PIATTAFORME DIGITALI E RIDER: L’EUROPA INDICA LA STRADA ITALIANA. Intervista a Giuseppe Sabella

Com’è noto, giovedì scorso la Commissione europea ha presentato una proposta di direttiva sulle tutele ai lavoratori delle piattaforme digitali. Tra gli obiettivi della misura, che andrà ora al vaglio di Consiglio e Parlamento, anche quello di garantire la privacy dei lavoratori e il controllo umano degli algoritmi che ne permettono il funzionamento. Inoltre, la Commissione europea ha avviato una consultazione invitando cittadini, imprese, parti sociali, mondo accademico, enti governativi e portatori di interessi a presentare osservazioni sul progetto di orientamenti relativi all’applicazione del diritto dell’Ue in materia di concorrenza ai contratti collettivi riguardanti le tutele dei lavoratori autonomi individuali prestatori di servizi. Ne abbiamo parlato con Giuseppe Sabella, direttore di Oikonova / Think-industry 4.0.

Sabella, qual è la sua valutazione in merito alla proposta di direttiva della Commissione in materia di tutele ai lavoratori delle piattaforme digitali?

Il cambio di passo della Commissione von der Leyen, rispetto alla stagione guidata da Jean Claude Juncker, è rilevante in materia di politiche sociali. Al di là delle circostanze anche drammatiche che hanno favorito il grande accordo sul Next Generation EU, ricorderei che lo scorso anno, sempre attraverso lo strumento della direttiva, la Commissione richiamava gli stati membri all’introduzione del salario minimo adeguato. È anzitutto evidente la forte intenzione dell’Europa di imprimere un cambiamento in materia di diritti sociali, cosa per altro molto in linea con l’Agenda Onu 2030 che non è soltanto un programma per l’ambiente. In sintesi, il Green Deal europeo vuole essere un nuovo corso. Speriamo lo sia anche nei fatti e non solo nei piani di Bruxelles. In secondo luogo, in materia di salario minimo come in materia di piattaforme digitali, è evidente l’attenzione che la Commissione mostra per la contrattazione collettiva.

Perché ritiene significativa questa attenzione?

In Italia, da tempo, i ministri del lavoro che si alternano parlano dei loro obiettivi spesso prescindendo dal ruolo delle Parti sociali. Non è questa una difesa d’ufficio di nessuno, soltanto vi sono aspetti della regolazione del lavoro che se vengono fagocitati dal decisore politico diventano rigidissimi. Da più osservatori, ad esempio, nel nostro Paese si invoca un intervento sul lavoro da remoto. È evidente che c’è un vuoto normativo da colmare, ma non può essere la legge a disciplinare i rapporti tra impresa e lavoro, se non a costruire una cornice, come sta facendo la Commissione in particolare in materia di piattaforme, favorendo il lavoro delle Parti. Impresa e lavoro devono poter tornare a intervenire in modo rapido su norme e accordi che stipulano. La legge, in questo senso, è burocratica e apre al contenzioso giudiziale.

Mentre il vicepresidente Dombrovskis dice che, se svolgono lavoro subordinato, i lavoratori delle piattaforme digitali devono avere lo stesso livello di tutele che hanno gli altri lavoratori, c’è chi muove accuse alla Commissione di ostacolare i grandi player del lavoro digitale. È così?

Mi sembra francamente un’accusa un po’ fantasiosa. Anzitutto, la direttiva introduce alcuni criteri – se la piattaforma determina il salario o impone un tetto salariale; se controlla l’operato del rider; se individua orari di lavoro determinati, o limita i periodi di vacanza, e impedisce al lavoratore di farsi sostituire; se stabilisce regole perentorie che il lavoratore deve adottare; se impedisce al rider di ampliare il proprio ventaglio di clienti – e dice che nel caso in cui due di queste condizioni si verificassero contestualmente, si tratterebbe di subordinazione. Concretamente, oggi sono oltre 28 milioni le persone nell’UE che lavorano mediante piattaforme digitali e si prevede che nel 2025 arriveranno a essere 43 milioni. La stragrande maggioranza di queste persone sono lavoratori autonomi. Si stima – questo è il punto – che 5,5 milioni di questi lavoratori siano erroneamente classificati come indipendenti, il che si traduce, tra l’altro, nel mancato versamento di contributi per un importo compreso tra 1,6 e 4 mld di euro l’anno. In buona sostanza, la traduzione della direttiva da parte degli stati membri riguarderebbe al momento meno del 20% del totale dei lavoratori digitali. Mi sembra, in sintesi, sia questo l’inizio di una chiarezza importante circa la classificazione del lavoro emergente.

In Italia la giurisprudenza in particolare era già arrivata a riconoscere lo status di lavoro dipendente ai fattorini digitali. Tra l’altro, il lavoro dell’eurogruppo italiano pare sia stato importante nello sviluppo di questa direttiva. Che conclusioni trarne?

In primis, nella fattispecie, il dlgs 81/2015 – che su altri punti è stato smontato dalla Corte Costituzionale – ha sancito un orientamento importante nel diritto del lavoro italiano, ovvero quello di applicare la disciplina della subordinazione anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative ed etero-organizzate. Da qui la decisione finale della magistratura di ricondurre il caso riders al lavoro subordinato. D’altro canto, lo stop dei Tribunali di Bologna e Firenze per l’illegittimità del contratto Assodelivery-Ugl chiede di individuare nuove soluzioni condivise dalle Parti sociali. In questo senso, la direttiva europea, favorisce un intervento del governo per la riapertura di un tavolo nazionale.

