CONTRADA ARMACÀ, un “giallo” su Reggio Calabria

Contrada ArmacàUn giallo ambientato nel cuore di Reggio Calabria, tra violenza e bellezza, irresistibile vitalismo e sanguinaria ferocia. Scritto dal bravo giornalista, e inviato dell’Espresso, Gianfrancesco Turano (nato lui stesso  a Reggio Calabria).

LA TRAMA
L’omicidio di Rosario Laganà, giovane parrucchiere ucciso per strada in un agguato, non suscita particolare clamore a Reggio Calabria. Il movente, si mormora, sarebbe una faccenda di corna o di droga. Nessuno sembra insospettito dal fatto che il ragazzo era intimo di Oriana, la collaboratrice più fidata del sindaco, morta suicida solo poche settimane prima. Chi non si accontenta di facili spiegazioni è lo zio di Rosario, Demetrio Malara, ex insegnante, un uomo solitario che ha già perso il figlio quindicenne in un regolamento di conti fra clan rivali.
La pista di Oriana diventa una scommessa privata, ma per esplorarla Malara ha bisogno di aiuto. Fortunato Amato detto Nato, un suo ex studente che alla carriera di avvocato ha preferito il business dei matrimoni e si è ritagliato un ruolo come organizzatore di eventi, è l’uomo giusto al momento giusto. Narcisista e donnaiolo, brillante e abituato a vivere all’insegna del “me ne fotto”, Nato conosce mezza Reggio ed è ben introdotto nei circoli che contano. Fra risse nei locali della movida reggina, container gonfi di armi e cocaina in transito nel porto di Gioia Tauro, sparatorie nei boschi dell’Aspromonte, donne irresistibili e sicari disposti a tutto, la strampalata coppia d’investigatori entrerà nelle viscere di una città dove nulla accade per caso e dove ogni delitto è il risultato del mancato rispetto di regole non scritte. Un romanzo dove tutte le consorterie oscure del potere  si intrecciano. Insomma Contrada Armacà è un giallo che squarcia la facciata rispettabile di Reggio Calabria, svelando un sistema criminale che arriva a lambire perfino la Casa bianca.

Gianfrancesco Turano, Contrada Armacà,Ed. Chiarelettere, Milano 2014, pagg. 320, € 16,90.

Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo un breve estratto del libro.

UNO

CAPOCRIMINE  Il fatto è per stasera alle sette, sette e mezzo. Dipende da quanta gente c’è dal parrucchiere. Il ragazzo lavora lì, lo aspettano all’uscita. Ha ventidue anni. Dimmi se si può morire così giovani. D’altra parte, è stata seguita la trafila necessaria a evitarlo. Gli hanno spiegato, prima con buona maniera, poi in malo modo. Con le mani nella faccia, come si dice. Lui niente. Ha fatto l’impossibile. Questa è una città di presuntuosi. Ti danno del tu e si danno del noi. E la trafila è andata avanti. C’era pochissimo tempo. Da quando la dirigente del Comune si è avvelenata, tre settimane fa, il ragazzo si agitava in nome della sua bella amicizia con la signora. Diceva che politici, dirigenti e compari assortiti l’avevano abbandonata dopo essersi arricchiti grazie a lei, con i soldi di tutti: delle imprese e dei fornitori che fallivano, dei disoccupati e delle famiglie con le fogne scoppiate in casa. Un moccioso, un ’mbriscipisciatu di quella fatta viene a dare lezioni di organizzazione a chi ha cinque continenti da mandare avanti e la pace nel mondo da mantenere, a chi si fa galere e funerali per lealtà. Ci sarebbe da ridere, se non ci fosse da piangere.
Il ragazzo ha creato un’emergenza, e in emergenza i protocolli di sicurezza si avviano in automatico. Non li puoi più fermare. Troppa gente rischia. Qualcuno si è rivolto a noi e prima dell’Epifania qualcun altro ha convocato i napoletani.
Non è la prima volta. Nel 1976 – io ero bambino – sono stati usati gli uomini di Raffaele Cutolo per eliminare il vecchio don Mico Tripodo nella sua cella a Poggioreale: venti coltellate per cento milioni di lire, cinque milioni a coltellata. Costoso, ma ci siamo sempre trovati bene. È gente tecnicamente preparata, che non guarda in faccia a nessuno. Non è che a noi mancano le persone capaci. Preferiamo così. Qua non siamo sulla Montagna o sulla Piana che dobbiamo sempre mostrare quanto ce l’abbiamo lungo. Noi a Reggio diciamo: chi ha il comodo e non si serve, non c’è sacerdote che l’assolve.

