tre governatori (Fazio, Draghi, Visco) sulla tolda di comando di quella che da celebre e onorata Amerigo Vespucci del sistema finanziario è diventata una spericolata nave pirata. Con le sue regole, i suoi segreti, le sue connivenze sfociate in omertà.
«Non esiste delitto, inganno, trucco, imbroglio e vizio che non vivano della loro segretezza. Portate alla luce del giorno questi segreti, descriveteli, rendeteli ridicoli agli occhi di tutti e prima o poi la pubblica opinione li getterà via. La sola divulgazione di per sé non è forse sufficiente, ma è l’unico mezzo senza il quale falliscono tutti gli altri» affermava Joseph Pulitzer, il celebre giornalista statunitense di origini ungheresi ideatore dell’omonimo premio. Molti atti «carbonari» hanno gettato nel ridicolo credibilità e prestigio della Banca d’Italia, che invece di servire sempre l’interesse generale del paese e il bene comune, è stata troppe volte asservita agli esclusivi interessi delle banche socie, di cricche e combriccole amicali, andando a braccetto con i banchieri e con l’Abi, promuovendo la politica creditizia a misura dei più forti con i commissariamenti e rendendosi così complice di usi, abusi, vessazioni e ordinari soprusi. Come la legge antiusura, l’anatocismo bancario, la commissione di massimo scoperto, il vasto e diffuso fenomeno del risparmio tradito, consumati sulla pelle di utenti e risparmiatori.

Elio Lannutti, LA BANDA D’ITALIA, Ed. Chiarelettere, Milano 2015, pagg. 164. € 13,00

“Inno alla vita”.
Intervista a Vito Mancuso.

1014343_371075966327323_1514365032_nquesta_vita_bigVito Mancuso, è un filosofo-teologo, per certi versi, “atipico” rispetto alla teologia ufficiale. Resta un punto interessante della sua riflessione teologica: lui vuol rendere ragione della speranza cristiana. E lo fa con la mediazione della cultura contemporanea. Come in questo suo ultimo libro, “Questa vita” (ed. Garzanti), dove ci vuole offrire una “spiritualità dell’armonia” dell’armonia della vita, che metta in discussione alcuni paradigmi contemporanei (ovvero la visione meramente strumentale della natura). 

Qual è la logica profonda della vita?

La logica profonda della vita, da come la interpreto io e come tento di riesprimerla nei libri, è quella della relazione armoniosa e generatrice di vita e che appare in modo paradigmatico nel rapporto madre-figlio. Sono consapevole che la vita oltre che armonia contiene disarmonia, oltre che generazione contiene degenerazione, oltre che vita contiene morte. Insomma il negativo mi è ben presente, però vedo che questo momento che chiamiamo negativo è in funzione di un momento più ampio, più profondo che è la generazione della vita. Se gli animali tolgono la vita ad altri animali lo fanno per nutrire se stessi e per la riproduzione della specie. È questo il vero obiettivo dell’esistenza, la vita che genera vita, l’armonia. Una armonia che si farà sempre più complessa.

Lei si schiera contro due opposte visioni: da un lato quello che vede la vita come l’espressione necessaria di un “progetto” che scende dall’alto, e dall’altro quella che la vede come una lotta selvaggia di tutti contro tutti. Propone una nuova “visione” espressa in questo “paradigma”: “Logos+caos=pathos”. Una cosa un poco complessa. Cosa significa e come , viene declinato?

Io parto dal presupposto he ho imparato da Hegel che tutte le filosofie, tutte le visioni del mondo in qualche modo sono vere e tutte sono false, perché nessuna è completa in se stessa. Io penso che ci sia effettivamente un progetto, una direzione dell’essere e in questo vedo la verità di quella parte di umanità che ragiona alla luce di un progetto intelligente, al contempo vedo la verità di chi nega tutto ciò e di chi pensa che esista una contingenza arbitraria, selvaggia, senza progetto. Sono due visioni che si contrappongono ma che sanno cogliere parte della totalità. Cosa dice questa totalità? Con quella formula logos+caos=pathos cerco di tenere insieme queste visioni. Il logos rinvia alla ragione, alla logica, una direzione o un senso nelle cose lo dimostra il fatto della mente che si interroga, mente che è scaturita dal caos primordiale. Allora o noi pensiamo ad una serie di coincidenze, combinazioni assolutamente fortuite o obiettivamente rintracciamo una direzione. Al contempo c’è il caos, il logos non domina tutto il reale, si impasta con il reale, se dominasse tutto il reale non ci sarebbe la libertà e non ci sarebbe la vita. Questi due elementi insieme danno il pathos, cioè passione, nel senso di ciò che appassiona, ma anche ciò che fa soffrire, la vita è anche sofferenza.

