La “Repubblica aggiornata”. Intervista a Stefano Ceccanti

Stefano Ceccani (LaPresse)In questi mesi il lavoro parlamentare si è concentrato molto sulla riforma della seconda parte della Costituzione. Una riforma, come si sa, che è stata molto osteggiata dalle opposizioni (non senza ipocrisia da parte del centrodestra). Ora la riforma del Senato è stata approvata anche a Palazzo Madama: 180 i sì, 112 i no. La trafila, però, non finisce qui, visto che la riforma dovrà, ad Aprile, nuovamente passare dalla Camera, dove non sarà più possibile proporre emendamenti. Vale a dire che si voterà solo con un “sì” o un “no”. Dopo queste ultime due approvazioni, ci sarà, nell’autunno di quest’anno, il referendum confermativo. In quale direzione sta andando, con queste riforme, il nostro Paese? Parafrasando Maurice Duverger, storico francese delle Istituzioni politiche, si dovrebbe passare da una politica dell’impotenza ad una politica della decisione. Questo, secondo i costituzionalisti favorevoli a questa riforma, è l’obiettivo di fondo. Non vi è dubbio, però, che si pongono non pochi interrogativi. Ne parliamo, in questa intervista con un protagonista del dibattito politico costituzionale: Stefano Ceccanti, Ordinario di Diritto Costituzionale Comparato alla Sapienza di Roma. E proprio in questi giorni è uscito un suo libro, per l’Editore Giappichelli, dedicato alla riforma costituzionale che sarà, come già detto, oggetto di referendum confermativo. Il titolo del libro chiarisce l’obiettivo di fondo della Riforma: “La transizione è (quasi) finita. Come risolvere nel 2016 i problemi aperti 70 anni prima” (Ed. Giappichelli, Torino 2016, pagg. XXIV+96, € 11,00):

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Professor Ceccanti, nel suo libro cerca di dare risposte a molti interrogativi, che sono sorti in questi mesi, sulla riforma costituzionale che sarà oggetto di Referendum Confermativo il prossimo autunno. Colpisce l’affermazione che, secondo lei, con la riforma costituzionale e quella della legge elettorale si risolvono i problemi rimasti aperti settanta anni fa con la nascita della Repubblica.  Un’affermazione assai importante. Può spiegarcela? 

Alcune delle soluzioni di allora sulla Seconda Parte furono determinate dalla rottura del governo di grande coalizione antifascista della primavera 1947. Legata alla Guerra Fredda, Nel clima di sfiducia reciproca, di divisione verticale, molti aspetti organizzativi vennero  impostati con una logica ultra-garantistica, come il bicameralismo ripetitivo che non ha senso né rispetto alla forma di governo (non ha senso giocarsi l’esito dell’esecutivo su due Camere diverse esponendosi a maggioranze incoerenti),  né da quello dl rapporto centro-periferia (un regionalismo cooperativo forte non funziona senza l’accordo di una seconda camera). Quelle scelte hanno perso senso da vari decenni ma solo grazie all’impasse dell’inizio di questa legislatura ci si è trovati in condizione di affrontare davvero il lavoro di aggiornamento per dare senso a questo Parlamento.

All’inizio  del libro lei  riporta un lungo pensiero del grande costituzionalista, padre costituente, Costantino Mortati contro il Bicameralismo perfetto. Le Chiedo quali sono state le ragioni che hanno influito su questo enorme ritardo costituzionale?

La divisione verticale tra le forze politiche ha fatto partire le Regioni molto tardi, negli anni ’70 e in modo molto timido. Anche se le proposta di Camera delle autonomie, congelate alla Costituente, aveva ripreso vigore teorico già in quella fase. Dopo l’ 89, sia pure in modo confuso, anche per le ambiguità della Lega, è riemersa una domanda di uscita dall’eccesso di centralismo e di uniformità. Mentre è stata coerente la riforma della forma di governo regionale con la legge costituzionale 1/1999, quella dell’elezione diretta dei Presidenti, vi è stata poi un’incoerenza tra il regionalismo forte della riforma del Titolo Quinto del 2001 (persino troppo generosa sulle competenze) e l’assenza di una Camera delle autonomie che  avrebbe comunque ridotto quantitativamente la classe politica nazionale. Essa si difendeva con proposte improbabili come Senati delle garanzie, fatte per autoperpetuarsi, quando qualsiasi evidenza comparata, pur nella diversità degli esiti, mostra che una seconda Camera ha senso solo per completare il disegno centro-periferia.

Quali sono i punti deboli della Riforma? Quali i punti di forza? Non trova che si sarebbe dovuto lavorare di più sulle garanzie, ovvero il “check and balance”, contro lo sbilanciamento sul potere esecutivo?

