Peccato Originale. Conti segreti, verità nascoste, del blocco di potere che ostacola la rivoluzione di Francesco

– Evita assolutamente di conoscere i nomi dei correntisti.
– E se invece li chiedessi?
– Amico mio, avrai quindici minuti per mettere in
sicurezza i tuoi figli.
Conversazione telefonica riservata tra l’ex presidente Ior
Ettore Gotti Tedeschi e un uomo delle istituzioni

Le verità che mancavano.
I segreti e le paure di papa Luciani.
La trattativa mai svelata sul caso Emanuela Orlandi.
I documenti riservati dello Ior.
I conti correnti di papi, cardinali, attori famosi e politici.
La verità sulle dimissioni di Ratzinger.
La battaglia sotterranea contro le riforme di Francesco.
Gli abusi sessuali tra i chierichetti del papa che vivono in
Vaticano.
L’imperversare della lobby gay.

IL LIBRO
Dopo “Vaticano Spa”, “Sua Santità”, “Via Crucis”, tre inchieste che ci hanno introdotto nelle stanze e nei segreti più profondi del Vaticano, in questo nuovo libro , presentato ieri a Roma, Gianluigi Nuzzi ricompone, attraverso documenti inediti, carte riservate dall’archivio Ior e testimonianze sorprendenti, i tre fili rossi – quello del sangue, dei soldi e del sesso – che collegano e spiegano la fitta trama di scandali, dal pontificato di Paolo VI fino a oggi. Una ragnatela di storie dagli effetti devastanti, che hanno suscitato nel tempo interrogativi sempre rimasti senza risposta e che paralizzano ogni riforma di papa Francesco.
L’autore ricostruisce finalmente molte verità che mancavano, a cominciare dal mistero della morte di papa Luciani e il suo incontro finora mai divulgato con Marcinkus; la trattativa riservata tra Vaticano e procura di Roma per chiudere il caso Emanuela Orlandi; i conti di cardinali, attori, politici presso lo Ior, tra operazioni milionarie, lingotti d’oro, fiumi di dollari e trame che portano al traffico internazionale di droga; l’evidenza di una lobby gay che condiziona pesantemente le scelte del Vaticano, tra violenze e pressioni perpetrate nei sacri palazzi e qui per la prima volta documentate. Ecco il “fuori scena” di un blocco di potere per certi aspetti criminale, ramificato, che continua ad agire impunito, più forte di qualsiasi papa (Ratzinger è stato costretto alle dimissioni aprendo però la strada a Bergoglio), sempre capace di rigenerarsi, che ostacola con la forza del ricatto e dei privilegi ogni tentativo di riforma.

L’AUTORE
Gianluigi Nuzzi, milanese, è autore di diverse inchieste e scoop che hanno avuto vasta eco, anche internazionale. Nel 2009 “Vaticano Spa” rivela, grazie alle carte segrete di monsignor Renato Dardozzi, gli scandali finanziari e politici dei sacri palazzi, accelerando le dimissioni del presidente dello Ior Angelo Caloia, in carica da vent’anni. Nel 2012 “Sua Santità” rende pubbliche le carte riservate del papa, stravolgendo gli equilibri di potere vaticani e facendo scoppiare una crisi che contribuirà alle dimissioni di Ratzinger nel 2013. Nel 2015 “Via Crucis” racconta la lotta di papa Bergoglio per una chiesa più trasparente e cristiana svelando nuovi documenti segreti. Per questo l’autore sarà processato e poi prosciolto. Nuzzi ha anche ideato e condotto la trasmissioni “Gli intoccabili” su La7 e attualmente conduce su Rete4 “Quarto grado”, incentrata sui grandi casi di cronaca che appassionano e dividono l’opinione pubblica.

