Coop Connection. La prima inchiesta sulle Coop in un libro di Antonio Amorosi per “Chiarelettere”

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Coop Connection.  La prima inchiesta sulle Coop in un libro di Antonio Amorosi per “Chiarelettere”

IL LIBRO

La prima inchiesta sulle coop in Italia. Anni di silenzio, difficile mettere il naso dentro un mondo che garantisce lavoro, potere, soldi e continuità politica. Solo grazie agli ultimi scandali di Mafia capitale sono raffiorate le contraddizioni di un universo economico che da solo genera 151 miliardi di fatturato dando lavoro a più di un milione di persone. Grande distribuzione, grandi opere, servizi, alimentazione, assicurazioni: il mondo coop, frutto di una storia secolare, copre tutto il territorio, dal Nord al Sud, in nome della solidarietà, a difesa dei lavoratori.

Questo libro prova a smontare la propaganda che ha alimentato l’universo coop e racconta la realtà di un business protetto, in cui sfruttamento, corruzione, speculazione finanziaria sono ben presenti seppure mai denunciati perché coperti dal marchio della legalità. per fare del bene tutto è concesso, anche godere di un regime fiscale particolare (lo garantisce la costituzione), allearsi con le mafie locali, pilotare le gare d’appalto, pagare tre euro all’ora un lavoratore, persino arricchirsi sulle spalle degli immigrati.

Un vero blocco economico, politico, culturale che fa comodo a un’intera classe dirigente e che si basa sulla distrazione della magistratura in un intreccio di potere difficile da scalfire. Coop connection vuole dare voce a chi è solo a denunciare questo sistema, in nome di quei valori in cui credono tanti lavoratori e che hanno ispirato la nascita delle prime cooperative.

L’AUTORE

Antonio Amorosi, giornalista d’inchiesta, è nato a Ludwigsburg, in Germania, nel 1970. A trentaquattro anni, nel 2004, è stato assessore alle Politiche abitative del Comune di Bologna con Cofferati sindaco. Si dimette dopo appena diciotto mesi denunciando il sistema politico e amministrativo locale che dal 1986, scavalcando le graduatorie, assegnava una percentuale elevata di alloggi popolari per via politica. Si occupa della presenza della criminalità organizzata in Emilia-Romagna e dell’attualità politica come giornalista radiofonico. Nel 2010 è autore con Christian Abbondanza del libro TRA LA VIA EMILIA E IL CLAN edito dalla Casa della Legalità di Genova. Le sue inchieste per il quotidiano online Affaritaliani.it nel 2011 portano alle dimissioni di diversi politici emiliani e alla nascita di casi giudiziari nazionali. Nel 2013 ha collaborato con “Il Foglio”. Scrive e pubblica i suoi reportage sul settimanale “Panorama” e dal 2014 sul quotidiano “Libero”.

Per gentile concessione dell’Editore pubblichiamo un breve estratto del libro.

Questo libro nasce per fare chiarezza sul mondo delle cooperative, uno dei cardini dell’economia italiana che pesa 151 miliardi di fatturato, l’8 per cento del Pil, e che dà lavoro a più di un milione e centomila persone. Un universo economico che vale più del Prodotto interno lordo dell’intera Ungheria ma poco raccontato, frutto di una storia secolare e di un presente in cui non mancano luci e ombre. E contraddizioni di un sistema fondato sul mutualismo ma degenerato in un’azione mercantile incessante, che sa trasformare in ricchezza ogni debolezza sociale. Dove «fare il bene» è una dialettica commerciale che fa crollare qualsiasi muro e sa inglobare ogni cosa. Al punto che, come scrive Mediobanca, le coop guadagnano più dalla finanza che dalla vendita delle merci.(1)

E operano in Borsa, anche se non potrebbero farlo, tramite quote di una Spa come Unipol. L’inchiesta Mafia capitale, che ha sconvolto Roma, è uno spartiacque che per la prima volta ha cambiato la percezione collettiva che abbiamo delle coop. Ma è solo la punta dell’iceberg di un sistema liquido e complesso che muta ogni volta strategia, e ha alleati nella politica, nella giustizia, in ogni istituzione. Dall’Expo al Mose, da Mafia capitale alla Grande distribuzione, dai cantieri della Tav alla Val di Susa sono troppi i casi in cui imprese targate coop, come Cpl Concordia, risultano inquinate da rapporti con la criminalità organizzata e dalla corruzione. La crisi economica li fa emergere nonostante lo storytelling della sinistra, l’affabulazione che ieri si chiamava propaganda di partito. Per non parlare dei risparmi di molti soci affidati alle coop e andati in fumo in seguito a spericolate operazioni finanziarie. Delle ingiuste agevolazioni, non solo fiscali, che alterano il libero mercato annullando possibili concorrenti. O dei contratti da fame e delle condizioni capestro cui sono costretti molti giovani lavoratori. Un «sottomondo» di schiavi invisibili, manovalanza nell’agroalimentare, nella logistica, nel facchinaggio. Schiavi anche grazie a un articolo del Jobs Act voluto da Renzi e dal ministro del Lavoro – l’ex presidente di Legacoop Giuliano Poletti –, e passato nell’indifferenza generale, che abroga il reato di intermediazione fraudolenta di manodopera, il cosiddetto caporalato. Tutto nel silenzio. Cosa c’è sotto il mondo che eravamo abituati ad associare agli alti valori del mutuo aiuto, nato dalla solidarietà tra gli ultimi? E perché scopriamo solo ora scandali e speculazioni? Quali informazioni ci sono state nascoste?