E’ vero il contrario. Manca un intervento sugli articoli della Costituzione relativi alla forma di governo (fiducia, sfiducia e scioglimento). A parte l’eliminazione della fiducia col Senato e il premio della legge elettorale, in corso di legislatura non ci sono rimedi istituzionali ai rischi di crisi. Si potrà però intervenire in un secondo momento. Il sistema italiano resta quello con le maggiori garanzie: un Presidente della Repubblica con poteri più forti degli altri Capi di Stato parlamentari, il referendum abrogativo a cui è anche ridotto il quorum, una magistratura indipendente con un Csm in cui i componenti laici non possono essere eletti dalla sola maggioranza, idem per la Corte costituzionale, una revisione costituzionale che diventa più difficile perché il Senato è sganciato dalla maggioranza. A mio avviso si è, anzi, commesso un eccesso di zelo alzando troppo il quorum per il Capo dello Stato che potrebbe bloccane l’elezione.      

Insomma per lei le riforme ci porteranno verso la terza repubblica, ovvero quella democrazia dell’alternanza sognata da Moro e Ruffilli. La democrazia dell’alternanza, però, implica valori repubblicani condivisi. Non mi sembra il caso della politica italiana. Dove forze politiche alternative al PD, vedi il centrodestra a trazione leghista, si pongono in pesante discontinuità con i valori della Carta del 1948 . Non è stato troppo ottimista?

La Repubblica è sempre la stessa perché c’è una continuità di principi. C’è una discontinuità degli strumenti per meglio rispondere a quei principi. Preferirei parlare di nuove regole per inquadrare un terzo sistema dei partiti. Io credo che nel Paese i valori siano condivisi, il problema è l’offerta politica che tende a riflettere  slogan semplificatori, favoriti anche dall’inadeguatezza degli strumenti a disposizione e dalle difficoltà del processo di federalizzazione europea.

Volendo fare una previsione, per quanto è possibile, come andrà a finire il referendum? Un plebiscito per Renzi?

Non saprei fare previsioni. Dubito però che l’opinione pubblica, al di là delle appartenenze politiche e culturali, voglia tenersi un sistema che ci potrebbe far ricadere nell’impasse del 2013 per la formazione del Governo e che in assenza di una Camera delle autonomie scarica i conflitti sulla Corte costituzionale. Il Presidente del Consiglio ci ha messo la faccia perché è la riforma che giustifica la prosecuzione della legislatura, ma il quesito è soprattutto su una indifferibile riforma, giusta nel merito che resterà anche dopo Renzi e che in realtà nella sua elaborazione era stata condivisa, sin dai lavori della Commissione di esperti del Governo Letta, anche dall’intero centro-destra. 

 

 

 

“Il nome di Dio è Misericordia”. Il libro-intervista di Papa Francesco

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Saranno il cardinale Segretario di Stato Pietro Parolin, l’attore Roberto Benigni, Padre Federico Lombardi e Jianqing Zhang Agostino (ospite del carcere di Padova) a presentare il  libro-intervista, scritto dal vaticanista della Stampa Andrea Tornielli, al Papa Francesco dal titolo «Il nome di Dio è Misericordia», domani, nella tarda mattinata, all’Augustianum di Roma situato a due passi da Piazza San Pietro. Anche Rainews24 seguirà la presentazione. Questo libro, scrive Tornielli, “è il frutto di un colloquio cominciato nel salottino della sua abitazione, nella Casa Santa Marta in Vaticano, in un afosissimo pomeriggio dello scorso luglio, pochi giorni dopo il ritorno dal viaggio in Ecuador, Bolivia e Paraguay”. Il libro-intervista, da domani in libreria per le edizioni Piemme, esce in contemporanea in 86 Paesi: tra gli editori ci sono, Verlag e Planeta.

Quello di Francesco è un vero e proprio inno alla Misericordia di Dio, una misericordia vissuta nella sua esperienza di Pastore nei luoghi delle periferie esistenziali e sociali dell’Argentina.

Dal libro esce un ritratto a tinte forti dell’ecclesiologia missionaria di Bergoglio, una sfida profetica per tutta la Chiesa cattolica.

Di seguito pubblichiamo un breve estratto, tratto dal sito http://www.lastampa.it/vaticaninsider/ita, del libro di Andrea Tornielli.

Troppa misericordia?  

La Chiesa condanna il peccato perché deve dire la verità: questo è un peccato. Ma allo stesso tempo abbraccia il peccatore che si riconosce tale, lo avvicina, gli parla della misericordia infinita di Dio. Gesù ha perdonato persino quelli che lo hanno messo in croce e lo hanno disprezzato. Dobbiamo tornare al Vangelo. Là troviamo che non si parla solo di accoglienza e di perdono, ma si parla di “festa” per il figlio che ritorna. L’espressione della misericordia è la gioia della festa, che troviamo bene espressa nel Vangelo di Luca: «Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione» (15, 7). Non dice: e se poi dovesse ricadere, tornare indietro, compiere ancora peccati, che si arrangi da solo! No, perché a Pietro che gli domandava quante volte bisogna perdonare, Gesù ha detto: «Settanta volte sette» (Vangelo di Matteo 18, 22), cioè sempre.

