Storie bibliche per l’oggi. Haim Baharier racconta la Torà

Davvero una bella iniziativa quella che si svilupperà, per sei domeniche, al Piccolo Eliseo a Roma. Parliamo degli incontri del maggior studioso della Torà, Haim Baharier, che inizieranno domenica prossima all’Eliseo. Durante gli incontri leggerà e commenterà, attualizzandole, storie bibliche tra le più note.

Pubblichiamo un testo di Baharier che spiega il significato dell’iniziativa a seguire il programma degli incontri.

Nel Pentateuco, la Torà, vi sono due volti che si fronteggiano, ogni tanto si sfiorano, ogni tanto si allontanano, qualche volta si baciano e si fondono, il primo è narrativo, il secondo normativo. Un immenso commentatore mistico del medioevo, il Nachmanides, asserisce che il volto narrativo costituisce il fondamento del volto normativo, previo un serio percorso intellettivo e spirituale. Questo percorso dice il Nachmanides non è evidente al lettore occasionale, necessita una seria preparazione sotto la guida di un maestro. Questo mi suggerisce che il Nachmanides ci abbia invitato all’interiorizzazione e all’elaborazione di specifiche regole ermeneutiche fondanti una lettura prospettiva e costruttiva del nostro patrimonio culturale. Soltanto in questo modo saremmo in grado di immaginare delle vie per uscire dai labirinti letali dell’attualità. Consapevole di ciò, mi immergo nella lettura di questo Libro che narra la storia della nascita e dello sviluppo, in ambienti quasi sempre ostili, dell’identità ebraica. Senza mai parlare inizialmente di un monoteismo in lotta con l’idolatria, lo sviluppo avviene in contrapposizione ad un ambiente in preda all’imperare della coscienza magica. Ma è proprio questa eccezionalità ambientale che mi frena. Anche la più complessa, la più sofisticata delle trasposizioni risulterebbe azzardata in un ambiente radicalmente diverso come forse quello odierno. Ma è poi così diverso? Nella stessa identità ebraica non vi sono forse delle frange ostaggi della più bieca coscienza magica? Come definire diversamente queste ortodossie arroccate sulle loro certezze, dimenticati e sepolti gli ammonimenti dei Maestri autentici “le buone domande non hanno risposta”… Che pensare di quella parte del del mondo cristiano adoratrice del perdono anticipato, ossia del perdono divino istituzionalizzato? Questa nuova propensione a non voler giudicare implica un pernicioso non valutare, la paura di qualsiasi percorso di pensiero… Che dire del soldato di Allah, il braccio armato, non pensante di un Dio senza uomini? E quando si prova a pensare, cosa succede? Parliamo del Creatore dei cieli e della terra. Cosa dice il Libro? “Plasmò i cieli e la terra… e tutto era caos”. La coscienza magica si uniforma e passa al giorno secondo. La coscienza ebraica nascente si rimbocca le maniche e decide di dover metter un po’ di ordine nel caos. Alcune colonne più avanti e per la coscienza magica Eva nasce da una costola asportata ad Adamo anestetizzato. E’ soltanto una parte di un tutto glorioso Adamo? La lettrice insoddisfatta decide che il sostantivo “addormentato” in ebraico ha la stessa energia numerica della parola “traduzione” e quindi legge che l’Adamo maschio unico e solitario ha rapidamente esaurito il suo significato e verrà sostituto da un Adamo plurale, Eva e Adamo. Ancora qualche colonna e l’umanità è diventata “Hamas”, si è pervertita. Vi sarà un diluvio universale dal quale un tale Noè, con la famiglia e qualche esemplare degli animali della terra, si salverà entrando nella parola. Arca in ebraico è anche parola. Il diluvio universale appartiene a tutte le culture, nella storia della coscienza ebraica il diluvio che annienta questo mondo già distrutto da un rapporto sordido con l’etica, risorgerà con l’avvento di un linguaggio nuovo fondante una lingua nuova. Per la lettura ebraica il mondo è linguaggio, la lingua è comunicazione interpersonale… Ma quando si dirà che l’identità ebraica, tutt’uno con lo stato di Israele, è parte integrante di questo Occidente, squassato dai venti e dalle tempeste delle coscienze magiche che lo assediano? Basteranno le mie sei lezioni per suscitare un desiderio di studio?

