Per gentile concessione dell’autore, pubblichiamo l’intervento di Valerio Di Porto, Consigliere Parlamentare, al Convegno dell’UCEI su Legge e legalità – le armi della democrazia. Dalla memoria della Shoah ad una integrazione dei diritti dell’uomo nell’Unione europea, che si è svolto a Roma, giovedì scorso, in occasione della “Giornata della Memoria”.
Vorrei partire da due coincidenze temporali:
questa primavera, oltre ai sessant’anni dalla firma dei Trattati di Roma, ricorre anche l’ottantesimo anniversario del primo provvedimento francamente razzista del regime fascista: il regio decreto-legge 19 aprile 1937, n. 880, Sanzioni per i rapporti d’indole coniugale fra cittadini e sudditi. Ugualmente, ricorrono ottanta anni da un altro decreto-legge, forse meno conosciuto, che si muove tra tutela del lavoro delle donne e dei fanciulli e la loro discriminazione per rispetto delle tradizioni e consuetudini religiose musulmane: l’articolo 6 del decreto-legge 3 aprile 1937, n. 1253, autorizza infatti il Governatore generale della Libia a “disciplinare nelle aziende con personale musulmano, il lavoro notturno delle donne e dei fanciulli in determinati periodi e ricorrenze, secondo le tradizioni e consuetudini religiose”;
il 5 settembre 1938 è la data di emanazione non soltanto dei primi due decreti-legge di persecuzione dei diritti degli ebre, ma di ben altri 81 provvedimenti d’urgenza. Attraverso la lente di questi provvedimenti, emanati in un solo giorno, si ha un vivido spaccato del regime fascista, dello Stato etico cui si ispira, dell’attenzione per l’esercito, delle politiche che oggi chiameremmo di welfare. Due in particolare hanno richiamato la mia attenzione: il n. 1449, che esenta i grandi invalidi del lavoro dall’imposta sui celibi; il n. 1514, che disciplina l’assunzione di personale femminile agli impieghi pubblici e privati. Il primo è un curioso ma certo non infrequente incrocio tra discriminazione (l’imposta sui celibi) e welfare (l’esenzione per i grandi invalidi del lavoro). Il secondo limita drasticamente l’assunzione delle donne agli impieghi sia pubblici sia privati “alla proporzione massima, del dieci per cento del numero dei posti”. In più, dà ampia discrezionalità alle pubbliche Amministrazioni, cui è riservata “la facoltà di stabilire una percentuale minore nei bandi di concorso per nomine ed impieghi”; “gli ordinamenti delle singole Amministrazioni stabiliranno l’esclusione della donna da quei pubblici impieghi ai quali sia ritenuta inadatta, per ragioni di inidoneità fisica o per le caratteristiche degli impieghi stessi”.
Da questi esempi si evincono alcune cose, note e al limite del banale, che pure vale la pena evidenziare:
– le prime leggi razziste investono l’Africa italiana e denotano la stretta connessione tra conquista dell’Impero e politiche di discriminazione e persecuzione razziale;
– in un regime come quello fascista che tende all’assolutezza e allo Stato etico le discriminazioni sono funzionali agli obiettivi del regime stesso: dapprima, discriminare i celibi per favorire la crescita della popolazione e quindi la potenza della nazione; poi, discriminare le donne, per favorire l’occupazione maschile, in periodo di grave crisi economica; quindi discriminare gli indigeni africani e gli ebrei, con durezza e pervicacia. Negli ultimi anni diversi studiosi si sono dedicati alle leggi razziste anche con riguardo al vero e proprio regime di segregazione razziale istituito nell’Africa italiana;
– infine, vi sono vaste zone grigie, classificabili in due tipologie: le previsioni della legislazione razzista tese a mitigarne le conseguenze o addirittura a offrire una via di fuga; le aree della legislazione ove disposizioni più o meno apertamente discriminatorie si miscelano con tutele e riconoscimento dei diritti: la prima che ho citato va a scapito di donne e fanciulli per garantire agli uomini musulmani di osservare al meglio il Ramadan; la seconda immette in una politica discriminatoria (la tassa sui celibi) una misura di welfare.
Sono proprio queste aree grigie su cui vorrei soffermarmi, richiamando solo per titoli la prima tipologia e soffermandomi un po’ di più sulla seconda. Infine accennerò alle aree grigio-nere dell’oggi, per una conclusiva proiezione sul presente.