Al figlio maggiore del padre misericordioso (il riferimento è alla parabola del Figlio Prodigo, ndr.) è stato permesso di dire la verità di quanto accaduto, anche se non capiva, anche perché l’altro fratello, quando ha cominciato ad accusarsi, non ha avuto il tempo di parlare: il padre l’ha fermato e lo ha abbracciato. Proprio perché c’è il peccato nel mondo, proprio perché la nostra natura umana è ferita dal peccato originale, Dio che ha donato suo Figlio per noi non può che rivelarsi come misericordia. […]

Seguendo il Signore, la Chiesa è chiamata a effondere la sua misericordia su tutti coloro che si riconoscono peccatori, responsabili del male compiuto, che si sentono bisognosi di perdono. La Chiesa non è al mondo per condannare, ma per permettere l’incontro con quell’amore viscerale che è la misericordia di Dio. Perché ciò accada, lo ripeto spesso, è necessario uscire. Uscire dalle chiese e dalle parrocchie, uscire e andare a cercare le persone là dove vivono, dove soffrono, dove sperano. L’ospedale da campo, l’immagine con la quale mi piace descrivere questa “Chiesa in uscita”, ha la caratteristica di sorgere là dove si combatte: non è la struttura solida, dotata di tutto, dove ci si va a curare per le piccole e grandi infermità. È una struttura mobile, di primo soccorso, di pronto intervento, per evitare che i combattenti muoiano. Vi si pratica la medicina d’urgenza, non si fanno i check-up specialistici. Spero che il Giubileo straordinario faccia emergere sempre di più il volto di una Chiesa che riscopre le viscere materne della misericordia e che va incontro ai tanti “feriti” bisognosi di ascolto, comprensione, perdono e amore.

Andrea Tornielli, Il nome di Dio è Misericordia, Ed. Piemme, Milano 2016, pagg. 120, 15 €

 

 

Tutti gli uomini del Generale. La storia inedita della lotta al terrorismo

Paterniti-Tutti-gli-uomini-del-generaleChi sono gli uomini che hanno combattuto in prima fila il terrorismo negli anni di piombo? Chi sono gli uomini che agli ordini del generale Carlo Alberto dalla Chiesa hanno indagato, rischiato, vissuto come clandestini, servito il Paese e la democrazia, per essere dimenticati dopo l’uccisione del loro comandante passato a combattere la mafia?

Questo libro, “Tutti gli uomini del generale”, da pochi giorni nelle librerie, scritto dalla giornalista  Fabiola Paterniti per la casa editrice Melampo, con la prefazione dell’ex ministro degli interni Virginio Rognoni, racconta per la prima volta la lotta al terrorismo attraverso la voce dei protagonisti che sostennero il peso di un impegno senza limiti. Ne nasce una storia sincera, per molti aspetti nuova. Sono testimonianze orali raccolte in tante regioni d’Italia. Carabinieri semplici, marescialli, ufficiali, restituiscono le tinte di quella stagione e il senso di una difficilissima impresa collettiva, talora smontando con semplicità insinuazioni e ricostruzioni fantasiose che hanno tenuto banco per quasi quarant’anni. Le indagini, gli infiltrati, le vite da clandestini. E poi i successi, i caduti, i momenti di allegria, la fedeltà al loro comandante, che tutti ancora chiamano “il signor generale”.. E infine l’amarezza per essere stati dimenticati, superata dall’orgoglio di avere servito lo Stato.   Insomma è la Storia del Nucleo Speciale antiterrorismo dei Carabinieri.

Il libro è arricchito dalle testimonianze di Gian Carlo Caselli e di Armando Spataro, due magistrati che collaborarono con il generale in inchieste decisive; e si chiude con le storiche interviste che Carlo Alberto dalla Chiesa rilasciò a Enzo Biagi e a Giorgio Bocca, che rilette a distanza di trent’anni rivelano ancora più chiaramente la consapevolezza e il coraggio del generale nell’affrontare i misteri e le doppiezze del nostro Paese.

Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo due estratti del libro:

Dal Capitolo “L’ufficiale dalla memoria buona. Gian Paolo Sechi. Parte seconda: il dopo Moro”   (pp.94-96)          (ora generale in pensione)

Il generale passa a questo punto, quasi automaticamente, a raccontare di Marco Donat Cattin. Lo fa con la determinazione di chi sa che sta per parlare di una grande storia. Una di quella vicende tipiche della nazione entrate negli annali e nella memoria pubblica per i nomi altisonanti dei protagonisti e per gli scenari umani e politici che fanno loro da sfondo.

