“IL GREEN NEW DEAL È L’UNIONE DEL LAVORO E DELLA SALUTE”. INTERVISTA A GIUSEPPE SABELLA

Ursula Von Der Leyen (ApPhoto)

Salario minimo, nuovo patto per l’immigrazione e salute al centro dell’agenda europea. Questo il discorso di Ursula von der Leyen al Parlamento europeo che ha aggiunto che “assieme al presidente Giuseppe Conte, in occasione della presidenza italiana del G20, organizzerò un vertice mondiale sulla sanità in Italia (con molta probabilità a Roma) e questo dimostrerà agli europei che l’Europa c’è ed è pronta a proteggerli. Ne abbiamo parlato con Giuseppe Sabella, esperto di politiche europee e autore del recente Ripartenza Verde (Rubbettino Editore), qui già presentato.

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L’Europa è un gigante incatenato? Intervista a Luciano Canfora

Il “recovery fund” basterà per far rinascere l’Europa? Ne parliamo, in questa intervista, con un grande intellettuale italiano: Luciano Canfora. Canfora è tra i maggiori storici italiani, i suoi interessi accademici e culturali spaziano dal mondo greco-romano fino al pensiero politico contemporaneo. E’ autore di numerosi saggi, l’ultimo è uscito in questi giorni: Europa gigante incatenato (Ed. Dedalo).

Professore, il suo saggio è una analisi spietata sullo stato di crisi dell’Unione Europea. La descrive come un “gigante incatenato”. Eppure dall’uscita del suo saggio, fine giugno, qualcosa si è mosso. Mi riferisco agli accordi sul “Recovery Fund”. Con i suoi limiti questo accordo fa fare un salto di qualità all’Unione Europea. Non è così professore?

Era impossibile che un qualche accordo non venisse raggiunto: sarebbe stata la fine della cosiddetta «Unione». Ed era ovvio che la Germania, con il suo enorme peso, imponesse il varo dell’accordo: la Germania conta tra le grandi potenze mondiali proprio perché capeggia l’Unione. Visto da vicino, il compromesso raggiunto presenta dei lati che l’informazione preferisce lasciare in ombra: (a) i cosiddetti “paesi frugali” hanno ottenuto che i gravami conseguenti alla progettata emissione di miliardi non li riguardino quasi per nulla; (b) solo l’ex-ministro Carlo Calenda ha avuto l’onestà di chiarire (trasmissione «in onda» su «La 7» dello scorso 20 luglio) che – rispetto agli 82 miliardi “a fondo perduto” destinati all’Italia – bisogna però calcolare che l’Italia dovrà contribuire, con 55 miliardi, al meccanismo complessivo che consentirà l’attuazione degli esborsi a fondo perduto destinati ai vari paesi; (c) per ottenere l’appoggio, non trascurabile, dell’Ungheria di Orban, ci siamo di fatto impegnati a non disturbare più quel governo sul terreno della legalità interna nonché delle “quote” di migranti; (d) comunque il successo personale conseguito dal nostro primo ministro è indiscutibile; (e) le molto generiche “riforme” richiesteci come contropartita dei futuri miliardi sono quasi impossibili da realizzare (licenziare un terzo del notoriamente pletorico pubblico impiego? rimettere mano alla normativa sulle pensioni?), (f) i parlamenti dei vari paesi dell’Unione – compreso ad es. quello olandese – avranno il diritto di esprimersi, in corso d’opera, sull’effettiva attuazione, da parte nostra, delle richieste “riforme” (così Mario Monti sul “Corriere della sera” del 22 luglio scorso, p. 28); (g) il nostro debito pubblico ammonta, ad oggi, a 2507 miliardi (= 134% del PIL).

Lei, nel suo saggio, descrive l’Europa come troppo docile (“suddita del potente alleato”) degli Usa. Sappiamo che vi sono legami storici, politici ed economici, con gli Usa. E sappiamo anche che Donald Trump non ama per nulla l’Unione europea. Anzi fa il tifo per Boris Johnson e i sovranisti. Per cui il primo a non credere all’idea di Europa e all’idea di un “patto” tra le sponde dell’Atlantico è proprio l’America di Trump. In che senso allora l”Europa deve essere meno “atlantica”?
Mi pare di aver documentato che “atlantismo” significa subalternità ad una politica (quella degli USA) contraria ai nostri interessi: e per “nostri” intendo di Francia, Germania, Italia, soprattutto. In un brillante (come sempre) intervento sul “Corriere della sera” del 28 giugno scorso (p. 12), Sergio Romano ha segnalato un episodio sintomatico (regolarmente ignorato dalla stampa): di fronte all’ipotesi Trump di ritirare 9000 militari dalle basi in Europa, il norvegese Stoltenberg, segretario generale della NATO, ha implorato che ciò non avvenga. E ha spiegato: le basi debbono rimanere in Europa «perché giovano agli USA»! Il “gigante” Europa spezzerà le “catene” solo quando farà politica estera in proprio non più ‘al servizio’. Ma ciò è difficile perché dentro la cosiddetta Unione gli USA hanno i vari baltici e polacchi come fedeli «quinte colonne».