L’Emilia-Romagna rappresenta il dna di questo sistema con uomini, capitali e strutture, però le indagini giudiziarie sulle coop non partono mai da qui e, se per caso si aprono, presto si dissolvono. L’ex procuratore capo di Bologna, Enrico Di Nicola, ha esaltato il modello giudiziario del capoluogo, fondato sull’«armonia»(2) tra giustizia e politica. Perché in Emilia non c’è separazione di poteri. In effetti è vero. Amministrazione pubblica, partito e pezzi del mondo della magistratura sono entrati in sintonia formando un sistema potente e legalmente inattaccabile in un intreccio difficile da riconoscere, che ha saputo riprodursi negli anni sempre uguale a se stesso e in cui il libero mercato è un’opzione limite, la legalità un’apparenza e la giustizia applicata da un corpo non indipendente. Dagli anni Sessanta e Settanta camorra, ’ndrangheta e mafia hanno  costruito su questo sistema imperi economici, crescendo con le istituzioni che ne negavano la presenza. Un sistema, quello delle coop, che vorrebbe espandersi a tutti gli angoli del paese e che ha in nuovi settori di mercato le sue punte di diamante. Come l’erogazione di servizi ed energia offerti dalla multiutility Hera o il successo nel settore alimentare di Eataly, la Disneyland del cibo di qualità, ma persino l’antimafia può diventare un business che assicura la vendita di prodotti confezionati con il marchio della legalità. Nuovi soldi, nuovi mercati, nuovo potere. Senza nulla togliere al valore del marchio delle cooperative e all’impegno di tanti lavoratori che hanno partecipato alla creazione di tanta ricchezza, è necessario entrare dentro le contraddizioni. Il viaggio nei fondali reconditi di questo pianeta non vuole mettere in discussione le tante persone che con correttezza lavorano anche nella cooperazione e nelle istituzioni. Anzi, questo libro è pensato anche a loro difesa, nella speranza che la spessa corteccia di omertà e indifferenza, unita alla buona fede di molti, possa essere scalfita e che i diritti principali dei soci vengano rispettati.

 

1 Annuario R&S Mediobanca, dicembre 2014.

2 A. Mantovani, «Corriere di Bologna», 30 settembre 2008.

Antonio Amorosi, Coop Connection. Nessuno tocchi il sistema. I tentacoli avvelenati di un’economia parallela, Ed.Chiarelettere, Milano 2016, pp. 304. € 16,90

Ce la farà Francesco? La sfida della riforma ecclesiale di Papa Bergoglio. Intervista a Don Rocco D’Ambrosio.

cop-Ce-la-farà-FrancescoSono passati poco più di tre anni dall’elezione al soglio pontificio di Jorge Bergoglio.

Papa Francesco ha impresso una svolta nella vita della Chiesa Cattolica. Facciamo il punto su questo cammino, nell’ intervista, con Don Rocco D’Ambrosio. D’Ambrosio è professore di Filosofia della Politica alla Pontificia Università Gregoriana di Roma. E’ autore di numerosi saggi, l’ultimo, “Ce la farà Francesco?”, è uscito pochi giorni fa, per le edizioni “”La Meridiana” di Bari.

Professore nel suo saggio, “Ce la farà Francesco?”, tenta di fare una analisi istituzionale della Chiesa Cattolica sotto il Pontificato di Papa Francesco. Lei mette in guardia da due pericoli, ovvero dalla “deriva semplicistica” e dall’ideologia nell’analizzare le dinamiche ecclesiali e quindi il tentativo di Riforma di Papa Francesco. Può spiegarceli?

Per comprendere la vita ecclesiale, nei suoi risvolti istituzionali quanto teologici, va superata qualsiasi forma di superficialità e semplicismo. Mai come oggi abbiamo bisogno di studiare il contesto contemporaneo e le istituzioni, Chiesa compresa, incrociando le competenze, cioè usando strumenti culturali che attingono ai diversi saperi che investigano sulle realtà umane: l’antropologia, l’etica, la teologia, la sociologia, la psicologia, la scienza politica, il diritto, l’economia. Pertanto, soprattutto educatori ed intellettuali, non sono chiamati ad avere tutte le competenze – pretesa inconsistente e sciocca – ma una capacità di sintesi per aiutare l’interlocutore, specie se educando, a dotarsi di una mappa per districarsi nei vari labirinti di questo mondo e su cui, se vuole, costruire la propria personale competenza, concepita sempre in funzione del vivere bene, come persona e come credente.

Quali sono i punti principali della Riforma di Francesco?