Haim Baharier

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ANTISEMITISMO IN EUROPA E STAMPA EUROPEA. INTERVISTA A UGO VOLLI

Ugo Volli (Belen Sivori/LaPresse)

Ugo Volli (Belen Sivori/LaPresse)

Tira una brutta aria in Europa. L’ascesa dei movimenti populisti, anti UE e anti establishment, porta con se molteplici pericoli. Non solo sul piano della tenuta del “sogno Europeo”, ma anche di una probabile rinascita dell’antisemitismo. Quale ruolo gioca la stampa europea nella denuncia? E’ all’altezza? Ne parliamo con Ugo Volli. Volli è un Filosofo della Comunicazione ed esperto di Semiologia. Svolge una grande attività di collaborazione con diverse testate. Scrive di ebraismo e di medio oriente su Pagine Ebraiche, Moked e Informazione Corretta oltre a recensire libri su Bollettino della Comunità ebraica di Milano Mosaico. Sul Sito “Informazione Corretta” fa una attività di monitoraggio sulla stampa europea e italiana per assicurare una corretta informazione su Israele.

Professore Può farci un quadro europeo, ovvero dove, secondo lei, è maggiore il pericolo di questa rinascita?

Oggi quel che appare più pericoloso non è l’antisemitismo tradizionale, avvolto nella macabra liturgia nazista, e nemmeno il tradizionale antigiudaismo cristiano. Essi sopravvivono, ma in forma grottesca e senza presa politica. Quel che preoccupa davvero è l’antisemitismo di matrice islamista, quello che spesso si traveste da antisionismo e gode di appoggi anche all’estrema sinistra. I bambini uccisi a Tolosa, le stragi del museo ebraico di Bruxelles e del supermercato kasher di Parigi, le minacce e  le violenze subite dagli ebrei in Norvegia e in altri paesi nordici vengono tutti da questa direzione.

Lei denuncia l’antisemitismo di stampo islamista (ovvero il radicalismo islamista). Le chiedo: e nei partiti di estrema destra europei (ad esempio il Front National oppure il partito liberalnazionale austriaco) non vede questo pericolo? 

In certi casi il pericolo di una deriva antisemita da parte di partiti etichettati come “populisti” esiste; in altri no, come in Olanda dove la matrice del movimento di Theo Vang Gog, Ayaan Hirsi e oggi Geert Wilders è certamente liberale. In altri casi il dubbio è più legittimo. E’ interessante però che sia in Francia, sia in Austria sia in Germania i partiti di opposizione di destra che recentemente hanno avuto grande successo abbiano esplicitamente ripudiato le ideologie antidemocratiche e antisemite che stanno nel passato di alcuni loro dirigenti, spingendosi a dichiarare il loro appoggio per lo stato di Israele. Ci si può chiedere naturalmente se queste prese di posizione non siano dovute a calcoli elettorali; ma in Italia abbiamo conosciuto un caso del genere, con le dichiarazioni di Gianfranco Fini sulle persecuzioni razziali come “male assoluto”; Ormai è passata una dozzina d’anni, e né Fini né i suoi eredi sono tornati indietro rispetto a queste prese di posizioni. Ci sono ancora degli antisemiti di estrema destra, ma sono una sparuta minoranza. In generale si può dire che la nascita di movimenti di destra che dichiarano di rispettare la democrazia e di rifiutare l’ideologia nazifascista e l’antisemitismo costituisce un allargamento dell’area democratica, importante nel momento in cui vi è una forte domanda politica da parte dell’elettorato per posizioni che si oppongano all’immigrazione selvaggia e alla denazionalizzazione. Comunque la si pensi su questo tema, è chiaramente molto meglio se queste posizioni sono rappresentate da partiti che sentono l’obbligo di dichiararsi democratici e non razzisti. Personalmente credo che sia opportuna un’apertura di fiducia nei confronti di queste forze. Un’apertura critica , ma un’apertura

Per l’Italia vede questo rischio di rinascita dell’antisemitismo?

Sono state segnalate minacce gravi, vi è stato qualche episodio concreto di attentati preparati, pestaggi, intimidazioni, tutti provenienti dalla matrice islamista. Oggi in Italia per fortuna tutte le sinagoghe, le scuole, i musei, le case di riposo sono vigilate dalle Forze dell’Ordine. Noi ebrei siamo grati allo Stato Italiano e ai militari che rischiano la vita per difenderci. Ma è normale che per andare a scuola, a pregare, a visitare un museo sia necessario superare scorte armate, metal detector, porte blindate? Già questo è un segno terribile della forza ancora attuale dell’antisemitismo omicida. Gli ebrei vivono in Italia da più di 2000 anni, hanno dato un contributo importante alla cultura nazionale, all’economia, all’arte e alla scienza. Hanno in genere un ottimo rapporto con l’Italia, che amano profondamente. Sanno di essere stati per lo più trattati da quel che sono, cittadini attivi e bene integrati. Ricordano però anche le eccezioni, il tradimento del ‘38, certe contestazioni violente da parte dell’estrema sinistra. E devono purtroppo pensare che nella situazione attuale  vi siano nuovi rischi, che vengono da movimenti e forze che non coincidono necessariamente coi carnefici del passato

Non sempre la stampa europea è all’altezza nella denuncia relativa al suddetto crescente antisemitismo. Quali testate si distinguono nel segnalare questo pericolo? 