Nel suo libro critica la politica europea di opposizione nei confronti della Russia di Vladimir Putin e afferma che questa politica non fa l’interesse europeo. Perché?
Aver messo le assurde e immotivate sanzioni alla Russia ha recato danno soprattutto all’economia dei paesi europei per i quali l’interscambio con la Russia (specie ora che gli USA ci fanno guerra con i dazi!) è vitale. Scoccare sanzioni a destra e a manca è la forma attuale dell’aggressività imperialistica (che, ovviamente, ha bisogno del coro giornalistico): ora vengono minacciate sanzioni alla Cina per i disordini ad Hong Kong (dove gli USA hanno spasmodicamente ma invano atteso che ci scappasse il morto). Semmai l’Unione europea potrebbe mettere le sanzioni agli USA per la repressione brutale – con numerosi morti – delle manifestazioni antirazziste che si susseguono, da un capo all’altro degli USA, almeno dalla fine di maggio.

Lei critica anche l’uso del termine “democratura” quando si parla della Russia. Sarà pure un termine, ovviamente, polemico però si fa fatica a vedere la Russia come una democrazia. Anzi lo stesso Putin definisce la democrazia occidentale come un modello sbagliato. Come sviluppare un rapporto di collaborazione con Putin?
E’ comico definire «democrazia» gli USA, dove diventano presidenti (o per brogli, come nel caso di Bush jr.; o per effetto di folli leggi elettorali, come nel caso di Trump) candidati che hanno ottenuto meno voti popolari dei loro avversari; dove i collegi elettorali vengono ritagliati (alla maniera dei «borghi putridi» dell’Inghilterra pre-1830) in funzione della penalizzazione di aree nelle quali il voto nero o ispanico cambierebbe gli equilibri. I retori che straripano nei giornali e in TV ci annoiano con l’ossessiva formula «le grandi democrazie (occidentali)», tra le quali ficcano pure l’India, dove si vota per svariate settimane, i risultati sono manipolati senza pudore e sussistono le caste (ora più che mai, dopo il collasso del partito del congresso). Tra le tante retoriche possibili, quella che finge di credere che esistano le «grandi democrazie occidentali» è la più comica: basterebbe ricordarsi delle modalità con cui Macron (votato da ¼ dei francesi) è diventato presidente. Certo, da ultimo, viene definita sempre meno come «baluardo della democrazia occidentale» la Turchia, dove il bavaglio alle opposizioni e il genocidio curdo sono veri macigni. Comunque alla Turchia noi «europei» non mettiamo sanzioni ma versiamo miliardi di euro perché trattenga i migranti nei suoi Lager. E in Libia paghiamo il «governo di Tripoli» nei cui Lager vigono la tortura e lo stupro. Viva «la democrazia occidentale!».

Sono giustamente dure le sue critiche nei confronti di Donald Trump. In questi mesi negli Usa qualcosa si sta muovendo. Forse, stando ai sondaggi, siamo alla fine dell’era Trump. Ma basterà all’America cambiare Presidente per cambiare nel profondo?
Ovviamente no. Il povero Obama si è quasi rotto le ossa nel tentativo di riformare le storture di un sistema nel quale una forza decisiva è il «suprematismo bianco»: infatti si tratta di una «grande democrazia occidentale», se non erro.
Torniamo all’Europa. Bisogna dire che non c’è solo il virus del coronavirus, c’è anche quello del sovranismo. E purtroppo non è debellato. Come sconfiggerlo?
«Sovranismo» è un termine privo di senso, ma comodo per cercare una antitesi al vuoto «europeismo». In realtà, nell’ambito dei 27 paesi dell’Unione europea, i governi (Polonia, Ungheria, Austria, Olanda) o i partiti (Lega, Alternative für Deutschland, Front National) che definiamo con quel termine non mirano affatto all’isolamento nazionalistico bensì ad una Unione europea con frontiere blindate (come la «Fortezza Europa» attuata da Hitler). E poiché non l’hanno (ancora) ottenuta si smarcano dagli impegni e obblighi collettivi. E, come arma di ricatto, alcuni di loro praticano il rapporto preferenziale con gli USA, sapendo che questo li mette a riparo da ogni procedura ‘punitiva’ (o, come si dice, «di infrazione»).

Lei propone una idea di Europa aperta, continentale e mediterranea. La sinistra, quella che dovrebbe incarnare quei valori, boccheggia. L’unico leader capace di reggere alla sfida è Papa Francesco. Per lei può essere un aiuto al cambiamento europeo?
Per quanto l’etica cristiana della fratellanza non faccia più presa nelle «grandi democrazie occidentali» (dove il modello vincente è Briatore: ricchezza e consumi) resta il fatto che alcune minoranze vengono ancora mobilitate dalle organizzazioni di base (o addirittura di volontariato) della chiesa cattolica. E ciò avviene grazie all’impulso dall’alto impresso da un pontefice che viene da un mondo oppresso (l’Argentina, dove il fascismo dei militari e dei magnati fu protetto quanto possibile dagli USA di Kissinger). Difficile dire se questo scalfirà l’egemonia culturale del «consumismo» (culto della ricchezza inutile, e dell’individualismo aggressivo, culto monoteistico del profitto etc.).

Ultima domanda: come si sta comportando il governo italiano nei confronti dell’immigrazione? 
Risponderò con le parole efficaci di Maria Elena Boschi (intervista al “Corriere della sera” 29 luglio, p. 8): «Tecnicamente il coronavirus è stato esportato dagli italiani in Africa e non da loro con i barconi. La narrazione di Minniti («i migranti portano il Covid») spesso segue il canovaccio di quella di Salvini».

Sentenza Corte Costituzionale tedesca. “E’ un segnale negativo, ma può essere uno stimolo per rafforzare ancora di più l’Europa”. Intervista a Francesco Clementi

L’Alta Corte Federale tedesca

 

Com’era inevitabile la sentenza delle “toghe rosse” di Karlsruhe, la Corte Costituzionale tedesca, sta facendo discutere per le possibili implicazioni negative  sull’Europa. Abbiamo approfondito alcuni punti della sentenza, in questa intervista, con il professor Francesco Clementi, docente di Diritto pubblico Comparato all’Università di Perugia.