PER GENTILE CONCESSIONE DELL’EDITORE
PUBBLICHIAMO UNO STRALCIO DEL LIBRO

Questo libro
Papa Francesco e le sette domande
Peccato originale vuole rispondere a sette precise domande, che rappresentano i tasselli mancanti nel lavoro di ricerca che porto avanti ormai da dieci anni, un lavoro che con Vaticano S.p.A., Sua Santità e Via Crucis ha trovato le prime verità. È stato ucciso Albino Luciani? Chi ha rapito Emanuela Orlandi? Se la ragazza ormai «sta in cielo», come afferma papa Francesco, il Vaticano ha delle responsabilità nell’omicidio, e quali sono? Perché le riforme per la trasparenza della curia, avviate prima da Joseph Ratzinger e adesso da Bergoglio, puntualmente falliscono o rimangono incompiute? Cosa blocca il cambiamento? E ancora: i mercanti del tempio continuano a condizionare la vita della Chiesa dopo aver avuto un ruolo nella rinuncia al pontificato di Benedetto XVI? Infine, la questione più drammatica: lo stallo nel quale sono cadute le riforme di Francesco è dovuto a chi non vuole questo papa, dentro e fuori i sacri palazzi, e dunque ne ostacola l’opera riformatrice? Per rispondere a queste sette domande, come insegnava il giudice Giovanni Falcone, ho seguito il filo del denaro, che in ogni storia di potere s’intreccia a quello del sangue e a quello del sesso. Tre fili rossi, quindi, che annodandosi tra loro costituiscono una fitta trama d’interessi opachi, violenze, menzogne, ricatti, e soffocano ogni cambiamento, alimentando inevitabilmente quella che Ratzinger indicava come la crisi della fede. Una ragnatela mortale che si espande già nel pontificato di Paolo VI, in un mondo dilaniato dalla guerra fredda, nell’Italia instabile delle rivolte operaie, del terrorismo, dei poteri occulti che trovano nei sacri palazzi la sponda più inattesa, potente, ramificata. Bisogna partire da lì, riconsiderando soprattutto l’operato dell’arcivescovo Paul Casimir Marcinkus, al vertice dello Ior, la banca del papa, e le sue inquietanti connessioni fin dentro l’appartamento pontificio, fino ai paradisi offshore nell’America dei cartelli, dei golpe, della cocaina. In Vaticano Marcinkus raccoglie e garantisce interessi che ora si possono ricostruire attraverso l’archivio inedito dello Ior, fatto di decine e decine di documenti finora rimasti sconosciuti: contabili, appunti, fogli di cassa, che rivelano depositi dai saldi sorprendenti, come quelli intestati a monsignor Pasquale Macchi, storico segretario particolare di Paolo VI, o i conti di clienti inattesi come l’attore Eduardo De Filippo o madre Teresa di Calcutta, ospite riverita negli uffici più riservati della banca. Queste carte, con i desiderata inconfessabili di preti e cardinali, tra compravendite d’oro, dollari e palladio, spiegano perché il pontificato di papa Luciani è durato solo trentatré giorni e perché, anche negli anni Novanta, gli eredi di Marcinkus hanno perseverato sulla sua stessa strada, condizionando le finanze vaticane. Fino ad arrivare ai giorni nostri, al pontificato di Benedetto XVI che mette in cantiere le riforme volte a chiudere per sempre con questo passato. Un’opera portata avanti dagli uomini scelti da Ratzinger, porporati e laici, che tuttavia sono stati inesorabilmente «impallinati»: chi licenziato, chi delegittimato, chi esautorato, in una fine strategia svelata in queste pagine grazie a interviste con alcuni dei protagonisti e a documenti inediti e rivelatori.

Quando Benedetto XVI pianificava la rinuncia
Da qui, la pianificazione della rinuncia di Benedetto XVI, che vede manomesso il suo pontificato. I nuovi elementi raccolti e svelati in questo libro, tra retroscena e raffinati giochi di potere, portano a retrodatare già all’inverno del 2011 la progettazione di questo clamoroso passo indietro, preparato in ogni dettaglio. È proprio in quel periodo che in Vaticano si consumano gli scontri più violenti e finora mai trapelati: da una parte precise azioni per risolvere questioni drammatiche e togliere così ingombranti fardelli al successore di Ratzinger, dall’altra sofisticate operazioni per sabotare questi cambiamenti. Una situazione che si ripete nel pontificato di Francesco. A lui la folla acclamante, il grande sostegno delle piazze, l’abbraccio infinito della moltitudine di fedeli nel mondo. Alla curia la gestione dell’amministrazione della Chiesa e del piccolo Stato Città del Vaticano, che vivono grazie alle offerte dei fedeli. Ma di come questi denari vengano spesi e investiti ancora oggi si sa poco o nulla. Due volti, un unico mondo: nei sacri palazzi c’è chi sostiene Bergoglio ma anche chi si prodiga a sabotare le riforme. «Se vogliamo che tutto rimanga com’è – scriveva Giuseppe Tomasi di Lampedusa ne Il Gattopardo – bisogna che tutto cambi.» Non è un caso se proprio oggi arrivano denunce su presunte vessazioni e abusi sessuali consumati all’interno delle mura vaticane, con notti da incubo raccontate da chi era presente. A tutela delle vittime, ma anche del presunto carnefice, ho preferito sostituire i nomi dei protagonisti con altri di fantasia, in attesa che la giustizia faccia il suo corso. Per questo una delle prime copie del libro è già stata portata all’attenzione dei giudici vaticani. È necessario partire innanzitutto dal filo del sangue, dalla storia di Emanuela Orlandi, un caso che con Ratzinger, prima della rinuncia, torna a essere di stringente attualità. Non è una storia del passato, è una storia di oggi. Emanuela, la ragazza di appena quindici anni, figlia di un messo pontificio, sparita misteriosamente a Roma il 22 giugno 1983 è una spina nel fianco del Vaticano. Anche del pontificato di papa Francesco. La sua scomparsa rappresenta una ferita ancora non rimarginata, un fantasma che ritorna mostrando verità indicibili rimaste chiuse nei sacri palazzi, diventate strumenti di potere e ricatto per chi ne è a conoscenza. Grazie a documenti e testimonianze di chi ha deciso di uscire allo scoperto e di raccontare, per la prima volta, ciò che ha visto e sentito, siamo in grado di ricostruire come la verità su quanto accaduto alla ragazza sia nascosta proprio in Vaticano. Una storia ancora da scrivere negli sviluppi più clamorosi rimasti riservati. Una storia che preoccupava Benedetto XVI tanto da spingere la Santa sede ad aprire, negli ultimi due anni del suo pontificato, un dialogo segreto, una «trattativa» con la procura di Roma. Un caso che ha visto l’interesse anche di papa Francesco, con la richiesta di approfondimenti affidata al suo primo collaboratore, il segretario di Stato Pietro Parolin. La speranza è che oggi, finalmente, queste nuove verità possano aiutare a dare giustizia a Emanuela, ai suoi familiari e a chi le vuole bene.