“E’ Stato la Mafia”. Un libro di Marco Travaglio sulla trattativa Stato-Mafia

E' Stato la mafia_piatto“Perché avvelenarci il fegato con queste storie vecchie di oltre vent’anni, con tutti i problemi che abbiamo oggi? La risposta è semplice e agghiacciante: sono storie attuali, come tutti i ricatti che assicurano vita e carriera eterna tanto ai ricattatori quanto ai ricattati. Da ventidue anni uomini delle istituzioni, della politica, delle forze dell’ordine, dei servizi e degli apparati di sicurezza custodiscono gelosamente, anzi omertosamente, i segreti di trattative immonde, condotte con i boss mafiosi le cui mani grondavano del sangue appena versato da Giovanni Falcone, da Francesca Morvillo, da Paolo Borsellino, dagli uomini delle loro scorte, dai tanti cittadini innocenti falciati o deturpati dalle stragi di Palermo, Firenze, Milano e Roma. E su quei segreti e su quei silenzi hanno costruito carriere inossidabili, che durano tutt’oggi… 

Chi volesse capire perché in Italia tutto sembra cambiare – gattopardescamente – per non cambiare nulla provi a seguire con pazienza il filo di questo racconto. Se, alla fine, avrà saputo e capito qualcosa in più, questo spettacolo e questo libro avranno centrato il loro obiettivo: quello di mettere in fila i fatti per strappare qualche adepto al Ptt, il partito trasversale della trattativa.”  Così scrive Marco Travaglio, Vice Direttore del Fatto Quotidiano, in questo che oggi presentiamo. Di seguito, per gentile concessione dell’Editore, pubblichiamo il Prologo del volume.

Prologo

Ci sono diversi modi per raccontare la trattativa Stato- mafia.

Il primo è quello dei politici, dei grandi giornali e delle tv: la presunta trattativa, la supposta trattativa, la pretesa trattativa, la cosiddetta trattativa. Forse, magari, chissà.

Il secondo è quello che raccontano le sentenze e i protagonisti.

Le sentenze sono quelle – definitive – dei processi celebrati a Caltanissetta sulle stragi di Palermo del 1992 (Capaci e via D’Amelio) e a Firenze sulle bombe di Firenze in via dei Georgofili, di Milano in via Palestro e di Roma alle basiliche di San Giovanni in Laterano e di San Giorgio in Velabro. Scrivono i giudici della Corte d’assise di Firenze (verdetto confermato fino in Cassazione):

I testimoni hanno espressamente dichiarato che la controparte mafiosa della trattativa erano i «corleonesi»; anzi, direttamente Riina. Brusca ha confermato che della trattativa gli parlò personalmente Riina. […] I testi hanno dichiarato che si mossero dopo la strage di Capaci; il col. Mori entrò in scena dopo la strage di via D’Amelio […]. In ciò che ha raccontato Brusca vi è quanto basta per essere certi del parallelismo tra la vicenda raccontata da lui e quella raccontata dal gen. Mori e dal cap. De Donno […]. L’iniziativa del Ros aveva tutte le caratteristiche per apparire come una «trattativa»; l’effetto che ebbe sui capi mafiosi fu quello di convincerli, definitivamente, che la strage era idonea a portare vantaggi all’organizzazione. Sotto questi profili non possono esservi dubbi di sorta, non solo perché di «trattativa», «dialogo», ha espressamente parlato il capitano De Donno (il generale Mori, più attento alle parole, ha quasi sempre evitato questi due termini), ma soprattutto perché non merita nessuna qualificazione diversa la proposta, non importa con quali intenzioni formulata (prendere tempo; costringere il Cian- cimino a scoprirsi; o altro) di contattare i vertici di Cosa nostra per capire cosa volessero (in cambio della cessazione delle stragi). Qui la logica si impone con tanta evidenza che non ha bisogno di essere spiegata.