 

 

Professore, sta facendo discutere il mondo politico ed economico europeo la sentenza di ieri mattina della Corte Costituzionale tedesca sulla costituzionalità o meno del programma PSPP o “Quantitative Easing”. La sentenza dei giudici di Karlsruhe  è assai controversa.  Non è un bel segnale, vista la condizione in cui si trova l’Europa, per il disegno europeo. Per lei?

 

E’ un segnale negativo, molto negativo. Ma a maggior ragione deve servire da stimolo a tutta l’Europa per prendere atto che è ormai tempo di corroborare le sue attività, così come sta reagendo sulle misure economiche, anche sul piano delle istituzioni, facendo le riforme istituzionali che servono – per esempio riguardo alla necessità di un unico ministro per le finanze e le politiche fiscali dell’Unione – di modo che l’Unione parli sempre più con una voce sola.

 

 Quali sono i punti più controversi della sentenza?

 

Si tratta di una sentenza che andrà letta con molta attenzione. In ogni modo, innanzitutto, il punto principale ruota intorno al fatto che, per il Tribunale costituzionale federale tedesco, il Governo federale e il Bundestag non hanno adeguatamente controllato se la Banca Centrale Europea, nelle decisioni sull’adozione e sull’attuazione del programma PSPP sull’acquisto di titoli del debito pubblico sui mercati secondari, abbia superato o meno il suo mandato, violando dunque il principio di proporzionalità nel suo agire.

 

Tra i punti  più clamorosi della sentenza c’è il tono un poco arrogante nei confronti di una sentenza della Corte di Giustizia  europea. Insomma un vero proprio attacco a un pilastro portante dell’Europa. Sappiamo che la Commissione Europea ha ribadito il primato del diritto europeo sul diritto di ogni paese , ivi comprese le sentenze costituzionali. Però questa sentenza potrà offrire una bella arma ai sovranisti polacchi e  ungheresi per non rispettare le prossime sentenze della Corte di Giustizia sui migranti e s sull’ordinamento giudiziario? Insomma può essere un pericoloso  precedente?

 

Sì, è un precedente grave. Che getta un’ombra di poca comprensione, tra testo e contesto, dell’ordinamento europeo da parte degli stessi giudici della Corte; i quali, tuttavia, pur essendo Maestri del diritto, sanno bene non soltanto che la Corte di Giustizia dell’Unione europea è il più importante organo di giurisdizione dell’Unione europea e che le sue sentenze vincolano tutti, compresa Karlsruhe, ma anche che il diritto dell’Unione europea ha il primato sulla legislazione degli Stati dell’Unione. E questo non per la prepotenza di qualcuno, ma per la libera scelta degli Stati sovrani. In questo senso, il fatto che il Tribunale costituzionale federale tedesco abbia contestato così apertamente la giurisprudenza della Corte di Giustizia dimostra che il conflitto giuridico in corso può solo contribuire, ancora una volta, a spingere il processo europeo un passo più avanti. Dubito, infatti, che il la Corte di Giustizia dell’Unione europea si sentirà intimidita, non da ultimo perché, a differenza di quanto sostiene questa sentenza, non ha per nulla ignorato i principi giuridici generali comuni alle legislazioni degli Stati membri.

 

I giudici hanno dato tre mesi di tempo alla BCE per dare spiegazioni alla Corte sulla loro “politica”. Ma questo non è un attacco all’autonomia delle Banche Centrali?

 

Beh…come gesto politico in parte lo è. Come atto giuridico direi di no, perché non hanno alcuna giurisdizione su di esse. Naturalmente le sentenze del Tribunale costituzionale federale tedesco incidono sulle decisioni della Bundesbank, ovviamente: ma non credo che finirà questa sentenza porterà la Bundesbank fuori da quel circuito, non da ultimo perché le misure discusse riguardano il vecchio Qe non il nuovo Qe, quello di questi giorni.

 

 

Per Gualtieri, il nostro ministro dell’economia, la sentenza non avrà alcun effetto sulle misure economiche europee che si prenderanno per far fronte alla crisi causata dalla pandemia. Non è pò troppo ottimista?

 

Concordo con il Ministro Gualtieri. E’ cambiato molto il contesto. E sempre più l’Europa ha dentro di sé la forza necessaria per spiegare anche ai più conservatori, come è stato il Tribunale costituzionale federale tedesco con questa sentenza, i motivi e le ragioni della necessità di entrare in un futuro più unito e più condiviso, tutti assieme. 

 

 

Ultima domanda: cosa può significare questo sentenza per l’Italia?

 

Per il nostro Paese la sentenza non ha un’incidenza diretta. Ma – in qualche modo – sottolinea ancora una volta l’importanza per il nostro Paese di confermare i suoi due assi strategici: l’alleanza europea e con essa quella atlantica; a maggior ragione recuperando, sulla spinta della crisi provocata dal coronavirus, tutti quegli elementi necessari per superare le resistenze ad una ricostruzione comune che favorisca una Unione sempre più unita, vero player globale nel mondo.

D’altronde, come disse bene il Presidente Ciampi,«l’Europa è nel sangue degli italiani, e senza l’Italia non c’è vera Europa».

 

 

„In Europa è il momento della grande politica”. Un testo di Beniamino Andreatta

Come si sa Sabato 25 marzo saranno 60 anni dai Trattati di Roma. E’ la festa dell’Europa. Una Europa, oggi, investita da un vento nazionalista molto pericoloso e da attacchi terroristici. Eppure bisogna ancora credere al “sogno” di un continente unificato.

