LO STATO PARALLELO. La prima inchiesta sull’Eni tra politica, servizi segreti, scandali finanziari

COPStato parallelo PA.inddL’Eni è oggi un pezzo fondamentale della nostra politica energetica, della nostra politica estera, della nostra politica di intelligence. Cosa vuol dire intelligence? I servizi, i servizi segreti.” (Matteo Renzi a Lilli Gruber, 3 aprile 2014)

Tra le inchieste pubblicate da Chiarelettere sul potere in Italia NON POTEVA MANCARE UN LIBRO SULL’ENI. Il suo amministratore delegato vale più del ministro degli Esteri, sul suo tavolo passano affari miliardari, alleanze internazionali, interessi geopolitici, questioni di sicurezza fondamentali. I più grandi scandali e casi di corruzione sono nati qui, dall’Ente che più volte con le sue strategie spericolate, prima filoarabe poi filorusse, ha messo in crisi i nostri rapporti con gli alleati occidentali. Il suo fondatore, ENRICO MATTEI, è morto in circostanze ancora oggi misteriose, un suo ex presidente, Gabriele Cagliari, coinvolto in Tangentopoli, si è suicidato in carcere, gli ultimi due amministratori delegati sono indagati per corruzione internazionale. Ce n’è abbastanza per farci un libro.

In quasi cinque anni Greco e Oddo hanno intervistato ex funzionari, addetti ai lavori, politici, studiosi (qualcuno si è negato), verificando bilanci e documenti di ogni tipo, anche privati. Ne è nato UN RACCONTO CORALE E RICCHISSIMO DELL’ITALIA degli ultimi sessant’anni: dalla Dc di Fanfani e le aperture di Moro alle giravolte di Berlusconi, grande alleato di Putin. In gioco ci sono la nostra indipendenza energetica e la diversificazione degli approvvigionamenti che potrebbe sconvolgere gli assetti del Mediterraneo.

GLI AUTORI

ANDREA GRECO, vice caposervizio a “la Repubblica”, dove lavora dal 2001 dopo un periodo alla Reuters, ha pubblicato Le Grida. Memoria, epica, narrazione della

Borsa di Milano (a cura di Roberta Garruccio, Rubbettino 2004) e Meno Stato, poco mercato (con Federico De Rosa, Marsilio 2007). Si occupa di banche, assicurazioni, energia per la redazione economica del quotidiano, per il sito Repubblica.it e per il settimanale “Affari & Finanza”. Nel 2013 ha vinto il premio “Giornalista dell’anno” di State Street per un’inchiesta sui derivati del Tesoro. Nel 2016 ha ottenuto il riconoscimento “Targa Caffè ai sostenitori della buona economia”.

GIUSEPPE ODDO, già inviato de “Il Sole 24 Ore”, ha scritto con Giovanni Pons L’Affare Telecom. Il caso politico-finanziario più clamoroso della Seconda Repubblica (Sperling & Kupfer 2002) e L’intrigo. Banche e risparmiatori nell’era Fazio (Feltrinelli 2005). Ha inoltre pubblicato con Angelo Mincuzzi Opus Dei, il segreto dei soldi. Dentro i misteri dell’omicidio Roveraro (Feltrinelli 2011). Autore di grandi inchieste, ha raccontato fatti e misfatti delle maggiori imprese pubbliche e private e le principali vicende dell’economia italiana, sia sul versante dell’industria sia su quello della finanza e della politica.

PER GENTILE CONCESSIONE DELL’EDITORE PUBBLICHIAMO UN ESTRATTO DEL LIBRO

Questo libro

 L’Eni è un colosso industriale controllatodallo Stato, ma è anche uno Stato nello Stato. Con 110 miliardi di euro di ricavi nel 2014, e nonostante la perdita del 2015 causata dal crollo del prezzo del petrolio a 30 euro al barile, il gruppo occupa la venticinquesima posizione nella classifica di «Fortune» sulle prim cinquecento aziende mondiali per fatturato, alimenta le casse del Tesoro con i suoi ricchi dividendi ed è la quarta multinazionale petrolifera europea per riserve di idrocarburi, dopo l’inglese Bp, la anglo-olandese Royal Dutch Shell e la francese Total. L’impresa fondata da Enrico Mattei garantisce la sicurezza dei nostri approvvigionamenti di petrolio e di gas naturale con una presenza diffusa in oltre ottanta paesi – dai deserti mediorientali e africani alle acque profonde degli oceani, dalle steppe asiatiche alle aree più remote e ostili del pianeta – e occupa 84.000 dipendenti di cui circa un terzo in Italia e la parte rimanente in Asia, nel resto d’Europa, in Africa, nelle due Americhe e in Oceania. Il suo amministratore delegato vale più di un ministro degli Esteri ed esercita un grande potere che gli deriva dalla gestione di investimenti, flussi di cassa, acquisti, dividendi allo Stato, il tutto per svariate decine di miliardi di euro.