Conclusione dei giudici di Firenze:

Non si comprende come sia potuto accadere che lo Stato, «in ginocchio» nel 1992 – secondo le parole del gen. Mori – si sia potuto presentare a Cosa nostra per chiederne la resa; non si comprende come Ciancimino, controparte in una trattativa fino al 18-10-1992, si sia trasformato dopo pochi giorni in confidente dei carabinieri; non si comprende come il gen. Mori e il cap. De Donno siano rimasti sorpresi per una richiesta di «show down», giunta, a quanto pare logico ritenere, addirittura in ritardo.

La stessa Corte d’assise di Firenze, nella sentenza di condanna all’ergastolo per il boss Francesco Tagliavia (già confermata in Appello) del 5 ottobre 2011, aggiunge:

Una trattativa indubbiamente ci fu e venne, quantomeno ini zialmente, impostata su un do ut des. L’iniziativa fu assunta da rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini della mafia.

Borsellino si oppose, giudicandola «la negazione stes- sa della battaglia condotta da sempre con Falcone» e prevedendo che la trattativa non avrebbe frenato, ma moltiplicato le stragi. Infatti fu ucciso. Per questo.

Ma di «trattativa», senza alcun aggettivo dubitativo, parlano anche i protagonisti, mafiosi e istituzionali. A cominciare da Giovanni Brusca, che per primo la rivelò nel 1996-97, costringendo i trafelati ufficiali del Ros, il generale Mario Mori (all’epoca vicecomandante) e il suo braccio destro, l’allora capitano Giuseppe De Donno, a confermarla. Ecco Mori il 27 gennaio 1998 davanti ai giudici di Firenze (dove, diversamente da quanto affer- mano i giudici, parla anche lui più volte di «trattativa»):

Incontro per la prima volta Vito Ciancimino a via di Villa Massimo dietro piazza di Spagna a Roma, nel pomeriggio del 5 agosto 1992. L’Italia era quasi in ginocchio perché erano morti due fra i migliori magistrati nella lotta alla criminalità mafiosa, non riuscivamo a fare nulla dal punto di vista investigativo, e cominciai a parlare con lui: «Signor Ciancimino, cos’è questa storia, questo muro contro muro? Da una parte c’è Cosa nostra dall’altra parte c’è lo Stato. Ma non si può parlare con questa gente?». La buttai lì, convinto che lui dicesse: «Cosa vuole da me, colonnello?». Invece disse: «Si può, io sono in condizioni di farlo». […] Ciancimino mi chiedeva se io rappresentavo solo me stesso o anche altri. Certo, io non gli potevo dire: «Be’, signor Ciancimino, lei si penta, collabori che vedrà che l’aiutiamo». Gli dissi: «Lei non si preoccupi, lei vada avanti». Lui capì e restammo d’accordo che volevamo sviluppare questa trattativa […]. Il 18 ottobre, quarto incontro. Mi disse: «Guardi, quelli accettano la tratta- tiva» […]. Poi la trattativa ebbe un momento di ripensamento.

Ecco, questi erano i rappresentanti dello Stato nel 1992: si stupivano del «muro contro muro» fra mafia e Stato, non si davano pace nel vederli l’una contro l’altro armati dopo decenni di festosa convivenza. Infatti si precipita- rono a ripristinare le «larghe intese», andando a trattare con un mafioso come Vito Ciancimino per ristabilire lo status quo. C’è tutta una filosofia, nelle parole di Mo- ri. Che va ben oltre il suo pensiero. È l’atteggiamento dello Stato italiano, che ha sempre dichiarato di voler «combattere la mafia», mai di volerla sconfiggere: al massimo, per contenerla quando alza troppo la cresta. Per sconfiggerla bisognerebbe dichiararle guerra e poi vincerla. E la guerra alla mafia per sconfiggere la mafia non l’avevano in testa nemmeno i carabinieri del Ros.

Il processo in corso a Palermo vede imputate dodici persone: sei per la mafia e sei per lo Stato. Perfetta par condicio. Anche se non si capisce bene dove finisca l’una e dove cominci l’altro.

Per la mafia: i boss irriducibili Salvatore Riina, Ber- nardo Provenzano (attualmente «stralciato» per le sue gravi condizioni di salute), Leoluca Bagarella, il mafioso pentito Giovanni Brusca, e gli «ambasciatori» di Cosa nostra Antonino Cinà e Massimo Ciancimino.