“Ricordo bene quando arrestammo il figlio di Carlo Donat Cattin. Da mesi avevo incaricato un mio uomo di pedinare un tizio che ci risultava avesse contatti con Marco Donat Cattin. Un giorno questo presunto amico si recò alla stazione di Torino Porta Nova e salì su un treno diretto in Francia. A quel punto il mio uomo bloccò un signore che passava lì per caso, e gli diede una mancia con la richiesta di farmi arrivare un messaggio nel quale mi informava che stava prendendo il treno per la Francia. Poco dopo questi mi telefonò: ‘Tu sei Boss? – mi chiese – Trucido mi ha detto di chiamarti per dirti che quel tizio è salito su un treno che porta in Francia e, quindi, anche lui è diretto in Francia’. Dopo un po’, ricevetti un’altra telefonata, questa volta erano i carabinieri di Bardonecchia che mi lessero un promemoria che Trucido aveva scritto in treno e consegnato loro. Erano tutte le informazioni che aveva acquisito e che comunicai alla gendarmeria francese. Appena il treno giunse a destinazione, l’uomo che avevamo pedinato raggiunse altra gente. In seguito incontrò Marco Donat Cattin, che così venne arrestato. Quando fu preso tutti fingevano di non capire chi fosse, ma io arrivai in Francia quello stesso pomeriggio. E guardando l’uomo che avevano fermato dissi: ‘Ma questo assomiglia a Donat Cattin’. La mia osservazione naturalmente era ironica, sapevano tutti la sua identità, ma non osavano dirla. Infatti, appena feci quel nome, successe il putiferio. Da quel momento costui venne trattato come il Presidente della Repubblica in visita ufficiale in Francia. Vennero a prenderlo settimane dopo con l’aereo presidenziale, ossia quello che aveva tutte le comodità. Il Governo mandò quest’aereo con un ufficiale che non si occupava di lotta al terrorismo.  Al ritorno in Italia, atterrammo nella base militare di Vicenza, a bordo c’ero io e c’era anche Mario Mori, che faceva parte della nostra struttura. Poi feci salire Donat Cattin su un’auto e lo accompagnai a Torino. Lo chiusi in camera di sicurezza, mentre, in quegli stessi giorni, avevamo Patrizio Peci in un alloggio al piano di sopra”.

Alla Fiat seppero subito del nuovo arrivato. Così molti dirigenti fecero pressioni enormi, andarono a cercare gli uomini del generale con la richiesta di liberarlo o di dargli lo stesso trattamento di Peci. “Puntualizzammo loro che Peci era un pentito e ci stava raccontando tutto dell’organizzazione terroristica di cui faceva parte e quindi era un’altra questione.  Marco Donat Cattin non voleva collaborare”.

Il problema per gli uomini del nucleo era su come tenere le dovute distanze verso il padre, che era stato ministro in diversi governi, ricopriva l’incarico di Vice-Segretario unico della Democrazia Cristiana, ed era dotato di grande potere e influenza. A quel tempo c’era una norma che imponeva loro, per i casi di arresto, di informare subito il Ministro, e così fecero. “Quindi il padre venne a saperlo abbastanza in fretta. E questa vicenda scatenò anche una dura polemica nelle cronache di allora”.

Ma la storia più curiosa che Sechi mi racconta riguarda il periodo precedente, ossia il modo in cui erano arrivati all’illustre terrorista di Prima linea. “Oltre a pedinare l’amico, avevamo seguito anche la madre che da più di un anno sistematicamente prendeva il treno da Torino e scendeva a una stazione vicino Vercelli. Lì incontrava il figlio. Lui le dava un pacco e lei ricambiava con un altro. Sa cosa c’era dentro questi involucri? Biancheria. Sì, proprio così. Lui le dava la biancheria sporca e lei quella pulita. Già un anno prima, quindi, la famiglia sapeva, oltre che della sua militanza in un’organizzazione terroristica, la località in cui si era rifugiato.

Quello che ancora oggi mi dispiace è che un uomo delle istituzioni, come il padre di Marco, non abbia mai preso una posizione netta. Anche se è difficile parlarne ad anni di distanza. Una volta che aveva scoperto il figlio terrorista, avrebbe dovuto essere conseguente. In fondo era stato un Ministro con responsabilità ben precise nei confronti della collettività, ricopriva incarichi pubblici.  Ciò di cui sono sicuro è che lo sapesse già da un anno, ma non fece niente”.   

