Missione compiuta. Marchionne “l’infallibile” è riuscito nell’impresa disperata di salvare la Fiat. A quale prezzo? La più grande industria italiana è destinata a diventare parte di una multinazionale che sarà quotata a New York, che avrà sede ad Amsterdam e che pagherà le tasse a Londra. Una fuga dall’Italia dopo anni in cui lo Stato, cioè i contribuenti, ha foraggiato l’azienda per miliardi di euro via rottamazioni, sussidi indiscriminati, fondi pubblici alla ricerca e allo sviluppo, cassa integrazione…
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A Lezione di Leadership da Steve Jobs
A tre anni dalla sua scomparsa Steve Job, il geniale e bizzarro cofondatore della Apple, continua ad essere studiato, e adulato, nelle Business school statunitensi, e non solo, come una “sacra” icona cui riferirsi per avere successo nel business e nell’innovazione tecnologica. Un “mito” indiscusso per il “sogno” americano. Nella realtà, invece, la figura di Job si carica di non poche ombre. Tanto che l’autorevole “New York Time”, qualche giorno fa, si è domandato polemicamente “se Steve Jobs fosse ancora vivo, oggi dovrebbe stare in carcere?”. La domanda si riferiva al ruolo di Jobs nella “costruzione” di cartelli contro la concorrenza nella “Silicon Valley” californiana (in particolare quello relativo alle assunzioni degli ingegneri, in modo da evitare che le aziende potessero assumere tecnici provenienti dai concorrenti ed evitare, così, aumenti di stipendi legati al mercato concorrenziale). Sappiamo quanto per la cultura americana l’antitrust sia una cosa seria, e questo peccato non riguarda solo Jobs ma anche altri manager americani.
Certo, per qualche adulatore, il “genio” di Jobs non poteva sottostare alle regole che valgono per altri “comuni” mortali. Il “fenomeno” Jobs resta, comunque, uno dei casi più importanti di successo nella storia dell’imprenditoria tecnologica mondiale.
E così in questo libretto (Steve Jobs, Lezioni di Leadership, Mondadori, 2014, pagg. 103, € 12,00) , che sta avendo un buon successo nella classifica dei libri più letti, il maggior biografo di Steve Jobs, Walter Isaacson, che attualmente è Amministratore Delegato dell’Aspen Institute, ci offre le “regole” (per quanto Jobs, in vita, sia stato poco incline alle regole) e i “segreti” del successo di Jobs e della sua creatura, la Apple.
E con la Apple Jobs è riuscito a creare prodotti rivoluzionari che hanno cambiato il modo di essere occidentale.
In questa storia certamente ha molto influito il carattere ruvido e bizzarro di Jobs, uomo capace di grandissime sfuriate con i suoi sottoposti ma al tempo stesso di immensi silenzi (frutto del suo culto Zen).
In Jobs c’era un condensato della cultura californiana degli anni ’60 (quella della beat generation) , fatta di ribellione agli schemi (che poi si è riversata nella “sua” Apple con lo slogan “Think Different”: Ai folli. Ai piantagrane. A tutti coloro che vedono le cose in modo differente..), ma anche della cultura umanistica (il pensare agli ingegneri della sua azienda come “artisti”, con spiccato senso estetico, della tecnologia), insomma un mix non facilmente eguagliabile.
Ed ecco alcune delle 14 “regole” del successo di Jobs: Concentrati e semplifica (si perché “decidere quello che non si deve fare è non meno importante che decidere quello che si deve fare” e la “semplicità è la massima raffinatezza) , Diventa responsabile dell’intero processo, Quando sei indietro fai un passo in avanti, Pensa ai prodotti prima che ai profitti, Non essere schiavo dei Focus Group, Plasma la realtà, Lavora con i migliori e Punta alla perfezione (La “perfezione” ricercata anche nelle parti nascoste di un computer o iphone: “Voglio che ogni cosa sia più bella possibile, anche se nessuno la vedrà mai).
Ma la regola più importante per Jobs e per la sua creatura, la Apple, resta il famoso: “Stay hungry, stay foolish” (restate .affamati, restate folli). Pur con i limiti della sua persona, e con le sue ipocrisie, Steve Jobs resta un genio indiscusso. “Perché solo coloro che sono da pensare di cambiare il mondo lo cambiano davvero”
La figlia del Papa. Un libro di Dario Fo
“In tutte le storie famose, come quella dei Borgia, si trovano sempre diverse versioni del dramma.Nella maggior parte dei casi, però, si scopre un intento deformante, soprattutto dal punto di vista storico. Personalmente non ho fatto altro che ricercare la verità”. Così il premio Nobel Dario Fo spiega la sua ultima opera letteraria, un libro, uscito oggi nelle librerie per i tipi di Chiarelettere, sulla figura di Lucrezia Borgia. E nel pomeriggio di oggi a Milano, presso l’aula magna dell’Università Milano – Bicocca, c’è stato uno spettacolo-presentazione del volume a cura della Compagnia teatrale “Fo-Rame”.