Cosa possiamo prevedere come possibile evoluzione della situazione italiana?

Al punto in cui siamo, l’evoluzione deve arrivare dalla contrattazione collettiva. E qui qualche considerazione possiamo farla. Oggigiorno, per quanto il sindacato dei lavoratori fatichi a essere attrattivo, va anche detto che il ritardo è del sindacato confederale. Sul piano dei sindacati di categoria, si continuano a rinnovare accordi che sono funzionali al lavoro e che a livello europeo sono ritenuti innovativi. Penso in particolare a contratti dell’industria. Questo per dire che le relazioni industriali conservano un ruolo importante nel nostro Paese che non credo verrà meno nei prossimi anni, anzi. Per non allontanarci troppo dal settore delle piattaforme, se pensiamo all’accordo che qualche mese fa i sindacati hanno raggiunto con Amazon, è evidente che si è avviata una fase di relazioni industriali di importante qualità tra il colosso dell’e-commerce e il nostro sindacato. Accordo “storico” hanno detto autorevoli rappresentanti del sindacato al termine della trattativa e la stessa azienda non ha nascosto soddisfazione. Voglio dire con questo una cosa molto semplice: in Italia sappiamo fare i contratti e oggi si è universalmente capito, dopo le intemperie dell’ultimo decennio, che il lavoro ha bisogno dell’impresa. Ricordo, in questo senso, una frase di Susanna Camusso – già segretaria generale della Cgil – in piena crisi economica (2013): “bisogna salvare l’impresa per salvare il lavoro”. In un Paese con una cultura del lavoro così conflittuale come il nostro, negli ultimi anni – complici la crisi economica del 2008 e la pandemia – abbiamo fatto importanti passi in avanti da questo punto di vista. Naturalmente ognuno tira acqua al suo mulino. Ma, come emerge anche dalle stime sulla crescita degli organismi internazionali, siamo tutt’altro che impreparati per affrontare il nuovo ciclo economico alle porte. È merito, anche, della contrattazione collettiva.

TIM-KKR: “L’ITALIA RISCOPRE IL SUO ATLANTISMO E SALUTA LA VIA DELLA SETA”. INTERVISTA A GIUSEPPE SABELLA

Com’è noto, il fondo infrastrutturale americano KKR ha presentato una proposta di offerta per l’acquisto di TIM. La reazione del titolo in borsa è stata molto buona – ieri +30%, oggi oltre +4% – ma le incognite sull’operazione restano. E non sono poche. A cominciare da Vivendi, socio di maggioranza relativa (23,9% delle azioni), che giudica insufficiente l’offerta degli americani. Mentre i sindacati chiedono un incontro urgente al governo, da Palazzo Chigi traspare massimo riserbo. Come evolverà la situazione? Ne abbiamo parlato con Giuseppe Sabella, direttore di Think-industry 4.0 / oikonova.

Sabella, cosa sta succedendo e quali possibili evoluzioni per le telecomunicazioni italiane?

La notizia si è presentata come un fulmine a ciel sereno. Inoltre, KKR è un interlocutore con alcune particolarità significative: è americano, ha in gestione oltre 400 miliardi (circa un quarto del nostro pil), è già presente nel pacchetto azionario di Fiber cop proprio insieme a Tim e a Fastweb. Di certo sappiamo che Tim ha bisogno di un’iniezione di denaro, la situazione è davvero critica. L’indebitamento è stimato attorno ai 21 miliardi e le marginalità lorda attorno ai 7. Dopo l’offerta di KKR il titolo ha registrato un balzo significativo ma a fine ottobre valeva 0,32€. Consideriamo che nel 2015, quando Vivendi diventava azionista di maggioranza acquisendo il 23,9%, il titolo era quotato a 1,08€. Questo ci dice di quale performance negativa si è resa protagonista l’azienda. Come potrà evolvere la situazione è difficile prevederlo ma, in questo senso, è interessante codificare la nota del MEF di domenica sera.

E secondo lei cosa ci dice questa nota?

Innanzitutto, il governo prende atto di un’offerta che proviene da un “investitore qualificato” e – prosegue il MEF – si tratta di una buona notizia per il Paese. Dopodiché la nota rimarca che Tim è la società che detiene la parte più rilevante dell’infrastruttura di telecomunicazione del Paese, e che di conseguenza il governo valuterà attentamente la situazione anche in ragione delle sue prerogative. Si allude qui naturalmente alla Golden Power.

Quindi secondo lei quali sono le reali intenzioni dell’esecutivo?

Non è semplice prevedere come l’operazione potrà concludersi ma non credo che Draghi fosse all’oscuro di questa situazione. Credo, anzi, che la sua figura non sia estranea alla manifestazione di interesse di un fondo americano così importante. Pertanto, ho la sensazione che l’operazione evolverà. A ogni modo, è un’evoluzione che può presentare caratteri di positività per l’interesse nazionale.

Perché ritiene vi possano essere questi caratteri di positività?