Quei trattati, infatti, segnarono l’avvio del processo di integrazione europea. Era un lunedì, quel 25 marzo del 1957, quando i ministri degli esteri di cinque Paesi europei firmarono le carte oggi fondamento dell’Unione. Due trattati: quello costitutivo della Comunità Economica Europea (CEE) e quello della Comunità europea dell’energia atomica (EURATOM). 

Così per ricordare quella storica firma abbiamo pensato di proporre un testo di un grande europeista contemporaneo: Beniamino Andreatta. Politico ed economista di statura internazionale, in questo intervento invita la politica a pensare in grande. Il sogno di un Europa unita implica una politica coraggiosa, una politica capace di pensare il futuro.

Il testo di Andreatta, che pubblichiamo per gentile concessione, si trova nel primo numero del 2017 della rivista Arel. Il volume, curato da Mariantonietta Colimberti ed Enrico Letta, dal titolo “L’Europa di Andreatta” verrà presentato a Roma, domani pomeriggio, presso il Centro di Studi Americani in via Caetani. Interverranno Enrico Letta e Giuliano Amato

Il crollo delle certezze
Ha scritto Max Weber: «La cattedra non è per i demagoghi, né per i profeti». Cercherò, quindi, di attenermi a una valutazione del futuro della politica del mondo basata sugli sviluppi che possono, in qualche modo, essere estrapolati da ciò che io chiamo “oggi”.
Sul piano internazionale, si impongono alla nostra attenzione due elementi.
Il primo: la fine dell’ideologia dello sviluppo, così com’era concepito negli anni Sessanta; lo sviluppo, infatti, è stato ineguale. Alcuni paesi, come Cina e India, sanno maneggiarlo e hanno risolto prima i loro problemi alimentari; altre parti del mondo, invece, sono incapaci di avviare la prima accumulazione; altri ancora, per la fragilità dei loro sistemi politici, si sono indebitati e devono smaltire i loro debiti. In qualche misura si è rotto l’universo dello sviluppo, si è infranto il partito del Sud, e questo si è riflesso in una perdita anche per i paesi avanzati, per i paesi capitalistici, per l’ideologia dello sviluppo.

Il secondo: la difficoltà di reggere la sicurezza del mondo affidandosi alla credibilità della deterrenza nucleare.
Ebbene, sembra che oggi questi due fenomeni, che hanno caratterizzato trenta o quarant’anni della nostra storia, che hanno costituito la grande ideologia trasversale alle generazioni politiche mondiali e che hanno trovato negli anni Sessanta il massimo periodo di diffusione, siano entrambi in crisi.
Si pongono poi tra le paure il problema dei rapporti tra le grandi aree industriali e quello del costo della leadership. Lo stesso libro, un po’ banalmente profetico, di Paul Kennedy, The rise and fall of great powers, uscito nel 1987, riprendendo il concetto di onda lunga o ciclo lungo, sottolinea come le certezze si dissolvano nella prospettiva delle ere storiche. L’autore si fa portavoce di un clima intellettuale di maggiore relativizzazione: sembra che a spingerlo a scrivere il libro sia proprio il logorìo cui sono stati sottoposti i concetti dominanti nel periodo dal dopoguerra ad oggi. Kennedy paragona l’attuale sovraestensione degli impegni della potenza dominante al ciclo che ha visto la fine tanto dell’impero spagnolo, quanto dell’impero inglese, e osserva che l’incapacità di accumulare capitali e la strategia di politica estera, unite all’idea di contenimento, hanno portato gli Stati Uniti a una presenza mondiale che ormai è sproporzionata rispetto alle risorse che il paese stesso è in grado di produrre. La progressiva riduzione della quota di reddito mondiale prodotta dagli Stati Uniti rispetto alle responsabilità imperiali fa sì che queste sempre meno vengano accettate dai cittadini.

La crisi delle certezze che sostenevano l’ideologia marxiana e comunista si colloca chiaramente nello stesso quadro. Tuttavia, pare che queste crisi, che guarda caso si fanno sentire proprio all’approssimarsi della fine del millennio, non inneschino la paura. Più che di paura, si può parlare di un desiderio di quiete, quasi di riposo, di voglia di non andare con il fiato mozzo, come quando, dopo una corsa eccitante, si desidera l’estenuazione come contrappeso.
Chi possiede certezze non vive in stato di quiete: le certezze allertano, fanno correre, impegnano. Allo stesso modo, se le certezze cadono e la loro caduta è una folgore, una rivoluzione, il sentimento che prevale non è la paura, ma il desiderio incontenibile e drammatico di confessare pubblicamente il crollo delle certezze.

Desiderio di quiete e centrismo
Dal Baltico a Pechino si sono accesi molti di questi focolai, e non è un caso che ciò avvenga in Oriente. In Occidente cadono le certezze e non c’è paura, né confessione drammatica e pubblica. Si indossa l’abito buono e con sorniona impudenza si va al funerale ritardato di Nagy, o si riceve Gorbaciov con applausi fragorosi. Due modi per dire che sono cadute le certezze, ma ciò che si desidera ora è stare in quiete, perché tutto è business.
Almeno per noi, in Occidente, non vedo paura ma piuttosto emozionante desiderio di quiete,
volontà di allontanare i problemi e, infine, una gran voglia di non arrivare al Duemila con il fiato mozzo perché si è dovuto correre, sia che ti abbiano fatto correre le certezze che avevi, sia che ti abbia fatto correre la confessione pubblica e drammatica del loro crollo.
Lo stesso pronosticare catastrofi di ogni ordine e tipo è, in un certo senso, la controprova dell’apatia dominante, della ricerca di quiete. Del resto, anche l’Occidente è reduce da due decenni di mobilitazione. Dal ’68 al ’78 il pendolo ha battuto sulla sinistra del suo arco, poi, dal ’78 all” 88, tra Reagan e la Thatcher, sulla destra. Sono stati due decenni ideologicizzati: ora si desidera che regni la calma del centrismo.