Sono quelli più volte espressi nei suoi interventi. Nel discorso ai vescovi degli Stati Uniti, li ha così enunciati: ”Le vittime innocenti dell’aborto, i bambini che muoiono di fame o sotto le bombe, gli immigrati che annegano alla ricerca di un domani, gli anziani o i malati dei quali si vorrebbe far a meno, le vittime del terrorismo, delle guerre, della violenza e del narcotraffico, l’ambiente devastato da una predatoria relazione dell’uomo con la natura, in tutto ciò è sempre in gioco il dono di Dio, del quale siamo amministratori nobili, ma non padroni. Non è lecito pertanto evadere da tali questioni o metterle a tacere. Di non minore importanza è l’annuncio del Vangelo della famiglia che, nell’imminente Incontro Mondiale delle Famiglie a Filadelfia, avrò modo di proclamare con forza insieme a voi e a tutta la Chiesa” (23 settembre 2015). In un’intervista, invece, ha detto sinteticamente che i mali più grandi del mondo sono: “Pobreza, corrupción, trata de personas” (ovvero: povertà, corruzione e tratta di persone).

Qual è il bilancio di questi tre anni di Pontificato?

I bilanci sono sempre molto difficili perché la riforma è in atto e il papa continua a indicare mete e a confermare la sua linea. Si potrebbe affermare che gli intenti di papa Francesco sono stati esposti con chiarezza; ora è il tempo di renderli operativi con le riforme specifiche dei dicasteri vaticani e degli organismi diocesani e territoriali.

 Lei giustamente afferma che le riforme proposte da Francesco sono “conciliari”, ovvero si pongono come attuazione del Concilio Vaticano II. Per cui la posta in gioco non è la fedeltà al disegno del leader (il Papa) ma la continuità con il Concilio. A leggere certi avversari del Papa, per alcuni l’avversione a Francesco rasenta l’odio, siamo agli antipodi dell’ermeneutica conciliare. Quanto pesa questa avversione all’interno della Chiesa?

L’opposizione al papa è un fatto notorio. Bisogna, tuttavia, non cadere nella trappola del personalizzare il conflitto. Ciò che interessa, prima di tutto, è la riforma della Chiesa nello spirito del Vaticano II. La lettura evangelica, attualizzata dal Vaticano II, è quindi il criterio per valutare questo pontificato. Ovviamente per chi crede in un modello di vita cristiana e di Chiesa preconciliari riterrà la riforma di Francesco, a seconda dei casi, eretica, inconsistente, sprovveduta e via discorrendo. Per chi crede nel nella lettura evangelica del Vaticano II cercherà di valutare la riforma di Francesco spostando l’attenzione sui contenuti annunciati e incarnati, più che la persona del papa, il quale, come ogni essere umano, e come ogni leader, per quanto dotato e avveduto, commette errori.

 Uno dei tratti, di questi anni di Papa Bergoglio, è stato quello della lotta alla mondanità (con tutto quello che significa)  nella Chiesa. E questo presuppone uno stile di vita sobrio, ma c’è anche una lotta ad una certa idea di potere nella Chiesa. Ovvero ci sono delle virtù, necessarie per chi vuole servire la Chiesa di Cristo,  su cui il Papa si è soffermato spesso. Qual è l’idea di “Servizio” che ha il Papa?

Essa è espressa molto bene negli ultimi due discorsi natalizia alla Curia Romana. Sono da leggere e meditare! Succede nella comunità cristiana quello che accade spesso in tutte le istituzioni quando si toccano alcuni punti critici o deleteri, come la corruzione, gli abusi, il rinnegamento delle finalità fondamentali e cosi via. Soprattutto coloro che hanno responsabilità – siano essi cardinali, vescovi, presbiteri, religiose/i o fedeli laici – più che cambiare radicalmente, si sottopongono a quel processo per cui, secondo Jung, enfatizzano i propri pregi e negano, ponendoli in una zona d’ombra, i propri lati oscuri e problematici, quelli che compromettono l’identità di persona integra ed eticamente sana. Le “ombre”, in questione, sono quelle classiche, le si chiami “malattie” o in altro modo, ovvero: narcisismo, perfezionismo, superbia, avarizia, invidia, rabbia, masochismo, sadismo, istrionismo, arroganza, vendicatività, ambizioni sfrenate, demagogia, populismo, falsità, vanagloria, violenza, aggressività, sociopatia, cinismo, ipocrisia, ambiguità, cioè gli aspetti più deleteri che un uomo o una donna possano avere. Orbene si comprende la forza e spesso la violenza della reazione al papa che mette il dito nella piaga di questi mali, proprio perché queste persone hanno poco interesse a riconoscere le zona d’ombra e a rinnovarsi in fedeltà e giustizia.

“I gesti, le parole, gli interventi, le decisioni di Papa Francesco,- scrive nel suo libro – conservano tutti una prospettiva dal basso”. Questo è il cuore della riforma di Francesco. Cosa significa e quali implicazioni?

La “prospettiva dal basso” ci riportano a Jorge Mario Bergoglio, segnato da un dato indiscutibile: Bergoglio è sempre stato così, innamorato dei poveri, con intelligenza, passione, impegno. Alla sua elezione il dato è stato confermato: il suo collega cardinale Claudio Hummes gli ha detto “Non dimenticarti dei poveri!”. E il papa, commentando le parole di Hummes, ha precisato: “quella parola è entrata qui: i poveri, i poveri” (Discorso alla stampa 16 marzo 2013). E’ entrata nel suo cuore, ma già c’era. Ora deve entrare in tutta la prassi ecclesiale. Ha detto in un’intervista: “La Chiesa deve parlare con la verità e anche con la testimonianza: la testimonianza della povertà. Se un credente parla della povertà o dei senzatetto e conduce una vita da faraone: questo non si può fare. Questa è la prima tentazione”

 Ultima domanda: Lei, oltre che professore universitario, è un sacerdote impegnato nella sua Diocesi. Le chiedo come  si sta ponendo la Cei nei confronti della Riforma di  Papa Bergoglio? L’impressione personale è che faccia molta fatica ad adeguarsi al Papa…Per lei?

