La “banda d’italia”, la super casta di intoccabili che governa i nostri soldi.
Un libro di Chiarelettere

 

La banda d'Italia Lannutti

IL LIBRO

Un libro, appena uscito nelle librerie, che denuncia gli ABUSI all’interno della BANCA D’ITALIA, quell’organismo che dovrebbe vigilare, sopra tutti, in un rapporto di indipendenza anche dal governo, sulla correttezza del mondo bancario per salvaguardare l’economia italiana e i soldi dei risparmiatori. Invece…

Questo libro dimostra, DOCUMENTI ALLA MANO, che proprio dove i controlli dovrebbero essere garantiti, c’è il massimo dell’opacità: un cono d’ombra che copre i troppi privilegi (i MAXI GUADAGNI del governatore e del Direttorio), le spese esorbitanti (ben 7000 dipendenti che costano più di un miliardo all’anno) e i sistematici conflitti d’interesse a danno dei correntisti ignari, in un gioco in cui controllori e controllati sono dalla stessa parte.

Sprechi (carte di credito per spese personali), privilegi (affitti regalati), favoritismi parentali (cariche tramandate DA PADRE IN FIGLIO) fanno dei dipendenti della Banca d’Italia una vera SUPERCASTA intoccabile. Nessuno, tanto meno la stampa, osa attaccarli. Eppure gli scandali non visti da via Nazionale sono tanti: da Parmalat a Mps, a Carige, fino alle banche più piccole.

I banchieri indagati sono troppi: com’è possibile? Nessun governatore si accorge di nulla: né Ciampi, né Draghi, né Visco. Poche le sanzioni, lievi e tardive. Intanto il denaro arriva a chi ce l’ha già o ha potere da far valere mentre i clienti normali pagano conti correnti e mutui più di tutti gli altri cittadini europei. Nessuno ha il coraggio e la forza di intervenire. FINO A QUANDO?

L’autore

Elio Lannutti (1948), ex bancario, giornalista e scrittore, nel 2008 è stato eletto al Senato come indipendente nelle liste Idv. Fondatore (1987) della Adusbef, l’associazione che difende gli utenti dei servizi bancari e finanziari, ha denunciato la lunga catena di scandali e la connivenza delle autorità di controllo (Consob e Bankitalia in primis). È autore di numerose pubblicazioni, tra le quali: EURO, LA RAPINA DEL SECOLO; I FURBETTI DEL QUARTIERINO (entrambi con Michele Gambino, Editori Riuniti); LA REPUBBLICA DELLE BANCHE (Arianna Editrice), prefazione di Beppe Grillo; BANKSTER (Editori Riuniti); CLEPTOCRAZIA (Imprimatur);
DIARIO DI UN SENATORE DI STRADA (Castelvecchi). Ha collaborato con importanti riviste e quotidiani tra cui “Il Messaggero” (1988-1991), “la Repubblica-Affari & Finanza” (1990-1993), “Avvenimenti”, che ha fondato, (1988-1999).

Per gentile concessione dell’Editore un estratto dell’introduzione del libro.

Nella polvere. E nel fango
Bankitalia, la più importante e antica istituzione della Repubblica, fondata subito dopo l’Unità d’Italia, ha disonorato il proprio nome. L’istituto di via Nazionale, che si era guadagnato un prestigio indiscutibile offrendo alla Repubblica italiana e al governo dirigenti stimati poi diventati capi di Stato (Luigi Einaudi e Carlo Azeglio Ciampi), presidenti del Consiglio (Lamberto Dini) e ministri del Tesoro (Guido Carli, Tommaso Padoa Schioppa, Fabrizio Saccomanni), è caduto nella polvere e nel fango.
Questo libro, grazie a ricerche e documenti inoppugnabili, tenta di descrivere il mutamento genetico della Banca d’Italia, passata in pochi anni da guardiana della moneta e del mercato bancario a un simulacro della vigilanza, incapace di prevenire crac e dissesti, arrivando sempre dopo la magistratura e accampando come ridicola giustificazione il meschino ritornello: «Noi non siamo poliziotti!».
Quando è iniziato il declino? Quale la data nera da cercare sul calendario della storia economica e finanziaria del nostro paese?
Le avvisaglie c’erano da tempo, ma chi scrive ritiene che il momento di svolta e di rottura definitiva con la gloriosa storia di questa istituzione sia da cercare nel dicembre del 2003, quando i «severi controllori» non si accorgono del crac Parmalat, il più grave scandalo industriale di Calisto Tanzi che aveva bruciato 14 miliardi di euro, con la Centrale rischi di Bankitalia che avallava Riba (ricevute bancarie) fasulle per 3 miliardi di euro. Da allora è stato un crescendo rossiniano di «disattenzioni».
Nel 2004 via Nazionale assiste impassibile e distratta alle scalate estive dei «furbetti del quartierino» che portarono il 19 dicembre 2005 alle dimissioni del governatore Antonio Fazio travolto da «Bancopoli». Nel febbraio del 2013 la polvere diventa melma maleodorante quando l’ex presidente di Abi (Associazione bancaria italiana) e Monte dei Paschi di Siena, Giuseppe Mussari, è costretto a dimettersi, seppellito sotto le macerie di un crac di 4,1 miliardi di euro. Tre gravissimi scandali che hanno segnato la storia di un milione di famiglie truffate. E tre governatori (Fazio, Draghi, Visco) sulla tolda di comando di quella che da celebre e onorata Amerigo Vespucci del sistema finanziario è diventata una spericolata nave pirata. Con le sue regole, i suoi segreti, le sue connivenze sfociate in omertà.
«Non esiste delitto, inganno, trucco, imbroglio e vizio che non vivano della loro segretezza. Portate alla luce del giorno questi segreti, descriveteli, rendeteli ridicoli agli occhi di tutti e prima o poi la pubblica opinione li getterà via. La sola divulgazione di per sé non è forse sufficiente, ma è l’unico mezzo senza il quale falliscono tutti gli altri» affermava Joseph Pulitzer, il celebre giornalista statunitense di origini ungheresi ideatore dell’omonimo premio. Molti atti «carbonari» hanno gettato nel ridicolo credibilità e prestigio della Banca d’Italia, che invece di servire sempre l’interesse generale del paese e il bene comune, è stata troppe volte asservita agli esclusivi interessi delle banche socie, di cricche e combriccole amicali, andando a braccetto con i banchieri e con l’Abi, promuovendo la politica creditizia a misura dei più forti con i commissariamenti e rendendosi così complice di usi, abusi, vessazioni e ordinari soprusi. Come la legge antiusura, l’anatocismo bancario, la commissione di massimo scoperto, il vasto e diffuso fenomeno del risparmio tradito, consumati sulla pelle di utenti e risparmiatori.