Qualche tempo fa, parlando di queste cose con un amico americano, affacciavo l’ipotesi che Bush – al di là delle sue intenzioni e dei suoi disegni, o non avendo, forse, né intenzioni né disegni – finisca di fatto col favorire l’insorgere di un “club di condómini” con un regolamento fatto di gerarchie, responsabilità, quote e contribuzioni, con lo scopo finale di offrire al mondo la quiete che cerca. Tale ipotesi veniva commentata dal mio amico come una eventualità bushish e riconosceva che essa va tenuta presente, considerando anche le atmosfere che regnano a Ovest e a Est, ben diverse seppure originate entrambe da una caduta generale di molte certezze. L’amico era un fisico, il quale aggiungeva come oggi non si pensi più, perché pensare è diventata un’attività correlata alla quota di profitto delle imprese. Come queste si interessano del profitto a breve termine e non spingono lo sguardo al di là del trimestre, così i dipartimenti universitari pensano solo al futuro immediato, in modo da far quadrare il bilancio.
Riflettere sul nuovo, e quindi sullo sconosciuto, è antieconomico. Ma questo significa crisi della politica, esigendo da essa una drammatizzazione. Forse anche quelle confessioni pubbliche, quei focolai che si sono accesi dal Baltico a Pechino, sono solo rivolte di protesta e di delusione. È il dramma che nasce dal crollo di certezze politiche, ma non è un dramma che mostri il
preludere a una politica. Sotto questo profilo, la situazione è negativa a Ovest come a Est. A Ovest si vuole la quiete per continuare a comprare, a Est ci si rivolta perché è negata la possibilità di comprare.

Ma a Est, come a Ovest, ben poco si fa per procurarsi ciò che non si può comprare: il carattere, ovvero una morale. E questo è in linea con la caduta delle certezze, con le consolazioni che il concetto di onda lunga procura, con il rifiuto di drammatizzare, e quindi con il rifiuto della politica, con il desiderio di non arrivare al Duemila con il fiato mozzo, contando sulla manna che il centrismo distribuisce.
Questa caduta dell’ideologia si colloca nell’ambito della ybris con cui la nuova destra ha affrontato il problema. Reagan ha giocato su una menzogna di fondo nella contrapposizione tra i suoi grandi obiettivi e i suoi scarsi mezzi, non solo economici, ma anche politici. L’America non è ancora uscita dalla situazione post-Vietnam, il presidente ha manovrato piccole crisi militari, che sono state interpretate dall’Unione Sovietica come volontà di determinazione e perciò sopravvalutate, ma che erano le uniche azioni che si potevano portare avanti, considerando che la delega “potere alla Presidenza”, caratteristica dei primi trent’anni del dopoguerra, in realtà è caduta con il Vietnam, e Reagan non è riuscito a ricostruirla. Dall’altra parte la Thatcher, che ha certamente operato una epocale trasformazione in un paese in decadenza, ha affrontato con ybris ogni categoria, persino quella del suo elettorato. Si pensi alla lotta che sta intraprendendo contro i medici, contro gli avvocati, contro le università. In questa maniera ha spinto al radicalismo il pendolo di destra, ha mostrato la sua collera ma, dalla parte opposta, non sembra che le stanche ideologie socialdemocratiche degli Stati Uniti siano in grado di contrapporre a questa ultima grande avventura dell’Occidente, che è stata la destra degli anni
Ottanta, qualche cosa di nuovo, qualche cosa capace di mobilitare.

Una nuova leadership come soluzione?
Eppure di leadership ci sarebbe bisogno per dare soluzione all’inevitabile problema del debito, che in questi anni è cresciuto più del prodotto dei paesi in via di sviluppo. La strategia di mantenere il debito “a bagnomaria” era fondata sulla speranza che il rapporto fra i tassi di interesse e quelli di crescita permettesse progressivamente di liquidare in maniera benevola il problema del debito. Ma ciò non è accaduto, tanto che oggi si pone il problema del taglio, del disconoscimento, proprio perché è interesse degli stessi creditori che il debito non schiacci lo sviluppo, per evitare che le prospettive di ottenere almeno il pagamento degli interessi si facciano sempre più aleatorie. Non si tratta più di un’operazione meramente commerciale. Se ci fosse leadership, il problema dell’inevitabile riduzione del debito (oggi si discute fra una riduzione del 15%, come vorrebbero le banche, e una riduzione del 50%, come propongono i paesi) potrebbe rivelarsi l’occasione di una ricostruzione della politica, là dove di politica si muore, come in America Latina o in Africa. Le vie sarebbero l’imposizione di aree di libero scambio, come ha fatto l’America con l’Europa all’inizio del dopoguerra, e la sottrazione del potere di battere moneta ai paesi in via di sviluppo, concentrando quindi in banche federali a livello continentale questo pericoloso potere, che disorganizza le politiche economiche dei Paesi latinoamericani.
Una leadership sarebbe necessaria per risolvere i problemi della distensione: per evitare che essa divenga un’arma di guerra, com’è stata nell’era brezneviana.