La stampa europea in genere tende a occultare i rischi connessi all’immigrazione e l’antisemitismo. Spesso si mette alla testa della campagne contro Israele e attizza in maniera più o meno consapevole l’antisemitismo. Ricordo l’ignobile campagna del giornale svedese Aftonbladet che sostenne che l’esercito israeliano uccideva i palestinesi per far commercio dei loro organi. Non c’era nessuna prova, anzi la falsità era assoluta ed evidente, ma dietro si evocava la secolare calunnia del sangue per cui gli ebrei ucciderebbero i bambini cristiani per impastarvi il pane azzimo della Pasqua. E’ un caso estremo, ma non è isolato.

Come giudica la stampa italiana su questo fronte?

E’ come quella europea, certamente non migliore. Alla campagna contro Israele partecipano i giornali cattolici come Avvenire e Osservatore Romano, l’organo della confindustria Sole 24 ore e naturalmente i giornali di estrema sinistra come Il Manifesto. E’ molto difficile fare arrivare al pubblico notizie importanti che non rientrano nella linea anti-israeliana della stampa. Basta pensare all’abitudine di descrivere il governo israeliano come “di Tel Aviv”, anche se governo, parlamento, corte suprema, ministeri, partiti di Israele risiedono tutti a Gerusalemme, fin dal 1949. Al di là di qualunque dissenso sui confini di Israele, al di là di qualunque desiderio nobile o assassino,  di fatto le cose stanno  così, ma i giornali continuano a parlare di “governo di Tel Aviv”. E’ come se qualche clericale che non è d’accordo sulla fine dello Stato della Chiesa parlasse dell’Italia usando la locuzione “il governo di Firenze”

Il suo giudizio su Avvenire e Osservatore Romano, è duro. Francamente non posso condividerlo. Se penso al grande cammino della Chiesa cattolica dopo il Concilio Vaticano II, alle visite dei Papi alle Sinagoghe (Giovanni-Paolo II, Benedetto XVI e da ultimo Papa Francesco). Può spiegare le ragioni del suo giudizio?

Bisogna distinguere fra la posizione della Chiesa e in particolare dei grandi pontefici che lei ha citato, dal lavoro giornalistico di organi di stampa che pure sono di proprietà della Cei o del Vaticano. Purtroppo di fatto questi giornali perseguono su Israele un atteggiamento di evidente antipatia e spesso di informazione parziale e pregiudizievole, anche se l’atteggiamento verso la religione ebraica e i suoi esponenti è per lo più positivo. C’è un problema in questa differenza, che va attribuito da un lato a un’antica diffidenza teologica verso uno stato del popolo che si è conservato nei secoli proprio perché ha rifiutato la conversione che gli si chiedeva; dall’altro a un certo terzomondismo erede della teologia della liberazione che ha molto corso oggi nella chiesa; dall’altro ancora a un malinteso realismo politico. Fatto sta che la ricostruzione dei fatti che si legge sotto queste testate rispecchia quasi sempre posizioni filo-arabe e antisraeliane; il terrorismo palestinese è messo in secondo piano e le reazioni israeliane sono enfatizzate, mai si rileva che il solo stato di tutto il Medio Oriente in cui il culto cristiano è libero e senza pericolo e di conseguenza i fedeli sono in crescita è proprio Israele. Io spero che prima o poi gli intellettuali cattolici che si occupano di comunicazione si rendano conto che non solo vi deve essere una relazione naturale di amicizia, oggi finalmente sottratta ai risentimenti antichi, fra la Chiesa e gli ebrei, ma che lo stesso deve avvenire con lo Stato di Israele.

Parliamo dell’antisionismo, che a me pare l’altra faccia della medaglia,  ovvero una forma di antisemitismo occultato. In che misura la legittima critica delle scelte di qualunque governo d’Israele da parte di chicchessia diventa antisionismo?