 

Ma l’Eni non è solo una potenza economico-industriale, è uno snodo delle vicende italiane dal dopoguerra a oggi: impresa al servizio dello Stato capace, all’occorrenza, di piegare lo Stato ai propri interessi; attore influente della nostra politica estera, che fa da apripista a relazioni con paesi non democratici come Congo, Libia, Nigeria, Kazakistan e altre dittature africane, mediorientali e asiatiche ai primi posti nella graduatoria mondiale della corruzione. 

 

Forse per lavarsi la coscienza i petrolieri osservano, con il cinismo tipico degli affari, che il petrolio non si estrae in Svizzera: che la presenza in paesi come questi è indispensabile per la soddisfazione dei bisogni energetici dell’Occidente. Del resto, non è un problema di esclusiva pertinenza dell’Eni. Tutte le imprese multinazionali, a cominciare da quelle statunitensi, operano in queste aree del mondo con analoga spregiudicatezza. È stata l’amministrazione di George W. Bush a intensificare i rapporti commerciali con il Caspio, con Stati come l’Azerbaijan e il Kazakistan, per ridurre la dipendenza energetica Usa dal Medio Oriente e in particolare dall’Arabia Saudita. La stessa Cina, per far fronte al proprio crescente fabbisogno energetico, è tra i più agguerriti protagonisti dell’industria petrolifera in Africa. I giacimenti di idrocarburi, a parte quelli in Nord America e nel Mare del Nord, si trovano in zone «calde», in paesi dilaniati da guerre, conflitti tribali, retti da regimi – emirati, sceiccati, monarchie, teocrazie, giunte militari – che fondano il proprio potere sull’indebita appropriazione delle risorse pubbliche e del pubblico denaro, sulla soppressione dei diritti civili, sull’eliminazione degli oppositori, sull’oscurantismo religioso, sulla tortura, sulla pena di morte per lapidazione e decapitazione, sulla schiavitù della donna, sullo sfruttamento dei bambini. E, per accaparrarsi le fonti di energia, le compagnie occidentali si rendono complici della corruzione di questi paesi, le cui condizioni di indigenza sociale diffusa stridono con l’illecita accumulazione di ricchezza da parte dei loro governanti.

 

Quale strada sta dunque percorrendo l’Eni nella forsennata competizione per il rimpiazzo delle riserve? E quali indicazioni arrivano dall’azionista-Stato al nuovo top management insediatosi alla guida del gruppo nella tarda primavera del 2014? La domanda non riguarda solo i rapporti tra Eni, Italia e Sud del mondo, coinvolge anche le relazioni con una grande potenza energetica e militare come la Russia, che con Algeria e Libia è, storicamente, uno dei nostri maggiori fornitori di metano. L’Eni continua a rappresentare una garanzia nei rapporti con Mosca o si è posta al servizio di interessi particolari? A chi ha giovato l’asse politico tra Vladimir Putin e Silvio Berlusconi: al futuro del paese, a quello dell’azienda e dei suoi azionisti o a quello dei due diretti interessati? Le scelte strategiche del gruppo sono state le migliori possibili nel difficile connubio tra globalizzazione dell’attività petrolifera e retaggi monopolistici nel settore del gas?

Il nostro libro sugli ultimi venticinque anni di storia dell’Eni parte da qui, come approfondimento del nostro lavoro giornalistico, e analizza i rapporti tra un colosso industriale nato per garantire l’approvvigionamento energetico del paese e lo Stato, suo azionista di riferimento, che in fasi ricorrenti ha debordato dalle sue funzioni, intrecciando industria e affarismo, occupazione e conti pubblici, geopolitica e affari esteri, finanziamento ai partiti e corruzione, sicurezza nazionale e servizi segreti. Un rapporto inestricabile e mai lineare.

 

In quasi cinque anni abbiamo intervistato una cinquantina di addetti ai lavori tra politici e funzionari, operatori del settore, studiosi, dipendenti dell’Eni vecchi e nuovi. Non c’è protagonista della storia del gruppo dell’ultimo quarto di secolo che non sia stato contattato. Quasi tutti, nel rispetto dei ruoli e dei punti di vista, hanno accettato il confronto. Di molte testimonianze abbiamo la registrazione, anche se in tanti ci hanno posto come condizione il vincolo della riservatezza, quindi il loro racconto non è direttamente citato.