Per lo Stato: gli ex carabinieri del Ros Antonio Su- branni (all’epoca comandante), Mario Mori (viceco- mandante) e Giuseppe De Donno (braccio destro di Mori); gli uomini politici Calogero Mannino (nel 1992 ministro del Mezzogiorno del governo Andreotti), Ni- cola Mancino (nel 1992-93 ministro dell’Interno dei governi Amato e Ciampi) e Marcello Dell’Utri (presi- dente di Publitalia e ideatore di Forza Italia insieme a Silvio Berlusconi).

Ciancimino risponde di concorso esterno in associazione mafiosa e calunnia nei confronti di Gianni De Gennaro. Mancino è accusato «soltanto» di falsa testi- monianza. Gli altri dieci imputati sono a giudizio per il reato previsto dagli articoli 338 e 339 del Codice penale: «Chiunque usa violenza o minaccia a un Corpo politico, o amministrativo o giudiziario o a una rappresentanza di esso, o a una qualsiasi pubblica Autorità costituita in Collegio, per impedirne, in tutto o in parte, anche temporaneamente, o per turbarne comunque l’attività, è punito con la reclusione da uno a sette anni» (che, con le aggravanti delle armi e del numero dei colpevoli, possono arrivare fino a quindici anni di reclusione). Qual è il «Corpo politico o amministrativo» violentato e minacciato nel nostro caso? Il governo italiano, anzi i governi italiani presieduti da Giuliano Amato nel 1992, da Carlo Azeglio Ciampi nel 1993, da Silvio Berlusconi nel 1994 e così via.

In separata sede sono indagati altri tre rappresentanti delle istituzioni, per false dichiarazioni al pm: Giovanni Conso (già ministro della Giustizia dei governi Amato e Ciampi), Adalberto Capriotti (dal 1993 direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria presso il ministero della Giustizia) e Giuseppe Gargani (all’epoca parlamentare della Dc, poi di Forza Italia, ora in forza all’Udc). Per legge, saranno giudicati al termine del processo principale.

Nessun imputato è accusato di «trattativa»: il reato contestato è il Grande Ricatto ordito dai boss contro le istituzioni democratiche, con l’aiuto di esponenti delle istituzioni medesime che agevolarono il progetto di Cosa nostra e l’aiutarono a mettere in ginocchio vari governi, cioè lo Stato.

Si dice: per sapere se la trattativa è esistita, bisogna attendere la sentenza definitiva del processo. Eh no, troppo comodo. Sarebbe come dire: per sapere se Meredith Kercher è stata uccisa, bisogna attendere la sentenza definitiva del processo di Perugia. Il processo sulla trattativa serve ad accertare se vi furono dei reati, e in caso affermativo se sono proprio quelli contestati agli imputati, e in caso positivo se gli imputati li hanno commessi. Ma la trattativa è già certa oggi: sia perché esistono sentenze definitive che l’hanno accertata, sia perché la consecutio dei fatti la dimostra senza ombra di dubbio.

È, questo, il terzo modo di raccontare la trattativa: quello dei giornalisti (quelli veri, si capisce). L’informazione non deve fondarsi soltanto sugli atti giudiziari (che riguardano solo i reati provati al di là di ogni ragionevole dubbio), ma anche e soprattutto sui fatti accertati (in- dipendentemente dalla loro rilevanza penale). Fatti che stanno in piedi da soli, senza alcun bisogno di sentenze che li confermino. Fatti che continuerebbero a esistere anche se il processo non si celebrasse, e persino se gli attuali imputati dovessero finire tutti assolti. Fatti che possiamo raccontare già oggi, a prescindere dal processo.

«Io so, ma non ho le prove» diceva Pier Paolo Pasolini a proposito della strage di piazza Fontana. Noi, a proposito della trattativa Stato-mafia, siamo più fortunati: abbiamo le prove. Ma quasi tutti fanno finta di non sapere.