E’ banale dirlo. La differenza sta fra l’opposizione al governo, certamente legittima e che nella democrazia israeliana ha largo spazio giornalistico e parlamentare, e la volontà di distruggere lo stato e magari il popolo ebraico. In concreto un celebre oppositore sovietico, fuggito a suo tempo in Israele, Natan Sharansky, ha proposto il criterio delle “tre D”. Sono antisioniste e quindi antisemite le posizioni che demonizzano Israele dandone un ritratto violentemente negativo, come fanno coloro che parlano di “nuovo nazismo” o di “Lager a cielo aperto” per Gaza; e ancora le posizioni  che delegittimano lo stato nazione del popolo ebraico, lasciando intendere che non dovrebbe esistere, essendo il frutto di un “peccato originale” da smontare o cose del genere. E infine le posizioni che applicano un doppio standard, condannando Israele per scelte che sono accettate altrove, come la difesa dal terrorismo o la richiesta a organizzazioni finanziate da governi stranieri di dichiararsi come tali.

Dove vede la  maggior concentrazione di antisionismo/antisemitismo in Italia?

Purtroppo oggi a sinistra. Vi sono personaggi come D’Alema, De Magistris e anche molti esponenti del movimento 5 stelle che non perdono occasione per esibire violenta antipatia nei confronti di Israele e solidarietà al terrorismo, e che spesso  estendono la loro inimicizia agli ebrei in genere. Un caso particolarmente doloroso è quello dell’Anpi, che negli ultimi anni ha escluso da molte manifestazioni per il 25 aprile la “Brigata ebraica” che combatté per liberare l’Italia dal nazismo, per non dispiacere ai filopalestinesi. Non è una posizione isolata in Europa. Vi sono posti, soprattutto nei paesi nordici, dove gli ebrei sono esclusi anche dalla celebrazione della memoria della Shoà, sempre in odio a Israele.

Quali strumenti possono essere usati per combattere l’antisionismo/antisemitismo ? 

Bisogna continuare a spiegare come stanno le cose, a smascherare le menzogne e i trucchi che si usano per combattere e delegittimare il mondo ebraico, come la recente delibera dell’Unesco che ha preteso di considerare il Monte del Tempio, lo spazio centrale della storia ebraica da tremila anni, e anche il luogo di molta predicazione di Gesù, come un monumento puramente musulmano da sempre e per sempre. Peccato che gli arabi abbiano conquistato con le armi e islamizzato a forza Gerusalemme solo sette secoli dopo la vita di Gesù e una ventina dopo le prime tracce ebraiche nella regione. Non bisogna rassegnarsi a subire le discriminazioni. Bisogna contrastare giorno per giorno una propaganda antisionista che è quotidiana. Io personalmente mi sforzo di farlo innanzitutto in rete, con una rubrica quotidiana sul sito “Informazione Corretta”.

La comunità ebraica si sente oggi sicura in Italia?

Come ho detto sopra, c’è una buona sicurezza, dovuta anche alla sorveglianza delle forze dell’ordine e alla solidarietà della popolazione. Ma i rischi non mancano. Gli ebrei ricordano non solo le deportazioni naziste del ‘43-45, ma anche gli attentati palestinesi, alcuni dei quali mortali, come quello al Tempio centrale di Roma e all’aeroporto di Fiumicino.

Lei, sulla sua pelle, o analogamente suoi amici ebrei, ha avuto  diretta esperienza di episodi antiebraici? 

Preferisco non parlare della mia esperienza per non personalizzare il discorso. Basti dire che non c’è ebreo in Italia che non debba fare i conti prima o poi con i problemi derivanti dalla sua identità. Per fortuna, lo ripeto, di questi tempi non è accaduto a noi niente di grave. Possiamo solo sperare che continui così.

“Giustizia, giustizia perseguirai…” (Devarìm XVI, 20). Intervista ad Haim Baharier

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Foto da www.businesspeople.it

E’ da pochi giorni finita la festa ebraica dello Yom Kippur, il giorno dell’Espiazione, è la festività più sacra del calendario ebraico. La giornata è dedicata all’espiazione spirituale, e al proposito di iniziare l’anno nuovo con una coscienza limpida. Ed è in questo spirito che abbiamo pensato di intervistare Haim Baharier, grande esegeta della Torah ed esponente della Comunità Ebraica di Milano, sulla crisi che sta vivendo l’Occidente. Ci offre l’opportunità di conoscere uno sguardo ebraico (spirituale e culturale) sul mondo contemporaneo. Baharier è nato a Parigi da genitori ebrei di origine polacca, entrambi passati attraverso l’orrore di Auschwitz, Haim Baharier è stato allievo di Emmanuel Lévinas, uno dei maggiori fi losofi del Novecento, e di Léon Askenazi, il padre della rinascita del pensiero ebraico in Francia. Matematico e psicoanalista, ma anche consulente aziendale, tiene da molti anni esclusive e memorabili lezioni di ermeneutica ed esegesi biblica. Ha pubblicato diversi volumi, tra cui La Genesi spiegata da mia figlia (Edizioni Garzanti, Milano 2015).