 

Oltre alle fonti orali abbiamo consultato centinaia di documenti, atti, bilanci, archivi privati, opere, e riletto i ritagli delle testate di informazione. Storia dopo storia, snodo dopo snodo ci si è composto un disegno corale dell’Italia moderna, guardato con le lenti della sua più grande impresa industriale, che abbiamo tracciato con il «racconto dell’inchiesta».

 

Questo libro è un contributo a conoscere un’azienda complessa che opera in un paese intricato. Crediamo che nessuno, dopo averlo letto, potrà più dire che sia un luogo comune assimilare l’Eni a uno «Stato parallelo».

 

(“Lo Stato parallelo”, pp. 5-7)

Andrea Greco, Giuseppe Oddo, Lo Stato parallelo. La prima inchiesta sull’Eni tra politica, servizi segreti, scandali finanziari e nuove guerre. Da Mattei a Renzi, Ed. Chiarelettere, Milano 2016, pagg. 368, € 17,50.

“Nel cuore del conflitto”. Un bel saggio di Alessandro Pucci

nelcuoredelconflittoA volte capita d’imbattersi in persone inconsuete, davvero fuori dall’ordinario, che compiono azioni fuori dagli schemi, che dedicano tempo e pazienza all’elaborazione di strategie personali e originali di sopravvivenza e persino di perseguimento della felicità. Capita più spesso di quanto s’immagini.

Meno frequenti, invece, quelli che vanno oltre e, accanto a tale sforzo, compiono anche quello di un’elaborazione critica del proprio percorso intimo, generando così un processo di comunicazione rivolto agli altri, nel tentativo (immaginiamo), di renderli partecipi dei propri progressi, se pure di progressi si tratta.

È questo il caso di Alessandro Pucci, che nella vita di tutti i giorni fa il tecnico manutentore di reti telefoniche per una grande compagnia: controlla le centraline, sale e scende da impianti e palificazioni, accetta e distribuisce lamentele, rampogne e minacce della clientela, tanto bisognosa di connettività quanto avara di complimenti. 

La sua “vita vera”, da qualche anno a questa parte, si svolge invece lungo percorsi diversi. Ha letto molto, ha compiuto un percorso di studi teologici e filosofici, ha riflettuto sulla vita quotidiana e sui conflitti che, numerosi, l’avvelenano o la rendono migliore. Cura un blog – cronache dell’anima (http://cronachedellanima.blogspot.it/) – nel quale riversa le sue riflessioni.

Da questo processo è nato un piccolo libro: “Nel cuore del conflitto”; autopubblicato, venduto in rete e distribuito personalmente nei numerosi incontri che l’autore ha organizzato nella sua terra, le Marche, offre una penetrante lettura della vita di relazione; con un linguaggio che oscilla fortemente tra l’eloquio filosofico e la piana, semplice declinazione delle riflessioni quotidiane, Pucci riesce a rendere una modesta e luminosa testimonianza.

Testimonia infatti che è possibile, qualunque sia la nostra funzione nella grande “macchina mondiale” (scippando la definizione da un romanzo di un altro marchigiano, come lui: Paolo Volponi), provare a dipanare la matassa dell’esistenza e delle relazioni, accettando e provando a comprendere – è il caso di dirlo – la natura del “conflitto”, ineluttabilmente presente nella nostra vita.

Quattro capitoli: il conflitto interiore; il conflitto sociale; la guerra come degenerazione del conflitto; la speranza di pace. Seguendo questa mappa concettuale, la ragionata proposta di Alessandro Pucci illumina alcuni angoli del nostro quotidiano, con grande efficacia, soprattutto quando affronta i temi legati alla vita di relazione, ai rapporti umani. In fondo, sembra dire Pucci, tutta la vita è una lotta: cerchiamo di trovarci un senso e una prospettiva.

Come ha acutamente notato padre Alex Zanotelli in una sua recensione apparsa sul numero di Ottobre 2015 di “Mosaico di Pace”, il tema del conflitto è troppo vasto per «poter essere esaurientemente sviluppato in un unico testo». Tuttavia Pucci (è ancora Zanotelli che lo scrive) tenta «di tracciare un sentiero, una via percorribile (…) viaggiare all’interno dei conflitti significa cercare di capire la vita e i suoi inquietanti misteri».

Ecco: dietro ciascuno di noi – e dentro – c’è un mistero; e ancora più grande è quello del mondo. Come scrisse il teologo Rudolph Otto, si tratta di un “mysterium tremendum et fascinans”. Ed è curioso (o provvidenziale?) che, alle volte, un valido aiuto per affrontare l’enormità del tema ci giunga, inatteso, da chi – senza titoli, senza fasti – prova a condividere con gli altri i pensieri più profondi.