Partiamo dalla situazione di fatto, l’azienda è in seria difficoltà e ha bisogno di una restart. Quindi, un investitore qualificato che si presenta con un’offerta è il benvenuto. Il punto vero, tuttavia, è che il governo – proprio attraverso il potere speciale della golden power a cui è già ricorso in altre occasioni – può determinare un equilibrio importante. Da questo punto di vista, è interessante notare che lo stesso fondo, quando ha presentato l’offerta, l’ha subordinata al gradimento del governo italiano. Naturalmente, in KKR sanno che esiste la golden rule; il punto è un altro, in KKR sanno che col governo italiano dovranno negoziare alcune condizioni imprescindibili. Teniamo presente che stiamo parlando di una delle infrastrutture su cui poggiano gli investimenti del PNRR. Il governo potrebbe riportare a casa la rete oppure rafforzare la presenza di CDP nel pacchetto azionario: anche in Europa con le privatizzazioni degli ex monopoli, le reti sono di proprietà delle compagnie.

I francesi di Vivendi non hanno reagito bene a questa notizia…

Naturalmente avvertono il rischio di essere superati. Tornando a Draghi, mi pare che gli USA stiano riavvicinandosi all’Italia e, forse, è proprio questo che infastidisce i francesi. Del resto, l’isolazionismo di Trump è stata un’anomalia che ci ha fatto soffrire, esponendo il nostro Paese alla penetrazione di Cina e Russia che non disdegnerebbero vedere implodere l’Unione Europea. Ora, gli USA di Biden stanno riscoprendo l’importanza di essere presenti in un Paese con il quale da sempre hanno relazioni importanti, anche commerciali, ma che è così importante anche dal punto di vista degli equilibri internazionali e della difesa, considerando la nostra vicinanza all’Africa, regione in grande difficoltà e in cui proprio la Cina è molto presente.

I sindacati sono in stato di agitazione e hanno chiesto un incontro urgente al governo. Che ricadute può avere tutto questo per il lavoro?

In una situazione come questa, è normale che i sindacati vadano in agitazione. A ogni modo, l’azienda come è adesso non ha futuro. Quindi, è giusto che chiedano di conoscere i piani e le giuste garanzie. Ma credo che debbano plaudire alla possibile evoluzione che si sta presentando.

CRISI CHIP E MATERIE PRIME: BIENNIO DIFFICILE PER L’EUROPA MA MENO PER L’ITALIA. INTERVISTA A GIUSEPPE SABELLA

Intel (MIGUEL RIOPA/AFP via Getty Images)

Intel (MIGUEL RIOPA/AFP via Getty Images)

Com’è noto, è stata presentata qualche giorno fa un’indagine sulla componentistica automotive italiana realizzata dalla Camera di commercio di Torino, dall’Anfia e dal Center for Automotive and Mobility Innovation dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. È emerso che la carenza dei semiconduttori provocherà un calo della produzione di auto in tre anni di oltre 14 milioni di veicoli: 4,5 milioni quest’anno, 8,5 milioni nel 2022 con una coda di 1 milione nel 2023. Si tratta di numeri rilevanti anche alla luce della transizione all’auto elettrica che si aggiungono alla crisi delle materie prime e all’aumento dei prezzi di energia, gas, carburanti etc., fenomeni che stanno spingendo l’inflazione su livelli di guardia e che rischiano di compromettere la ripresa europea. Ne abbiamo parlato con Giuseppe Sabella, direttore di Think-industry 4.0.

Direttore, cosa sta succedendo proprio ora che la macchina del Next Generation EU si è messa in moto?
Come abbiamo visto in precedenza (http://confini.blog.rainews.it/2021/09/10/la-prosperita-comune-di-xi-jinping-e-la-possibile-soluzione-alla-crisi-delle-materie-prime-intervista-a-giuseppe-sabella/), la crisi di microchip e materie prime si spiega non solo con la forte ripartenza delle produzioni e dell’economia, ma anche con il disallineamento dei diversi lockdown mondiali. Si pensi, ad esempio, a quel grande fornitore che è il Vietnam, che oggi è in lockdown. Quando ci siamo fermati noi, si è fermata la Germania perché gran parte della nostra componentistica e utensileria va lì. Inoltre, vi sono elementi che hanno che fare con la riconfigurazione della globalizzazione: la Cina lo scorso anno, approfittando del lockdown generalizzato e del calo dei prezzi, ha comprato materie prime ovunque. C’è chi dice per fare scorta, ma secondo me a Pechino sono consapevoli del fatto che l’Europa è concentrata sul consolidamento del suo mercato. Solo così, infatti, il Next Generation EU può avere successo. E ciò non può non avere riflessi sulla penetrazione nel MEC del prodotto made in China. Ecco che allora la Cina – che vale più di 1/3 della produzione manifatturiera mondiale – avendo acquistato materie prime in tutto il mondo si è rafforzata e ha allo stesso tempo indebolito l’Europa, costringendola a comprare a prezzi notevolmente aumentati, come del resto fa anche la Russia col gas.