Gianluigi Nuzzi, Peccato originale. Conti segreti, verità nascoste, ricatti:il
blocco di potere che ostacola la rivoluzione di Francesco, Ed. Chiarelettere,
Milano 2017 . 18,60 euro, pagg.352

La politica è la fabbrica della “verità”. La propaganda da Mussolini a Grillo. Intervista a Fabio Martini


Il bel libro di Fabio Martini, “La Fabbrica della verità. L’Italia immaginaria della propaganda da Mussolini a Grillo” (Ed. Marsilio, pagg.208), è la storia della “macchina” della persuasione e della propaganda politica in Italia. L’arco di tempo che analizza è ampio: dal fascismo a Renzi. Ed è una storia affascinante. Come si sviluppa la propaganda politica nella storia italiana? Quali sono le costanti? Nell’epoca della Rete come si sviluppa? Ne parliamo, in questa intervista, con l’autore. Fabio Martini è cronista politico per il quotidiano “La Stampa” di Torino.
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24 Ottobre 1917: Caporetto, la disfatta umana e militare dell’Italia. Intervista ad Arrigo Petacco

(contrasto)

La battaglia di Caporetto è diventata simbolo di disfatta nel linguaggio comune: la principale sconfitta dell’esercito italiano nella storia causò migliaia di morti, decine di migliaia di feriti, oltre a una quantità incredibile di prigionieri e sfollati. Il disastro fu l’effetto della mancanza di un piano strategico dei vertici militari, le cui conseguenze furono gravose: la ritirata, la pesante occupazione del Friuli e del Veneto e la violenza sulle donne, l’esodo della popolazione locale, il grave problema dei prigionieri italiani lasciati a morire nei lager dell’impero, il rientro in patria dei superstiti e l’ostruzionismo nei loro confronti, il doloroso recupero delle salme. «I soldati hanno mollato» si sostenne al comando vedendo la falla aperta e la disfatta profilarsi.Il famigerato Generale Cadorna telegrafò al ministro della Guerra affibbiando la responsabilità della sconfitta a «dieci reggimenti arresisi senza combattere». Una menzogna quella di Cadorna:  perché, invece, i pesanti sacrifici umani molti soldati che resistettero, permisero ad altri la ritirata. Per ricordare quella disfatta militare abbiamo intervistato il giornalista, e scrittore, Arrigo Petacco. Petacco è coautore con il giornalista spezzino Marco Ferrari di un bel saggio, appena pubblicato da Mondadori, Caporetto. 24 ottobre – 12 novembre: storia della più grande disfatta dell’esercito italiano.

Arrigo Petacco, incominciamo questa “chiacchierata”  con il dire che “Caporetto” non esiste, o meglio si tratta di una storpiatura fatta dagli italiani di un nome sloveno, che esiste, ci spieghi come nasce questa “invenzione”…

Nel nostro reportage spieghiamo che Caporetto non esiste, è solo un’invenzione italiana durata qualche decennio. La Caporetto finita nei libri di storia si chiama in realtà Kobarid – e così si è sempre chiamata – , sta in Slovenia, faceva parte dell’impero austro-ungarico da 400 anni e soprattutto non esisteva un solo italiano all’anagrafe comunale del 1915. Una sola persona, Caterina Medves, parlava italiano quando i soldati di Cadorna arrivarono nel paese il 25 maggio del 1915. Per fortuna Kobarid conserva una buona memoria della battaglia grazie ad un Museo e ad un gruppo di collezionisti che ancora oggi estrae dalle trincee e dalle caverne il materiale usato dai soldati sui due fronti. La cittadina slovena è infatti ricca di piccoli musei, collezioni private, le trincee sono state recuperate, i viaggi nella memoria di discendenti di soldati sono costanti. Riemergono così in tutta la loro drammaticità storie individuali e collettive di una guerra che ancora parla e si presenta con le sue atrocità.