Anche nell’episcopato italiano c’è un grande dibattito sulla riforma di Francesco, per quello che ci è dato di sapere dalle cronache giornalistiche. Ci auguriamo che il dibattito aiuti a comprendere sempre più un principio etico fondamentale: ogni processo di riforma implica una scelta di campo di coloro che sono coinvolti. Tutti sono tenuti a offrire il loro sostegno alla riforma, con quello che sono e con quello che hanno. In altri termini non esiste una sorta di limbo in cui sostare in attesa che il tutto passi. Chi non sceglie, in fondo, ha già scelto, cioè ha scelto di non collaborare. E la posta in gioco qui non è la semplice sequela di un leader, ma l’attuazione del Vaticano II.

 

 

LO STATO PARALLELO. La prima inchiesta sull’Eni tra politica, servizi segreti, scandali finanziari

COPStato parallelo PA.inddL’Eni è oggi un pezzo fondamentale della nostra politica energetica, della nostra politica estera, della nostra politica di intelligence. Cosa vuol dire intelligence? I servizi, i servizi segreti.” (Matteo Renzi a Lilli Gruber, 3 aprile 2014)

Tra le inchieste pubblicate da Chiarelettere sul potere in Italia NON POTEVA MANCARE UN LIBRO SULL’ENI. Il suo amministratore delegato vale più del ministro degli Esteri, sul suo tavolo passano affari miliardari, alleanze internazionali, interessi geopolitici, questioni di sicurezza fondamentali. I più grandi scandali e casi di corruzione sono nati qui, dall’Ente che più volte con le sue strategie spericolate, prima filoarabe poi filorusse, ha messo in crisi i nostri rapporti con gli alleati occidentali. Il suo fondatore, ENRICO MATTEI, è morto in circostanze ancora oggi misteriose, un suo ex presidente, Gabriele Cagliari, coinvolto in Tangentopoli, si è suicidato in carcere, gli ultimi due amministratori delegati sono indagati per corruzione internazionale. Ce n’è abbastanza per farci un libro.

In quasi cinque anni Greco e Oddo hanno intervistato ex funzionari, addetti ai lavori, politici, studiosi (qualcuno si è negato), verificando bilanci e documenti di ogni tipo, anche privati. Ne è nato UN RACCONTO CORALE E RICCHISSIMO DELL’ITALIA degli ultimi sessant’anni: dalla Dc di Fanfani e le aperture di Moro alle giravolte di Berlusconi, grande alleato di Putin. In gioco ci sono la nostra indipendenza energetica e la diversificazione degli approvvigionamenti che potrebbe sconvolgere gli assetti del Mediterraneo.

GLI AUTORI

ANDREA GRECO, vice caposervizio a “la Repubblica”, dove lavora dal 2001 dopo un periodo alla Reuters, ha pubblicato Le Grida. Memoria, epica, narrazione della

Borsa di Milano (a cura di Roberta Garruccio, Rubbettino 2004) e Meno Stato, poco mercato (con Federico De Rosa, Marsilio 2007). Si occupa di banche, assicurazioni, energia per la redazione economica del quotidiano, per il sito Repubblica.it e per il settimanale “Affari & Finanza”. Nel 2013 ha vinto il premio “Giornalista dell’anno” di State Street per un’inchiesta sui derivati del Tesoro. Nel 2016 ha ottenuto il riconoscimento “Targa Caffè ai sostenitori della buona economia”.

GIUSEPPE ODDO, già inviato de “Il Sole 24 Ore”, ha scritto con Giovanni Pons L’Affare Telecom. Il caso politico-finanziario più clamoroso della Seconda Repubblica (Sperling & Kupfer 2002) e L’intrigo. Banche e risparmiatori nell’era Fazio (Feltrinelli 2005). Ha inoltre pubblicato con Angelo Mincuzzi Opus Dei, il segreto dei soldi. Dentro i misteri dell’omicidio Roveraro (Feltrinelli 2011). Autore di grandi inchieste, ha raccontato fatti e misfatti delle maggiori imprese pubbliche e private e le principali vicende dell’economia italiana, sia sul versante dell’industria sia su quello della finanza e della politica.