Quindi l’Europa è il grande malato di questa fase?
Sicuramente l’Europa è la macroregione che più sta soffrendo nonostante, tuttavia, il problema sia di tutto il mondo. Certamente gli USA sono più autonomi di noi, come del resto sono stati più accorti nelle delocalizzazioni. L’Europa non ha avuto una strategia condivisa dagli stati membri e, di conseguenza, ha perso autonomia su molti fronti. Lo abbiamo visto, drammaticamente, con le mascherine e lo vediamo anche con i vaccini. L’Europa è infatti l’unico grande Paese che non ha un proprio vaccino ma lo importa: gli USA ne hanno 3 (Pfizer, Moderna e Johnson and Johnson), la Cina ha Sinopharm, la Russia ha Sputnik, la Gran Bretagna ha AstraZeneca. Non siamo così ricchi di materie prime come gli USA e quindi, per certi versi, stiamo subendo questa situazione senza grandi colpe. Ma su microchip e semiconduttori non si doveva arrivare a questo punto: si è persa completamente autonomia produttiva su componenti indispensabile a qualsiasi circuito elettronico e digitale, finendo col dipendere dalle economie con cui competiamo.

In questo senso è interessante il progetto del governo italiano di favorire l’insediamento di una fabbrica di microchip di Intel. Come possiamo valutare questa operazione?
È questa, senza dubbio, un’iniziativa interessante che il governo italiano ha preso, forte anche dei rapporti che Draghi ha con gli USA. Si evince un’azione di carattere sovranazionale, come del resto quella che ha portato a Stellantis. Ed è questa la strada giusta per rafforzare il manufacturing europeo. Teniamo conto che Italia, Francia e Germania insieme valgono quasi quanto gli USA in termini di produzione manifatturiera mondiale. Ma, in generale, l’Unione deve pensare a colmare il suo ritardo tecnologico che ha con gli USA e, soprattutto, con la Cina, processo che comunque è in corso. Tornando a Intel, in Italia dovrebbe avviarsi un impianto di packaging (o “confezionamento”) dei microchip, l’ultimo anello della catena che porta al prodotto finito. La megafactory vera e propria, quella dove si costruiranno i chip, sarà probabilmente in Germania, ma anche la Francia ha possibilità di aggiudicarsela. Per quel che riguarda l’impianto di packaging, anche la Polonia è in lizza insieme all’Italia. Torino (Mirafiori) e Catania le due possibili destinazioni del sito produttivo Intel.

A proposito di Mirafiori, il settore dell’automotive denuncia un forte rallentamento, che ricadute può avere sull’economia italiana ed europea?
I numeri sono preoccupanti e, come sappiamo, il settore dell’auto è nevralgico per le economie avanzate. Oltre l’indagine a cui lei si è riferito, mi sembra interessante quanto rilevato da Standard&Poor’s: quest’anno si produrranno circa 5 milioni di auto in meno, assestandosi a 80 milioni di auto prodotte, per poi salire a 84 milioni nel 2022. La cosa interessante è che, sempre secondo l’agenzia di rating, nel 2023 la crisi dei microchip sarà superata e la produzione mondiale potrebbe tornare a regime attorno ai 90 milioni. Per quanto riguarda Italia ed Europa, è evidente come il nostro Paese stia soffrendo meno di Germania e Francia, paesi in cui l’industria dell’auto è sicuramente più dominante, basta andare a vedere le ultime stime di Ocse e FMI, ma sono curioso di vedere le prossime che saranno diffuse a breve.

In prospettiva, l’UE come può evitare di ritrovarsi in una situazione similare?
Certamente si possono prevenire alcuni mali ma, come dicevo prima, vi sono fattori che non sono controllabili: per esempio, la pandemia e i suoi lockdown per giunta disallineati, sono fattori straordinari. Tuttavia, l’Europa con il suo programma Green Deal intende rispondere alla riconfigurazione della globalizzazione e raggiungere più autonomia da un punto di vista industriale. Inoltre, si tenga presente che circa un mese fa, intervenendo al Parlamento europeo per il suo secondo discorso sullo Stato dell’Unione, la Presidente della Commissione Ursula von der Leyen non solo dava centralità al problema della produzione di chip e semiconduttori, cuore di qualsiasi infrastruttura tecnologica; Von der Leyen ha parlato anche della costruzione di un Global gateway, ovvero di una via di accesso globale che riesca a garantire quegli approvvigionamenti di cui l’Europa ha bisogno e che si ponga come alternativa verde e democratica alla “Via della Seta” cinese, senza i quali il Green Deal non può vivere. Per la prima volta, Bruxelles identifica nella Cina un rivale strategico. Mi sembra un passaggio importante. In questo senso, si tenga presente che la Germania è tuttora il più importante partner commerciale di Pechino. Ma, evidentemente, qualcosa sta cambiando.