Elio Lannutti, LA BANDA D’ITALIA, Ed. Chiarelettere, Milano 2015, pagg. 164. € 13,00

“Inno alla vita”.
Intervista a Vito Mancuso.

1014343_371075966327323_1514365032_nquesta_vita_bigVito Mancuso, è un filosofo-teologo, per certi versi, “atipico” rispetto alla teologia ufficiale. Resta un punto interessante della sua riflessione teologica: lui vuol rendere ragione della speranza cristiana. E lo fa con la mediazione della cultura contemporanea. Come in questo suo ultimo libro, “Questa vita” (ed. Garzanti), dove ci vuole offrire una “spiritualità dell’armonia” dell’armonia della vita, che metta in discussione alcuni paradigmi contemporanei (ovvero la visione meramente strumentale della natura). 

Qual è la logica profonda della vita?

La logica profonda della vita, da come la interpreto io e come tento di riesprimerla nei libri, è quella della relazione armoniosa e generatrice di vita e che appare in modo paradigmatico nel rapporto madre-figlio. Sono consapevole che la vita oltre che armonia contiene disarmonia, oltre che generazione contiene degenerazione, oltre che vita contiene morte. Insomma il negativo mi è ben presente, però vedo che questo momento che chiamiamo negativo è in funzione di un momento più ampio, più profondo che è la generazione della vita. Se gli animali tolgono la vita ad altri animali lo fanno per nutrire se stessi e per la riproduzione della specie. È questo il vero obiettivo dell’esistenza, la vita che genera vita, l’armonia. Una armonia che si farà sempre più complessa.

Lei si schiera contro due opposte visioni: da un lato quello che vede la vita come l’espressione necessaria di un “progetto” che scende dall’alto, e dall’altro quella che la vede come una lotta selvaggia di tutti contro tutti. Propone una nuova “visione” espressa in questo “paradigma”: “Logos+caos=pathos”. Una cosa un poco complessa. Cosa significa e come , viene declinato?

Io parto dal presupposto he ho imparato da Hegel che tutte le filosofie, tutte le visioni del mondo in qualche modo sono vere e tutte sono false, perché nessuna è completa in se stessa. Io penso che ci sia effettivamente un progetto, una direzione dell’essere e in questo vedo la verità di quella parte di umanità che ragiona alla luce di un progetto intelligente, al contempo vedo la verità di chi nega tutto ciò e di chi pensa che esista una contingenza arbitraria, selvaggia, senza progetto. Sono due visioni che si contrappongono ma che sanno cogliere parte della totalità. Cosa dice questa totalità? Con quella formula logos+caos=pathos cerco di tenere insieme queste visioni. Il logos rinvia alla ragione, alla logica, una direzione o un senso nelle cose lo dimostra il fatto della mente che si interroga, mente che è scaturita dal caos primordiale. Allora o noi pensiamo ad una serie di coincidenze, combinazioni assolutamente fortuite o obiettivamente rintracciamo una direzione. Al contempo c’è il caos, il logos non domina tutto il reale, si impasta con il reale, se dominasse tutto il reale non ci sarebbe la libertà e non ci sarebbe la vita. Questi due elementi insieme danno il pathos, cioè passione, nel senso di ciò che appassiona, ma anche ciò che fa soffrire, la vita è anche sofferenza.

Da questo paradigma lei fa “discendere”  lo stare al mondo con “ottimismo   drammatico”.  Una polarità, per dirla con Romano Guardini, dinamica…è così?

È una formula che amo molto, ripresa da un grande teologo russo Pavel Florenskij, lui in realtà parlava di ottimismo tragico, io preferisco drammatico, perché dramma in greco significa “azione”, quindi rimanda ad un ottimismo processuale, qualcosa che si fa. Questa è una formula che traduce quello che dicevo.

Lei parla dell’essere come “energia”, e quindi non come “sostanza”. Eppure, direbbero i padri della metafisica senza “sostanza” non siamo. Può spiegarci, allora, la “dinamica” dell’essere-energia?