Dottor Baharier, lei è ermeneuta (o esegeta) della Torah. Prima di arrivare ad essere un interprete autorevole della Bibbia la sua vita ha conosciuto svolte importanti. Quali sono state, in sintesi, le tappe significative della sua vita. Come è arrivato all’Esegesi Biblica, lei che è un matematico e psicanalista?

Forse non sono stato io ad andare verso l’Esegesi Biblica e il pensiero d’Israel, sono arrivati da me a Parigi quando avevo 4 anni personificati da un precettore che mi pareva Matusalemme, sonnacchioso e tormentato dalla psoriasi. Il primo incontro ravvicinato non è stato d’innamoramento. Ma succede proprio così, non ci pensi, ci pensi un po’, ci pensi un po’ di più e non ne puoi più fare a meno. La svolta decisiva è poi avvenuta con l’incontro con Léon Askenazi e Emmanuel Lévinas, fautori del rinnovo degli studi ebraici in Francia. Per me la filosofia, la matematica e il pensiero d’Israel sono un tutto articolato.

Nel suo libro autobiografico, La Valigia quasi vuota, parla, tra l’altro, di due persone importanti per la sua vita: suo padre e Monsieur Chouchani. Quest’ultimo è una figura misteriosa, un clochard, un uomo di cultura immensa, che è stato il maestro di Emanuel Lévinas. Lei lo ha definito come un “grande enigma” della cultura del ‘900. Chi era quest’uomo che ha attraversato la sua giovinezza? Qual è stato l’insegnamento di questo maestro?


Peccherei nei confronti di Monsieur Chouchani anche se solo tentassi di imprigionarlo in quaranta o in quattrocento mila righe. Questa frase è per tranquillizzare i fabbricanti di miti e leggende.

Ora diventiamo seri. Monsieur Chouchani è stato il clown messianico dell’immediato dopo Shoa.

Suonava l’intelligenza, la cultura e il sapere, da virtuoso. Così era impossibile non notarlo, non guardarlo. E che cosa vedevi? Un vero e proprio clochard, dico un esemplare perfetto del claudicante, l’Occidente del dopo Shoa che deve interrogarsi, ebrei compresi, sul mostro partorito dall’Occidente stesso, per poter riavviarsi.

Lei è figlio di un sopravvissuto al campo di sterminio nazista di Auschwitz. La Shoah è il buco nero della storia del Novecento. Elie Wiesel, che lei ha conosciuto, parlava di Auschwitz come il tempo del “silenzio di Dio”. Anche un altro intellettuale di origine ebraica, il filosofo tedesco Hans Jonas, afferma che Auschwitz mette in discussione il concetto di Dio. L‘assenza, la non-onnipotenza, l’esilio, il dolore di Dio sono stati spesso richiamati dalla teologia post-Auschwitz, primo tra tutti da Jonas, che riprende quindi il concetto di Tzimtzùm accogliendone lo sforzo di spiegare in maniera non punitiva, non di onnipotenza il silenzio di Dio di fronte alla sofferenza dell’innocente. Qual è la sua riflessione sulla Shoah?


Sono figlio di due sopravvissuti, non è una precisazione ma un dovere…

Elie Wiesel, un amico di famiglia, sapeva che l’espressione da lui coniata per Auschwitz, “il silenzio di Dio”, non mi convinceva. Il silenzio di Dio nella tradizione cabalista è un modo borghese di parlare dell’assenza di Dio. Secondo la loro lettura del testo della Genesi, il Creatore si è dato alla fuga, rifugiandosi nel suo Shàbbat, non avendo nemmeno ultimato il lavoro e lasciando sommarie istruzioni per l’uso e per il perfezionamento. Non dunque il silenzio di Dio, ma la sua assenza. La Shoa è stata resa possibile dal silenzio connivente e quindi dalla complicità di tutto l’Occidente.

Non se ne può più di sentire ancora oggi “non sapevamo”. A mio parere, ad Auschwitz il silenzio colpevole, assordante è stato quello degli uomini che ha soffocato la voce flebile del grande Assente.

Questo passaggio sulla Shoah ci porta dritti al tema della giustizia. Nella Torah è scritto: “giustizia, solo giustizia , perseguirai”. Questo imperativo biblico è uno
dei pilastri dell’ebraismo. Come si declina, dal punto di vista dell’ebraismo, oggi questa parola?