Dal Capitolo “Giuseppe Severino” (maresciallo),  pp.150-153

Giuseppe Severino sorseggia il suo caffè e, ogni tanto, tira fuori una risata che pare trascinata dai ricordi. Il racconto è spesso frenato dalla paura di dire troppo. In fondo, in questi lunghi anni, la memoria delle gesta degli “uomini del generale” ha subìto storpiature e libere interpretazioni che tuttora pesano sulle loro vite. I riconoscimenti sono stati pochi, mentre tante sono state le letture distorte della loro attività. Per fortuna li sorregge lo spirito di squadra: la grande risorsa che gli uomini del nucleo avevano creato in quegli anni, è ancora vivo, e ancora dà forza. Per questo, Severino fa in modo che il suo racconto torni sempre sul generale: “è morto in solitudine, se fossimo stati noi a difenderlo, non sarebbe successo. Quando veniva da queste parti e si fermava a prendere un caffè, ci chiedeva di lasciarlo da solo, non voleva che mettessimo a rischio la nostra vita per lui. Quindi, dopo tanta insistenza, lui entrava al bar e noi lo guardavamo a distanza di cinque o sei metri. Sapevamo di dover tenere gli occhi ben aperti. Io non dormivo la notte per questo lavoro, non vedevo la mia famiglia per molto tempo, mancavo spesso da casa, anche per 15 o 20 giorni di seguito”. Severino era a capo delle sedi di Parma, di Piacenza, di Reggio Emilia e di Modena. Un’area cruciale per l’antiterrorismo: in quelle provincie furono identificati parecchi brigatisti e sbaragliati numerosi covi. Ha collaborato direttamente con il generale anche quando questi costituì le carceri speciali: “I nostri uffici a quel tempo erano a Roma, sulla Salaria. Hanno mitragliato i muri della sede tante volte. Non si può avere idea di quale fosse il clima a quel tempo”. Il periodo del terrorismo l’ha segnato. Mentre parla si ferma a riflettere, come volesse capire se sta dicendo qualcosa di troppo. Ha il timore che le sue parole possano giovare a nuovi “sciacalli per infangare il nome del generale”.

Continua a voler essere un fantasma, come gli era stato richiesto in quegli anni del terrorismo, quando il suo nome di battaglia era “Seve” e il nome con il quale si presentava ai comuni mortali rimaneva tale, ma con un’aggiunta: geometra Severino. E, in effetti, quel “geometra” davanti al cognome sembra anticipare l’anonimato in cui si sarebbe immerso dopo i duri anni di servizio per lo Stato. Lontano dalla stampa, dal chiacchiericcio pettegolo dei palazzi del potere e dalle malevolenze di chi preferiva ricostruire la storia dell’antiterrorismo con le proprie fisime anziché con i fatti. Ma del generale non si stanca mai di parlare, perché è l’uomo che gli ha consentito di conoscere la parte bella dello Stato: “Lui è stato sempre presente nelle nostre vite. Ci chiamava al telefono, parlava con mia moglie. Spesso ci scriveva. Ho conservato gelosamente tutte le sue lettere. Mi cercò persino prima della sua morte, credo sia stata l’ultima telefonata, ma io non c’ero. E ricordo, ancora, dove mi trovavo in quel momento. Lui sapeva perfettamente chi lavorava e chi erano le persone fidate. Un giorno ha fatto neri alcuni ufficiali che non avevano rispettato le regole, in quell’occasione avrei voluto sprofondare dalla vergogna per loro, il generale fu durissimo. Era una persona seria, con un grande senso dello Stato. E se penso a quello che gli hanno detto dopo la sua morte, tutte queste congetture, questi retroscena fasulli, mi arrabbio. Lui era una persona limpida, il nostro lavoro era limpido, oltre che faticoso. Abbiamo dato la vita a questo Paese, ed ho visto tanti mascalzoni pronti a tirarci addosso le pietre. Se penso a quante volte l’ho accompagnato sulla tomba di sua moglie Dora… Spesso la notte mi chiamava e io gli andavo ad aprire il cancello del cimitero, perché poteva andarci solo a quell’ora, per ragioni di sicurezza. Io lo osservavo da lontano e pensavo a quel pover uomo che non poteva neanche pregare tranquillamente come tutti gli esseri normali”. Fatica a stare seduto e si guarda intorno, come per allontanare l’ emozione che riaffiora dai ricordi. Il bar a quest’ora è pieno di gente che chiacchiera e legge.

“Noi adesso viviamo in modo modesto, com’è giusto che sia, ma questo Paese non ha voluto riconoscere il nostro operato neanche conservandone una buona memoria. Prima di arrivare a casa, a quei tempi, facevo dei lunghissimi giri per timore di essere sotto osservazione dei terroristi.  Avevo paura non per me, ma per i miei familiari. Non conoscevamo orari, eravamo sempre in movimento, per controllare, per raccogliere informazioni, per identificare i terroristi. Sono stati anni durissimi. Ho visto morire tra le mie braccia il maresciallo Maritano, che per me era come un padre. E dalla Chiesa mi chiamò, subito dopo, per sapere come erano avvenuti i fatti. Di me si fidava, sapeva come lavoravo e quanto affetto mi legava a lui”. 