Si sono fatti avanti un new thinking, quello che Gorbaciov ha presentato alle Nazioni Unite nel dicembre 1988, e una nuova strategia dell’Armata Rossa, basata sulla difesa distensiva. Ma l’esperienza della prima distensione lascia qualche perplessità sull’esito dell’operazione.
Di leadership ci sarebbe bisogno per risolvere i problemi in Europa perché, in qualche misura, l’attenuarsi dell’equazione nucleare, che dava una matematica sicurezza della necessità per tutti i Paesi europei di regolarsi secondo criteri comuni, ha rimesso in gioco molti deliri. I nostri ragazzi conoscono Danzica come la città di Solidarnosc, eppure i Republikanen in Germania parlano di una Danzica come quella di cui si parlava negli anni Trenta. Quattro milioni di ungheresi vivono fuori dei confini nazionali. Tutto questo mi preoccupa molto avendo vissuto gli anni Trenta e le parole d’ordine di quel periodo.

Le tensioni in Jugoslavia ricordano infatti altre tensioni. La capacità europea di ricostruzione, nata per saldare la Germania all’Occidente, viene meno proprio nel momento in cui, per alcuni aspetti, si è vinta la “terza guerra mondiale”. Si può, infatti, per gli anni Ottanta, parlare di “terza guerra mondiale”: il riarmo voluto da Carter e proseguito da Reagan ne ha tracciato una possibile storia, non basandosi sulla guerra campale, ma su manovre avvenute, appunto, sui quadri. Proprio quando la “terza guerra mondiale” sembra essere stata vinta, l’Europa viene messa alla prova da due tentazioni: il desiderio della Germania di risolvere il suo problema nazionale attraverso la marcia verso Oriente, e la voglia di altri paesi di opporsi a un equilibrio di potenze, come suggerisce Kissinger, e alla riunificazione tedesca, creando notevoli tensioni tra le nazioni d’Europa.
Al di là dei successi o insuccessi delle operazioni economiche del 1992, credo che questi problemi riportino in primo piano la grande politica, che è politica internazionale. L’Europa è stata in questi ultimi anni, dopo la vicenda coloniale, il paese della bassa politica, il paese delle politiche di redistribuzione, della politica del benessere, della politica dello Stato corporato. L’Europa si trova ora impari e in preda alle gelosie. Perché escludere che l’azione della Thatcher sulla questione dei missili fosse volta a mettere in difficoltà la marcia tedesca verso l’Oriente, in un momento in cui l’industria era in crisi e praticamente fuori gioco su questi mercati?

Si rifà avanti la grande politica, quando le consuetudini, le abitudini europee sono quelle della politica di basso livello, della politica interna, della politica sociale. Si apre un’avventura eccitante, un’avventura da consegnare alla generazione futura: ricreare l’Europa Centrale e Orientale fuori dei confini della Russia. Da questo punto di vista sembra opportuno che l’Austria non aderisca alla Comunità Europea e assuma, invece, il ruolo di clip dell’Occidente, in un’ipotesi di neutralizzazione del bacino danubiano e dell’Europa Orientale, e di finlandizzazione, la quale aveva già costituito, peraltro, la soluzione iniziale di Stalin per regolare i problemi di sicurezza nell’Unione Sovietica. Quest’ipotesi non va quindi contro l’idea di sicurezza che Stalin aveva seriamente prospettato e realizzato nel caso finlandese. Naturalmente, però, richiede la magnanimità della grande politica, la capacità di giocare la politica estera, anche al di fuori delle alleanze, anche come “europei”, senza ostacolarsi a vicenda, presentando il ricco campionario di ciò che ciascuno dei paesi può offrire per la ripresa, per il salvataggio economico dell’Unione Sovietica.
Se la sfida della situazione attuale si dimostrasse così forte da modificare le istituzioni, la priorità andrebbe certamente al coordinamento delle politiche internazionali, agli obiettivi internazionali dell’Europa di fronte al problema della liberazione di cento milioni di confratelli europei, che per quarant’anni sono vissuti sotto la regola sovietica.

La fragilità della forma statale attuale
Tutto questo sembra contrastare con il grado di maturità delle istituzioni. È la stessa forma statale, secondo alcuni analisti, che è entrata in crisi, coinvolta sempre più da fenomeni transnazionali. Gli stessi conflitti che abbiamo vissuto e che ci si prospettano davanti sono conflitti che poco debbono allo scontro classico tra gli Stati. McNamara constatava che, contando il numero di guerre dal ’45 a oggi, su 140 totali ben 120 scaturivano da sedizioni, rivolte interne e conflitti tribali.
I problemi più seri che ci troviamo a dover oggi affrontare sono quelli collegati al terrorismo, alle immigrazioni e alle loro conseguenze sulla sicurezza dei paesi meta dei flussi migratori. Sono quelli dell’energia, dell’arma nucleare: sei o sette paesi sono ormai in grado di produrre armi nucleari, e c’è persino chi pensa che l’unico strumento per riportare questo fenomeno sotto controllo sarebbe l’omicidio politico delle centinaia di fisici e ingegneri che rappresentano il patrimonio di questi paesi. Fortunatamente gli economisti non costituiscono argomento di preoccupazione per i Servizi Segreti.
I nostri problemi interni, poi, sono collegati a una paura antica: la paura che ebbero le forze politiche del nostro paese, prima della Costituzione, di creare un sistema con un esecutivo che funzionasse veramente. Nessuno sapeva esattamente quale era la forza dell’altro. C’era l’ipoteca della guerra civile in Grecia. E allora l’accordo fu quello di avere un sistema elettorale e di istituzioni debole, che permettesse, quale che fosse stato l’esito delle elezioni, di controllare l’esecutivo attraverso le guerriglie parlamentari. Questo sistema ha prodotto lo sfascio finanziario più rilevante che sia mai avvenuto nella nostra storia al di fuori dei periodi di guerra. Ed è un’equazione del tutto comprensibile che trova la sua puntuale spiegazione nel confronto di sistemi politici diversi. I sistemi deboli, basati sulla rappresentanza proporzionale, e quindi sulla necessità di negoziazioni all’interno dei rappresentanti e dei Parlamenti, hanno attraversato tutti delle situazioni di crisi finanziaria; le risorse pubbliche sono state ovunque utilizzate per cercare di guadagnare posizione in questa lotta dei partiti senza regole. E in un tempo contratto – nel caso di governi proporzionali esso può diventare anche estremamente breve riducendosi alla misura di un anno – nessuna politica finanziaria può produrre i suoi frutti; occorre infatti un orizzonte temporale medio di almeno quattro o cinque anni. Quando la signora Thatcher affrontò i problemi finanziari inglesi dovette aggiungere la coda delle Malvinas perché la sua popolarità dopo tre anni era già in declino.