Da questo paradigma lei fa “discendere”  lo stare al mondo con “ottimismo   drammatico”.  Una polarità, per dirla con Romano Guardini, dinamica…è così?

È una formula che amo molto, ripresa da un grande teologo russo Pavel Florenskij, lui in realtà parlava di ottimismo tragico, io preferisco drammatico, perché dramma in greco significa “azione”, quindi rimanda ad un ottimismo processuale, qualcosa che si fa. Questa è una formula che traduce quello che dicevo.

Lei parla dell’essere come “energia”, e quindi non come “sostanza”. Eppure, direbbero i padri della metafisica senza “sostanza” non siamo. Può spiegarci, allora, la “dinamica” dell’essere-energia?

Qui ci muoviamo su livelli di cose molto complesso, posso dire quel poco che io riesco a capire è che tutto si muove, e in questo movimento tutto è a lavoro, energia dal greco significa “al lavoro, all’opera, in atto”. Questa è la comprensione più matura di quel fenomeno a cui gli antichi si sono sempre rivolti con il nome di “essere”, penando l’essere come già compiuto, il mondo come eterno, come perfetto, Aristotele da questo punto di vista è il padre di questa prospettiva. La prima categoria mediante la quale si pensa l’essere è la sostanza. Questo discende dal fatto che il mondo è un “entelechia”, una perfezione, è eterno, è compiuto, tutto è già compiuto. Oggi questa visione, che è stata alla base del pensiero cristiano, tenuto conto che Aristotele è stato il filosofo su cui Tommaso D’Aquino ha basato la sua teologia, oggi questa filosofia risulta falsa, c’è un’evoluzione della vita, un’evoluzione del cosmo, perché l’essere è al lavoro, occorre pensarlo come movimento, come energia. Naturalmente l’essere non è solo energia, ma è anche informazione, perché l’energia diventa lavoro ordinato quando viene informata, quando c’è un’intelligenza, che splama, che mette ordine all’energia.

Ed ecco che si compie la svolta del suo paradigma: la vita oltre che “curata”, conosciuta, va “nutrita” . Ci sono pagine, nel libro,  intense sul “nutrimento”. Nutrimento che tocca più livelli… Dall’emozione al cibo…Di cosa manca l’uomo contemporaneo?

A livello del discorso in cui siamo secondo me quello che manca è una comprensione integrale del fenomeno che chiamiamo vita. La vita non è solo vita fisica, ma la vita si dice in molti modi. I greci antichi avevano tre termini bios, fenomeno biologico, zoe, vita animale, vitale, psiche, vita psichica. Dobbiamo pensare la vita come formata da corpo, psiche e spirito, quindi nutrire la vita significa nutrire tutti e tre. Mentre oggi si ha ben chiaro il nutrimento del corpo e abbastanza chiaro il nutrimento della psiche, non si ha abbastanza chiaro quando si deve pensare al nutrimento dello spirito. Questo secondo me è il grande limite della contemporaneità.

Venendo al cibo, siamo nel tempo dell’Expo, lei è un sostenitore della dieta vegetariana. Perché?