“Noi eravamo soli anche a quei tempi, non eravamo ben visti anche all’interno dell’Arma, perché eravamo autonomi. E anche molti magistrati non potevano vederci. Eravamo un corpo estraneo, compatto, autonomo e questo dava fastidio. Il nostro essere uniti era la forza che avevamo. Il lavoro si faceva con serietà, professionalità e sacrifici e sapevamo di poter contare solo su dalla Chiesa.  Certamente rifarei tutto, ma per lui, e non per questo Paese che non è stato in grado di proteggerlo e dargli il giusto riconoscimento. Sono arrabbiato, ho visto troppi mascalzoni in giro”.

Fabiola Paterniti, Tutti gli uomini del Generale. La storia inedita della lotta al terrorismo, Ed. Melampo, Milano 2015

Un libro geniale: Le leggi fondamentali della stupidità umana

8b0bfeccover26032.jpegUn libro geniale, più volte ristampato dalla casa Editrice “il Mulino”, questo piccolo saggio sulle “leggi fondamentali della stupidità umana”. Scritto da un grande storico dell’economia, Carlo M. Cipolla, autore di numerosi saggi, tradotti in diverse lingue, che hanno segnato la metodologia della storia economica italiana ed europea. Questo, forse, è il più noto, insieme al fondamentale volume  sulla “Storia economica dell’Europa pre-industriale”. Il saggio, del 1976, scritto in Inglese, nasce come regalo di Natale per gli amici. Il Titolo della prima edizione, era “Allegro ma non troppo”, e comprendeva anche una micro storia della diffusione di una preziosa spezia: il pepe. Visto, dato il suo potere afrodisiaco, come un potente fattore di sviluppo nel Medioevo.   Così il “The basic laws of Human Stupidity”, per una “magia” (il passaparola), conosce una serie fortunata di diffusione: solo in Italia, in poco più di 24 anni, ha venduto qualche centinaio di  migliaia di copie.

Davvero una bella storia editoriale. Quest’ ultima edizione italiana, uscita da poco sempre per il Mulino, è, poi, impreziosita dalle bellissime vignette di Altan. Insomma un libro da consigliare per l’irresistibile humor della prosa di Cipolla e per le micidiali vignette del grande Altan (e qui  ne segnaliamo una davvero bellissima: un uomo seduto, un marito,  su una poltrona legge un quotidiano e commenta: “questo mondo diventa sempre più idiota”. E una donna, la moglie, indaffarata ai fornelli, risponde: “Mi chiedo come hai fatto tu ad accorgertene”).

Sulla base dell’analisi, quasi applicando la metodologia della scienza economica, dei danni o vantaggi che l’individuo procura a se stesso e di quelli che procura agli altri, e data la definizione per cui “una persona è stupida se causa un danno a un’altra un subendo un danno”, Cipolla costruisce uno schema di assi cartesiani, ascisse e ordinate, in cui collocare con precisione i tipi degli intelligenti, degli sprovveduti, dei banditi e degli stupidi, dal quale si evince tra l’altro che «lo stupido è più pericoloso del bandito». Affermazione Assolutamente vera.

Così, ecco le leggi fondamentali della stupidità umana:

Prima Legge

Sempre e inevitabilmente ognuno di noi sottovaluta il numero degli individui stupidi in circolazione:

Ovvero:

a) persone che abbiamo giudicato razionali ed intelligenti all’improvviso si sono rivelate essere irrimediabilmente, senza alcun dubbio, stupide;

b) Ed ogni giorno siamo condizionati in qualunque cosa che facciamo da persone, ostinatamente, stupide che improvvisamente compaiono nei luoghi meno opportuni.

E’ impossibile stabilire una percentuale, dato che qualsiasi numero sarà sempre inferiore alla realtà.

Seconda Legge

La probabilità che una certa persona sia stupida è indipendente da qualsiasi altra caratteristica della stessa persona.

Non si può trovare nessuna differenza del fattore Stupidità nelle razze, condizioni etniche, educazione, eccetera. Anche, aggiunge Cipolla con perfidia, tra i Premi Nobel c’è la medesima percentuale.

Terza (ed aurea) Legge

Una persona stupida è chi causa un danno ad un altra persona o gruppo di persone senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per sé o addirittura subendo una perdita.

E qui la razionalità non trova “ragionevoli spiegazioni” perché quell’assurda creatura abbia un comportamento del genere. O meglio una  spiegazione c’è: quella persona è stupida.

Quarta Legge

Le persone non stupide sottovalutano sempre il potenziale nocivo delle persone stupide. Dimenticano costantemente che in qualsiasi momento, e in qualsiasi circostanza, trattare e/o associarsi con individui stupidi si dimostra infallibilmente un costosissimo errore.

Quinta Legge

La persona stupida è il tipo di persona più pericolosa che esista.

Questa è la più facile da capire delle leggi. Infatti per la conoscenza comune  i banditi intelligenti, per quanto possano essere ostili, sono prevedibili mentre gli stupidi non lo sono.  Perché, osserva l’autore, le persone intelligenti, generalmente, sanno di esserlo, i banditi anche sono consapevoli della loro attitudine al crimine, gli sprovveduti hanno la coscienza della loro sventura.  Ma le persone stupide non sanno di essere stupide, e questa è una ragione che li rende molto pericolose. Per cui, già detto, il corollario di questa legge è che lo stupido è più pericoloso del bandito.