Qui ci muoviamo su livelli di cose molto complesso, posso dire quel poco che io riesco a capire è che tutto si muove, e in questo movimento tutto è a lavoro, energia dal greco significa “al lavoro, all’opera, in atto”. Questa è la comprensione più matura di quel fenomeno a cui gli antichi si sono sempre rivolti con il nome di “essere”, penando l’essere come già compiuto, il mondo come eterno, come perfetto, Aristotele da questo punto di vista è il padre di questa prospettiva. La prima categoria mediante la quale si pensa l’essere è la sostanza. Questo discende dal fatto che il mondo è un “entelechia”, una perfezione, è eterno, è compiuto, tutto è già compiuto. Oggi questa visione, che è stata alla base del pensiero cristiano, tenuto conto che Aristotele è stato il filosofo su cui Tommaso D’Aquino ha basato la sua teologia, oggi questa filosofia risulta falsa, c’è un’evoluzione della vita, un’evoluzione del cosmo, perché l’essere è al lavoro, occorre pensarlo come movimento, come energia. Naturalmente l’essere non è solo energia, ma è anche informazione, perché l’energia diventa lavoro ordinato quando viene informata, quando c’è un’intelligenza, che splama, che mette ordine all’energia.

Ed ecco che si compie la svolta del suo paradigma: la vita oltre che “curata”, conosciuta, va “nutrita” . Ci sono pagine, nel libro,  intense sul “nutrimento”. Nutrimento che tocca più livelli… Dall’emozione al cibo…Di cosa manca l’uomo contemporaneo?

A livello del discorso in cui siamo secondo me quello che manca è una comprensione integrale del fenomeno che chiamiamo vita. La vita non è solo vita fisica, ma la vita si dice in molti modi. I greci antichi avevano tre termini bios, fenomeno biologico, zoe, vita animale, vitale, psiche, vita psichica. Dobbiamo pensare la vita come formata da corpo, psiche e spirito, quindi nutrire la vita significa nutrire tutti e tre. Mentre oggi si ha ben chiaro il nutrimento del corpo e abbastanza chiaro il nutrimento della psiche, non si ha abbastanza chiaro quando si deve pensare al nutrimento dello spirito. Questo secondo me è il grande limite della contemporaneità.

Venendo al cibo, siamo nel tempo dell’Expo, lei è un sostenitore della dieta vegetariana. Perché?

Io semplicemente nel libro testimonio – non è nient’altro che testimonianza – il fatto che da qualche anno a questa parte non mangio più carne per celebrare la vita in un certo senso, per rendermi più attento alla comunione di tutti gli esseri viventi, noi siamo “created from animals”, creati a partire dagli animali, senza gli animali non saremmo qui né dal punto di vista evolutivo né come fotografia dell’esistenza. La nostra vita è intimamente connessa a quella degli altri esseri viventi. Ecco prendere consapevolezza di questo è  prendere consapevolezza del dolore che l’esserci come esistenza vitale provoca ad altri animali, prendere consapevolezza di questo significa chiedersi che cosa si può fare per diminuire questo dolore. Non ci sarà mai la possibilità finché ci sarà la vita in questo mondo, di vivere un mondo senza dolore, io sono consapevole che anche la dieta vegetariana non è tale da impedire completamente di procurare dolore ad altri esseri viventi. Quando uno mangia un pezzo di pane sembra che non faccia niente di male a nessuno, ma l’aratro quando entra nel campo per seminare è probabile che abbia ucciso diversi microrganismi. Quindi non c’è la possibilità di una zona incontaminata, però c’è la possibilità di diminuirla ed è questo il senso della dieta vegetariana.

Lei, nel suo libro, fa una feroce critica, come abbiamo già detto, alla visione contemporanea della natura, e propone una  spiritualità dell’armonia. Quali sono i capisaldi?

I capisaldi della spiritualità e dell’armonia sono anzitutto un desiderio chiamiamolo formale. Cosa vuol dire? Vuol dire che noi possiamo scegliere, guardando il mondo, il punto di vista. Il mondo contiene fenomeni negativi e fenomeni positivi. Qual è il punto di vista per cogliere ciò che c’è di più importante nel mondo? Il punto di vista della spiritualità come armonia è quello che privilegia il bello, la giustizia, la verità (essere veritieri), è quello che privilegia il lato positivo della vita, è sostanzialmente l’ottimismo, che non ignora tutte le dimensioni di negativo, ma che vuole fare leva sul famoso bicchiere mezzo pieno per costruire la propria visione di mondo.

In-fine, Professore, cos’è la vita?

Dipende qual è il punto di vista da cui ci mettiamo, se ragioniamo da fisici, da scienziati, da amanti. Tutte le risposte sono plausibili al riguardo. Mi viene in mente il volto sorridente di Albert Schweitzer con i suoi baffoni, lui che era un grandissimo musicista, poi filosofo e teologo che lasciò tutto, si iscrisse a medicina e poi lasciò l’Europa e andò nel centro dell’Africa e passò la vita a curare malattie incurabili. Proprio per questo ricevette il Premio Nobel per la pace. Lui diceva rispetto per la vita, questo è il fondamento per l’etica, per una libertà che responsabilmente decide come vivere. Un fenomeno incredibile, meraviglioso, di ciò che la scienza dice di noi. Pensiamo come sia complessa la vita, come sia preziosa. Forse il nostro pianeta è l’unico su cui la vita si è prodotta, forse. È un fenomeno estremamente prezioso, di rispettarlo con tutti i mezzi, avendo questo rispetto, questa reverenza.