Se il nome è “inventato”, quella battaglia sull’alto Isonzo , invece, fu una catastrofe umana e militare. Cosa avvenne in quella sera nefasta del 24 Ottobre di un  secolo fa?

Nelle ore della battaglia avvennero le cose più incresciose che l’esercito italiano abbia mai conosciuto: i cannoni di Badoglio non spararono, il 60% dell’artiglieria fu mal posizionata in prima linea, il fondo valle dell’Isonzo venne incredibilmente lasciato libero, le postazioni italiane sotto il monte Mrzli e il monte Vodil, giudicate inespugnabili, caddero come birilli, interi reparti scapparono e altri, lasciati soli in prima linea, si consegnarono al nemico non essendo più funzionanti le comunicazioni.

Ma Caporetto fu soprattutto una vittoria dell’esercito tedesco e austro-ungarico con la tecnica delle Stosstruppen, piccole unità mobili e autonome, capaci di penetrare nel terreno avverso, magari aggirando le trincee per impedire i rifornimenti alla truppa, per distruggere le comunicazioni, minare le strade e fare attentati. Erwin Rommel compì una impressionante avanzata da una montagna all’altra e in 50 ore catturò 150 ufficiali e 9.150 soldati. A Caporetto si sperimentarono anche armi nuove: mille tubi lanciagas a comando elettrico liberarono nelle trincee italiane una miscela sino ad allora sconosciuta e l’87° Reggimento della Brigata Friuli, 1.800 uomini schierati in ricoveri e caverne, fu sterminato. I soldati usarono la mitragliatrice portatile Leich Maschinen 08/15 che scaricava 550 colpi al minuto sino a duemila metri di distanza senza mai avere le canne riscaldate. Nel totale ogni battaglione tedesco aveva 36 armi automatiche contro le 14 italiane.

Quali erano gli obiettivi militari di Cadorna? Perché   saltarono? Che rapporti aveva con la truppa?

Cadorna e i suoi subalterni non si parlavano. Nelle lettere del generale si trova in anticipo una descrizione precisa di quanto sarebbe accaduto il 24 ottobre: lo sfondamento della piana di Plezzo verso Caporetto e lo sfondamento da Tolmino verso la stessa località. Mancò il piano di risposta. Perché? Probabilmente, viste le incomprensione tra generali italiani, non si gettò giù un programma di razionalizzazione delle forze in campo. Inoltre i generali consideravano i nostri soldati, gran parte contadini analfabeti, carne da macello: questo portò a oltre 650 mila morti in tutta la guerra. Nella sola battaglia di Caporetto si contarono 11.600 italiani morti, 30 mila feriti, 350 mila sbandati, 300 mila prigionieri e 400 mila profughi.

E se non ci pensava il nemico, bastava poco per finire davanti al plotone di esecuzione. I nostri soldati furono uccisi per mano amica, come hanno raccontato poi tanti reduci: gente che non sopportava di andare al macello per nulla, per conquistare una buca o una trincea, per fare avanzare la linea di difesa di qualche metro. Spesso si camminava su prati di cadaveri, specialmente nelle notti buie. Gente finita davanti al plotone di esecuzione per insubordinazione, insurrezione, sciopero, fuga o per puro caso.

Diamo qualche cifra di quell’immane carneficina che si compì in quella  terra slovena…

Alla fine delle dodici battaglie dell’Isonzo si può parlare di catastrofe umanitaria: tra caduti, feriti e prigionieri 160 mila italiani e 125.000 austro-ungarici. L’idea di una rapida avanzata verso Vienna, propria di Cadorna, si impantanò sull’Isonzo.

Lo Stato Maggiore  italiano (o per meglio dire il Generale Cadorna) addossò la colpa della disfatta alle truppe. Una vergognosa impostura messa in giro da Cadorna per giustificare la sua incapacità . E’ Così Petacco?

“I soldati hanno mollato” si sostenne al comando vedendo la falla aperta e la disfatta profilarsi. Cadorna telegrafò al ministro della Guerra affibbiando la responsabilità della sconfitta a “dieci reggimenti arresisi senza combattere”. Ma non era vero: con pesanti sacrifici umani molti soldati resistettero, permettendo ad altri la ritirata. Al di là dei nomi dei reparti, si trattava di uomini in carne e ossa, giovani e meno giovani, persone sposate o piene di sogni, che lasciarono la loro vita sul terreno di battaglia per salvarne altre. Cadorna giustificava la sconfitta dando la responsabilità ad un esercito di leva inadatto e impreparato alla guerra e soprattutto alla guerra di trincea. A questa concezione aderiva gran parte dell’esercito di carriera che trattava i coscritti come uomini da mandare al macero. Un rapporto disumano che si manifesò sino a che Cadorna non venne sostituito da Diaz. Così durante l’intera Grande Guerra davanti ai tribunali militari comparvero 323.527 imputati di cui 262.481 in divisa (162.563 accusati di diserzione), 61.927 civili e 1.119 prigionieri di guerra. Il 60 per cento dei processi si chiusero con la condanna degli imputati: 4.028 dibattimenti si conclusero con la pena capitale (2.967 con gli imputati contumaci). Quasi un decimo dei mobilitati subì indagini disciplinari”.