PER GENTILE CONCESSIONE DELL’EDITORE PUBBLICHIAMO UN ESTRATTO DEL LIBRO

Questo libro

 L’Eni è un colosso industriale controllatodallo Stato, ma è anche uno Stato nello Stato. Con 110 miliardi di euro di ricavi nel 2014, e nonostante la perdita del 2015 causata dal crollo del prezzo del petrolio a 30 euro al barile, il gruppo occupa la venticinquesima posizione nella classifica di «Fortune» sulle prim cinquecento aziende mondiali per fatturato, alimenta le casse del Tesoro con i suoi ricchi dividendi ed è la quarta multinazionale petrolifera europea per riserve di idrocarburi, dopo l’inglese Bp, la anglo-olandese Royal Dutch Shell e la francese Total. L’impresa fondata da Enrico Mattei garantisce la sicurezza dei nostri approvvigionamenti di petrolio e di gas naturale con una presenza diffusa in oltre ottanta paesi – dai deserti mediorientali e africani alle acque profonde degli oceani, dalle steppe asiatiche alle aree più remote e ostili del pianeta – e occupa 84.000 dipendenti di cui circa un terzo in Italia e la parte rimanente in Asia, nel resto d’Europa, in Africa, nelle due Americhe e in Oceania. Il suo amministratore delegato vale più di un ministro degli Esteri ed esercita un grande potere che gli deriva dalla gestione di investimenti, flussi di cassa, acquisti, dividendi allo Stato, il tutto per svariate decine di miliardi di euro.

 

Ma l’Eni non è solo una potenza economico-industriale, è uno snodo delle vicende italiane dal dopoguerra a oggi: impresa al servizio dello Stato capace, all’occorrenza, di piegare lo Stato ai propri interessi; attore influente della nostra politica estera, che fa da apripista a relazioni con paesi non democratici come Congo, Libia, Nigeria, Kazakistan e altre dittature africane, mediorientali e asiatiche ai primi posti nella graduatoria mondiale della corruzione. 

 

Forse per lavarsi la coscienza i petrolieri osservano, con il cinismo tipico degli affari, che il petrolio non si estrae in Svizzera: che la presenza in paesi come questi è indispensabile per la soddisfazione dei bisogni energetici dell’Occidente. Del resto, non è un problema di esclusiva pertinenza dell’Eni. Tutte le imprese multinazionali, a cominciare da quelle statunitensi, operano in queste aree del mondo con analoga spregiudicatezza. È stata l’amministrazione di George W. Bush a intensificare i rapporti commerciali con il Caspio, con Stati come l’Azerbaijan e il Kazakistan, per ridurre la dipendenza energetica Usa dal Medio Oriente e in particolare dall’Arabia Saudita. La stessa Cina, per far fronte al proprio crescente fabbisogno energetico, è tra i più agguerriti protagonisti dell’industria petrolifera in Africa. I giacimenti di idrocarburi, a parte quelli in Nord America e nel Mare del Nord, si trovano in zone «calde», in paesi dilaniati da guerre, conflitti tribali, retti da regimi – emirati, sceiccati, monarchie, teocrazie, giunte militari – che fondano il proprio potere sull’indebita appropriazione delle risorse pubbliche e del pubblico denaro, sulla soppressione dei diritti civili, sull’eliminazione degli oppositori, sull’oscurantismo religioso, sulla tortura, sulla pena di morte per lapidazione e decapitazione, sulla schiavitù della donna, sullo sfruttamento dei bambini. E, per accaparrarsi le fonti di energia, le compagnie occidentali si rendono complici della corruzione di questi paesi, le cui condizioni di indigenza sociale diffusa stridono con l’illecita accumulazione di ricchezza da parte dei loro governanti.

 

Quale strada sta dunque percorrendo l’Eni nella forsennata competizione per il rimpiazzo delle riserve? E quali indicazioni arrivano dall’azionista-Stato al nuovo top management insediatosi alla guida del gruppo nella tarda primavera del 2014? La domanda non riguarda solo i rapporti tra Eni, Italia e Sud del mondo, coinvolge anche le relazioni con una grande potenza energetica e militare come la Russia, che con Algeria e Libia è, storicamente, uno dei nostri maggiori fornitori di metano. L’Eni continua a rappresentare una garanzia nei rapporti con Mosca o si è posta al servizio di interessi particolari? A chi ha giovato l’asse politico tra Vladimir Putin e Silvio Berlusconi: al futuro del paese, a quello dell’azienda e dei suoi azionisti o a quello dei due diretti interessati? Le scelte strategiche del gruppo sono state le migliori possibili nel difficile connubio tra globalizzazione dell’attività petrolifera e retaggi monopolistici nel settore del gas?

Il nostro libro sugli ultimi venticinque anni di storia dell’Eni parte da qui, come approfondimento del nostro lavoro giornalistico, e analizza i rapporti tra un colosso industriale nato per garantire l’approvvigionamento energetico del paese e lo Stato, suo azionista di riferimento, che in fasi ricorrenti ha debordato dalle sue funzioni, intrecciando industria e affarismo, occupazione e conti pubblici, geopolitica e affari esteri, finanziamento ai partiti e corruzione, sicurezza nazionale e servizi segreti. Un rapporto inestricabile e mai lineare.

 

In quasi cinque anni abbiamo intervistato una cinquantina di addetti ai lavori tra politici e funzionari, operatori del settore, studiosi, dipendenti dell’Eni vecchi e nuovi. Non c’è protagonista della storia del gruppo dell’ultimo quarto di secolo che non sia stato contattato. Quasi tutti, nel rispetto dei ruoli e dei punti di vista, hanno accettato il confronto. Di molte testimonianze abbiamo la registrazione, anche se in tanti ci hanno posto come condizione il vincolo della riservatezza, quindi il loro racconto non è direttamente citato.