 

“La vita è bella”. Il testamento di Leon Trotsky. Una pubblicazione di Chiarelettere.



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Chiarelettere, dopo il successo della collana Instant Book del 2011, lancia una nuova collana di libri di riferimento e di suggestione, libri piccoli, agili, dal con

tenuto intramontabile. Libri che cercano di “illuminare” il presente 

andando in profondità , oltre cioè il “presentismo”.

Una vera Biblioteca, ma da usare, subito, facilmente. La collana viene inaugurata con una sorpresa editoriale: La vita è bella di Leon Trotsky (prefazione di David Bidussa, pagine 100, euro 7,90), il cui titolo, tratto dal testamento dello scrittore russo, è stato usato da Benigni per il suo famoso film. Una scoperta che ci rivela la vitalità e la speranza di un uomo, pur con i suoi gravi limiti, braccato dai suoi stessi compagni.

Qui è l’uomo che parla, con le sue passioni, non il 

politico di mestiere. Un eccezionale inno alla vita.

Prossimamente verranno riproposti due volumetti di grande successo: Odio gli indifferenti di Antonio Gramsci (pagine 128, euro 7,00), e La scuola della disobbedienza di don Lorenzo Milani (pagine 112, euro 7,90). A seguire altre novità del pensiero critico di autori intramontabili come Simone Weil, André Breton, Étienne de La Boétie, Robert Musil, Lev Tolstoj, Paul Valery, Fernando Pessoa e tanti altri.

Leon Trostky: è stato tra i principali, insieme a Lenin, protagonisti della Rivoluzione d’Ottobre. Dopo la morte di Lenin entrò in contrasto con Stalin. Venne espulso dal partito e incominciò per lui il lungo periodo dell’esilio. Si stabilì, dopo molte peregrinazioni, in Messico. Muore assassinato da un sicario sovietico di origine spagnola.

Per gentile Concessione dell’editore pubblichiamo la presentazione di David Bidussa e il testo del Testamento di Leon Trosky.

CONTRO IL PRESENTE di David Bidussa

Chi avrebbe scommesso su Gramsci nel 2010? Praticamente nessuno. La vicenda Gramsci era una storia archiviata. Al massimo una vicenda biografica sfortunata collocata all’interno di una parabola politica ormai conclusa. Insomma un capitolo chiuso del passato che stava bene là.

Poi la politica, improvvisamente, ha rimesso al centro alcune sue parole.

Quella riscoperta, tuttavia, non è stata la premessa a una rivalutazione complessiva di Gramsci.

Gramsci entrava nel pantheon del XXI secolo per alcune parole e in quel pantheon sta proprio per che ci sono parole indispensabili senza le quali la nostra condizione è quella della sudditanza e forse dell’insignificanza.

Gramsci rimaneva una figura politica consegnata al suo tempo. Le sue parole entravano prepotentemente nel nostro, per certi aspetti si presentavano come le più adeguate, più “update” per parlare e dare voce ai tanti ventenni per le vie di una qualsiasi “occupy wall street” nell’estate 2011. Odio gli indifferenti era uno slogan che andava forte. Ma non era la premessa a una nuova stagione di Gramsci.

Da tempo il rapporto con le figure significative del passato non è assumerle in toto, ma cercare suggestioni per riflettere oggi. Nel passato non si va a cercare padri, numi tutelari, si vanno a cercare pensieri che parlino all’inquietudine e alle insoddisfazioni del nostro tempo, voci capaci di darci quelle parole che talvolta stentiamo a trovare.

Ha senso pubblicare Trotsky nel 2015? Forse, ma a patto che si faccia un ragionamento chiaro su ciò che ci aspettiamo. Ovvero che si dica senza bluff che cosa vogliamo da una voce del passato, che cosa andiamo a cercarvi e perché scegliamo quella.

Si potrebbe liquidare Trotsky come una figura che è sconfitta due volte: la prima perché la sua famiglia politica (il comunismo) ha perso; la seconda perché anche dentro alla sua famiglia politica è risultato perdente. La sua alla fine sembra la morte inutile di un combattente che fino all’ultimo crede che le sorti del mondo si possano cambiare, che il suo avversario irriducibile, un tempo suo compagno di partito, possa essere rovesciato.

Come sappiamo non è andata così, e l’intera parabola non era che eliminando Stalin, l’allegra macchina del comunismo si sarebbe automaticamente rimessa in moto. Il processo era più complicato. Come del resto Trotsky stesso intuisce quali alla fine della propria vita, l’essenza del comunismo sovietico, se tolta la proprietà privata, si riduceva a essere l’equivalente del fascismo. È un’affermazione di cui Trotsky stesso si spaventa quando la scrive, tant’è che non la ripeterà più.

Tuttavia non è quello ciò che a me sembra si debba oggi portare a casa di quella esperienza politica.

A me sembra che sia importante riprendere un punto di quella riflessione. È nel primo scritto organico che ci sia pervenuto di Trotsky. È del 1900, Trotsky ha 21 anni (è quello che apre questa raccolta e che esprime il nucleo generativo di tutta la raccolta, anche se il titolo è ripreso da testo diverso).

Trotsky non ha un’esperienza politica, è un rivoluzionario colto, che ha un’alta considerazione di sé (uno che quando gli altri non lo capiscono piange e si placa quando lo consolano. Si può essere più presuntuosi di così?) Eppure c’è una forza invidiabile nelle sue parole immaginate come un dialogo tra lui e il XX secolo.