Riguardo alla prima tipologia, la legislazione razzista offre due possibilità agli ebrei che intendano sottrarvisi o per lo meno attutirne gli effetti. La seconda consiste nella discriminazione, che assume un significato positivo: l’ebreo discriminato per particolari meriti ha almeno in teoria qualche possibilità in più. La via di fuga dà luogo ad umiliazioni ed arbìtri: con la legge 13 luglio 1939, n. 1024, si riconosce la possibilità al Ministro dell’interno di dichiarare, su conforme parere di una Commissione composta di magistrati e funzionari del Ministero dell’interno, “la non appartenenza alla razza ebraica anche in difformità delle risultanze degli atti dello stato civile”. Il parere della Commissione è motivato ma resta segreto; il conseguente decreto del Ministro dell’interno non è motivato ed è insindacabile. Si apre un conflitto più o meno sotterraneo con la magistratura, cui viene sottratta ogni decisione in materia razziale. La Commissione, nota come tribunale della razza, rivendicherà di aver fatto il possibile per sottrarre molte persone alla persecuzione; il prezzo per sottrarsi, però, è la propria dignità, in aggiunta alla necessità di trovare le idonee raccomandazioni, anche di alti gerarchi fascisti, e, quasi sempre, in aggiunta alla necessità di corrompere. Il giudizio annotato da Piero Calamandrei nel suo taccuino, il 2 marzo 1940, è crudo al limite della volgarità: “il prof. Redenti mi diceva ieri gli sconci che succedono per il Tribunale della razza. Più di 50 domande di ebrei che chiedono di dimostrare di essere figli di puttane, cioè figli adulterini di padre ariano. E ci sono avvocati e funzionari che guadagnano fior di quattrini da queste speculazioni”.
Il poeta romano Carlo Albero Salustri, in arte Trilussa, gioca sul filo dell’ironia per descrivere “L’affare della razza”:
“C’avevo un gatto e lo chiamavo Ajò
ma dato ch’era un nome un po’ giudìo,
agnedi da un prefetto amico mio
pe’ domannaje se potevo o no:
volevo sta’ tranquillo, tantoppiù
ch’ero disposto de chiamallo Ajù.
“Bisognerà studia'”, disse er prefetto
“la vera provenienza de la madre”.
Dico: la madre è un’angora, ma er padre
era siamese e bazzicava er Ghetto.
Er gatto mio, però, sarebbe nato
tre mesi doppo a casa der Curato.
“Se veramente ciai ‘ste prove in mano
– me rispose l’amico – se fa presto.
La posizzione è chiara”. E detto questo
firmò ‘na carta e me lo fece ariano.
“Però – me disse – pe’ tranquillità
è forse mejo che lo chiami Ajà”.
Per qualche esempio della seconda tipologia di area grigia attingo ancora alla politica razzista italiana in Africa: l’anima di più spiccato stampo razziale di tutta la legislazione coloniale inizia a emergereiv nel regio decreto-legge 1° giugno 1936, n. 1019, recante “Amministrazione e ordinamento dell’Africa Orientale Italiana” che precede di un anno il primo provvedimento palesemente razzista del regime, già richiamato,v e che presenta un doppio volto: da un lato marca la differenza tra sudditi e cittadini; dall’altro, forse anche strumentalmente alla volontà discriminatoria sul piano razziale, mostra rispetto per la babele linguistica dell’Africa Orientale Italiana e per le religioni ivi praticate. Mi sembrano sintomatiche, soprattutto, tre disposizioni:
– l’articolo 30, primo comma stabilisce che “Il nato nel territorio dell’Africa Orientale Italiana da genitori ignoti, quando i caratteri somatici ed altri eventuali indizi facciano fondatamente ritenere che entrambi i genitori siano di razza bianca, è dichiarato cittadino italiano”;
– l’articolo 31, oltre ad usare una espressione (sorprendentemente) garantista nei confronti di tutte le religioni, pone particolare attenzione ai sudditi musulmanivi:
“Nell’Africa Orientale Italiana è garantito l’assoluto rispetto delle religioni.
Le istituzioni religiose dei cristiani monofisiti saranno regolate da leggi speciali e da accordi con le gerarchie ecclesiastiche.