Anche nella politica il tasso, come nella società, il tasso di stupidità è costante. Anzi attraverso la politica (con i suoi strumenti – elezioni e partiti politici) consente agli stupidi di mantenere la loro quota di potere.  Per cui la battaglia, assai complicata, contro la stupidità resta fondamentale nella società se si vuole mantenere il suo, sempre in divenire, equilibrio.

Resta una domanda da farsi alla fine della lettura del libro: Noi siamo coscienti della nostra stupidità? E questa domanda, forse, ci aiuta a capire che non siamo completamente stupidi.

Carlo M.Cipolla, Le leggi fondamentali della stupidità umana, Ed. Il Mulino, pagg. 96, € 15,00

“Io vi accuso”. Così le banche soffocano le famiglie e salvano il sistema

Un J’ACCUSE senza precedenti, a partire da documenti interni e “confidenze” di dirigenti tuttora in attività.

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Vincenzo Imperatore, ex manager bancario e autore del bestseller “IO SO E HO LE PROVE”, entra nelle segretissime stanze dei principali istituti di credito e racconta come si sono riorganizzati dopo la crisi.

I clienti privilegiati, i prodotti da spingere, le vessazioni, i nuovi cavilli contrattuali, i corsi di formazione per manager e funzionari.

La regola è guadagnare il più possibile rischiando zero. Sotto ci siamo noi, le famiglie, le piccole e medie imprese, la maggioranza degli italiani.

IL LIBRO

Dopo IO SO E HO LE PROVE, Vincenzo Imperatore allestisce un vero processo al sistema bancario, a partire da documenti interni, estratti di conto corrente, confessioni circostanziate di “gole profonde” tuttora in attività. Ci sono PRETI di provincia che guadagnano 900 euro al mese ma effettuano movimenti per centinaia di migliaia di euro; GIORNALISTI e altre CATEGORI E PROTETTE che ricevono un trattamento “speciale” direttamente dalla direzione centrale; COMMERCIANTI CINESI che versano soldi in contanti e potenzialmente illegali senza alcuna segnalazione; nuovi MANAGER addestrati a piazzare non più mutui o prestiti ma televisori, tablet, frigoriferi, palestre, vacanze in centri termali, perfino un giro all’autodromo di Monza, con fatturati da capogiro…

È incredibile scoprire come si sta riorganizzando il sistema bancario, mentre arrivano miliardi da Bruxelles. Ben poco viene impiegato per sostenere commercianti in difficoltà, piccoli imprenditori, giovani famiglie, pensionati da 500 euro al mese. Si tratta di categorie tuttora vessate. Eppure i soldi ci sono. Certo, come dice Gianluigi Paragone nella prefazione, “le banche non fanno beneficenza”.

Ma è inaccettabile “che in mezzo a una burrasca sempre più potente i loro bilanci siano messi in salvo dalla politica o da doping contabili a scapito di clienti in buona fede”.

Una via d’uscita esiste ma non passa dal sistema bancario. Imperatore fornisce tutti i consigli utili per gestire la propria attività senza bisogno delle banche.

L’AUTORE

Vincenzo Imperatore (1963) è stato per ventidue anni manager di importanti istituti di credito nelle piazze principali del Meridione. Dal 2012 ha scelto la strada della libera professione fondando la società di consulenza aziendale InMind Consulting specializzata nel banking e nella gestione delle piccole e medie imprese in difficoltà. Collabora, come opinionista, con quotidiani e riviste finanziarie e conduce un programma radiofonico di informazione economica. Nel 2014 ha pubblicato IO SO E HO LE PROVE con Chiarelettere.

IN QUESTO LIBRO racconta anche come la piccola impresa può sopravvivere senza bisogno delle banche. Gli strumenti ci sono. Un nuovo sistema di lavoro finalmente è possibile.

Per gentile concessione dell’Editore pubblichiamo un estratto del libro Perché io vi accuso

Questo libro

In Italia lavorano circa 5 milioni di piccole imprese dietro le quali ci sono altrettante famiglie. Più di un terzo della popolazione del nostro paese ruota intorno all’economia generata da queste aziende. Come nella più scellerata tra- dizione degli scandali finanziari, le banche hanno prima «sfruttato» i piccoli imprenditori per far lievitare i propri rendiconti, poi, quando non servivano più, li hanno sacrificati sull’altare del profitto.