 

Oltre alle fonti orali abbiamo consultato centinaia di documenti, atti, bilanci, archivi privati, opere, e riletto i ritagli delle testate di informazione. Storia dopo storia, snodo dopo snodo ci si è composto un disegno corale dell’Italia moderna, guardato con le lenti della sua più grande impresa industriale, che abbiamo tracciato con il «racconto dell’inchiesta».

 

Questo libro è un contributo a conoscere un’azienda complessa che opera in un paese intricato. Crediamo che nessuno, dopo averlo letto, potrà più dire che sia un luogo comune assimilare l’Eni a uno «Stato parallelo».

 

(“Lo Stato parallelo”, pp. 5-7)

Andrea Greco, Giuseppe Oddo, Lo Stato parallelo. La prima inchiesta sull’Eni tra politica, servizi segreti, scandali finanziari e nuove guerre. Da Mattei a Renzi, Ed. Chiarelettere, Milano 2016, pagg. 368, € 17,50.

“Nel cuore del conflitto”. Un bel saggio di Alessandro Pucci

nelcuoredelconflittoA volte capita d’imbattersi in persone inconsuete, davvero fuori dall’ordinario, che compiono azioni fuori dagli schemi, che dedicano tempo e pazienza all’elaborazione di strategie personali e originali di sopravvivenza e persino di perseguimento della felicità. Capita più spesso di quanto s’immagini.

Meno frequenti, invece, quelli che vanno oltre e, accanto a tale sforzo, compiono anche quello di un’elaborazione critica del proprio percorso intimo, generando così un processo di comunicazione rivolto agli altri, nel tentativo (immaginiamo), di renderli partecipi dei propri progressi, se pure di progressi si tratta.

È questo il caso di Alessandro Pucci, che nella vita di tutti i giorni fa il tecnico manutentore di reti telefoniche per una grande compagnia: controlla le centraline, sale e scende da impianti e palificazioni, accetta e distribuisce lamentele, rampogne e minacce della clientela, tanto bisognosa di connettività quanto avara di complimenti. 

La sua “vita vera”, da qualche anno a questa parte, si svolge invece lungo percorsi diversi. Ha letto molto, ha compiuto un percorso di studi teologici e filosofici, ha riflettuto sulla vita quotidiana e sui conflitti che, numerosi, l’avvelenano o la rendono migliore. Cura un blog – cronache dell’anima (http://cronachedellanima.blogspot.it/) – nel quale riversa le sue riflessioni.

Da questo processo è nato un piccolo libro: “Nel cuore del conflitto”; autopubblicato, venduto in rete e distribuito personalmente nei numerosi incontri che l’autore ha organizzato nella sua terra, le Marche, offre una penetrante lettura della vita di relazione; con un linguaggio che oscilla fortemente tra l’eloquio filosofico e la piana, semplice declinazione delle riflessioni quotidiane, Pucci riesce a rendere una modesta e luminosa testimonianza.

Testimonia infatti che è possibile, qualunque sia la nostra funzione nella grande “macchina mondiale” (scippando la definizione da un romanzo di un altro marchigiano, come lui: Paolo Volponi), provare a dipanare la matassa dell’esistenza e delle relazioni, accettando e provando a comprendere – è il caso di dirlo – la natura del “conflitto”, ineluttabilmente presente nella nostra vita.

Quattro capitoli: il conflitto interiore; il conflitto sociale; la guerra come degenerazione del conflitto; la speranza di pace. Seguendo questa mappa concettuale, la ragionata proposta di Alessandro Pucci illumina alcuni angoli del nostro quotidiano, con grande efficacia, soprattutto quando affronta i temi legati alla vita di relazione, ai rapporti umani. In fondo, sembra dire Pucci, tutta la vita è una lotta: cerchiamo di trovarci un senso e una prospettiva.

Come ha acutamente notato padre Alex Zanotelli in una sua recensione apparsa sul numero di Ottobre 2015 di “Mosaico di Pace”, il tema del conflitto è troppo vasto per «poter essere esaurientemente sviluppato in un unico testo». Tuttavia Pucci (è ancora Zanotelli che lo scrive) tenta «di tracciare un sentiero, una via percorribile (…) viaggiare all’interno dei conflitti significa cercare di capire la vita e i suoi inquietanti misteri».

Ecco: dietro ciascuno di noi – e dentro – c’è un mistero; e ancora più grande è quello del mondo. Come scrisse il teologo Rudolph Otto, si tratta di un “mysterium tremendum et fascinans”. Ed è curioso (o provvidenziale?) che, alle volte, un valido aiuto per affrontare l’enormità del tema ci giunga, inatteso, da chi – senza titoli, senza fasti – prova a condividere con gli altri i pensieri più profondi.

Alessandro Pucci, Nel cuore del conflitto, Prefazione di Roberto Mancini (Ordinario di Filosofia Teoretica, Università degli Sudi di Macerata), pagg.: 212, self-published – ISBN-13: 978-1507634806

Il libro è disponibile anche su Amazon (http://www.amazon.it/Nel-Cuore-Conflitto-Alessandro-Pucci/dp/1507634803/ref=sr_1_1?ie=UTF8&qid=1455548623&sr=8-1&keywords=nel+cuore+del+conflitto ).