Alessandro Pucci, Nel cuore del conflitto, Prefazione di Roberto Mancini (Ordinario di Filosofia Teoretica, Università degli Sudi di Macerata), pagg.: 212, self-published – ISBN-13: 978-1507634806

Il libro è disponibile anche su Amazon (http://www.amazon.it/Nel-Cuore-Conflitto-Alessandro-Pucci/dp/1507634803/ref=sr_1_1?ie=UTF8&qid=1455548623&sr=8-1&keywords=nel+cuore+del+conflitto ).

“IO, MORTO PER DOVERE”. La vera storia di Roberto Mancini, il poliziotto che ha scoperto la Terra dei fuochi

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IL LIBRO

Il nostro dovere non è arrestare qualcuno e mettergli le manette per fare bella figura con i superiori e magari prendersi un encomio. Noi siamo pagati per garantire i diritti, per migliorare, nel nostro piccolo, il mondo che ci circonda, la vita delle persone.”

Roberto Mancini

Un libro coraggioso questo di Chiarelettere. E’ la storia di un poliziotto coraggioso: Roberto Mancini. Un uomo sapeva già tutto del disastro ambientale nella cosiddetta Terra dei fuochi. Vent’anni fa conosceva nomi e trame di un sistema criminale composto da una cricca affaristica in combutta con la feccia peggiore della malavita organizzata e con le eminenze grigie della massoneria. Aveva scritto un’informativa rimasta per anni chiusa in un cassetto e ritenuta non degna di approfondimenti, ha continuato il suo impegno depositando, nell’ultimo periodo della sua vita, un’altra informativa (pubblicata per la prima volta in questo libro).

Mancini, è morto il 30 aprile 2014, ucciso da un cancro. Sarà riconosciuto dal ministero dell’Interno come “vittima del dovere”. Un giovane poliziotto cresciuto tra le fila della sinistra extraparlamentare negli anni confusi e violenti della contestazione. Manifestazioni, picchetti, scontri di piazza, poi la scelta della divisa, per molti incomprensibile e spiazzante, per Mancini del tutto naturale.

Una grande storia di passione, impegno e coraggio. Questo libro finalmente la racconta tessendo insieme con delicatezza e profondità le testimonianze dei colleghi e della famiglia (la moglie Monika, che ha collaborato alla stesura, la fi glia Alessia, che aveva tredici anni quando il papà è morto), i documenti, oltre dieci anni di lavoro alla Criminalpol e la voce stessa di Mancini, che restituisce la sua verità e tutto il senso della sua battaglia umana e professionale.

Una storia chiusa per anni nel silenzio e oggi riscoperta, oggetto di una fiction con protagonista Giuseppe Fiorello nel ruolo di Mancini e finalmente patrimonio di tutti, da non dimenticare.

GLI AUTORI

Luca Ferrari, giornalista, documentarista e fotografo, è autore dell’inchiesta che per la prima volta ha raccontato la storia di Roberto Mancini, pubblicata su “la Repubblica”. Ha collaborato con la trasmissione Servizio pubblico, condotta da Michele Santoro, e con “la Repubblica”, “l’Espresso”, “The Huffington Post” e “il Fatto Quotidiano”. Con il suo primo film, Pezzi (2012), prodotto da Valerio Mastandrea, ha vinto il Premio Doc It – Prospettive Italia Doc per il miglior documentario italiano al Festival internazionale del film di Roma e ha ottenuto una candidatura nella categoria miglior documentario al David di Donatello 2013. Nel 2015 il suo secondo fi lm documentario, Showbiz, sempre prodotto da Valerio Mastandrea, è stato presentato alla Festa del cinema di Roma.

Nello Trocchia, giornalista e scrittore, precario dell’informazione, collabora con “il Fatto Quotidiano”, “l’Espresso” e con La7 (La gabbia). Ha realizzato inchieste su clan, malaffare politico e crimini ambientali. È autore di Federalismo criminale (Nutrimenti 2009), menzione speciale al premio Giancarlo Siani, primo libro-inchiesta sui comuni sciolti per mafia; La peste (con Tommaso Sodano, Rizzoli 2010), sulla cricca politico-criminale che ha realizzato il sacco ambientale in Campania; Roma come Napoli (con Manuele Bonaccorsi e Ylenia Sina, Castelvecchi 2012). Da agosto del 2015 è sottoposto a vigilanza dei carabinieri per aver subito minacce da un boss di camorra a seguito delle inchieste giornalistiche pubblicate.