«Morte all’utopia! Morte alla fede! Morte all’amore! Morte alla speranza!» tuona il XX secolo con le sue salve di fuoco e il rombo dei suoi cannoni. «Arrenditi, patetico sognatore. Sono io, il tuo XX secolo tanto atteso, il tuo futuro

«No – replica l’indomabile ottimista – tu sei solo il presente».

Tutta la forza del rivoluzionario, che non molla è in queste parole.

Ma rivoluzionario che non molla non vuol dire un invasato che si identifica con la rivoluzione o, meglio con l’idea della rivoluzione, per poi una volta deluso della rivoluzione avvenuta votarsi all’idea perché tanto peggio per i fatti. Non mollare vuol dire sapere che dopo la rivoluzione può affermarsi se gli uomini e le donne migliorano la qualità della propria vita, che rivoluzione vincente non vuol dire solo presa del potere, ma qualità migliore della vita, vuol dire cultura, innalzamento dell’istruzione, riuscire a dimettersi dalle proprie sudditanze culturali, ideologiche. Sono le sue parole agli operai dopo la rivoluzione perché non si accontentino del potere o della redistribuzione delle ricchezze, perché la vita è anche molto altro e solo se questo altro si afferma, allora si può dire che è iniziata una stagione di felicità.

Questa sta anche nella sconfitta o nella difficoltà perché la sfida è nella capacità di replica, nella volontà di trovare una risorsa che consenta di ricominciare. Perseverando; non mollando, mai, con tenacia, ma anche con ironia.

La vita è bella (Testamento di Leon Trotsky)

La mia pressione alta (e in continuo aumento) inganna chi mi sta vicino sullo stato reale della mia salute.

Sono attivo e abile al lavoro, ma la fine, evidentemente, è vicina. Queste righe saranno rese pubbliche dopo la mia morte.

Non ho bisogno di confutare ancora una volta le stupide e vili calunnie di Stalin e dei suoi agenti: non v’è una macchia sul mio onore rivoluzionario.

Non sono mai sceso ad accordi, né direttamente né indirettamente, o anche solo a trattative dietro le quinte coi nemici della classe operaia.

Migliaia di oppositori di Stalin sono caduti vittime di accuse analoghe, e non meno false.

Le nuove generazioni rivoluzionarie ne riabiliteranno l’onore politico e tratteranno i giustizieri del Cremlino come si meritano.

Ringrazio con tutto il cuore gli amici che mi sono rimasti fedeli nei momenti più difficili della mia vita.

Non ne nomino nessuno in particolare, perché non posso nominarli tutti. Mi ritengo tuttavia nel giusto facendo un’eccezione per la mia compagna, Natalia Ivanovna Sedova. Oltre alla felicità d’essere un combattente per la causa socialista, il destino mi ha dato la felicità d’essere suo marito. Durante i circa quarant’anni di vita comune, lei è rimasta per me una sorgente inesauribile di amore, di generosità e di tenerezza. Ha molto sofferto, soprattutto nell’ultimo periodo della nostra esistenza. Mi conforta tuttavia, almeno in parte, il fatto che abbia conosciuto anche giorni felici.

Per quarantatré anni della mia vita cosciente sono rimasto un rivoluzionario; per quarantadue ho lottato sotto la bandiera del marxismo. Se dovessi ricominciare tutto dapprincipio, cercherei naturalmente di evitare questo o quell’errore, ma il corso della mia vita resterebbe sostanzialmente immutato. Morirò da rivoluzionario proletario, da marxista, da materialista dialettico e quindi da ateo inconciliabile. La mia fede nell’avvenire comunista del genere umano non è meno ardente che nei giorni della mia giovinezza, anzi è ancora più salda.

Natascia si è appena avvicinata alla finestra che dà sul cortile e l’ha aperta in modo che l’aria entri più liberamente nella mia stanza. Posso vedere la lucida striscia verde dell’erba ai piedi del muro, e il limpido cielo azzurro al di sopra del muro, e sole dappertutto.

La vita è bella. Possano le generazioni future liberarla da ogni male, oppressione e violenza, e goderla in tutto il suo splendore.

Slurp. Il libro di Marco Travaglio sui lecchini, cortigiani e penne alla bava al servizio dei potenti che ci hanno rovinati

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Una stampa cinica e mercenaria,

prima o poi, creerà un pubblico ignobile.

Joseph Pulitzer

“OGNI SERVO HA IL PADRONE CHE SI MERITA E VICEVERSA. I LECCACULO NON CAMBIANO IDEA: CAMBIANO SOLTANTO CULO. PER QUESTO VEDIAMO TANTE LINGUE TRASFERIRSI DA UN CULO ALL’ALTRO IN MANIERA COSÌ IMBARAZZANTE.” MARCO TRAVAGLIO

“DA QUALCHE GIORNO I GIORNALISTI RAI CHE VENGONO A INTERVISTARMI, PRIMA DI COMINCIARE, COPRONO IL MICROFONO E MI SUSSURRANO ALL’ORECCHIO: ‘OH, MATTEO, IO SONO SEMPRE STATO DALLA TUA PARTE, EH?! ’. IL BELLO È CHE IO NON LI AVEVO MAI VISTI PRIMA.” MATTEO RENZI

 

“A FURIA DI LECCARE, QUALCOSA SULLA LINGUA RIMANE SEMPRE.” ENNIO FLAIANO

 

IL LIBRO

Ecco perché l’Italia non è una democrazia compiuta: questo libro, appena uscito in libreria, ne è la prova. Marco Travaglio racconta come i SIGNORINI GRANDI LINGUE, giornalisti e opinionisti di chiara fama (e fame) hanno beatificato la peggior classe dirigente d’Europa. Basta dar loro la parola. Cronache da Istituto Luce, commenti da Minculpop, ritratti da vite dei santi… Un esercito di adulatori in servizio permanente effettivo.