La fragilità finanziaria è, infatti, caratteristica di questi sistemi con ampio grado di libertà, in cui la legittimazione non proviene dalle elezioni e in cui alla sera della domenica non si sa chi comanderà il paese per i prossimi cinque anni. Quando, poi, le scarse difese costituzionali non vengono attivate (e questo pone problemi di gravi responsabilità costituzionali alle maggiori autorità dello Stato), la crisi finanziaria interviene come inevitabile conseguenza della debolezza e della fragilità del sistema della rappresentanza.
Uscire da questa situazione in tempo per le scadenze economiche è un obiettivo che pone in estrema tensione il nostro sistema politico. Si fa sentire sempre più forte l’esigenza di una riforma del sistema della rappresentanza che permetta, attraverso la modifica dell’organizzazione elettorale, di esprimere esecutivi che ricevano la loro legittimità dalle elezioni, e non dagli accordi tra i proseliti. Peraltro, il sistema politico ha un interesse oggettivo a che ciò non avvenga: i 900 partecipanti al legislativo hanno un interesse personale alla instabilità dei governi per massimizzare la loro probabilità di successo personale.
La politica è una cosa troppo seria per lasciarla ai politici. È essenziale quindi che l’esecutivo trovi un saldo fondamento attraverso l’automatismo del sistema elettorale, in modo da disporre del tempo necessario per affrontare i problemi minimi della convivenza.
Bisogna, comunque, aver chiaro che dalla politica non può venire la salvezza. Alla politica non si può chiedere un’ideologia per vincere la paura o fornire delle utopie. Platone, capostipite di quella linea politica che finisce a Lenin e ai tiranni, concepiva la città come organismo, come individuo. Aristotele gli si contrappone: la politica c’è solo dove c’è differenza e dove si tratta di trovare un metodo per comporre le differenze attraverso una regola di civiltà. La polis non sarebbe la polis, dice Aristotele, se fosse un individuo. E allora, se c’è un limite intrinseco alla politica, c’è da domandarsi se la politica non possa che basarsi sui valori di tolleranza, e difficilmente possa basarsi su utopie o su ideologie a lungo termine; se la forza di vivere, di impegnarsi e di imparare non debbano essere fornite al di fuori della politica e se alla politica noi dobbiamo chiedere soltanto questa garanzia di convivenza a livello della singola città, del singolo Stato o a livello planetario, senza chiederle il sostituto pericoloso di una ideologia. Se questo fosse vero, quello stato di quiete verso il quale mi pareva di poter diagnosticare che si stia avviando la politica mondiale, non sarebbe, dopo tutto, una situazione così negativa.

*Intervento al Convegno Il futuro tra utopia e paura, Castel Ivano, 25 giugno 1989, ora nel volume omonimo edito da Sonda (1990), con il titolo Una politica per il futuro.

Il volto dell’Europa dei nazionalismi. Intervista a Eva Giovannini

 

Schermata 2015-09-20 alle 20.04.22La drammatica vicenda dei migranti ha fatto scoppiare una grave crisi del sogno Europeo. Egoismi e nazionalismi sono riemersi in maniera prepotente. Ci sono movimenti politici che soffiano contro l’ideale europeo. Chi sono e quale è il loro volto? Ne parliamo con Eva Giovannini, inviata del programma di Rai 3 “Ballarò”, autrice di un libro-inchiesta, uscito in questi giorni per i tipi di Marsilio, dal titolo: “Europa anno zero. Il ritorno dei nazionalismi” (pagg. 208, € 16,00)

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In questi mesi del 2015 il sogno Europeo ha subito una grave battuta d’arresto: dalla crisi della Grecia alla vicenda tragica e drammatica dei migranti che fuggono dalle guerre e dalla fame. Insomma lo spirito europeista di Spinelli è tramontato?

Non so se sia tramontato, ma sicuramente non attraversa il suo periodo migliore. La “creazione di un solido Stato internazionale”, per usare le parole del Manifesto, non sembra mai essere stata così lontana. Eppure non dovremmo gettare la spugna, perchè è proprio nei momenti più drammatici che spesso avvengono i cambi di paradigma, come insegna la scienza. Questo anno di crisi per l’Unione Europea potrebbe anche essere l’anno della sua rinascita. Ma per costruire gli Stati Uniti d’Europa, per rinunciare a un pezzo importante della propria “sovranità” il progetto politico deve essere chiaro, omogeneo, lungimirante. Non possiamo condividere il pareggio di bilancio senza preoccuparci di condividere anche i valori, non possiamo essere una comunità monetaria e non anche umanitaria.