Caporetto è una tragedia assoluta anche sul piano sociale. Parliamo dei profughi, famiglie intere costrette a lasciare quelle terre. All’inizio furono bene accolte nel resto d’Italia..poi sopraggiunse un sentimento aspro di diffidenza e pregiudizio. Caporetto significa anche questo?

Il numero dei profughi salì a un milione e mezzo. Quasi tutti dovettero attendere la fine del conflitto per rientrare a casa, nel 1919 e nel 1920. Nel periodo di lontananza non mancavano i pregiudizi verso i nuovi venuti per una naturale diffidenza e per la scarsa conoscenza delle abitudini, ma soprattutto per il fatto che la loro presenza diminuiva la distribuzione dei generi di prima necessità. Talvolta anche i patronati e i comitati locali erano maldisposti verso i nuovi venuti che agivano come gruppi a sé stanti. Questo clima di pregiudizio creò del malcontento e mise ai margini della società i profughi che si sentivano esiliati in patria.

Dopo la disfatta si furono le “vendette” compiute da Cadorna e dai suoi generali contro le povere truppe. Una delle pagine bieche nella storia militare italiana. Come avvenivano queste vendette?

Più la Grande Guerra andava avanti, più gli episodi di crudeltà si moltiplicavano, anche perché aumentavano le insofferenze verso le morti inutili, gli assalti inconcludenti per conquistare qualche metro di terra, gli ordini assurdi dei superiori. Allora la via prediletta dai comandi era quella della decimazione. Di qui lo sbandamento di 350 mila soldati nella rotta di Caporetto, tutti inviati in campi di rieducazione. Negli stessi campi finirono i 600 mila prigionieri italiani nell’impero austro-ungarico alla fine del conflitto. Per loro rimase l’onta della disfatta di Caporetto, una macchina indelebile.

E la politica di allora come reagì a questa catastrofe  ?

I tedeschi e gli austro-ungarici avevano compiuto una marcia di 22 chilometri in tre giorni sfondando tutta la difesa italiana. La travolgente avanzata portò le truppe germaniche a raggiungere Udine alle ore 14 del giorno 28 ottobre.  Il disfacimento italiano era totale. La rotta di Caporetto aprì un varco militare ma innestò soprattutto la grande paura tra gli italiani che videro cadere i principi fondanti del giovane stato. Caporetto aprì una crisi di governo e la politica reagì l’avvio di un nuovo esecutivo di unità nazionale. L’entrata in campo del generale Diaz riuscì a dare vigore all’esercito con una mitigazione del pesante regime disciplinare, con uno sforzo propagandistico a difesa della patria e con un’attenzione privilegiata alle condizioni della truppa. A ciò si deve aggiungere un atteggiamento difensivo dell’esercito senza inutili stragi o effimere avanzate, senza grandi battaglie campali o conquiste di vette innevate difficili da tenere. Prima dell’ottobre 1918 ci si limitò a contenere e annientare gli attacchi nemici senza lanciare offensive. Gli austro-ungarici fallirono l’assalto decisivo sul Piave nel giugno 1918, mentre i tedeschi si dissanguarono sul fronte occidentale. Le composite etnie dell’impero si sentirono logorate dalla guerra, non più unite ma attraversate da nuove spinte autonomistiche che coinvolgevano le popolazioni locali, sfiancate da anni di conflitti, privazioni, requisizioni e dalla leva obbligatoria che toglieva le braccia migliori dalle campagne e dall’industria. Di qui la decisione italiana di riprendere l’offensiva che partì dal monte Grappa nell’autunno del 1918, un anno dopo Caporetto,  e che si concretizzò in quella che è chiamata «la battaglia di Vittorio Veneto». L’armistizio del 3 novembre a Villa Giusti di Padova e la cessazione delle ostilità il giorno successivo, sanciti dal generale Armando Diaz, portarono un sollievo nel paese dopo l’infausto 1917 che resterà per sempre nella memoria storica degli italiani l’anno di Caporetto.