Ecco un’antologia, a tratti irresistibilmente comica, di tutto quello che ha cloroformizzato l’opinione pubblica per assicurare consensi e voti a un sistema di potere politico-economico incapace, mediocre e molto spesso corrotto. A Silvio Berlusconi per cominciare, ma anche ai tanti capi e capetti del cosiddetto centrosinistra che hanno riempito i brevi intervalli tra un governo del Cavaliere e l’altro. Fino all’esplosione di saliva modello “larghe intese” per GIORGIO NAPOLITANO, MARIO MONTI e MATTEO RENZI .

Altro che giornalisti cani da guardia del potere. IL VIRUS DEL LECCACULISMO è inarrestabile e con la Seconda Repubblica si è trasformato in una vera epidemia. Dalla tv alle radio ai giornali: un esercito di adulatori in ogni campo, dal calcio allo spettacolo. QUESTO LIBRO PROPONE UN CATALOGO RAGIONATO DELLA ZERBINOCRAZIA ITALIOTA. Un dizionario dei migliori adulatori e cortigiani dei politici e degli imprenditori italioti che, a leggere i giornali e a vedere le tv, avrebbero dovuto regalarci benessere, prosperità e felicità. E invece ci hanno rovinati. Con la complicità della cosiddetta informazione.

L’AUTORE

Marco Travaglio è direttore de “il Fatto Quotidiano” e collaboratore fisso del programma “Servizio pubblico” di Michele Santoro. I suoi molti libri, tutti bestseller, compongono insieme una controstoria dell’Italia della Seconda Repubblica, da L’ODORE DEI SOLDI (con Elio Veltri, 2001), MANI PULITE (con Peter Gomez e Gianni Barbacetto, 2002 e 2012), REGIME (con Peter Gomez, 2004), ai più recenti AD PERSONAM (2010) e VIVA IL RE! (2013). Dopo i successi teatrali di PROMEMORIA , ANESTESIA TOTALE (con Isabella Ferrari), È STATO LA MAFIA (con Isabella Ferrari e con Valentina Lodovini), è in scena con il nuovo spettacolo SLURP (con Giorgia Salari, sempre per la produzione Promo Music).

Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo l’introduzione dell’autore

Dante Alighieri li tratta peggio degli assassini e dei tiranni: li sbatte nell’ottavo cerchio dell’Inferno. Li chiama «ruffiani, ingannatori e lusinghieri». E li fa frustare sulla schiena e sulle chiappe da cornutissimi diavolacci. Ma, siccome quel contrappasso ancora non gli basta, li immerge pure fino alla punta dei capelli in un lago di sterco che pare lo scarico di tutte le fogne del mondo. Avete leccato culi per tutta la vita? Allora sguazzate nel loro prodotto tipico per l’eternità. Uno gli pare di conoscerlo: è Alessio Interminelli, nobiluomo di Lucca e noto lustrascarpe.

Quivi venimmo; e quindi giù nel fosso / vidi gente attuffata in uno sterco / che da li uman privadi [latrine, nda] parea mosso. / E mentre ch’io là giù con l’occhio cerco, / vidi un col capo sì di merda lordo, / che non parea s’era laico o cherco. / Quei mi sgridò: «Perché se’ tu sì gordo / di riguardar più me che li altri brutti?». / E io a lui: «Perché, se ben ricordo, / già t’ho veduto coi capelli asciutti, /e se’ Alessio Interminei da Lucca: / però t’adocchio più che li altri tutti». / Ed elli allor, battendosi la zucca: / «Qua giù m’hanno sommerso le lusinghe / ond’io non ebbi mai la lingua stucca».

Cioè stanca. Per Dante, che la lingua l’ha sempre usata per criticare il potere, non per leccarlo, e ne ha pagato le conseguenze, la ruffianeria è uno dei peccati più spregevoli. Ma non solo per lui. Sull’arte adulatoria c’è ampia, sterminata letteratura.

Moltissimi grandi scrittori – da Aristofane a Plauto, da Tolstoj a Proust, da Flaubert a Dostoevskij, da Mann a Kafka, da Dickens a Cervantes, da Goldoni a Verne, da Balzac a Beckett – vi si sono dedicati. Chi per descriverla, chi per sbeffeggiarla, chi per praticarla o addirittura teorizzarla.