Incombe una precisazione, il testo dice “giustizia, giustizia perseguirai”. Questa ridondanza, secondo alcuni commentatori, inventa il coinvolgimento degli utenti della giustizia. E’doveroso assumere la responsabilità di ricercare ciò che è giusto nella giustizia. Un’altra lettura in questa ridondanza vede l’invito a fare uso di mezzi giusti nelle indagini di giustizia. Sono esigenze che la cronaca evidenzia quotidianamente.


L’Occidente del XXI secolo è attraversato da una profonda crisi antropologica. L’identità europea, in tempi di euroscetticismo, è diventata “liquida”. Quale può essere il contributo dell’Ebraismo alla crisi dell’uomo europeo?

Chiediamoci innanzitutto se l’ebraismo stesso è immune da questa crisi. Forse l’identità è come il progresso che si sviluppa principalmente nel conflitto. Si intende il conflitto con l’ambiente, il conflitto dell’individuo con la società, il conflitto tra le società, e non per ultimo il conflitto con se stessi. Forse l’identità si chiarisce ogni volta nella tregua che sancisce il cammino percorso. Il contributo dell’identità Israel, il nome che io darei all’identità ebraica che ha come paradigma il progresso, potrebbe essere esplicitato in questo modo.

C’è una parola, nei suoi libri, che mi ha
colpito: claudicanza (un concetto che lei accennava prima). Non va intesa come difetto fisico, diventa quasi una categoria filosofica per definire l’essere umano . Rimanda, cioè, ad un pensiero più profondo. E’ così? Quali implicazioni porta la “claudicanza”?

Sì è proprio così. La claudicanza è la presa di coscienza di un rimpicciolimento, ma non di una diminuzione. Rimpicciolito, piccolo, farò meno fatica a concepire il luogo dell’altro, la possibilità di un altro. Interessante il percorso biblico che origina il tutto nella relazione tra il primogenito e il secondogenito. Il primo deve imparare a accogliere il secondo senza traumi, il secondo dovrebbe fare da formatore al primo rassicurandolo: ti giuro non ti rubo nulla!

Gli Ebrei si autodefiniscono come “Popolo del Libro”. In tempi di fondamentalismo, l’ermeneutica può essere l’antidoto ad ogni tipo di radicalismo. Per l’ebreo la Bibbia è essenzialmente Mikra, ciò che scaturisce dalla lettura. Come va letta la Torah?

In realtà, il Libro non è ancora uscito dalla stampa!

La lettura della Bibbia è l’illustrazione di un divenire,

giorno dopo giorno, anno dopo anno bisogna leggere o meglio, studiare il testo e i commenti che si sono succeduti nei secoli e che fanno parte del libro. Siccome i commenti sono spesso contradditori, questa lettura costituisce il miglior apprendimento della pluralità.

Mi sia concesso di aggiungere la spiegazione di un apparente paradosso. La tradizione ribadisce spesso l’univocità del testo biblico. Sciogliamo la contraddizione spiegando che per la tradizione ermeneutica l’univocità è la possibilità di ricondurre ogni interpretazione ad un Maestro. Nel nome della dignità di ciascuna lettura non vi deve essere una comunicazione anonima.

Cosa può dire all’uomo secolarizzato La Torah?

Staremo a vedere, staremo ad ascoltare ciò che dirà la Torah all’uomo secolarizzato che la prenderà in mano per leggerla senza pregiudizi e senza rivendicazioni.

Tirando le somme: cosa vuol dire, in profondità, essere ebrei oggi?

Potremmo dire molto. Mi accontento di un sentire nuovo, sentirmi Israel, e cioè nello stesso tempo diasporico, cittadino del Paese dove risiedo, e pienamente Israeliano.Al di là di ogni considerazione meramente politica, ritengo che lo Stato di Israele è dov’è, dove deve essere, in rappresentanza di tutto l’Occidente. Va aiutato, sicuramente non sanzionato. Siamo tutti lì.

“Voi siete i nostri fratelli e le nostre sorelle maggiori nella fede”. Il testo del discorso di Papa Francesco alla comunità ebraica nella Sinagoga di Roma

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Grande emozione ha suscitato  la visita di Papa Francesco alla Sinagoga di Roma. Emozionante per il clima veramente fraterno della comunità ebraica nei confronti del Papa. Il Papa ha ricambiato con la sua grande umanità, pronunciando parole indelebili. Ma aldilà delle parole, importanti quelle del Rabbino capo, sono stati i segni, i comportamenti , che hanno segnato la visita. Il clima di fraternità dominava il tutto. IRREVOCABILITÀ’ dell’alleanza di Dio con il Popolo d’Israele, la chiave è tutta qui. Da questo discende tutto il futuro dell’impegno per la pace di ebrei e cristiani. La profezia del Concilio, il documento Nostra Aetate, dà il suo frutto. In questa visita non potevano mancare le PAROLE forti sulla Shoah. Ma ancora una volta sono stati i gesti a incarnare le parole. L’abbraccio di Francesco nei confronti dei sopravvissuti di Auschwitz è stato forte. Emblematico,così, è stato il canto finale, Ani maamin,: “credo in piena fede nella venuta del messia”, che cantavano gli ebrei mentre andavano a morire nei crematori, . un canto struggente, che ti toglie il respiro.