Nel suo libro analizza il panorama delle “nuove” destre europee (da Alba Dorata alla Lega di Salvini). “Nuove” per modo di dire, visto che nel loro “repertorio” c’è molto di antico (nazismo e fascismo). Le chiedo qual’è la radice della “rinascita” di questa “ideologia” estrema? Quanta responsabilità ha l’Unione Europea in questa rinascita?

Faccio subito una precisazione: nessun leader da me intervistato in questo libro accetta di essere definito come “di destra”. Tutti sfuggono a questa etichetta, da Matteo Salvini ai patrioti di Pegida, passando per Marine Le Pen, che non solo non si considera una donna di destra, ma arriva a dire che la destra oggi non esiste più, “perchè la divisione è tra mondialisti e nazionalisti”. Comunque, credo che la spinta verso queste nuove forme di nazionalismo sia da ricercare nella grave, e non ancora superata, crisi economica che ha attraversato il nostro continente. La paura diffusa di perdere il welfare, il lavoro, il proprio patromnio di valori, ha fatto da brodo di coltura ideale per la rinascita di questi “populismi patrimoniali” che, con declinazioni diverse, si pongono come nemici dell’euroburocrazia e difensori dei popoli sovrani contro i “migranti-invasori”. L’Unione Europea certamente ha alcune responsabilità in questo: ha avuto negli ultimi anni un atteggiamento molto sbilanciato, ha dato un peso eccessivo al rigore economico – che è importante, certamente – dimenticandosi però che una comunità di Stati deve avere anche una visione politica condivisa. La gestione della vicenda migranti, ad esempio, ha colto l’Unione impreparata, come se un asteroide fosse caduto dal cielo.

Secondo Lei qual’è la formazione politica, tra queste, più pericolosa?

Se devo dire la verità, in questo mio viaggio in sei paesi europei – Regno Unito, Francia, Germania, Ungheria e Grecia e Italia – sono due i movimenti che più mi hanno fatto paura. Alba Dorata in Grecia e gli ultranazionalisti di Jobbik in Ungheria. Jobbik in ungherese vuol dire “i migliori”, ma anche “più a destra”: hanno una struttura paramilitare e si richiamano alle croci frecciate delle milizie naziste, odiano gli immigrati e sono antisemiti. Alle ultime elezioni politiche hanno preso oltre il 20% e il loro astro nascente, un giovane deputato di nome Màrton Gyӧngyӧsi, nell’intervista che mi ha rilasciato, ha difeso la formazione di classi speciali per soli bambini rom e la necessità di stilare una lista di tutti gli ebrei nel parlamento ungherese. Orbàn fa politiche sempre più radicali per inseguire il loro elettorato.

Alcuni di questi leader guardano alla Russia di Vladimir Putin come ad un modello a cui ispirarsi. Che ruolo gioca la Russia nella rinascita di questa destra?

La Russia è la grande alleata di questi movimenti. Non so se ha ragione George Soros quando dice che l’obiettivo di Mosca è “destabilizzare l’Europa”, ma sicuramente Putin strizza l’occhio a tutti questi movimenti. Non ci dimentichiamo dei nove milioni di euro dati al Front National di Marine Le Pen da una banca di proprietà di un amico di Putin, dell’investimento di dieci miliardi di euro che Mosca ha fatto per allargare l’unico impianto nucleare ungherese, a Paks, o dei rapporti strettissimi tra la Russia e il piccolo partito nazionalista di Anel, alleato di governo di Tsipras. Ma anche, più banalmente, la simpatia verso i media russi tra i militanti di Pegida, i patrioti contro l’islamizzaione che hanno marciato decine di volte a Dresda: mentre tutti i giornalisti venivano allontanati al grido di “lugenpresse!” (giornalisti bugiardi!), i microfoni blu dell’emittente di Mosca Poccnr venivano accolti dalla folla con il sorriso. 

Parliamo della Lega di Salvini. Il consenso, stando agli ultimi sondaggi, è sul 14%. Le chiedo: pensa che la penetrazione “culturale” (inteso come modo di pensare) leghista sia destinato ad espandersi nella società italiana oppure no?

Non sono in grado di dare una risposta, dovrei avere una sfera di cristallo per vedere che direzione prenderà questo Paese da qui al 2020, almeno. Mi limito però a fare una considerazione, prendendo come esempio un episodio specifico: la famosa sparata della “ruspa” da parte di Matteo Salvini. Dopo che il segretario della Lega tirò fuori quel termine, nonostante il coro quasi unanime di sdegno e critiche, i sondaggi registrarono un boom di consensi, lanciando la Lega quasi al 16%. Ognuno tragga le sue conclusioni.

Ultima domanda: nel suo libro afferma che l’Europa ha bisogno di un nuovo “patto fondativo” per contrastare questa deriva nazionalistica. Su che basi fondare questo nuovo patto?

Credo che servano quanto prima misure più omogenee sul fronte fiscale, una politica estera che parli una lingua comune (ricordate Kissinger quando diceva “a chi devo telefonare per parlare con l’Europa?) e ridare centralità ai Parlamenti, e non solo al Consiglio europeo. In questo senso, la firma di una dichiarazione congiunta tra i presidenti del Parlamento italiano, tedesco e francesce, avvenuta a Roma lo scorso 14 settembre, è un passo importante verso la costruzione degli “Stati Uniti d’Europa”.