“IO, MORTO PER DOVERE”. La vera storia di Roberto Mancini, il poliziotto che ha scoperto la Terra dei fuochi

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IL LIBRO

Il nostro dovere non è arrestare qualcuno e mettergli le manette per fare bella figura con i superiori e magari prendersi un encomio. Noi siamo pagati per garantire i diritti, per migliorare, nel nostro piccolo, il mondo che ci circonda, la vita delle persone.”

Roberto Mancini

Un libro coraggioso questo di Chiarelettere. E’ la storia di un poliziotto coraggioso: Roberto Mancini. Un uomo sapeva già tutto del disastro ambientale nella cosiddetta Terra dei fuochi. Vent’anni fa conosceva nomi e trame di un sistema criminale composto da una cricca affaristica in combutta con la feccia peggiore della malavita organizzata e con le eminenze grigie della massoneria. Aveva scritto un’informativa rimasta per anni chiusa in un cassetto e ritenuta non degna di approfondimenti, ha continuato il suo impegno depositando, nell’ultimo periodo della sua vita, un’altra informativa (pubblicata per la prima volta in questo libro).

Mancini, è morto il 30 aprile 2014, ucciso da un cancro. Sarà riconosciuto dal ministero dell’Interno come “vittima del dovere”. Un giovane poliziotto cresciuto tra le fila della sinistra extraparlamentare negli anni confusi e violenti della contestazione. Manifestazioni, picchetti, scontri di piazza, poi la scelta della divisa, per molti incomprensibile e spiazzante, per Mancini del tutto naturale.

Una grande storia di passione, impegno e coraggio. Questo libro finalmente la racconta tessendo insieme con delicatezza e profondità le testimonianze dei colleghi e della famiglia (la moglie Monika, che ha collaborato alla stesura, la fi glia Alessia, che aveva tredici anni quando il papà è morto), i documenti, oltre dieci anni di lavoro alla Criminalpol e la voce stessa di Mancini, che restituisce la sua verità e tutto il senso della sua battaglia umana e professionale.

Una storia chiusa per anni nel silenzio e oggi riscoperta, oggetto di una fiction con protagonista Giuseppe Fiorello nel ruolo di Mancini e finalmente patrimonio di tutti, da non dimenticare.

GLI AUTORI

Luca Ferrari, giornalista, documentarista e fotografo, è autore dell’inchiesta che per la prima volta ha raccontato la storia di Roberto Mancini, pubblicata su “la Repubblica”. Ha collaborato con la trasmissione Servizio pubblico, condotta da Michele Santoro, e con “la Repubblica”, “l’Espresso”, “The Huffington Post” e “il Fatto Quotidiano”. Con il suo primo film, Pezzi (2012), prodotto da Valerio Mastandrea, ha vinto il Premio Doc It – Prospettive Italia Doc per il miglior documentario italiano al Festival internazionale del film di Roma e ha ottenuto una candidatura nella categoria miglior documentario al David di Donatello 2013. Nel 2015 il suo secondo fi lm documentario, Showbiz, sempre prodotto da Valerio Mastandrea, è stato presentato alla Festa del cinema di Roma.

Nello Trocchia, giornalista e scrittore, precario dell’informazione, collabora con “il Fatto Quotidiano”, “l’Espresso” e con La7 (La gabbia). Ha realizzato inchieste su clan, malaffare politico e crimini ambientali. È autore di Federalismo criminale (Nutrimenti 2009), menzione speciale al premio Giancarlo Siani, primo libro-inchiesta sui comuni sciolti per mafia; La peste (con Tommaso Sodano, Rizzoli 2010), sulla cricca politico-criminale che ha realizzato il sacco ambientale in Campania; Roma come Napoli (con Manuele Bonaccorsi e Ylenia Sina, Castelvecchi 2012). Da agosto del 2015 è sottoposto a vigilanza dei carabinieri per aver subito minacce da un boss di camorra a seguito delle inchieste giornalistiche pubblicate.