Come si spiega, in questa fattispecie, la resilienza del sistema produttivo italiano e la miglior performance, per esempio, rispetto a Germania e Francia?
In effetti le stime degli organismi internazionali continuano a vedere la crescita italiana superiore a quella tedesca e francese e, anche, alla media europea. Siamo certamente in presenza di un fenomeno che ha le sue tipicità, diverso – per esempio – dalla contrazione provocata dalla crisi del 2008. In quella fase, le economie in cui la grande impresa è più presente si mostravano più resilienti mentre soffrivano moltissimo, pur per ragioni diverse, le economie trainate dalla piccola impresa come Italia, Spagna e Grecia. Per i paesi dell’area mediterranea gli anni della crisi furono uno tsunami: in Spagna andarono persi quasi 3,5 milioni di posti di lavoro, in Italia 1,2 milioni, in Grecia 1 milione ma su una popolazione complessiva molto più piccola. La Germania, al contrario, mostrava molta capacità di resilienza, riuscendo addirittura a creare occupazione (+1,8 milioni posti di lavoro). Ora la dinamica è completamente diversa. Perché? Credo che la risposta sia questa: siamo in presenza di un fenomeno atipico, di un rallentamento dell’economia dovuto ai lockdown ma non a una recessione. In questa fase, in cui si uniscono fattori di trasformazione potenti, il piccolo si mostra più veloce del grande. L’Italia, ad esempio, è su livelli di produzione industriale che equivalgono al periodo che precede la pandemia. Non così Francia e Germania. Naturalmente, questo non significa che va tutto bene: il nostro Paese soffre meno degli altri la situazione attuale ma deve crescere la sua capacità, in particolare, di gestire i flussi occupazionali: la transizione ecologica ed energetica ci chiederà di ricollocare e di riqualificare una parte consistente di lavoratori e lavoratrici. Non siamo stati capaci in 20 anni di far funzionare le politiche attive del lavoro, questo è il nostro punto debole: auguriamoci che non sia questo a rallentare la nostra crescita.

“LA PROSPERITÀ COMUNE” DI XI JINPING E LA POSSIBILE SOLUZIONE ALLA CRISI DELLE MATERIE PRIME. INTERVISTA A GIUSEPPE SABELLA

Nonostante nelle ultime settimane si siano consolidate le stime di crescita che riguardano l’Europa e, in particolare, il nostro Paese, la carenza di materie prime si sta facendo sempre più serio. Tutto naturalmente coincide con la forte ripartenza dell’industria e delle filiere produttive ma, come ci dice il direttore di Think-industry 4.0 Giuseppe Sabella in questa intervista, “si tratta di un problema che parte da lontano e che oggi è esploso”. A Sabella abbiamo chiesto di fare luce su questa situazione anche nell’ottica di provare a capirne le possibili vie d’uscita.

 

Sabella, la carenza delle materie prime e il loro seguente rincaro è un fenomeno che dura da qualche mese e che oggi rivela la sua intrinseca problematicità. Come si spiega questa situazione?

Il problema delle materie prime è molto serio, il loro costo sta schizzando in modo imprevedibile, facendo salire i prezzi delle produzioni. Secondo Eurostat vi è una crescita su base annua del 12,1%. Vi sono incrementi notevolissimi che vanno dal prezzo del tondo di acciaio per cemento armato (+243%), a quello del pvc (+73%), a quello del rame (+38%) etc. Da una parte la decisa ripartenza della produzione industriale incide sulla richiesta di materie prime in modo importante. Ma il punto vero è che si sta qui giocando una grande guerra commerciale Europa-Cina. In questo momento, Pechino ha il coltello dalla parte del manico ma credo assisteremo a qualche sviluppo: non è questa una situazione che può durare a lungo, per più ragioni. A ogni modo, lo scorso anno – in pieno lockdown – i prezzi delle materie prime crollavano in tutto il mondo e la Cina ne ha fatto incetta. Hanno comprato tutto ciò che potevano comprare a basso costo e oggi detengono quasi l’intero stock delle materie prime. E con loro bisogna fare i conti. Va detto che a Pechino sono stati molto bravi, ma queste sono cose che possono avvenire soltanto in un mondo così verticistico come quello cinese. A ogni modo, i fattori di questa crisi – che allo stato attuale pare imprevedibile – sono anche altri.

 

A cosa allude?

In questi 30 anni l’Europa si è mossa secondo una politica di offshoring scriteriata e imprudente, delocalizzando anche ciò che le faceva perdere autonomia. La crisi dei semiconduttori, che è un’altra criticità notevole per la produzione industriale, ne è la prova. La Sevel si sta per fermare una seconda volta. Del resto, anche sul piano sanitario, ricordiamoci che all’inizio della pandemia eravamo senza mascherine perché l’intera produzione era delocalizzata. Non solo, l’Europa è l’unico grande Paese che non ha un proprio vaccino ma lo importa: gli USA ne hanno 3 (Pfizer, Moderna e Johnson & Johnson), la Cina ha Sinopharm, la Russia ha Sputnik, la Gran Bretagna ha AstraZeneca. Solo dando attuazione al programma Green Deal si può uscire da questa situazione di dipendenza, sebbene resti l’incognita delle materie prime.

 

Perché, come dice, dando attuazione al programma Green Deal si esce da questa situazione?
Il programma Green Deal (2019) intende ridisegnare e riorganizzare le filiere produttive in Europa per rispondere alla riorganizzazione della globalizzazione: dal 2017 il commercio mondiale è rallentato in modo consistente fino a rendere i grandi mercati sempre più organizzati attorno alle grandi piattaforme produttive che, naturalmente, sono USA, Cina e Europa. Mentre, come sappiamo i mercati americano e cinese sono molto coesi e di non facile penetrazione, quello europeo – anche in ragione degli interessi contrapposti tra Germania, Francia e Italia in particolare – è sempre stato facile preda del capitalismo americano e cinese. La pandemia da questo punto di vista è un tornaround molto importante perché consolida la tendenza del mercato globale organizzato secondo logiche di regionalismo aggregato – come lo chiama Alberto Quadrio Curzio – a cui si sta adeguando anche l’Unione Europea. Anche perché dopo l’ingente investimento del Next Generation EU, o il mercato europeo premia le produzioni locali o la nostra finanza pubblica avrà seri problemi. Questo è dunque il primo dei tre grandi obiettivi del Green Deal, gli altri due sono innovazione tecnologica e carbon neutrality. Speriamo di riuscire a colmare questo gap che abbiamo nei confronti delle superpotenze americana e cinese, altrimenti – ancora una volta – rischiamo di rincorrerle. Al netto del problema delle materie prime che, tuttavia, credo troverà soluzioni.