Per gentile concessione dell’Editore, pubblichiamo uno stralcio del libro

Il poliziotto che ha scoperto la Terra dei fuochi

«Mio padre è un eroe. Ha dei nemici? Bene. Questo significa che ha lottato per qualcosa nella sua vita. L’unica sua debolezza è stata la morte: non usatela per affermare la vostra forza.» Il 3 maggio 2014, il giorno del funerale, Alessia ha solo tredici anni. Il papà, Roberto Mancini, sostituto commissario di polizia, ne aveva cinquantatré ed è morto per aver scoperto e denunciato con una determinazione e un coraggio unici un sistema criminale e la rete dei trafficanti di veleni. Nella basilica di San Lorenzo fuori le Mura, a Roma, le istituzioni sono presenti in prima fila insieme con la famiglia per dare l’ultimo saluto a un servitore dello Stato, encomiato perfino dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Quelle stesse istituzioni che a lungo lo avevano ignorato e perfino osteggiato. Mancini è stato il primo poliziotto a investigare sui rifiuti tossici. Le sue indagini hanno anticipato di quasi due decenni la scoperta del disastro ambientale in alcune zone della Campania, la cosiddetta Terra dei fuochi. Quando era nella Criminalpol, a metà degli anni Novanta, Mancini ha smascherato la connivenza tra imprenditoria e camorra; tra politica, massoneria e bassa manovalanza criminale. Il risultato della sua inchiesta è scritto nero su bianco in un’informativa che, per qualche sconosciuto motivo, è rimasta chiusa in un cassetto per più di dieci anni. Mancini ha completato quel documento ormai storico senza mai curarsi dei rischi che correva. «Voglio credere che allora non fossero ancora maturi i tempi e l’opinione pubblica non fosse pronta» ha detto il poliziotto poco prima di morire commentando il fatto che le sue indagini fino a quel momento fossero state ignorate. Mancini è stato uno sbirro controcorrente, sempre con «il manifesto», quotidiano comunista, sotto braccio, insofferente al potere delle gerarchie ma comunque dalla parte della legge e della giustizia sociale. E questo dava fastidio. Negli anni del liceo aveva militato nel collettivo di sinistra, poi la voglia di cambiare il sistema dall’interno lo aveva portato a far domanda per entrare in polizia. Negli anni Ottanta, sorprendendo chiunque lo conoscesse, era diventato il più giovane viceispettore d’Italia. Per molti colleghi, che in questo libro lo ricordano con affetto e stima, è stato un «esempio»; per altri, soprattutto per alcuni suoi superiori ai quali lui non si è mai piegato per ottenere promozioni o simpatie, è stato invece solo un «visionario, un pazzo». Eppure quel «pazzo» si è ammalato perché durante le sue indagini, portate avanti per anni, è andato a scavare nelle aree contaminate dai trafficanti di veleni armato solo di guanti di lattice e mascherina. Lì dove hanno vomitato di tutto: scorie di fonderia, ceneri, ammoniaca, liquami, rifiuti industriali di ogni genere. Nel 1994 Roberto Mancini aveva cominciato a indagare su Cipriano Chianese, secondo la Procura di Napoli l’«inventore» dell’ecomafia, e a produrre una quantità di informazioni molto scomode. Con la commissione parlamentare di inchiesta sul ciclo dei rifiuti, da consulente, tra il 1997 e il 2001, era tornato poi ad attraversare quei territori per rilievi e verifiche. Tra l’Italia e l’estero aveva partecipato a sessanta sopralluoghi su discariche abusive e luoghi contaminati. E il pazzo alla fine ci ha rimesso la pelle. Una biopsia gli ha diagnosticato il linfoma non-Hodgkin. Mancini ha conosciuto la depressione, ha attraversato una stagione di profonda sofferenza ma non ha mai smesso di lavorare. Fino all’ultimo ha cercato di fornire documentazioni al pm Alessandro Milita, colui che rappresenta la pubblica accusa nel processo ancora in corso a carico di Chianese. Nel 2005 Mancini si sottopone a un trapianto e per un momento tutto sembra risolversi per il meglio, l’incubo finito. Ma non c’è lieto fine a questa storia. Nel maggio del 2010, infatti, il morbo si riaffaccia. Una nuova biopsia diagnostica una recidiva. Il poliziotto non risponde più alle chemio, si sottopone al trapianto del midollo osseo, donato dal fratello. Purtroppo non servirà. I nomi dei responsabili dell’avvelenamento di quella terra rimangono a lungo impuniti: è stato questo il più grande rimpianto di Mancini, insieme a quella telefonata di riconoscenza dall’amministrazione della polizia, doverosa e tanto attesa, che però non è mai arrivata durante i terribili e faticosissimi giorni dell’agonia prima della morte.