Svetonio racconta che Nerone fece incetta di allori ai Giochi di Olimpia del 67 d.C. Per vincere tutto si era portato appresso una corte di cinquemila persone. Alla corsa delle quadrighe, un brusco movimento dei cavalli lo sbalzò giù dal cocchio imperiale. Ma gli avversari, anziché approfittarne per allungare il passo, si fermarono di colpo e attesero pazienti che risalisse dalla polvere a bordo e riprendesse la gara fino al trionfo finale. Del resto i leccapiedi erano di casa nelle corti di tutti gli imperatori romani: tant’è che il vizietto di Tiberio di immergersi nella piscina della sua villa a Capri circondato da ragazzini («pisciculi», pesciolini), che dovevano infilarglisi fra le gambe e vellicare le sue voglie con giochetti di lingua e piccoli morsi, diventò una metafora delle bassezze cui si piegavano i cortigiani. […]

Questo libro propone tutto il meglio del peggio dei loro emuli italici: giornalisti, intellettuali, politici, imprenditori, manager, scrittori e artisti o presunti tali), anch’essi pronti a scorticarsi le ginocchia, ma per stabilire primati molto meno nobili e disinteressati. Un catalogo ragionato della Zerbinocrazia italiota. Una storia in pillole del secondo mestiere più antico del mondo, il giornalismo, peraltro in spietata concorrenza con il primo. Un dizionario dei Signorini Grandi Lingue al servizio di tutti i padroni: non soltanto della politica, ma anche dell’economia, della finanza, della burocrazia, della Chiesa e di tutti gli altri poteri. Cioè della peggior classe dirigente di tutti i tempi che, a leggere i giornali di questi vent’anni, avrebbe dovuto regalarci benessere, prosperità e felicità. E invece ci ha regolarmente, scientificamente rovinati.

Ma ha potuto ingrassare, sopravvivere e autoperpetuarsi fino a oggi, scampando gattopardescamente a ogni cataclisma, anche con la connivenza e/o complicità di milioni di persone cloroformizzate da un’informazione che avrebbe dovuto illuminarle e svegliarle, invece le ha accecate e addormentate. Poi, con comodo, al risveglio, hanno scoperto che molti di quei geniali imprenditori, manager, banchieri e finanzieri di cui la stampa e la tv cantavano le lodi avevano violato leggi, pagato mazzette, rubato a man bassa, avvelenato l’ambiente, devastato le aziende, incenerito valore economico, distrutto posti di lavoro e talvolta anche vite umane. E che quasi tutti i governi magnificati dalla cosiddetta informazione non avevano azzeccato una mossa, una scelta, una riforma, lasciando l’Italia in condizioni molto peggiori di come l’avevano trovata.

Chi leggerà il libro scoprirà che – a parte poche eccezioni di lingue unidirezionali, che leccano ossessivamente lo stesso destinatario – i leccatori sono più o meno sempre gli stessi per tutte le stagioni. Dal 1992 a oggi sono riusciti a incensare la Lega di Bossi e poi Di Pietro e Mani pulite perché ci salvavano dai ladroni della Prima Repubblica (che, peraltro, avevano leccato fino al 1992), poi Berlusconi perché ci salvava dai ladroni della Prima Repubblica e anche da Mani pulite, poi Dini perché ci salvava da Berlusconi, poi Prodi perché ci salvava da Dini e da Berlusconi, poi D’Alema perché ci salvava da Prodi, poi Amato perché ci salvava da D’Alema, poi Berlusconi perché ci salvava da Prodi, poi Prodi-2 perché ci salvava da Berlusconi-2, poi Berlusconi-3 perché ci salvava da Prodi-2, poi Monti perché ci salvava da Berlusconi-3, poi Letta perché ci salvava da Monti, infine Renzi perché ci sta salvando da Letta (come no). Con l’aggravante delle larghe intese imposte da Napolitano (sempre sia lodato): tutti i grandi partiti al governo e tutte le migliori lingue dietro.

Gli sciuscià sono fatti così. Se ne stanno carponi giorno e notte a lustrare scarpe e, lustratòne un paio, passano subito a quello successivo, senza neppure alzare gli occhi per accorgersi che è cambiato il cliente. Chi ci ha ingannati tradendo il dovere di informarci ha le stesse colpe di chi ci ha sgovernati promettendo di salvarci. E se né gli uni né gli altri hanno mai pagato un centesimo per le proprie responsabilità, è perché leccatori e leccati sono indissolubilmente legati. Simul stabunt, simul cadent. Diceva Flaiano: «A furia di leccare, qualcosa sulla lingua rimane sempre».

Ps1. Può darsi che anch’io, in 32 anni di carriera, sia incorso in qualche leccalecca. Se è capitato, non me ne sono accorto, ma me ne scuso.

Ps2. Può darsi che vi sia incorso qualche giornalista del «Fatto». Se è capitato, non me ne sono accorto, altrimenti il collega sarebbe finito nell’apposita rubrica «Leccalecca» e, subito dopo, licenziato (in questi casi, e solo in questi, non c’è articolo 18 che tenga).

Ps3. Scandagliando gli archivi (non solo il mio) per questo libro, mi sono imbattuto in memorabili esemplari di leccatori d’annata: quanto basta per raccontare la storia delle lingue italiane dagli anni del fascismo a quelli della Prima Repubblica, molto più indietro dei confini temporali che mi sono imposto per Slurp (la Seconda Repubblica). Se questo libro vi piacerà, prima o poi diventerà il sequel di un prequel che ho già in mente. Come nella saga di Guerre – anzi di Lingue – stellari.

Marco Travaglio, SLURP. Dizionario delle lingue italiane lecchini, cortigiani e penne alla bava al servizio dei potenti che ci hanno rovinati . ED. Chiarelettere, Milano 2015, pagg. 592. € 18,00

ABOLIRE IL CARCERE?