 

In che senso, secondo lei, si risolverà il nodo delle materie prime?

Ovviamente nessuno di noi vede nel futuro, mi permetto però di porre un problema di natura politica: dopo aver messo in ginocchio il mondo con il covid, la Cina si può permettere di infierire nuovamente tirando la corda sulla questione delle materie prime? Credo che a tutto ci sia ragionevolmente un limite. Inoltre, continuiamo a dare per scontato che la Cina viaggi al ritmo di questi 20 anni che ci siamo lasciati alle spalle con la pandemia. Ho seri dubbi a riguardo e mi pare ne abbia qualcuno anche George Soros che in questi giorni ha molto criticato i programmi cinesi di Blackrock – la più grande società di investimenti al mondo – che ha lanciato una serie di fondi
comuni e altri prodotti per i consumatori cinesi. Il gruppo di New York è la prima società di proprietà straniera autorizzata a farlo. Siamo evidentemente in presenza di un fatto inedito. Intanto, è di queste ore il caso del colosso immobiliare cinese Evergrande: è insolvente per oltre 100 miliardi di dollari e ha incassato il downgrade di Moody’s. Ricordiamo anche che ad aprile di quest’anno, la Banca Centrale Cinese ha chiesto agli istituti di credito di rallentare con l’offerta del credito, poiché l’espansione finanziaria che ha sostenuto la ripresa post coronavirus – alimentata da una manovra a debito della Banca Centrale – ha rinnovato le preoccupazioni per le bolle degli asset e la stabilità economico-finanziaria. Già questa primavera, quindi, a Pechino si temeva che quest’iniezione copiosa di liquidità rischiasse di spingere all’indebitamento imprese e famiglie senza la ragionevole certezza che quel debito potesse essere successivamente ripagato. In sintesi, si aggira il fantasma del fallimento che fa molta paura perché ricorda quello della bolla americana del 2008. E l’effetto contagio sulle altre aziende del settore è già cominciato. A questo quadro, si aggiunga poi quella che è la grande novità annunciata da Xi Jinping in questi giorni.

 

Si riferisce al manifesto della “prosperità comune” ?
Si, è questo l’inizio di un cambiamento per la Cina ma che aggiunge fattori di cambiamento per il mondo intero. La Cina sceglie di rivedere le sue politiche di distribuzione della ricchezza e rilancia il mercato interno. Finisce la fase dell’ “arricchirsi è glorioso” lanciata da Deng e inizia l’era della “prosperità comune” di Xi Jinping. Va tuttavia detto che a Pechino si era giunti a un punto di non ritorno: la ricchezza in Cina è soltanto nella macro-regione della capitale, il resto del Paese – che è la maggioranza – è ancora civiltà millenaria. Del resto, lo sviluppo del Dragone è stato acceleratissimo: in 20 anni, sono cresciuti come in Europa siamo cresciuti nell’arco di due secoli. È chiaro che tutto questo si porta dietro diverse fragilità. E per questo a Pechino hanno scelto di risolvere i problemi che hanno al loro interno: dalla crisi del debito, dai noti aspetti demografici oggi sempre più seri – ricambio generazionale debole, città che si spopolano, carenza di forza- lavoro – alla crescente siccità nella Cina settentrionale. È una buona notizia, anche per l’Europa, perché credo che preluda a un atteggiamento della Cina meno aggressivo nei confronti del mondo. Da qui la mia sensazione che anche la questione delle materie prime troverà soluzione.

 

A ogni modo, anche USA e UE sono alle prese con politiche di inclusione sociale e di ridistribuzione della ricchezza. Cosa possiamo prevedere per l’Europa e per il nostro Paese in particolare nei prossimi anni?