Ai musulmani è data piena facoltà in tutto il territorio dell’Africa Orientale Italiana di ripristinare i loro luoghi di culto, le loro antiche istituzioni pie e le loro scuole religiose. Le controversie fra sudditi musulmani saranno giudicate dai cadi secondo la legge islamica e le consuetudini locali delle popolazioni musulmane.
È garantito a tutti il rispetto delle tradizioni locali in quanto non contrastino con l’ordine pubblico e coi principi generali della civiltà”;
– l’articolo 32 dispone che:
“Gli atti ufficiali, che per disposizione di legge debbano essere redatti o pubblicati nelle lingue scritte di sudditi dell’africa Orientale Italiana, saranno compilati nei seguenti linguaggi”: tigrino, amarico e arabo, a seconda delle zone.
“L’insegnamento delle lingue locali è impartito in tigrino, amarico, galla, harari, caffino e somalo, a seconda delle zone.
È obbligatorio in tutti i territori musulmani dell’Africa Orientale Italiana l’insegnamento della lingua araba nelle scuole per i sudditi.
Il Governatore Generale Vice Re, con suo decreto, può stabilire che l’insegnamento in alcune regioni sia impartito anche in una lingua non compresa in quelle su elencate”.
La legge è interessante: da un lato sono presenti germi razzisti (il riferimento ai caratteri somatici e alla razza), dall’altro garantisce “l’assoluto rispetto delle religioni” e “il rispetto delle tradizioni locali in quanto non contrastino con l’ordine pubblico e coi principi generali di civiltà”. Proclamando l’assoluto rispetto delle religioni il legislatore fascista va ben oltre la “tolleranza” cui fa riferimento lo Statuto albertino e la legislazione sui “culti ammessi”; nel contempo, si prepara a discriminare e segregare, in Italia e in Africa.
Una seconda area grigia è presente nell’articolo 36 della legge n. 1045 del 1939, recante condizioni per l’igiene e l’abitabilità degli equipaggi a bordo delle navi mercantili nazionali, finora sfuggito ad ogni tentativo di abrogazionei.
L’articolo 36 presenta un contenuto particolare in relazione al contesto storico nel quale si colloca la sua approvazione: il primo periodo ha intenti chiaramente discriminatori (“Qualora tra i componenti l’equipaggio vi siano persone di colore, a queste dovranno essere riservate sistemazioni di alloggio, di lavanda e igieniche, separate da quelle del restante personale e rispondenti ai loro usi e costumi”) ma non ricorre ad espressioni dispregiative o al termine “razza”, usando un’espressione di derivazione anglosassonex. Il secondo periodo presenta un contenuto che potrebbe apparire perfino garantista (“Per tale personale di colore dovrà altresì esservi a bordo il modo di confezionare il vitto secondo le sue abitudini e i suoi costumi”).
Per inciso, il riferimento a persone “di colore” non ricorre soltanto qui: l’articolo 2 del decreto-legge 16 giugno 1938, n. 1192, Proroga delle norme contenute nel R. decreto-legge 10 febbraio 1937-XV, n. 210, relativo ai finanziamenti per gli assuntori di opere pubbliche nell’Africa Orientale Italiana, nel novellare integralmente l’articolo 2 del citato decreto n. 210 del 1937, si riferisce all’invio nell’Africa Orientale Italiana “di operai nazionali e di operai stranieri di colore”.
In una lettera inviata dalla Società Italiana di Antropologia ed Etnologia all’Ufficio centrale demografico nel 1937 si usa invece l’espressione più dispregiativa “individui appartenenti a razze di colore”.
Ebbene, la legge n. 1045 del 1939 è datata 16 giugno e precede quindi di sole due settimane la legge 29 giugno 1939, n. 1004, recante sanzioni penali per la difesa del prestigio di razza di fronte ai nativi dell’Africa italiana. Passando dall’igiene delle navi mercantili al contesto razziale anche il linguaggio si fa netto, in un’ottica decisamente segregazionista, confermata e brutalmente incrudelita, l’anno successivo, con la legge 13 maggio 1940, n. 822, recante norme relative ai meticci. Qui la volontà di separazione razziale è elevata all’ennesima potenza: il figlio nato da coppia mista cittadino italiano-nativo dell’africa Orientale (la cui formazione era già impedita dal decreto-legge n. 880 del 1937) non può essere riconosciuto dal genitore italiano né può assumerne il cognome; può essere accolto soltanto “negli istituti, nelle scuole, nei collegi, nei pensionati e negli internati per i nativi” (art. 6); non può essere adottato da cittadini. È una legge le cui conseguenze, pesantissime per tanti figli di coppie miste, si cercherà di sanare anche con iniziative legislative. L’ultima che mi risulta è del deputato Pasquale Giuliano e risale alla XIII legislatura (A. C. 5634): “Disposizioni per l’acquisizione della cittadinanza da parte degli italo-eritrei nati anteriormente al 1° gennaio 1953”.