Io semplicemente nel libro testimonio – non è nient’altro che testimonianza – il fatto che da qualche anno a questa parte non mangio più carne per celebrare la vita in un certo senso, per rendermi più attento alla comunione di tutti gli esseri viventi, noi siamo “created from animals”, creati a partire dagli animali, senza gli animali non saremmo qui né dal punto di vista evolutivo né come fotografia dell’esistenza. La nostra vita è intimamente connessa a quella degli altri esseri viventi. Ecco prendere consapevolezza di questo è  prendere consapevolezza del dolore che l’esserci come esistenza vitale provoca ad altri animali, prendere consapevolezza di questo significa chiedersi che cosa si può fare per diminuire questo dolore. Non ci sarà mai la possibilità finché ci sarà la vita in questo mondo, di vivere un mondo senza dolore, io sono consapevole che anche la dieta vegetariana non è tale da impedire completamente di procurare dolore ad altri esseri viventi. Quando uno mangia un pezzo di pane sembra che non faccia niente di male a nessuno, ma l’aratro quando entra nel campo per seminare è probabile che abbia ucciso diversi microrganismi. Quindi non c’è la possibilità di una zona incontaminata, però c’è la possibilità di diminuirla ed è questo il senso della dieta vegetariana.

Lei, nel suo libro, fa una feroce critica, come abbiamo già detto, alla visione contemporanea della natura, e propone una  spiritualità dell’armonia. Quali sono i capisaldi?

I capisaldi della spiritualità e dell’armonia sono anzitutto un desiderio chiamiamolo formale. Cosa vuol dire? Vuol dire che noi possiamo scegliere, guardando il mondo, il punto di vista. Il mondo contiene fenomeni negativi e fenomeni positivi. Qual è il punto di vista per cogliere ciò che c’è di più importante nel mondo? Il punto di vista della spiritualità come armonia è quello che privilegia il bello, la giustizia, la verità (essere veritieri), è quello che privilegia il lato positivo della vita, è sostanzialmente l’ottimismo, che non ignora tutte le dimensioni di negativo, ma che vuole fare leva sul famoso bicchiere mezzo pieno per costruire la propria visione di mondo.

In-fine, Professore, cos’è la vita?

Dipende qual è il punto di vista da cui ci mettiamo, se ragioniamo da fisici, da scienziati, da amanti. Tutte le risposte sono plausibili al riguardo. Mi viene in mente il volto sorridente di Albert Schweitzer con i suoi baffoni, lui che era un grandissimo musicista, poi filosofo e teologo che lasciò tutto, si iscrisse a medicina e poi lasciò l’Europa e andò nel centro dell’Africa e passò la vita a curare malattie incurabili. Proprio per questo ricevette il Premio Nobel per la pace. Lui diceva rispetto per la vita, questo è il fondamento per l’etica, per una libertà che responsabilmente decide come vivere. Un fenomeno incredibile, meraviglioso, di ciò che la scienza dice di noi. Pensiamo come sia complessa la vita, come sia preziosa. Forse il nostro pianeta è l’unico su cui la vita si è prodotta, forse. È un fenomeno estremamente prezioso, di rispettarlo con tutti i mezzi, avendo questo rispetto, questa reverenza.

 

“La vita è bella”. Il testamento di Leon Trotsky. Una pubblicazione di Chiarelettere.



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Chiarelettere, dopo il successo della collana Instant Book del 2011, lancia una nuova collana di libri di riferimento e di suggestione, libri piccoli, agili, dal con

tenuto intramontabile. Libri che cercano di “illuminare” il presente 

andando in profondità , oltre cioè il “presentismo”.

Una vera Biblioteca, ma da usare, subito, facilmente. La collana viene inaugurata con una sorpresa editoriale: La vita è bella di Leon Trotsky (prefazione di David Bidussa, pagine 100, euro 7,90), il cui titolo, tratto dal testamento dello scrittore russo, è stato usato da Benigni per il suo famoso film. Una scoperta che ci rivela la vitalità e la speranza di un uomo, pur con i suoi gravi limiti, braccato dai suoi stessi compagni.

Qui è l’uomo che parla, con le sue passioni, non il 

politico di mestiere. Un eccezionale inno alla vita.

Prossimamente verranno riproposti due volumetti di grande successo: Odio gli indifferenti di Antonio Gramsci (pagine 128, euro 7,00), e La scuola della disobbedienza di don Lorenzo Milani (pagine 112, euro 7,90). A seguire altre novità del pensiero critico di autori intramontabili come Simone Weil, André Breton, Étienne de La Boétie, Robert Musil, Lev Tolstoj, Paul Valery, Fernando Pessoa e tanti altri.