Una giornata indelebile per la storia millenaria dell’ebraismo e del cristianesimo.

Di seguito pubblichiamo il testo dell’intervento del Papa:

Cari fratelli e sorelle,

sono felice di trovarmi oggi con voi in questo Tempio Maggiore. Ringrazio per le loro cortesi parole il Dottor Di Segni, la Dottoressa Dureghello e l’Avvocato Gattegna; e ringrazio voi tutti per la calorosa accoglienza, grazie! Todà rabbà!

Nella mia prima visita a questa Sinagoga come Vescovo di Roma, desidero esprimere a voi, estendendolo a tutte le comunità ebraiche, il saluto fraterno di pace di questa Chiesa e dell’intera Chiesa cattolica.

Le nostre relazioni mi stanno molto a cuore. Già a Buenos Aires ero solito andare nelle sinagoghe e incontrare le comunità là riunite, seguire da vicino le feste e le commemorazioni ebraiche e rendere grazie al Signore, che ci dona la vita e che ci accompagna nel cammino della storia. Nel corso del tempo, si è creato un legame spirituale, che ha favorito la nascita di autentici rapporti di amicizia e anche ispirato un impegno comune. Nel dialogo interreligioso è fondamentale che ci incontriamo come fratelli e sorelle davanti al nostro Creatore e a Lui rendiamo lode, che ci rispettiamo e apprezziamo a vicenda e cerchiamo di collaborare. E nel dialogo ebraico-cristiano c’è un legame unico e peculiare, in virtù delle radici ebraiche del cristianesimo: ebrei e cristiani devono dunque sentirsi fratelli, uniti dallo stesso Dio e da un ricco patrimonio spirituale comune (cfr Dich. Nostra Aetate 4), sul quale basarsi e continuare a costruire il futuro.

Con questa mia visita seguo le orme dei miei Predecessori., Papa Giovanni Paolo II venne qui trent’anni fa, il 13 aprile 1986; e Papa Benedetto XVI è stato tra voi sei anni or sono. Giovanni Paolo II, in quella occasione, coniò la bella espressione “fratelli maggiori”, e infatti voi siete i nostri fratelli e le nostre sorelle maggiori nella fede. Tutti quanti apparteniamo ad un’unica famiglia, la famiglia di Dio, il quale ci accompagna e ci protegge come suo popolo. Insieme, come ebrei e come cattolici, siamo chiamati ad assumerci le nostre responsabilità per questa città, apportando il nostro contributo, anzitutto spirituale, e favorendo la risoluzione dei diversi problemi attuali. Mi auguro che crescano sempre più la vicinanza, la reciproca conoscenza e la stima tra le nostre due comunità di fede. Per questo è significativo che io sia venuto tra voi proprio oggi, 17 gennaio, quando la Conferenza Episcopale Italiana celebra la “Giornata del dialogo tra cattolici ed ebrei”.

Abbiamo da poco commemorato il 50º anniversario della Dichiarazione Nostra aetate del Concilio Vaticano II, che ha reso possibile il dialogo sistematico tra la Chiesa cattolica e l’ebraismo. Il 28 Ottobre scorso, in Piazza San Pietro., ho potuto salutare anche un gran numero di rappresentanti ebraici, e mi sono così espresso: «Una speciale gratitudine a Dio merita la vera e propria trasformazione che ha avuto in questi cinquant’anni il rapporto tra cristiani ed ebrei. Indifferenza e opposizione si sono mutate in collaborazione e benevolenza. Da nemici ed estranei, siamo diventati amici e fratelli. Il Concilio, con la Dichiarazione Nostra aetate ha tracciato la via: “sì” alla riscoperta delle radici ebraiche del cristianesimo; “no” ad ogni forma di antisemitismo, e condanna di ogni ingiuria, discriminazione e persecuzione che ne derivano». Nostra aetate ha definito teologicamente per la prima volta, in maniera esplicita, le relazioni della Chiesa cattolica con l’ebraismo. Essa naturalmente non ha risolto tutte le questioni teologiche che ci riguardano, ma vi ha fatto riferimento in maniera incoraggiante, fornendo un importantissimo stimolo per ulteriori, necessarie riflessioni. A questo proposito, il 10 dicembre 2015, la Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo , ha pubblicato un nuovo documento, che affronta le questioni teologiche emerse negli ultimi decenni trascorsi dalla promulgazione di Nostra aetate. Infatti, la dimensione teologica del dialogo ebraico-cattolico merita di essere sempre più approfondita, e desidero incoraggiare tutti coloro che sono impegnati in questo dialogo a continuare in tal senso, con discernimento e perseveranza. Proprio da un punto di vista teologico, appare chiaramente l’inscindibile legame che unisce cristiani ed ebrei. I cristiani, per comprendere sé stessi, non possono non fare riferimento alle radici ebraiche, e la Chiesa, pur professando la salvezza attraverso la fede in Cristo, riconosce l’irrevocabilità dell’Antica Alleanza e l’amore costante e fedele di Dio per Israele.