Marco Travaglio, È Stato la Mafia.Tutto quello che non vogliono farci sapere sulla trattativa e sulla resa ai boss delle stragi, Ed. Chiarelettere, Milano 2014, Libro + DVD, pagg.160, € 14,90

American dream. Così Marchionne ha salvato la Chrysler e ucciso la Fiat

SeriesBAW06Missione compiuta. Marchionne “l’infallibile” è riuscito nell’impresa disperata di salvare la Fiat. A quale prezzo? La più grande industria italiana è destinata a diventare parte di una multinazionale che sarà quotata a New York, che avrà sede ad Amsterdam e che pagherà le tasse a Londra. Una fuga dall’Italia dopo anni in cui lo Stato, cioè i contribuenti, ha foraggiato l’azienda per miliardi di euro via rottamazioni, sussidi indiscriminati, fondi pubblici alla ricerca e allo sviluppo, cassa integrazione…

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A Lezione di Leadership da Steve Jobs

41VrggDnikL._SL160_A tre anni dalla sua scomparsa Steve Job, il geniale e bizzarro cofondatore della Apple, continua ad essere studiato, e adulato, nelle Business school statunitensi, e non solo, come una “sacra”  icona cui riferirsi per avere successo nel business e nell’innovazione tecnologica.  Un “mito” indiscusso per il “sogno” americano. Nella realtà, invece, la figura di Job si carica di non poche ombre. Tanto che l’autorevole “New York Time”, qualche giorno fa, si è domandato polemicamente “se Steve Jobs fosse ancora vivo, oggi dovrebbe stare in carcere?”.  La domanda si riferiva al ruolo di Jobs nella “costruzione” di cartelli contro la concorrenza nella “Silicon Valley” californiana (in particolare quello relativo alle assunzioni degli ingegneri, in modo da evitare che le aziende potessero assumere tecnici provenienti dai concorrenti ed evitare, così, aumenti di stipendi legati al mercato concorrenziale).  Sappiamo quanto per la cultura americana l’antitrust sia una cosa seria, e questo peccato non riguarda solo Jobs ma anche altri manager americani.

Certo, per qualche adulatore,  il “genio” di Jobs non poteva sottostare alle regole che valgono per altri “comuni” mortali.  Il “fenomeno” Jobs resta, comunque, uno dei casi più importanti di successo nella storia dell’imprenditoria tecnologica mondiale.

E così in questo libretto (Steve Jobs, Lezioni di Leadership, Mondadori, 2014, pagg. 103, € 12,00) , che sta avendo un buon successo nella classifica dei libri più letti, il maggior biografo di Steve Jobs, Walter Isaacson, che  attualmente è Amministratore Delegato dell’Aspen Institute, ci offre le “regole” (per quanto Jobs, in vita, sia stato poco incline alle regole) e i “segreti” del successo di Jobs e della sua creatura, la Apple.

E con la Apple Jobs è riuscito a creare prodotti rivoluzionari che hanno cambiato il modo di essere occidentale.

In questa storia certamente ha molto influito il carattere ruvido e bizzarro di Jobs,  uomo capace di grandissime sfuriate con i suoi sottoposti ma al tempo stesso di immensi silenzi (frutto del suo culto Zen).

In Jobs c’era un condensato della cultura californiana degli anni ’60 (quella della beat generation) , fatta di ribellione agli schemi (che poi si è riversata nella “sua” Apple con lo slogan “Think Different”: Ai folli. Ai piantagrane. A tutti coloro che vedono le cose in modo differente..), ma anche della cultura umanistica (il pensare agli ingegneri della sua azienda come “artisti”, con spiccato senso estetico, della tecnologia), insomma un mix non facilmente eguagliabile.

Ed ecco alcune delle 14  “regole” del successo di Jobs: Concentrati e semplifica (si perché “decidere quello che non si deve fare è non meno importante che decidere quello che si deve fare” e la “semplicità è la massima raffinatezza) , Diventa responsabile dell’intero processo, Quando sei indietro fai un passo in avanti, Pensa ai prodotti prima che ai profitti, Non essere schiavo dei Focus Group, Plasma la realtà, Lavora con i migliori e Punta alla perfezione (La “perfezione” ricercata anche nelle parti nascoste di un computer o iphone: “Voglio che ogni cosa sia più bella possibile, anche se nessuno la vedrà mai).

Ma la regola più importante per Jobs e per la sua creatura, la Apple, resta il famoso: “Stay hungry, stay foolish” (restate .affamati, restate folli).  Pur con i limiti della sua persona, e con le sue ipocrisie, Steve Jobs resta un genio indiscusso. “Perché solo coloro che sono da pensare di cambiare il mondo lo cambiano davvero”

La figlia del Papa. Un libro di Dario Fo

copertina“In tutte le storie famose, come quella dei Borgia, si trovano sempre diverse versioni del dramma.Nella maggior parte dei casi, però, si scopre un intento deformante, soprattutto dal punto di vista storico. Personalmente non ho fatto altro che ricercare la verità”. Così il premio Nobel Dario Fo spiega la sua ultima opera letteraria,  un libro, uscito oggi nelle librerie per i tipi di Chiarelettere, sulla figura di Lucrezia Borgia. E nel pomeriggio di oggi a Milano, presso l’aula magna dell’Università Milano – Bicocca, c’è stato uno spettacolo-presentazione del volume a cura della Compagnia teatrale “Fo-Rame”.