L’Europa, col suo Green Deal, è in questo momento il più grande interprete dell’Agenda Onu 2030 e del percorso verso la carbon neutrality. Io credo che questa cosa sarà determinante per due fattori: primo perché va di pari passo con l’innovazione tecnologica, ovvero soltanto attraverso l’innovazione – digitale ed energia pulita – si è più sostenibili. Ma è proprio l’innovazione che genera produttività e competitività. Quindi, sostenibilità fa rima con competitività. L’industria europea sta quindi investendo per colmare il gap tecnologico che ha con quella americana e con quella cinese. In secondo luogo, tutti sappiamo che lo sforzo per la lotta al climate change comporta investimenti ingenti: la UE è finalmente uscita dall’austerity e non credo ci tornerà facilmente. La politica espansiva de UE e BCE potrà essere rivista ma è l’unica strada per lo sviluppo sostenibile. Per quanto riguarda il nostro Paese, Il riepilogo sull’andamento economico del secondo semestre 2021 diffuso la scorsa settimana da Istat ha confermato le indicazioni che da qualche mese arrivano da Bankitalia e dagli organismi internazionali. Al di là di questo +17,3% rispetto al secondo semestre 2020 – che si riferisce a un periodo di lockdown totale e di fermo delle attività produttive salvo quelle essenziali – il +2,7% di aprile-giugno 2021 su gennaio-marzo è il numero che ci interessa e che conferma le previsioni anche in ragione d’anno (+6%). Il trend positivo dell’economia è in gran parte legato alla crescita del consumo (+3,4%): è certamente la domanda interna che, più di ogni altro fattore, concorre a determinare la stimata e auspicata crescita del pil. Prima ancora che di effetto Draghi, qui c’è dunque un sistema che ha saputo reagire all’emergenza pandemica che è anche economica naturalmente: consideriamo che la nostra manifattura è quasi tornata ai livelli pre-covid del 2019 mentre i nostri cugini tedeschi e francesi, rispetto allo stesso periodo, sono sotto ci circa 5 punti percentuali. Una capacità di resilienza precede dunque i benefici che sicuramente avremo col Pnrr. Sono naturalmente indicazioni che ci autorizzano a guardare con speranza al futuro, in attesa di sciogliere il nodo delle materie prime.

 

Da Pomigliano a Termoli: è in Italia la nuova “giga factory” di Stellantis. Intervista a Giuseppe Sabella

CEO of Stellantis Carlos Tavares (Photo by Daniel Pier/NurPhoto via Getty Images)

CEO of Stellantis Carlos Tavares (Photo by Daniel Pier/NurPhoto via Getty Images)

Com’è noto, si è tenuto ieri l’Electrification Day di Stellantis. L’attesa era alta, un po’ per
comprendere le reali intenzioni del quarto gruppo mondiale dell’auto; un po’ perché qualcuno si aspettava la sorpresa, ovvero l’annuncio della nuova Giga Factory di batterie in Italia. E, appunto, l’annuncio c’è stato: il sito prescelto è quello di Termoli. Ne abbiamo parlato con Giuseppe Sabella, direttore di Think-industry 4.0.

Sabella, cosa significa per il nostro Paese la Giga Factory di Termoli?
È un’operazione industriale importante. Mi lasci però prima dire che se oggi l’Italia sta ritrovando centralità nel settore dell’automotive, questo è grazie agli accordi di Pomigliano del 2010. Senza quelle intese Fiat in Italia avrebbe chiuso – e con essa gran parte del nostro settore auto – e non saremmo qui a celebrare questa svolta. Il contraccolpo di quella vicenda, alla fine, è stato tutto per il sistema confindustriale che non è stato in grado di far fronte ad un’occasione di innovazione importante. E ha perso non solo terreno ma anche l’azienda più importante che aveva. C’è chi ci ha creduto ed è per questo stato attaccato e biasimato. Mi riferisco a una vulgata che ha coinvolto persino l’Accademia e il Parlamento. Una cosa incredibile e mai vista prima, in presenza oltretutto di una importante operazione di rilancio industriale che da Pomigliano oggi fa tappa a Termoli.

Perché la definisce un’operazione industriale importante?
I motivi sono diversi a cominciare da quello prettamente industriale: sappiamo che la vera ragione per cui il Lingotto ha voluto la fusione con PSA è per ridurre la sua distanza dalla frontiera dell’elettrico. Se c’è un limite della stagione di Marchionne – che non dimentichiamolo mai ha preso in mano una Fiat tecnicamente fallita e, portandola alla fusione con Chrysler, l’ha resa uno dei marchi più competitivi al mondo – è quello di non aver oltrepassato il confine dell’oil. Oggi la Giga Factory di Termoli avvicina l’industria italiana alla tecnologia dell’elettrico. Ma facciamo un passo indietro: l’anno scorso, Pietro Gorlier (responsabile area EMEA di Stellantis) disse testualmente “nel giro di due/tre anni, Europa e Italia diventeranno l’epicentro della produzione mondiale della mobilità elettrica”. Tuttavia, poco risalto per queste dichiarazioni: ad oggi è prevalsa l’idea – sempre tra i soliti noti – che la Francia farà razzia delle nostre produzioni, a vantaggio del proprio comparto manifatturiero.

E invece?
Non che questa possibilità non esista, nelle alleanze – anche in quelle più riuscite – vi sono sempre conflitti di interesse latenti. Il punto è che oggi una delle missioni più importanti che hanno i governi è proprio questa: nel mondo globalizzato, ministri e primi ministri devono sempre più operare a protezione della propria economia e delle proprie imprese. Quindi, se qualcuno fa affari a suo vantaggio con le nostre aziende, ciò può significare anche che non sono state protette adeguatamente e in qualche caso svendute, come del resto è successo. È molto importante quindi, quando si sta al governo, sapere quali sono le imprese che si possono cedere e quali no. Negli anni passati è stato uno stillicidio. Oggi possiamo dire che questa situazione si sta normalizzando.