A tutt’oggi, la ferita non è sanata.
Nel mondo attuale – e vengo alla conclusione – la creazione e l’utilizzo di aree grigie a fini discriminatori è relativamente semplice perché sono sempre più complessi i bilanciamenti tra interessi in gioco e soggetti coinvolti, nuovi diritti e valori affermati, anche strumentalmente, a scapito di altri. Mi limito a qualche esempio che porterebbe molto lontano e che interroga le coscienze di tutti prima che il diritto: la proibizione della macellazione kosher o hallal in asserita difesa dei diritti degli animali; la proibizione della circoncisione per tutelare la salute dei bambini; la sostanziale proibizione di costruire nuove moschee in nome del governo del territorio. In questi ambiti il confine è chiaro ma talora può essere scivoloso (pensiamo ai temi della bioetica) o può essere strumentalizzato: occorre allora massimo discernimento ed equilibrio, per esempio tra la civile proibizione delle mutazioni genitali femminili e il discriminatorio divieto della ben diversa e superficiale (e talora medicalmente consigliata) circoncisione.
A queste aree grigie si aggiunge una questione che già si poneva negli anni Trenta: l’atteggiamento delle liberaldemocrazie verso le persecuzioni e i tentativi di genocidio compiuti in tante parti del mondo per motivi etnici e religiosi.
Dopo la notte dei cristalli, gli ebrei intenzionati a scappare dalla Germania e dall’Austria e dai paesi via via occupati trovarono molte barriere, alzate anche da Stati Uniti e Inghilterra. In più, il libro bianco inglese precluse la strada della Palestina, che avrebbe consentito la salvezza di molti. Il regime nazista, nei primi anni, aveva pensato all’emigrazione ebraica come possibile soluzione: la sua impraticabilità accelerò il genocidio di un popolo orami privato di tutti i diritti, segregato anche in patria, impossibilitato a mantenersi, ridotto a feccia della terra per poter essere più facilmente sterminato.
Nella sezione intitolata “Ridere per non piangere” Elena Loewenthal riporta questa “storia tremendamente, infinitamente triste:
Parigi sotto occupazione nazista. Un vecchio ebreo entra a capo chino in un’agenzia di viaggi: vuole comprare un biglietto d’imbarco per una delle navi che partono dal porto di Le Havre.
“Non c’è problema signore”, risponde la cortese impiegata, “per quale destinazione?”
“Destinazione…ah, già…scusi, ha per caso un mappamondo?” domanda il vecchio signore.
“Non c’è problema signore, signore. Ecco a lei”.
Il vecchio gira e rigira il mappamondo, studia, legge i nomi, e pensa. Passa un bel po’ di tempo, e alla fine, sospirando, domanda:
“Mi scusi, non ne ha per caso un altro, da vedere?”.
Quella del vecchio ebreo fu la situazione di tanti disperati che, pur potendo permettersi di pagarsi un viaggio, trovarono quasi tutte le strade sbarrate.
Oggi il compito cui sono chiamati gli Stati liberal-democratici è davvero improbo, con una pressione migratoria fortissima dovuta a motivi economici ma anche a tante, diffuse persecuzioni. Occorre allora volgere lo sguardo con equilibrio e fermezza a quel periodo cruciale tra fine anni Trenta e inizio anni Quaranta, in cui maturarono le condizioni dell’Olocausto, per evitare quello che purtroppo già accade, su scala più o meno ridotta, in tanti posti. L’obiettivo, prima ancora dell’accoglienza, dovrebbe essere quello di garantire a tutti una vita serena nei propri luoghi: difficile, ma forse non impossibile, visto che i focolai dell’odio e dei potenziali genocidi sono ben noti e circoscritti, anche se tante volte preferiamo non guardare e tacere, con lo stesso, terribile silenzio che avvolse dapprima la persecuzione dei diritti degli ebrei (e non solo loro) e poi la persecuzione delle vite.