 

Abolire il carcere_ManconiUna ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini in un libro di “chiarelettere”

Non ci appare stupefacente che in tanti secoli l’umanità che ha fatto tanti progressi in tanti campi delle relazioni sociali non sia riuscita a immaginare nulla di diverso da gabbie, sbarre, celle dietro le quali rinchiudere i propri simili come animali feroci?” Dalla postfazione di Gustavo Zagrebelsky

 IL LIBRO  

Non è una provocazione. Certo in tempi come questi sicuramente può sembrarlo. Eppure nel 1978 il parlamento italiano votò la legge per l’abolizione dei manicomi dopo anni di denunce della loro disumanità. Ora dobbiamo abolire le carceri, che, come dimostra questo libro, appena uscito in libreria, servono solo a riprodurre crimini e criminali e tradiscono i principi fondamentali della nostra Costituzione. Tutti i paesi europei più avanzati stanno drasticamente riducendo l’area del carcere (solo il 24 per cento dei condannati va in carcere in Francia e in Inghilterra, in Italia l’82 per cento). Nel nostro paese chi ruba in un supermercato si trova detenuto accanto a chi ha commesso crimini efferati. Il carcere è per tutti, in teoria. Ma non serve a nessuno, in pratica. I numeri parlano chiaro: la percentuale di recidiva è altissima. E dunque? La verità è che la stragrande maggioranza dei cittadini italiani non ha idea di che cosa sia una prigione. Per questo la invoca, ma per gli altri. La detenzione in strutture in genere fatiscenti e sovraffollate deve essere quindi abolita e sostituita da misure alternative più adeguate, efficaci ed economiche, capaci di soddisfare tanto la domanda di giustizia dei cittadini nei confronti degli autori di reati più gravi (solo una piccola quota dei detenuti) quanto il diritto del condannato al pieno reinserimento sociale al termine della pena, oggi sistematicamente disatteso. Il libro indica Dieci proposte, già oggi attuabili, per provare a diventare un paese civile e lasciarci alle spalle decenni di illegalità, violenze e morti.

 GLI AUTORI

Luigi Manconi insegna Sociologia dei fenomeni politici presso l’università Iulm di Milano. È parlamentare e presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato. Nel 2001 ha fondato A Buon Diritto. Associazione per le libertà.

Stefano Anastasia è ricercatore di Filosofia e sociologia del diritto presso il dipartimento di Giurisprudenza dell’università di Perugia, dove coordina la Clinica legale penitenziaria. È stato presidente dell’associazione Antigone.

Valentina Calderone è direttrice di A Buon Diritto. Associazione per le libertà e autrice di saggi sul tema della detenzione.

Federica Resta è avvocato, dottore di ricerca in Diritto penale e funzionario del Garante per la protezione dei dati personali.

Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo un estratto della Postfazione di Gustavo Zagrebelsky _ Carcere e Costituzione

Questo bel libro di Manconi, Anastasia, Calderone e Resta costituisce una importante occasione per affrontare un tema generalmente ignorato. Partiamo da un primo assunto. Nel suo nudo concetto, il carcere e amputazione dalla vita sociale tramite restrizione della libertà e soggezione a una disciplina speciale in appositi luoghi a ciò predisposti. Poiché da una tale segregazione nascono sofferenze, si dice che il carcere e una pena e che la pena e una sanzione giustificata dalla violazione della legge. Questo e il nudo concetto che corrisponde a una concretissima realtà che percepiamo con turbamento ogni volta che mettiamo piede in uno stabilimento penitenziario o anche, soltanto, passiamo a fianco di muraglioni, grate e bocche di lupo (dove ancora esistono) e pensiamo al mondo che esiste al di la, segregato da quello in cui ci muoviamo. Ma il carcere come tale – prima ancora del regime carcerario, cioè delle condizioni della detenzione più o meno avvilenti – non chiama in causa solo sentimenti e risentimenti, ma solleva anche fondamentali interrogativi di natura costituzionale. Non è facile parlare del carcere, del carcere come tale, senza avvertire tutta la contraddizione ch’esso introduce nel più venerato tra i principi dell’attuale nostro vivere civile. Si dirà: pero, i detenuti se lo sono meritato. Cosi dice il senso comune: prima di dedicarci a pensare ai delinquenti e alla loro condizione, c’e ben altro di cui dobbiamo preoccuparci. Ci sono i problemi della gente per bene, quali noi amiamo considerarci. E difficile far comprendere a chi ragiona cosi che la questione carceraria riguarda si i detenuti, ma solo in seconda istanza, come conseguenza della rappresentazione che la società dei liberi e rispettati cittadini da di se stessa,quali noi ci compiacciamo di essere. Insomma: se le carceri sono un problema, lo sono innanzitutto per noi, che ci interroghiamo sui caratteri della società in cui vogliamo vivere e sui principi ai quali diciamo di essere affezionati. Che vi sia un rapporto di derivazione diretta tra struttura sociale e sistema delle pene e una verità che, dal celebre studio di Michel Foucault,1 non può essere messa in dubbio. Parlando del carcere non parliamo solo dei carcerati: parliamo in primo luogo di noi stessi. Non ce ne si rende conto facilmente. Di solito si ragiona come se ci fossimo noi e loro, distanti gli uni dagli altri. E facile cedere all’illusione e al preconcetto.

Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone, Federica Resta ABOLIRE IL CARCERE. Una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini (Prefazione di Gustavo Zagrebelsky), Ed. Chiarelettere, Milano 2015, pagg. 128. € 12,00