Mancini resterà sempre il poliziotto comunista, ligio al dovere, ma insofferente al potere. Questo libro racconta per la prima volta la sua storia. Siamo entrati nella sua vita; abbiamo conosciuto i suoi amici di sempre, i colleghi e la sua famiglia, in particolare la moglie Monika che ha contribuito in modo attivo alla stesura di queste pagine. Come giornalisti, abbiamo preso spunto dalle sue indagini per denunciare una mattanza ambientale senza precedenti. Abbiamo recuperato alcune sue carte inedite, appunti scritti a mano, documenti scottanti e compromettenti, frutto di anni di investigazioni sul campo, che pubblichiamo per la prima volta. Ma soprattutto abbiamo raccontato la storia di un poliziotto, di un tifoso, di un amante, di un marito, di un padre e di un investigatore eccelso. Di un uomo che stimiamo profondamente. Questo non è il ritratto di un eroe, tutt’altro. Gli eroi servono a pulire la coscienza di chi non si sporca le mani o di chi le mantiene pulite ficcandole in tasca, di chi non prende mai posizione, di chi nutre le schiere di coloro che si voltano sempre dall’altra parte. Oggi Roberto Mancini è una nobile voce che non fa più paura. Dopo la sua morte è arrivata l’approvazione unanime per il lavoro svolto e nel consenso generale la coscienza collettiva si è liberata del peccato. Mancini rifuggiva l’omologazione, si è sempre rifiutato di essere altro da quello che era solo per compiacere e ottenere favori personali. Forse non avrebbe gradito tutti questi applausi.

Luca Ferrari, Nello Trocchia con Monika Dobrowolska Mancini, Io, morto per dovere. La vera storia di Roberto Mancini, il poliziotto che ha scoperto la Terra dei fuochi. Prefazione di Giuseppe Fiorello, Ed. Chiarelettere, Milano 2016 . Pagg. 168 _ 15 euro

La “Repubblica aggiornata”. Intervista a Stefano Ceccanti

Stefano Ceccani (LaPresse)In questi mesi il lavoro parlamentare si è concentrato molto sulla riforma della seconda parte della Costituzione. Una riforma, come si sa, che è stata molto osteggiata dalle opposizioni (non senza ipocrisia da parte del centrodestra). Ora la riforma del Senato è stata approvata anche a Palazzo Madama: 180 i sì, 112 i no. La trafila, però, non finisce qui, visto che la riforma dovrà, ad Aprile, nuovamente passare dalla Camera, dove non sarà più possibile proporre emendamenti. Vale a dire che si voterà solo con un “sì” o un “no”. Dopo queste ultime due approvazioni, ci sarà, nell’autunno di quest’anno, il referendum confermativo. In quale direzione sta andando, con queste riforme, il nostro Paese? Parafrasando Maurice Duverger, storico francese delle Istituzioni politiche, si dovrebbe passare da una politica dell’impotenza ad una politica della decisione. Questo, secondo i costituzionalisti favorevoli a questa riforma, è l’obiettivo di fondo. Non vi è dubbio, però, che si pongono non pochi interrogativi. Ne parliamo, in questa intervista con un protagonista del dibattito politico costituzionale: Stefano Ceccanti, Ordinario di Diritto Costituzionale Comparato alla Sapienza di Roma. E proprio in questi giorni è uscito un suo libro, per l’Editore Giappichelli, dedicato alla riforma costituzionale che sarà, come già detto, oggetto di referendum confermativo. Il titolo del libro chiarisce l’obiettivo di fondo della Riforma: “La transizione è (quasi) finita. Come risolvere nel 2016 i problemi aperti 70 anni prima” (Ed. Giappichelli, Torino 2016, pagg. XXIV+96, € 11,00):

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Professor Ceccanti, nel suo libro cerca di dare risposte a molti interrogativi, che sono sorti in questi mesi, sulla riforma costituzionale che sarà oggetto di Referendum Confermativo il prossimo autunno. Colpisce l’affermazione che, secondo lei, con la riforma costituzionale e quella della legge elettorale si risolvono i problemi rimasti aperti settanta anni fa con la nascita della Repubblica.  Un’affermazione assai importante. Può spiegarcela? 