Lucrezia, Figlia di un papa, tre volte moglie (un marito assassinato), un figlio illegittimo… tutto in soli 39 anni, in pieno Rinascimento. Una vita incredibile, da raccontare. Ci hanno provato scrittori, filosofi, storici. Di recente sono state dedicate a Lucrezia serie televisive di successo in Italia e all’estero.
Ora, eccezionalmente, il premio Nobel Dario Fo, staccandosi da ricostruzioni scandalistiche o puramente storiche, ci rivela in un romanzo tutta l’umanità di Lucrezia liberandola dal cliché di donna dissoluta e incestuosa e calandola nel contesto storico di allora e nella vita quotidiana. Ecco il fascino delle corti rinascimentali con il papa Alessandro VI, il più corrotto dei pontefici, il diabolico fratello Cesare, e poi i mariti di Lucrezia, cacciati, uccisi, umiliati, e i suoi amanti, primo fra tutti Pietro Bembo, con il quale condivideva l’amore per l’arte e, in particolare, per la poesia e il teatro. Tutti pedine dei giochi del potere, il più spietato.
Una vera accademia del nepotismo e dell’osceno, tra festini e orge. Come oggi. Perché il romanzo della famiglia dei Borgia è soprattutto la maschera del nostro tempo che, visto attraverso il filtro di quel periodo, ci appare ancora più desolante e corrotto.
Dario Fo, La Figlia Del Papa, Ed. Chiarelettere, Milano 2014, pagg. 208, € 13,90.
Per gentile concessione dell’Editore pubblichiamo un breve estratto del libro
A piedi giunti nel fango
Sulla vita, sui trionfi e sulle nefandezze più o meno documentate dei Borgia si sono scritte e messe in scena opere e pièces teatrali, realizzati film di notevole fattura con attori di fama e, ultimamente, anche due serie televisive di straordinario successo. Qual è il motivo di tanto interesse verso il comportamento di questi personaggi? Senz’altro la spudorata mancanza di pulizia morale che viene attribuita loro in ogni momento della vicenda.
Un’esistenza sfrenata a partire dalla sessualità fino al comportamento sociale e politico.
Fra i grandi scrittori che ci hanno raccontato drammi, cinismi e amori di questa potente famiglia ci sono ad esempio Dumas, Victor Hugo e Maria Bellonci. Ma uno dei più noti è John Ford, elisabettiano dell’inizio del Seicento, che mise in scena Peccato che sia una puttana, opera ispirata quasi sicuramente alle presunte avventure di Lucrezia Borgia e suo fratello Cesare, che la leggenda assicura essere stati amanti. La nostra amica Margherita Rubino ha condotto una ricerca sui drammi scritti nel tempo stesso dei Borgia e ha scoperto ben due autori, Giovanni Falugi e Sperone Speroni, che trattano della vicenda mascherandola con una provenienza romana, nientemeno che da Ovidio.
Certo che se stacchiamo di netto dal Rinascimento italiano la storia di papa Alessandro vi e dei suoi congiunti ne otteniamo una saga sconvolgente, dove i personaggi si muovono senza alcun rispetto per gli avversari e spesso nei propri stessi confronti.
La vittima da immolare ogni volta, fin dalla sua infanzia, è senz’altro Lucrezia. È lei che viene buttata tanto dal padre che dal fratello in ogni occasione nel gorgo degli interessi finanziari e politici, senza un briciolo di pietà. Di cosa ne pensi la dolce figliola non ci si preoccupa assolutamente. Del resto è una femmina, un giudizio che valeva anche per un padre futuro papa e un fratello prossimo cardinale. Anzi in certi momenti Lucrezia è un pacco con tondi seni e stupendi glutei. Ah, dimenticavamo, anche i suoi occhi sono carichi di malìa.
Il Popolo e gli dei. Un libro sulla grande crisi
“La sovranità si è spostata verso i gironi opachi e incontrollati della grande finanza internazionale, quella che orienta, giorno per giorno, secondo dopo secondo, il nuovo dominus: il mercato. Vista con lo sguardo del cittadino essa diventa lontana, inafferrabile, apolide: il popolo e gli dei non sono mai stati più lontani.
Se la sovranità, con i suoi nuovi dei, slitta sempre più verso l’alto, dove va il popolo? In teoria è lrnella nube del mugugno e della rabbia, si trasforma da comunità di cittadini a esercito di sudditi”.