IO E LEI. Una donna nell’oscurità della sclerosi multipla. INTERVISTA A FIAMMA SATTA

Nel mondo si contano circa 2,5-3 milioni di persone con SM, di cui 600.000 in Europa e circa 114.000 in Italia. E’ una malattia grave, altamente invalidante, la scienza ha fatto progressi per combatterla. Ma siamo ancora lontani dalla cura definitiva. I malati di SM fanno i conti ogni giorno con le grandi difficoltà quotidiane create dalla malattia. Non mancano, però, bellissime testimonianze di resistenza alla malattia. Quella che vi proponiamo oggi, in questa intervista, è la testimonianza di Fiamma Satta. Fiamma Satta è una giornalista romana, voce storica di Radio 2. Per oltre vent’anni è stata autrice e interprete, con Fabio Visca, della serie quotidiana “Fabio & Fiamma”. Il 1993 è l’anno in cui le viene diagnosticata la sclerosi multipla, che però non ha fermato le sue passioni: prima di questo ha scritto quattro libri, ha collaborato con Vanity Fair e dal 2009 firma, sulla Gazzetta, il blog “Diversamente aff-abile, diario di un’invalida leggermente arrabbiata“.  L’ultimo suo libro, IO E LEI. Confessioni della sclerosi multipla (Ed. Mondadori, pag. 134), sta avendo un grande successo e sta facendo discutere per la sua originalità. Ne parliamo con l’autrice.

copertina libro Fiamma Satta

Fiamma, devo confessarti che ho trovato geniale il libro. Il titolo trae, volutamente, in inganno. La voce narrante è la Sclerosi Multipla. IO E LEI, la Sclerosi Multipla, che ha vissuto anni, come scrivi nel romanzo, nell’ “oscurità più profonda” della donna in cui alberga, definita dalla malattia la “Miagentileospite”, che sei tu. Nel libro la SM afferma che solo pronunciare il suo nome mette paura. È stata questa la tua reazione nel “reale”? 

Fiamma Satta: Credo che sia la reazione di chiunque. La SM incute paura a tutti, malati e non, come ogni altra grave malattia cronica invalidante e degenerativa.

La SM è dissacrante, irascibile, sadica (prova orgasmi multipli quando  ti terrorizza con momenti di sofferenza, ovvero quando prosegue  nella demielinizzazione delle fibre nervose). Spara a zero su tutto e tutti. Su di te è spietata, “piccola decerebrata”, e sui lettori non è da meno, definiti “uditorio miserrimo” (dice anche di peggio per la verità). Il tutto condito da una grande dose di ironia e auto ironia. Questa potenza dissacrante rappresenta, non so se ho colto bene, anche i tuoi momenti di rabbia nei confronti della malattia? 

Fiamma Satta: Probabilmente nella costruzione del personaggio della voce narrante, la SM, ho intercettato le mie zone più scure, tra le quali è presente anche la rabbia.

Eppure questa potenza inesorabile, in preda a deliri di onnipotenza, conosce i suoi lati di fragilità. E questi sono rappresentati anche dalle tue vittorie sul piano fisico. Cioè quando ancora dimostri la tua autonomia. Però la sua rabbia esplode quando la tua autonomia diventa psicologica, mentale, ovvero quando affermi il tuo diritto a vivere. È così?

Fiamma Satta: Sì. L’acquisizione di autonomia, fisica o mentale, è indigeribile per la SM.

Nel tuo racconto, immerse nella narrazione della sclerosi, offri indirettamente anche qualche consiglio ai malati. Qual è il più importante?

Fiamma Satta: Concludere prima possibile il percorso dell’accettazione della malattia, tenere presente che anche per chi gravita intorno al malato non è facile accettarla e condividerla, e fare sempre e comunque fisioterapia.

 La voce narrante, la SM, non ha grande stima dei tuoi amori maschili. Nel reale è stato difficile l’amore?

Fiamma Satta: Il libro è un romanzo d’amore vagamente biografico e racconta la difficoltà per una coppia di tener saldo il timone in caso di tempesta.

Cosa ti ha “donato” la Sclerosi?

Fiamma Satta: La SM, come ogni altra malattia grave, è una forma di conoscenza e quindi un’opportunità di conoscere il mondo e se stessi.

Cos’è, alla fine per te, la Sclerosi Multipla? Una lente d’ingrandimento sui limiti della società italiana?

Fiamma Satta: Certamente è anche uno strumento di indagine sulla scarsissima attenzione al prossimo, soprattutto quello in difficoltà, che c’è nel nostro paese.

Ultima domanda: Il libro sta avendo grande accoglienza e sono state molte le presentazioni in giro per l’Italia. Un libro, come ha scritto Giampiero Mughini, che fa sentire “piccoli” di fronte alla potenza della tua testimonianza. Hai ricevuto lettere dai lettori o da qualche lettore malato di sclerosi? Se sì, cosa ti hanno scritto?

Fiamma Satta: Ricevo in continuazione, attraverso i social, lettere e messaggi dai sempre più numerosi lettori appassionati di IO E LEI. Molti di loro sono essi stessi malati di SM, che mi ringraziano di averlo scritto, di aver individuato temi universali, di aver descritto così approfonditamente la malattia e di aver dato loro e a chi gli sta vicino l’opportunità di comprenderla e accettarla.