Nel caso specifico in un certo senso succede il contrario: è la Francia a darci qualcosa. È così?
Questo è un altro aspetto per cui ritengo importante questa operazione: il consolidamento della partnership europea tra Francia e Italia, nell’ottica di contrastare USA e Cina. Ma c’è un altro elemento che mi pare significativo: la terza Giga Factory di Stellantis in Europa per la produzione di batterie per veicoli elettrici – le altre due sono in Francia e Germania – sarà allocata presso lo stabilimento delle Meccaniche di Termoli, in Molise, dove lavorano oltre duemila addetti. Si tratta di uno stabilimento vecchio che produce motori a combustione, a rischio chiusura. È evidente che nel giro di qualche anno vi saranno cali produttivi significativi. In questo modo, si dà un futuro industriale e occupazionale a questo sito produttivo in un’area del Paese – il Mezzogiorno – che ha bisogno di investimenti come questo. Deve essere questa un’operazione pilota del Green Deal italiano, soprattutto al Sud. Come sappiamo, il nord produttivo è più agganciato al cuore dell’industria europea, la Germania. Ed è più avanti dal punto di vista dell’innovazione.

Tavares ha parlato anche dell’investimento complessivo nell’elettrificazione.  Quali considerazioni possiamo fare? 
Possiamo certamente dire che Pietro Gorlier un anno fa non scherzava affatto. Gli obiettivi di Tavares ed Elkann sono molto ambiziosi: entro il 2030 i veicoli elettrificati dovranno rappresentare oltre il 70% delle vendite in Europa e più del 40% delle vendite negli USA. Per il raggiungimento di questi obiettivi, il piano di Stellantis prevede oltre 30 miliardi di euro da investire entro il 2025 nell’elettrificazione e nello sviluppo software. Si tenga presente che due mesi fa Stellantis e Foxconn – il più grande produttore di componenti elettronici al mondo nonché il principale assemblatore di Apple, Dell, HP, Microsoft, Motorola, Nintendo, Nokia, ecc. – firmavano un memorandum d’intesa per dare vita a Mobile Drive, nuova realtà dedicata allo sviluppo di tecnologie digitali per l’auto. Il software sarà il “cuore” della mobilità elettrica. In particolare, Mobile Drive proporrà programmi di infotainment, telematica e sviluppo di piattaforme cloud service attraverso innovazioni di software che dovrebbero includere applicazioni basate in particolare su intelligenza artificiale e comunicazione 5G. Questo ci dice quanto si stia sempre più riducendo la differenza tra manifattura e servizi: l’industria 4.0 è sempre di più servizio. La UE sembra puntare molto sulla mobilità elettrica, del resto in Europa c’è Stellantis ma ci sono anche Renault e Volkswagen, Daimler, BMW…
Come ho scritto nel mio libro “Ripartenza verde” , la trasformazione della mobilità è il più rilevante obiettivo che il Green Deal europeo si è dato, non solo per rispondere alla questione climatica, ma anche perché da un punto di vista economico le implicazioni sono rilevantissime. Sebbene il 2020 sia l’annus horribilis dell’automobile (-24,3% di immatricolazioni in Ue, -27,9% Italia), si registra una crescita significativa della diffusione dell’auto elettrica (+107% Ue, +251,5% Italia). Mobilità elettrica però significa anche infrastrutture e batterie, cosa su cui in Europa bisogna accelerare e su cui i costruttori stanno facendo pressing sull’Unione. Del resto, come si vende l’auto elettrica se non ci sono le colonnine? Anche se, in futuro, l’evoluzione dell’auto elettrica potrebbe prescindere dalle colonnine. Il movimento dell’auto, infatti, è in grado da sé di produrre energia.

In conclusione, concentriamoci in prima battuta sulle infrastrutture: qual è al momento la situazione?
Secondo Acea, al momento ci sono circa 200mila colonnine in tutta Europa. Il Green Deal ne prevede 3 milioni installate entro il 2030. In Italia, l’ultimo aggiornamento del Piano Nazionale Energia e Clima (2020) ha stimato che, entro 10 anni, la rete di ricarica passerà da 8mila a 45mila stazioni e il parco circolante raggiungerà un ventaglio compreso tra i 4 e i 6 milioni di auto elettriche. Per quanto riguarda la produzione di batterie, è questo un mercato dominato dalla Cina; Australia e Usa fanno la loro parte ma sono molto indietro. Su questo versante, l’Europa si sta organizzando per essere autonoma, come del resto per la produzione di vaccini e semiconduttori. La Giga Factory di Termoli è nel segno di questa logica.

Veniamo ora all’aspetto occupazionale: il motore elettrico è più semplice e più piccolo di circa la metà rispetto al motore a combustione. Quali sono le conseguenze di questa trasformazione sul piano del lavoro? 
Naturalmente il problema è serio. Motore elettrico significa meno componenti e meno mano d’opera. Mobilità elettrica però vuol dire anche infrastrutture e batterie. E, in quest’ottica, l’installazione delle colonnine per l’alimentazione e lo sviluppo dell’industria delle batterie sono occasione di riconversione e di ricollocazione dei flussi occupazionali in uscita dal settore dell’automotive. I governi hanno un compito importante: accompagnare la trasformazione con politiche del lavoro efficaci, che significa riqualificazione e ricollocazione di lavoratori e lavoratrici. Se pensiamo al nostro Paese, questo è il nostro punto debole, e non è una novità. Sono gli enti locali – le Regioni – ad avere le deleghe del lavoro: bisogna che lavoriamo sulla modernizzazione dei nostri servizi all’impiego, soprattutto nel centro sud del Paese.