Questa è la chiave di lettura del libro, scritto a quattro mani, da Giuseppe De Rita, presidente del Censis, e dal giornalista Antonio Galdo per i tipi della Laterza. Il titolo da l’idea del paradigma basilare del libro “Il popolo e gli dei. Così la grande crisi ha separato gli italiani” (pagg. 104. € 14,00).
Che è poi la proiezione su scala nazionale della più grande frattura “sismica”, la “faglia” planetaria prodotta dalla “iperglobalizzazione”, tra la “superelitè” del potere finanziario globale e il resto del mondo (ivi compresa anche la politica degli Stati sovrani).
Dove i primi sono sempre più ricchi e i secondi sempre più poveri.
L’Italia, come il resto del mondo occidentale, non sfugge alla “logica” diabolica che la grande crisi ha prodotto in questi ultimi anni.
Se è vero che nella nostra Costituzione, come nel resto del Costituzionalismo moderno e contemporaneo, la sovranità appartiene al popolo in questi ultimi anni in realtà, come detto all’inizio, si è assistito ad un grande furto di sovranità. Ovvero il potere reale si è spostato verso entità sempre più astratte (il Mercato) ma, in realtà, molto reali.
Così gli “Dei”, le elitè tecnocratiche -politiche, si collocano sempre più lontane dal popolo. Un popolo italiano, definito dagli autori con grande realismo e perfino crudeltà analitica, come popolo della sabbia: “fragile per definizione, esposto ai rischi prodotti dal potere cieco dei mercati, dal furto della sovranità, dalla crisi della rappresentanza”. Queste sono le tre grandi crisi che attraversano la società italiana. Gli “Dei”, o la “casta” secondo altri, godono di ogni tipo di privilegio mentre il distante si perde nei mille rivoli della crisi (dalla disoccupazione, alla perdita di garanzie sociali ed economiche): “il vento soffia sul popolo della sabbia crea dune e avvallamenti, scatena tempeste”. Tempeste che sfociano nel ribellismo sterile dell’antipolitica. Una crisi di rappresentanza che tocca tutti gli istituti della partecipazione dai partiti alle istituzioni europee (vissute come burocrazia tecnocratica).
E’ la mancanza di un ideale, di un progetto, di un sogno condiviso ovvero di quella “chimica sociale” che produce una società solidale.
Secondo l’analisi dei due autori, le responsabilità di questo processo che ha separato in modo quasi definitivo la società civile da coloro che sono chiamati ad amministrarla vanno divise equamente tra le due parti in causa. Il “popolo”, infatti, negli anni della Crisi non ha saputo porsi come entità collettiva capace di pretendere il rispetto dei propri diritti, preferendo frammentare le sue richieste in un pulviscolo di lamentele senza scopo e accontentandosi di sparare a zero, in modo generalizzante e qualunquista, sulla classe politica in toto, mentre “gli dei” hanno approfittato della situazione per consolidare il proprio potere e gestire al meglio i propri affari, disinteressandosi totalmente dei loro doveri nei confronti della collettività. Il risultato di questo processo è un Paese che esce dalle maglie della crisi come irrimediabilmente frammentato, un Paese in cui ogni individuo rimane chiuso nel suo piccolo guscio nel tentativo di tutelare se stesso e in cui l’idea stessa di società diventa sempre più labile, sempre più difficile da afferrare.
La soluzione di questa frattura, difficile per gli autori, passa per una nuova stagione di protagonismo di partecipazione politica. Solo con una nuova statualità si può ripristinare il comune destino degli italiani.
(dalla Rivista Arel n° 3/2013)
Il PARTITO DELLA POLIZIA. UN LIBRO DI CHIARE LETTERE
Imputati. Condannati. Premiati. Nessun abuso può essere commesso contro cittadini inermi. Se non è così, i responsabili devono saltare. In Italia ciò non è avvenuto. E continua a non avvenire, dai tempi delle torture alle Br fino alle morti di Cucchi, Aldrovandi, Uva e molti altri: la polizia non garantisce la sicurezza, la politica non sorveglia, la stampa non sempre denuncia, la magistratura non sempre indaga. Perché questa anomalia? Come rivela Filippo Bertolami, poliziotto e sindacalista, “negli ultimi anni si è assistito al paradosso di un sistema capace da un lato di coprire e premiare i colpevoli di violenze e insabbiamenti, dall’altro di punire chi ha ‘osato’ mettersi di traverso”.
Vince la paura. Il partito della polizia è troppo forte. troppe protezioni politiche a destra e a sinistra. Da Berlusconi a Prodi, Violante, Renzi. De Gennaro, ora presidente di Finmeccanica, e i suoi collaboratori non si toccano. Troppe onorificenze. Troppe amicizie. Anche tra i media. Intanto le auto rimangono senza benzina e gli agenti continuano ad avere stipendi da fame mentre vengono assegnati appalti miliardari. Il partito della polizia è anche il partito degli affari. “Se non c’è una cultura del diritto in chi orienta il pensiero collettivo – sostiene il criminologo Francesco Carrer – mi chiedo come possa nascere in un corpo di polizia i cui vertici sono più attenti ai desiderata dei politici che alle esigenze di chi è in prima linea.” Un libro duro, appena uscito in libreria, questo di Marco Preve che fa riflettere su questo sistema trasversale e potente.