Oggi la situazione economica è profondamente diversa rispetto al periodo in cui la piccola e media impresa rappresentava il motore della crescita nazionale. Così, per preservare il sistema e non saltare in aria a causa dei loro bilanci alterati, gli istituti di credito hanno bisogno di nuove fonti di arricchimento. Una volta messa in atto la «stretta del credito», che sta uccidendo la stragrande maggioranza delle aziende, a cui sono stati chiusi i rubinetti della liqui- dità, la strategia di raccolta del risparmio delle banche ha cominciato a concentrarsi su una lista di categorie protette, pochi ma fondamentali «clienti d’oro» – come dicono gli stessi funzionari – che fanno girare i soldi, molti soldi: preti, commercianti cinesi, speculatori immobiliari.
Questi hanno la priorità rispetto ai «normali» correntisti. A loro è permesso tutto, in alcuni casi anche ciò che non è consentito dalla legge: aggirare le norme antiriciclaggio, nascondere i proventi dell’evasione fiscale, compiere operazioni finanziarie spericolate e perfino pretendere il licenziamento di funzionari che hanno osato opporsi alle loro volontà. Ci sono anche altri clienti privilegiati, tra cui i giornalisti e gli editori, che ricevono, spesso senza esserne consapevoli, attenzioni e favori che sicuramente non sono riconosciuti ai «normali» cittadini.

Per scrivere questo libro ho avuto accesso a decine di documenti interni al mondo bancario e ho ricevuto le «confidenze» di alcuni dirigenti, che mi hanno contattato dopo aver letto Io so e ho le prove. Ho scritto la prima parte immaginando un processo senza difesa e senza appello, in cui il massacro delle banche nei confronti delle imprese – e quindi dell’economia italiana – viene messo a nudo, così come il nuovo sistema di drenaggio del denaro che nessuno finora ha mai raccontato. E vengono svelati tutti i nuovi stratagemmi pensati dai giganti del credito per ottenere profitti a discapito della stragrande maggioranza dei clienti.

Le banche sono diventate dei veri e propri centri com- merciali, in cui fa carriera solo chi vende più televisori, frigoriferi, palestre, Xbox, vacanze in centri termali. I fidi, i mutui e tutti gli altri prodotti creditizi sono vincolati all’acquisizione di questi prodotti: il correntista ha l’ob- bligo di comprarli se vuole sperare in un prestito, di cui comunque non ha la certezza. Di conseguenza, il nuovo manager è colui che sa piazzare meglio i «70 milioni di euro l’anno di prodotti di largo consumo» richiesti dai capi, come svela una delle mie fonti interne. Non esiste quasi più il bancario competente, professionale, ma solo funzionari formati da «motivatori» ed esperti di comunicazione. Queste sono le figure preposte a gestire oggi le nostre finanze.

Le banche sono diventate delle agenzie immobiliari capaci di far svendere le abitazioni dei clienti sul lastrico per far guadagnare anche i ricchi speculatori immobiliari già loro correntisti. Senza pietà, sballando il mercato e alterando le normali procedure della compravendita. Gli istituti stanno favorendo il dislivello sociale e consentono spesso abusi per i quali non pagano mai.

Nella prima parte del libro ho raccolto le storie e le con- fessioni delle «gole profonde» che hanno deciso, come feci io nel 2012, di denunciare il nuovo sistema tuttora vigente. E le testimonianze degli imprenditori e dei professionisti vessati e tartassati dalle banche. A pagare, oggi come ieri, sono i correntisti che piangono per non farsi protestare un assegno di poche centinaia di euro; i commercianti che supplicano il direttore di filiale per avere un piccolo prestito; gli artigiani minacciati della segnalazione antiriciclaggio per un versamento di poche migliaia di euro e poi «violentati» dalla Guardia di finanza attraverso un duro interrogatorio in merito alla provenienza di quel denaro.

Nella seconda parte del libro ho indicato, invece, gli strumenti che il piccolo imprenditore può utilizzare per sovvertire il sistema, per farcela anche senza il supporto degli istituti di credito, che poi tanto supporto non è. I metodi alternativi per ottenere risorse e finanziamenti, dai minibond al crowdfounding; dal peer to peer al commercio delle fatture fino al corporate barter.

Nell’attuale realtà globale le banche possono essere anche superate, l’importante è sapere come fare e avere il coraggio di farlo. In questo libro racconto di tutte le strategie aziendali indispensabili per superare la crisi e rilanciarsi sul mercato partendo dalla regola numero uno: «Ci si può indebitare molto solo se si guadagna molto».

Al termine di questo ideale processo ho immaginato anche la «sentenza» che, se fosse divina, porterebbe direttamente le banche all’inferno e le piccole imprese al purgatorio. Per uscire dal purgatorio della recessione, infatti, le aziende devono iniziare a utilizzare strumenti e metodologie che servono alla sopravvivenza. Il purgatorio, si sa, è il luogo dove transitano le anime «in stato di grazia» in attesa della loro purificazione. La lettura di questo libro potrebbe essere la loro ultima pena.

Vincenzo Imperatore, Io vi accuso. Così le banche soffocano le famiglie e salvano il sistema, Editore Chiarelettere, Milano 2015, pagg. 160.
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