Alcune delle soluzioni di allora sulla Seconda Parte furono determinate dalla rottura del governo di grande coalizione antifascista della primavera 1947. Legata alla Guerra Fredda, Nel clima di sfiducia reciproca, di divisione verticale, molti aspetti organizzativi vennero  impostati con una logica ultra-garantistica, come il bicameralismo ripetitivo che non ha senso né rispetto alla forma di governo (non ha senso giocarsi l’esito dell’esecutivo su due Camere diverse esponendosi a maggioranze incoerenti),  né da quello dl rapporto centro-periferia (un regionalismo cooperativo forte non funziona senza l’accordo di una seconda camera). Quelle scelte hanno perso senso da vari decenni ma solo grazie all’impasse dell’inizio di questa legislatura ci si è trovati in condizione di affrontare davvero il lavoro di aggiornamento per dare senso a questo Parlamento.

All’inizio  del libro lei  riporta un lungo pensiero del grande costituzionalista, padre costituente, Costantino Mortati contro il Bicameralismo perfetto. Le Chiedo quali sono state le ragioni che hanno influito su questo enorme ritardo costituzionale?

La divisione verticale tra le forze politiche ha fatto partire le Regioni molto tardi, negli anni ’70 e in modo molto timido. Anche se le proposta di Camera delle autonomie, congelate alla Costituente, aveva ripreso vigore teorico già in quella fase. Dopo l’ 89, sia pure in modo confuso, anche per le ambiguità della Lega, è riemersa una domanda di uscita dall’eccesso di centralismo e di uniformità. Mentre è stata coerente la riforma della forma di governo regionale con la legge costituzionale 1/1999, quella dell’elezione diretta dei Presidenti, vi è stata poi un’incoerenza tra il regionalismo forte della riforma del Titolo Quinto del 2001 (persino troppo generosa sulle competenze) e l’assenza di una Camera delle autonomie che  avrebbe comunque ridotto quantitativamente la classe politica nazionale. Essa si difendeva con proposte improbabili come Senati delle garanzie, fatte per autoperpetuarsi, quando qualsiasi evidenza comparata, pur nella diversità degli esiti, mostra che una seconda Camera ha senso solo per completare il disegno centro-periferia.

Quali sono i punti deboli della Riforma? Quali i punti di forza? Non trova che si sarebbe dovuto lavorare di più sulle garanzie, ovvero il “check and balance”, contro lo sbilanciamento sul potere esecutivo?

E’ vero il contrario. Manca un intervento sugli articoli della Costituzione relativi alla forma di governo (fiducia, sfiducia e scioglimento). A parte l’eliminazione della fiducia col Senato e il premio della legge elettorale, in corso di legislatura non ci sono rimedi istituzionali ai rischi di crisi. Si potrà però intervenire in un secondo momento. Il sistema italiano resta quello con le maggiori garanzie: un Presidente della Repubblica con poteri più forti degli altri Capi di Stato parlamentari, il referendum abrogativo a cui è anche ridotto il quorum, una magistratura indipendente con un Csm in cui i componenti laici non possono essere eletti dalla sola maggioranza, idem per la Corte costituzionale, una revisione costituzionale che diventa più difficile perché il Senato è sganciato dalla maggioranza. A mio avviso si è, anzi, commesso un eccesso di zelo alzando troppo il quorum per il Capo dello Stato che potrebbe bloccane l’elezione.      

Insomma per lei le riforme ci porteranno verso la terza repubblica, ovvero quella democrazia dell’alternanza sognata da Moro e Ruffilli. La democrazia dell’alternanza, però, implica valori repubblicani condivisi. Non mi sembra il caso della politica italiana. Dove forze politiche alternative al PD, vedi il centrodestra a trazione leghista, si pongono in pesante discontinuità con i valori della Carta del 1948 . Non è stato troppo ottimista?

La Repubblica è sempre la stessa perché c’è una continuità di principi. C’è una discontinuità degli strumenti per meglio rispondere a quei principi. Preferirei parlare di nuove regole per inquadrare un terzo sistema dei partiti. Io credo che nel Paese i valori siano condivisi, il problema è l’offerta politica che tende a riflettere  slogan semplificatori, favoriti anche dall’inadeguatezza degli strumenti a disposizione e dalle difficoltà del processo di federalizzazione europea.

Volendo fare una previsione, per quanto è possibile, come andrà a finire il referendum? Un plebiscito per Renzi?

Non saprei fare previsioni. Dubito però che l’opinione pubblica, al di là delle appartenenze politiche e culturali, voglia tenersi un sistema che ci potrebbe far ricadere nell’impasse del 2013 per la formazione del Governo e che in assenza di una Camera delle autonomie scarica i conflitti sulla Corte costituzionale. Il Presidente del Consiglio ci ha messo la faccia perché è la riforma che giustifica la prosecuzione della legislatura, ma il quesito è soprattutto su una indifferibile riforma, giusta nel merito che resterà anche dopo Renzi e che in realtà nella sua elaborazione era stata condivisa, sin dai lavori della Commissione di esperti del Governo Letta, anche dall’intero centro-destra. 