Insieme con le questioni teologiche, non dobbiamo perdere di vista le grandi sfide che il mondo di oggi si trova ad affrontare. Quella di una ecologia integrale è ormai prioritaria, e come cristiani ed ebrei possiamo e dobbiamo offrire all’umanità intera il messaggio della Bibbia circa la cura del creato. Conflitti, guerre, violenze ed ingiustizie aprono ferite profonde nell’umanità e ci chiamano a rafforzare l’impegno per la pace e la giustizia. La violenza dell’uomo sull’uomo è in contraddizione con ogni religione degna di questo nome, e in particolare con le tre grandi religioni monoteistiche. La vita è sacra, quale dono di Dio. Il quinto comandamento del Decalogo dice: «Non uccidere» (Es 20,13). Dio è il Dio della vita, e vuole sempre promuoverla e difenderla; e noi, creati a sua immagine e somiglianza, siamo tenuti a fare lo stesso. Ogni essere umano, in quanto creatura di Dio, è nostro fratello, indipendentemente dalla sua origine o dalla sua appartenenza religiosa. Ogni persona va guardata con benevolenza, come fa Dio, che porge la sua mano misericordiosa a tutti, indipendentemente dalla loro fede e dalla loro provenienza, e che si prende cura di quanti hanno più bisogno di Lui: i poveri, i malati, gli emarginati, gli indifesi. Là dove la vita è in pericolo, siamo chiamati ancora di più a proteggerla. Né la violenza né la morte avranno mai l’ultima parola davanti a Dio, che è il Dio dell’amore e della vita. Noi dobbiamo pregarlo con insistenza affinché ci aiuti a praticare in Europa, in Terra Santa, in Medio Oriente, in Africa e in ogni altra parte del mondo la logica della pace, della riconciliazione, del perdono, della vita.

Il popolo ebraico, nella sua storia, ha dovuto sperimentare la violenza e la persecuzione, fino allo sterminio degli ebrei europei durante la Shoah. Sei milioni di persone, solo perché appartenenti al popolo ebraico, sono state vittime della più disumana barbarie, perpetrata in nome di un’ideologia che voleva sostituire l’uomo a Dio. Il 16 ottobre 1943, oltre mille uomini, donne e bambini della comunità ebraica di Roma furono deportati ad Auschwitz. Oggi desidero ricordarli con il cuore, in modo particolare: le loro sofferenze, le loro angosce, le loro lacrime non devono mai essere dimenticate. E il passato ci deve servire da lezione per il presente e per il futuro. La Shoah ci insegna che occorre sempre massima vigilanza, per poter intervenire tempestivamente in difesa della dignità umana e della pace. Vorrei esprimere la mia vicinanza ad ogni testimone della Shoah ancora vivente; e rivolgo il mio saluto particolare a voi, che siete qui presenti.

Cari fratelli maggiori, dobbiamo davvero essere grati per tutto ciò che è stato possibile realizzare negli ultimi cinquant’anni, perché tra noi sono cresciute e si sono approfondite la comprensione reciproca, la mutua fiducia e l’amicizia. Preghiamo insieme il Signore, affinché conduca il nostro cammino verso un futuro buono, migliore. Dio ha per noi progetti di salvezza, come dice il profeta Geremia: «Io conosco i progetti che ho fatto a vostro riguardo – oracolo del Signore –, progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza» (Ger 29,11). Che il Signore ci benedica e ci protegga. Faccia splendere il suo volto su di noi e ci doni la sua grazia. Rivolga su di noi il suo volto e ci conceda la pace (cfr Nm 6,24-26). Shalom alechem!

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