Leon Trostky: è stato tra i principali, insieme a Lenin, protagonisti della Rivoluzione d’Ottobre. Dopo la morte di Lenin entrò in contrasto con Stalin. Venne espulso dal partito e incominciò per lui il lungo periodo dell’esilio. Si stabilì, dopo molte peregrinazioni, in Messico. Muore assassinato da un sicario sovietico di origine spagnola.

Per gentile Concessione dell’editore pubblichiamo la presentazione di David Bidussa e il testo del Testamento di Leon Trosky.

CONTRO IL PRESENTE di David Bidussa

Chi avrebbe scommesso su Gramsci nel 2010? Praticamente nessuno. La vicenda Gramsci era una storia archiviata. Al massimo una vicenda biografica sfortunata collocata all’interno di una parabola politica ormai conclusa. Insomma un capitolo chiuso del passato che stava bene là.

Poi la politica, improvvisamente, ha rimesso al centro alcune sue parole.

Quella riscoperta, tuttavia, non è stata la premessa a una rivalutazione complessiva di Gramsci.

Gramsci entrava nel pantheon del XXI secolo per alcune parole e in quel pantheon sta proprio per che ci sono parole indispensabili senza le quali la nostra condizione è quella della sudditanza e forse dell’insignificanza.

Gramsci rimaneva una figura politica consegnata al suo tempo. Le sue parole entravano prepotentemente nel nostro, per certi aspetti si presentavano come le più adeguate, più “update” per parlare e dare voce ai tanti ventenni per le vie di una qualsiasi “occupy wall street” nell’estate 2011. Odio gli indifferenti era uno slogan che andava forte. Ma non era la premessa a una nuova stagione di Gramsci.

Da tempo il rapporto con le figure significative del passato non è assumerle in toto, ma cercare suggestioni per riflettere oggi. Nel passato non si va a cercare padri, numi tutelari, si vanno a cercare pensieri che parlino all’inquietudine e alle insoddisfazioni del nostro tempo, voci capaci di darci quelle parole che talvolta stentiamo a trovare.

Ha senso pubblicare Trotsky nel 2015? Forse, ma a patto che si faccia un ragionamento chiaro su ciò che ci aspettiamo. Ovvero che si dica senza bluff che cosa vogliamo da una voce del passato, che cosa andiamo a cercarvi e perché scegliamo quella.

Si potrebbe liquidare Trotsky come una figura che è sconfitta due volte: la prima perché la sua famiglia politica (il comunismo) ha perso; la seconda perché anche dentro alla sua famiglia politica è risultato perdente. La sua alla fine sembra la morte inutile di un combattente che fino all’ultimo crede che le sorti del mondo si possano cambiare, che il suo avversario irriducibile, un tempo suo compagno di partito, possa essere rovesciato.

Come sappiamo non è andata così, e l’intera parabola non era che eliminando Stalin, l’allegra macchina del comunismo si sarebbe automaticamente rimessa in moto. Il processo era più complicato. Come del resto Trotsky stesso intuisce quali alla fine della propria vita, l’essenza del comunismo sovietico, se tolta la proprietà privata, si riduceva a essere l’equivalente del fascismo. È un’affermazione di cui Trotsky stesso si spaventa quando la scrive, tant’è che non la ripeterà più.

Tuttavia non è quello ciò che a me sembra si debba oggi portare a casa di quella esperienza politica.

A me sembra che sia importante riprendere un punto di quella riflessione. È nel primo scritto organico che ci sia pervenuto di Trotsky. È del 1900, Trotsky ha 21 anni (è quello che apre questa raccolta e che esprime il nucleo generativo di tutta la raccolta, anche se il titolo è ripreso da testo diverso).

Trotsky non ha un’esperienza politica, è un rivoluzionario colto, che ha un’alta considerazione di sé (uno che quando gli altri non lo capiscono piange e si placa quando lo consolano. Si può essere più presuntuosi di così?) Eppure c’è una forza invidiabile nelle sue parole immaginate come un dialogo tra lui e il XX secolo.