 

 

 

“Il nome di Dio è Misericordia”. Il libro-intervista di Papa Francesco

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Saranno il cardinale Segretario di Stato Pietro Parolin, l’attore Roberto Benigni, Padre Federico Lombardi e Jianqing Zhang Agostino (ospite del carcere di Padova) a presentare il  libro-intervista, scritto dal vaticanista della Stampa Andrea Tornielli, al Papa Francesco dal titolo «Il nome di Dio è Misericordia», domani, nella tarda mattinata, all’Augustianum di Roma situato a due passi da Piazza San Pietro. Anche Rainews24 seguirà la presentazione. Questo libro, scrive Tornielli, “è il frutto di un colloquio cominciato nel salottino della sua abitazione, nella Casa Santa Marta in Vaticano, in un afosissimo pomeriggio dello scorso luglio, pochi giorni dopo il ritorno dal viaggio in Ecuador, Bolivia e Paraguay”. Il libro-intervista, da domani in libreria per le edizioni Piemme, esce in contemporanea in 86 Paesi: tra gli editori ci sono, Verlag e Planeta.

Quello di Francesco è un vero e proprio inno alla Misericordia di Dio, una misericordia vissuta nella sua esperienza di Pastore nei luoghi delle periferie esistenziali e sociali dell’Argentina.

Dal libro esce un ritratto a tinte forti dell’ecclesiologia missionaria di Bergoglio, una sfida profetica per tutta la Chiesa cattolica.

Di seguito pubblichiamo un breve estratto, tratto dal sito http://www.lastampa.it/vaticaninsider/ita, del libro di Andrea Tornielli.

Troppa misericordia?  

La Chiesa condanna il peccato perché deve dire la verità: questo è un peccato. Ma allo stesso tempo abbraccia il peccatore che si riconosce tale, lo avvicina, gli parla della misericordia infinita di Dio. Gesù ha perdonato persino quelli che lo hanno messo in croce e lo hanno disprezzato. Dobbiamo tornare al Vangelo. Là troviamo che non si parla solo di accoglienza e di perdono, ma si parla di “festa” per il figlio che ritorna. L’espressione della misericordia è la gioia della festa, che troviamo bene espressa nel Vangelo di Luca: «Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione» (15, 7). Non dice: e se poi dovesse ricadere, tornare indietro, compiere ancora peccati, che si arrangi da solo! No, perché a Pietro che gli domandava quante volte bisogna perdonare, Gesù ha detto: «Settanta volte sette» (Vangelo di Matteo 18, 22), cioè sempre.

Al figlio maggiore del padre misericordioso (il riferimento è alla parabola del Figlio Prodigo, ndr.) è stato permesso di dire la verità di quanto accaduto, anche se non capiva, anche perché l’altro fratello, quando ha cominciato ad accusarsi, non ha avuto il tempo di parlare: il padre l’ha fermato e lo ha abbracciato. Proprio perché c’è il peccato nel mondo, proprio perché la nostra natura umana è ferita dal peccato originale, Dio che ha donato suo Figlio per noi non può che rivelarsi come misericordia. […]

Seguendo il Signore, la Chiesa è chiamata a effondere la sua misericordia su tutti coloro che si riconoscono peccatori, responsabili del male compiuto, che si sentono bisognosi di perdono. La Chiesa non è al mondo per condannare, ma per permettere l’incontro con quell’amore viscerale che è la misericordia di Dio. Perché ciò accada, lo ripeto spesso, è necessario uscire. Uscire dalle chiese e dalle parrocchie, uscire e andare a cercare le persone là dove vivono, dove soffrono, dove sperano. L’ospedale da campo, l’immagine con la quale mi piace descrivere questa “Chiesa in uscita”, ha la caratteristica di sorgere là dove si combatte: non è la struttura solida, dotata di tutto, dove ci si va a curare per le piccole e grandi infermità. È una struttura mobile, di primo soccorso, di pronto intervento, per evitare che i combattenti muoiano. Vi si pratica la medicina d’urgenza, non si fanno i check-up specialistici. Spero che il Giubileo straordinario faccia emergere sempre di più il volto di una Chiesa che riscopre le viscere materne della misericordia e che va incontro ai tanti “feriti” bisognosi di ascolto, comprensione, perdono e amore.

Andrea Tornielli, Il nome di Dio è Misericordia, Ed. Piemme, Milano 2016, pagg. 120, 15 €