 

Quale Nuova politica per l’Italia ? Intervista a Marco Damilano

Marco Damilano (Contrasto)

Il Nuovo è stato la via italiana al governo e alla politica. Ora sembra smarrito, per incapacità di elaborazione, fragilità culturale, inconsistenza progettuale. Ma nessuna restaurazione del passato è possibile. E l’Italia ha bisogno di una nuova politica, per uscire da questo limbo senza riforme e senza partiti, senza destra e senza sinistra, senza vecchio e senza nuovo. Serve un Nuovo che sia ricostruzione, rigenerazione. Allora la domanda è: quale nuova politica? Ne parliamo con Marco Damilano, vicedirettore del settimanale L’Espresso, che ha dedicato all’argomento un libro, appena uscito in libreria, dal titolo “Processo al nuovo” (Editore Laterza, pagg. 149, € 14,00)

Marco Damilano, il tuo libro è un processo radicale alla categoria del “nuovo” nella politica italiana. Un concetto assai evanescente … è cosi?

«Certo, ma anche affascinante. Il nuovo in questi venti anni è stato qualcosa di più di una forma comunicativa: è stato una sostanza. Giulio Bollati in “L’italiano” ha scritto anni fa che il trasformismo di fine Ottocento è stato la via che l’Italia si è data per modernizzare il Paese, con tutte le storture che conosciamo. Direi che allo stesso modo in questi ultimi decenni il nuovo – i leader che si sono presentati con la caratteristica del nuovo – è stata la via che la politica si è data per mascherare la verità di un paese che ha attraversato una lunga stagione di declino. E in questo, alla fine, si è rivelato evanescente, inadeguato. E lo dico dal punto di vista di uno che alle innovazioni politiche e istituzionali ha creduto e continua a credere».

La tua analisi parte dalla fine degli anni ’70. L’emergere della figura di Bettino Craxi, con il progetto della “Grande Riforma Costituzionale”, l’idea, cioè, di cambiare il Paese attraverso le Riforme. Una idea anticipatrice del renzismo….? O, per meglio dire, quanto craxismo c’è nella politica italiana di oggi?

«Nel 1979 Craxi scrive sull’Avanti, il quotidiano socialista, un editoriale intitolato “Ottava legislatura”, in cui lancia l’idea della Grande Riforma delle istituzioni. Siamo poco dopo l’omicidio di Aldo Moro, il vero spartiacque della storia repubblicana italiana: con il suo assassinio si interrompe il processo di autoriforma dei partiti e il peso della crisi della politica, che è una crisi di rappresentanza della società, si sposta sulle istituzioni e sulla Costituzione. L’altra innovazione craxiana è il cambiamento del partito socialista: da partito delle correnti a partito del capo, a forte leadership personale. In questo c’è l’anticipazione di alcuni fenomeni dei decenni successivi: il berlusconismo, il renzismo. Anche se Craxi si muoveva ancora, almeno all’inizio, in una situazione in cui la politica era forte. E la parola riforma richiamava tra i cittadini l’idea di un cambiamento in meglio. Mentre negli anni più vicini a noi ha assunto un significato opposto: restringimento dei diritti, tagli dello Stato sociale. E questo capovolgimento semantico pone un problema in più ai riformisti di tutta Europa».

Gli anni ’80 sono gli anni del conflitto sulla modernizzazione della politica italiana tra De Mita e Craxi…Incominciava anche la crisi del PCI di Berlinguer. Chi  vinse la battaglia sul nuovo? De Mita parlava di superare le categorie “Destra” “Sinistra” .  Venne sconfitto, perché Troppo avanti De Mita? Oppure era inconsistente il progetto?

«Per De Mita il superamento delle categorie di destra e sinistra significa rilanciare la Dc in un sistema bipolare che già allora il segretario della Dc voleva costruire. La Dc non si era mai definita come partito conservatore o di centrodestra, per De MIta deve diventare il partito dell’innovazione, contrapposto al Pci che in questo schema diventa il partito della conservazione, e al Psi di Craxi con cui c’è la sfida per la modernizzazione. Com’è finita, lo sappiamo. Hanno perso tutti. Nessuno è riuscito davvero a cambiare il sistema politico italiano. E l’economia negli anni Ottanta si è sviluppata a prescindere dalla politica».

Gli anni si chiudono con Il CAF…La restaurazione pura……è così?

«Craxi finisce ingabbiato nell’alleanza con Andreotti e Forlani, le destre democristiane. E manca il grande appuntamento con la storia, la caduta del muro di Berlino e la trasformazione del Pci. Il suo tramonto comincia qui».

Arriviamo agli ’90. L’esplosione, dopo Tangentopoli, del “nuovo”. Fu il “vero” nuovo? Oppure si può dire che la Seconda Repubblica non è mai nata?