Per gentile concessione dell’Editore, pubblichiamo uno stralcio del libro

Il poliziotto che ha scoperto la Terra dei fuochi

«Mio padre è un eroe. Ha dei nemici? Bene. Questo significa che ha lottato per qualcosa nella sua vita. L’unica sua debolezza è stata la morte: non usatela per affermare la vostra forza.» Il 3 maggio 2014, il giorno del funerale, Alessia ha solo tredici anni. Il papà, Roberto Mancini, sostituto commissario di polizia, ne aveva cinquantatré ed è morto per aver scoperto e denunciato con una determinazione e un coraggio unici un sistema criminale e la rete dei trafficanti di veleni. Nella basilica di San Lorenzo fuori le Mura, a Roma, le istituzioni sono presenti in prima fila insieme con la famiglia per dare l’ultimo saluto a un servitore dello Stato, encomiato perfino dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Quelle stesse istituzioni che a lungo lo avevano ignorato e perfino osteggiato. Mancini è stato il primo poliziotto a investigare sui rifiuti tossici. Le sue indagini hanno anticipato di quasi due decenni la scoperta del disastro ambientale in alcune zone della Campania, la cosiddetta Terra dei fuochi. Quando era nella Criminalpol, a metà degli anni Novanta, Mancini ha smascherato la connivenza tra imprenditoria e camorra; tra politica, massoneria e bassa manovalanza criminale. Il risultato della sua inchiesta è scritto nero su bianco in un’informativa che, per qualche sconosciuto motivo, è rimasta chiusa in un cassetto per più di dieci anni. Mancini ha completato quel documento ormai storico senza mai curarsi dei rischi che correva. «Voglio credere che allora non fossero ancora maturi i tempi e l’opinione pubblica non fosse pronta» ha detto il poliziotto poco prima di morire commentando il fatto che le sue indagini fino a quel momento fossero state ignorate. Mancini è stato uno sbirro controcorrente, sempre con «il manifesto», quotidiano comunista, sotto braccio, insofferente al potere delle gerarchie ma comunque dalla parte della legge e della giustizia sociale. E questo dava fastidio. Negli anni del liceo aveva militato nel collettivo di sinistra, poi la voglia di cambiare il sistema dall’interno lo aveva portato a far domanda per entrare in polizia. Negli anni Ottanta, sorprendendo chiunque lo conoscesse, era diventato il più giovane viceispettore d’Italia. Per molti colleghi, che in questo libro lo ricordano con affetto e stima, è stato un «esempio»; per altri, soprattutto per alcuni suoi superiori ai quali lui non si è mai piegato per ottenere promozioni o simpatie, è stato invece solo un «visionario, un pazzo». Eppure quel «pazzo» si è ammalato perché durante le sue indagini, portate avanti per anni, è andato a scavare nelle aree contaminate dai trafficanti di veleni armato solo di guanti di lattice e mascherina. Lì dove hanno vomitato di tutto: scorie di fonderia, ceneri, ammoniaca, liquami, rifiuti industriali di ogni genere. Nel 1994 Roberto Mancini aveva cominciato a indagare su Cipriano Chianese, secondo la Procura di Napoli l’«inventore» dell’ecomafia, e a produrre una quantità di informazioni molto scomode. Con la commissione parlamentare di inchiesta sul ciclo dei rifiuti, da consulente, tra il 1997 e il 2001, era tornato poi ad attraversare quei territori per rilievi e verifiche. Tra l’Italia e l’estero aveva partecipato a sessanta sopralluoghi su discariche abusive e luoghi contaminati. E il pazzo alla fine ci ha rimesso la pelle. Una biopsia gli ha diagnosticato il linfoma non-Hodgkin. Mancini ha conosciuto la depressione, ha attraversato una stagione di profonda sofferenza ma non ha mai smesso di lavorare. Fino all’ultimo ha cercato di fornire documentazioni al pm Alessandro Milita, colui che rappresenta la pubblica accusa nel processo ancora in corso a carico di Chianese. Nel 2005 Mancini si sottopone a un trapianto e per un momento tutto sembra risolversi per il meglio, l’incubo finito. Ma non c’è lieto fine a questa storia. Nel maggio del 2010, infatti, il morbo si riaffaccia. Una nuova biopsia diagnostica una recidiva. Il poliziotto non risponde più alle chemio, si sottopone al trapianto del midollo osseo, donato dal fratello. Purtroppo non servirà. I nomi dei responsabili dell’avvelenamento di quella terra rimangono a lungo impuniti: è stato questo il più grande rimpianto di Mancini, insieme a quella telefonata di riconoscenza dall’amministrazione della polizia, doverosa e tanto attesa, che però non è mai arrivata durante i terribili e faticosissimi giorni dell’agonia prima della morte.

Mancini resterà sempre il poliziotto comunista, ligio al dovere, ma insofferente al potere. Questo libro racconta per la prima volta la sua storia. Siamo entrati nella sua vita; abbiamo conosciuto i suoi amici di sempre, i colleghi e la sua famiglia, in particolare la moglie Monika che ha contribuito in modo attivo alla stesura di queste pagine. Come giornalisti, abbiamo preso spunto dalle sue indagini per denunciare una mattanza ambientale senza precedenti. Abbiamo recuperato alcune sue carte inedite, appunti scritti a mano, documenti scottanti e compromettenti, frutto di anni di investigazioni sul campo, che pubblichiamo per la prima volta. Ma soprattutto abbiamo raccontato la storia di un poliziotto, di un tifoso, di un amante, di un marito, di un padre e di un investigatore eccelso. Di un uomo che stimiamo profondamente. Questo non è il ritratto di un eroe, tutt’altro. Gli eroi servono a pulire la coscienza di chi non si sporca le mani o di chi le mantiene pulite ficcandole in tasca, di chi non prende mai posizione, di chi nutre le schiere di coloro che si voltano sempre dall’altra parte. Oggi Roberto Mancini è una nobile voce che non fa più paura. Dopo la sua morte è arrivata l’approvazione unanime per il lavoro svolto e nel consenso generale la coscienza collettiva si è liberata del peccato. Mancini rifuggiva l’omologazione, si è sempre rifiutato di essere altro da quello che era solo per compiacere e ottenere favori personali. Forse non avrebbe gradito tutti questi applausi.

Luca Ferrari, Nello Trocchia con Monika Dobrowolska Mancini, Io, morto per dovere. La vera storia di Roberto Mancini, il poliziotto che ha scoperto la Terra dei fuochi. Prefazione di Giuseppe Fiorello, Ed. Chiarelettere, Milano 2016 . Pagg. 168 _ 15 euro