Marco Preve, giornalista, è nato nel 1963 a Torino. Cresciuto a Savona, vive a Genova dove è cronista di giudiziaria, ma non solo, della redazione locale de “la Repubblica”. Ha seguito le indagini sul serial killer Donato Bilancia, il giallo della contessa Agusta, le principali inchieste in tema di corruzione e soprattutto il G8 di Genova del 2001 e tutti i processi che ne sono seguiti. Collabora con “l’Espresso” e “Micro-Mega”. Ha un blog intitolato “Trenette e mattoni”, e ha scritto due libri, sempre con Chiarelettere: IL PARTITO DEL CEMENTO, nel 2008, con Ferruccio Sansa; LA COLATA, nel 2010, con Ferruccio Sansa, Andrea Garibaldi, Antonio Massari e Giuseppe
Marco Preve Il Partito della Polizia. Il sistema trasversale che nasconde la verità degli abusi e minaccia la democrazia, Chiarelettere, Milano 2014, pagine 288, € 13,90
Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo un estratto del libro:
La fotografia
Cominciamo da una tavolata. Perché alla fine, in Italia, quello che conta è dove ti hanno messo a sedere. Il 17 dicembre 2009, sulla terrazza coperta dell’hotel Eden di Roma, un nutrito gruppo di irriducibili si riunisce per celebrare, e proseguirne la missione nel mondo, la gran sacerdotessa dei salotti della capitale, Maria Angiolillo, scomparsa due mesi prima.
A organizzare la serata è una parlamentare allora del Pdl, Giustina Destro. Uno dei re dei paparazzi, il fotografo Umberto Pizzi, immortala questa rentrée di adepti per il sito di «Dagospia». In un tripudio di abbronzature fuori stagione, décolleté generosi, cravattoni, gessati, nasi affilati e grandi labbra, Pizzi, come un novello Pellizza da Volpedo, sforna un affresco dell’«Ultra» Stato. C’è naturalmente la schiera dei politici, soprattutto di destra, e accanto a loro celebri giornalisti di destra e sinistra, della tv e della carta stampata, da Bruno Vespa a Lucia Annunziata passando per Stefano Folli e Antonio Di Bella, garanti della concorrenza, futuri sottosegretari e viceministri come Antonio Catricalà, direttori generali Rai come Mauro Masi, l’amministratore delegato delle nostre ferrovie Mario Moretti, imprenditori, finanzieri, il presidente della Lega Calcio ed ex direttore di Confindustria Maurizio Beretta, e tante belle signore, alcune importanti come la manager Eni Raffaella Leone o la produttrice Edwige Fenech, altre, accompagnatrici di uomini in vista. Durante la cena siederanno a gruppetti
sapientemente miscelati. La serata sembra rispondere a una sola regola: promiscuità totale. Mondi che, per un corretto funzionamento della democrazia e del fondamentale rapporto controllori e controllati, dovrebbero forse frequentarsi solo in situazioni istituzionali o professionali, e invece qui brindano, si baciano e abbracciano, si mettono in posa per le foto e soprattutto mostrano grande intimità.
Ma, a noi, è una sola la tavolata che interessa. Ed è quella dove, forse, tutti vorrebbero stare. Lo si capisce prima di tutto dal fatto che proprio lì troviamo la «padrona di casa», l’onorevole Giustina Destro. E poi perché le mani appoggiate sulla candida tovaglia, illuminata solo da candele racchiuse in bicchierini di vetro rosso, sono quelle dei massimi simboli del potere.
Ognuno è lì a rappresentare il proprio partito. Il partito della politica, prima di tutto, con la Destro in compagnia del più volte ministro Claudio Scajola; il partito del cemento con il costruttore Francesco Bellavista Caltagirone; il partito del dietro le quinte con Maddalena Letta, moglie dell’intramontabile Gianni. E poi c’è il partito della polizia, con il suo capo, il prefetto Antonio Manganelli.
Che certi «attovagliamenti», come li definisce «Dagospia», possano riservare imbarazzanti sorprese, lo scopriremo più avanti, in una delle tante vicende nebulose che racconteremo in queste pagine provando a fare chiarezza. Ma ora quel che conta è la premessa di partenza: per un lungo arco temporale della storia italiana, periodo tuttora in corso, il gruppo di vertice della nostra polizia si è comportato come se fosse un partito.