«Oggi possiamo dire che Mani Pulite fu una rivoluzione soltanto giudiziaria. Quelle inchieste travolsero i partiti perché la loro crisi si era già consumata, ma non furono in grado di costruire un autentico cambiamento politico, e d’altra parte questo compito non poteva essere affidato ai giudici e ai pm. Servivano comportamenti nuovi, come scrisse già in quegli anni lo storico Pietro Scoppola. E nuovi partiti, nuovi leader, che arrivarono, in effetti, ma con il volto del berlusconismo. Che è stato nuovo, nuovissimo nelle forme, ma non ha cambiato il Paese: il ventennio del Cavaliere in politica si è concluso con un bilancio avvilente».

L’Ulivo fu il grande sogno. IL PD è la realizzazione del sogno?Considero l’Ulivo di Romano Prodi alla metà degli anni Novanta il momento di massimo equilibrio tra innovazione e tradizione, con un leader che si proponeva come sintesi di culture diverse e non come padrone del suo campo. Un tentativo ambizioso di cambiare la politica italiana: la democrazia dell’alternanza, il potere di decisione affidato ai cittadini, nella scelta dei candidati con le primarie e dei governi con sistemi elettorali coerenti con questo obiettivo. Il Pd è nato troppo tardi e in una situazione completamente mutata: di crisi economica, di crisi politica e di crisi culturale. E il sogno è rimasto tale, fino a trasformarsi, come avviene in questi giorni, in un incubo: l’incubo del ritorno della Prima Repubblica senza i partiti della Prima che avevano comunque il loro ruolo».

Torniamo per un attimo agli anni 68-70. Moro parlava di “Tempi nuovi” , ben altro spessore rispetto alla vacuità di  oggi ….

«A differenza di quello che ha scritto una certa pubblicistica Moro non era pessimista, guardava alle novità con curiosità e con acume. Erano i tempi nuovi del grande cambiamento degli anni Sessanta-Settanta. La mia generazione ha vissuto uno sconvolgimento maggiore: la globalizzazione, la rete. Ma oggi questi cambiamenti fanno paura. Se si parla di caduta dei muri vengono in mente immigrazione selvaggia, dumping sociale e terrorismo globale, Trump ha vinto per questo motivo: sul clima ha contrapposto gli interessi degli operai americani a quello mondiale della tutela ambientale. Se si parla di internet non viene più in mente l’agorà democratica ma le fake news e la post-verità. Se si pensa all’Europa c’è la crisi dell’euro. E mancano politici come Aldo Moro in grado di pensieri lunghi: sono in gran parte schiacciati sul presente, sull’istante, sull’ultimo tweet.

Monti, Renzi e Grillo. Il nuovo diventato vecchio..Per Renzi poi l’eterogenesi dei fini gli ha giocato un brutto scherzo. Come si svilupperà il “renzismo” nei prossimi anni?

«IN questi giorni c’è una nuova trasformazione: da leader sindaco d’Italia, come immaginava il sistema fondato sull’Italicum, Renzi sta diventando il segretario di un partito che dovrà fare una coalizione con alleati scomodi, Forza Italia e Berlusconi. Da uomo della competizione a capo del Pd come “argine della tenuta democratica del Paese”, così lo ha definito nel discorso del Lingotto a Torino prima di essere rieletto segretario del Pd. L’argine è qualcosa di solido, ma anche di statico, immobile. Quello che si prepara a essere Renzi nei prossimi anni: l’amministratore di una importante rendita di posizione, non più il leader che si gioca tutto su una sfida e che se perde va a casa. Lui ha perso ma è rimasto al suo posto, per interpretare la stagione opposta a quella precedente. La stessa parabola sta seguendo il Movimento 5 Stelle: da partito di lotta si appresta a diventare una casa accogliente per un nuovo tipo di establishment. Lo vedremo nei prossimi mesi: cambiamenti di pelle, nuovi trasformismi».

Nella parte finale del libro scrivi:  “Dopo gli uomini del Nuovo –scrive Damilano, – per salvare e difendere le innovazioni serviranno gli uomini della transizione, gli eroi della ritirata, personaggi alla frontiera tra il vecchio e il nuovo, destinati all’incomprensione e non spaventati dall’impopolarità, disposti a rinunciare a qualcosa di se stessi e della loro narrazione. Uomini del ponte, alternativi alla richiesta di uomini forti che avanza in Occidente”. Pisapia?

«Non so se Pisapia riuscirà ad avere queste caratteristiche. Di certo la risposta non è la restaurazone dei vecchi partiti e delle vecchie culture (rifare la sinistra, rifare la Dc…), ma un’innovazione che non sia puramente di facciata. E di questi uomini e di queste donne ci sarà sempre più bisogno. Perché altrimenti il nuovo continuerà a consumare se stesso. Accelerando la crisi della politica».