 

Lucrezia, Figlia di un papa, tre volte moglie (un marito assassinato), un figlio illegittimo… tutto in soli 39 anni, in pieno Rinascimento. Una vita incredibile, da raccontare. Ci hanno provato scrittori, filosofi, storici. Di recente sono state dedicate a Lucrezia serie televisive di successo in Italia e all’estero.

 

Ora, eccezionalmente, il premio Nobel Dario Fo, staccandosi da ricostruzioni scandalistiche o puramente storiche, ci rivela in un romanzo tutta l’umanità di Lucrezia liberandola dal cliché di donna dissoluta e incestuosa e calandola nel contesto storico di allora e nella vita quotidiana. Ecco il fascino delle corti rinascimentali con il papa Alessandro VI, il più corrotto dei pontefici, il diabolico fratello Cesare, e poi i mariti di Lucrezia, cacciati, uccisi, umiliati, e i suoi amanti, primo fra tutti Pietro Bembo, con il quale condivideva l’amore per l’arte e, in particolare, per la poesia e il teatro. Tutti pedine dei giochi del potere, il più spietato.

 

Una vera accademia del nepotismo e dell’osceno, tra festini e orge. Come oggi. Perché il romanzo della famiglia dei Borgia è soprattutto la maschera del nostro tempo che, visto attraverso il filtro di quel periodo, ci appare ancora più desolante e corrotto.

 

 

Dario Fo, La Figlia Del Papa, Ed. Chiarelettere, Milano 2014, pagg. 208, € 13,90.

 

 

Per gentile concessione dell’Editore pubblichiamo un breve estratto del libro

 

 

A piedi giunti nel fango

 

Sulla vita, sui trionfi e sulle nefandezze più o meno documentate dei Borgia si sono scritte e messe in scena opere e pièces teatrali, realizzati film di notevole fattura con attori di fama e, ultimamente, anche due serie televisive di straordinario successo. Qual è il motivo di tanto interesse verso il comportamento di questi personaggi? Senz’altro la spudorata mancanza di pulizia morale che viene attribuita loro in ogni momento della vicenda.

Un’esistenza sfrenata a partire dalla sessualità fino al comportamento sociale e politico.

Fra i grandi scrittori che ci hanno raccontato drammi, cinismi e amori di questa potente famiglia ci sono ad esempio Dumas, Victor Hugo e Maria Bellonci. Ma uno dei più noti è John Ford, elisabettiano dell’inizio del Seicento, che mise in scena Peccato che sia una puttana, opera ispirata quasi sicuramente alle presunte avventure di Lucrezia Borgia e suo fratello Cesare, che la leggenda assicura essere stati amanti. La nostra amica Margherita Rubino ha condotto una ricerca sui drammi scritti nel tempo stesso dei Borgia e ha scoperto ben due autori, Giovanni Falugi e Sperone Speroni, che trattano della vicenda mascherandola con una provenienza romana, nientemeno che da Ovidio.

Certo che se stacchiamo di netto dal Rinascimento italiano la storia di papa Alessandro vi e dei suoi congiunti ne otteniamo una saga sconvolgente, dove i personaggi si muovono senza alcun rispetto per gli avversari e spesso nei propri stessi confronti.

La vittima da immolare ogni volta, fin dalla sua infanzia, è senz’altro Lucrezia. È lei che viene buttata tanto dal padre che dal fratello in ogni occasione nel gorgo degli interessi finanziari e politici, senza un briciolo di pietà. Di cosa ne pensi la dolce figliola non ci si preoccupa assolutamente. Del resto è una femmina, un giudizio che valeva anche per un padre futuro papa e un fratello prossimo cardinale. Anzi in certi momenti Lucrezia è un pacco con tondi seni e stupendi glutei. Ah, dimenticavamo, anche i suoi occhi sono carichi di malìa.