«Morte all’utopia! Morte alla fede! Morte all’amore! Morte alla speranza!» tuona il XX secolo con le sue salve di fuoco e il rombo dei suoi cannoni. «Arrenditi, patetico sognatore. Sono io, il tuo XX secolo tanto atteso, il tuo futuro

«No – replica l’indomabile ottimista – tu sei solo il presente».

Tutta la forza del rivoluzionario, che non molla è in queste parole.

Ma rivoluzionario che non molla non vuol dire un invasato che si identifica con la rivoluzione o, meglio con l’idea della rivoluzione, per poi una volta deluso della rivoluzione avvenuta votarsi all’idea perché tanto peggio per i fatti. Non mollare vuol dire sapere che dopo la rivoluzione può affermarsi se gli uomini e le donne migliorano la qualità della propria vita, che rivoluzione vincente non vuol dire solo presa del potere, ma qualità migliore della vita, vuol dire cultura, innalzamento dell’istruzione, riuscire a dimettersi dalle proprie sudditanze culturali, ideologiche. Sono le sue parole agli operai dopo la rivoluzione perché non si accontentino del potere o della redistribuzione delle ricchezze, perché la vita è anche molto altro e solo se questo altro si afferma, allora si può dire che è iniziata una stagione di felicità.

Questa sta anche nella sconfitta o nella difficoltà perché la sfida è nella capacità di replica, nella volontà di trovare una risorsa che consenta di ricominciare. Perseverando; non mollando, mai, con tenacia, ma anche con ironia.

La vita è bella (Testamento di Leon Trotsky)

La mia pressione alta (e in continuo aumento) inganna chi mi sta vicino sullo stato reale della mia salute.

Sono attivo e abile al lavoro, ma la fine, evidentemente, è vicina. Queste righe saranno rese pubbliche dopo la mia morte.

Non ho bisogno di confutare ancora una volta le stupide e vili calunnie di Stalin e dei suoi agenti: non v’è una macchia sul mio onore rivoluzionario.

Non sono mai sceso ad accordi, né direttamente né indirettamente, o anche solo a trattative dietro le quinte coi nemici della classe operaia.

Migliaia di oppositori di Stalin sono caduti vittime di accuse analoghe, e non meno false.

Le nuove generazioni rivoluzionarie ne riabiliteranno l’onore politico e tratteranno i giustizieri del Cremlino come si meritano.

Ringrazio con tutto il cuore gli amici che mi sono rimasti fedeli nei momenti più difficili della mia vita.

Non ne nomino nessuno in particolare, perché non posso nominarli tutti. Mi ritengo tuttavia nel giusto facendo un’eccezione per la mia compagna, Natalia Ivanovna Sedova. Oltre alla felicità d’essere un combattente per la causa socialista, il destino mi ha dato la felicità d’essere suo marito. Durante i circa quarant’anni di vita comune, lei è rimasta per me una sorgente inesauribile di amore, di generosità e di tenerezza. Ha molto sofferto, soprattutto nell’ultimo periodo della nostra esistenza. Mi conforta tuttavia, almeno in parte, il fatto che abbia conosciuto anche giorni felici.

Per quarantatré anni della mia vita cosciente sono rimasto un rivoluzionario; per quarantadue ho lottato sotto la bandiera del marxismo. Se dovessi ricominciare tutto dapprincipio, cercherei naturalmente di evitare questo o quell’errore, ma il corso della mia vita resterebbe sostanzialmente immutato. Morirò da rivoluzionario proletario, da marxista, da materialista dialettico e quindi da ateo inconciliabile. La mia fede nell’avvenire comunista del genere umano non è meno ardente che nei giorni della mia giovinezza, anzi è ancora più salda.

Natascia si è appena avvicinata alla finestra che dà sul cortile e l’ha aperta in modo che l’aria entri più liberamente nella mia stanza. Posso vedere la lucida striscia verde dell’erba ai piedi del muro, e il limpido cielo azzurro al di sopra del muro, e sole dappertutto.

La vita è bella. Possano le generazioni future liberarla da ogni male, oppressione e violenza, e goderla in tutto il suo splendore.