Dalla negazione dei diritti alla negazione delle vite: le leggi razziali e il loro seguito. Un testo di Valerio di Porto

2008-11-191Per gentile concessione dell’autore, pubblichiamo l’intervento di Valerio Di Porto, Consigliere Parlamentare, al Convegno dell’UCEI su Legge e legalità – le armi della democrazia. Dalla memoria della Shoah ad una integrazione dei diritti dell’uomo nell’Unione europea, che si è svolto a Roma, giovedì scorso, in occasione della “Giornata della Memoria”.

Vorrei partire da due coincidenze temporali:

questa primavera, oltre ai sessant’anni dalla firma dei Trattati di Roma, ricorre anche l’ottantesimo anniversario del primo provvedimento francamente razzista del regime fascista: il regio decreto-legge 19 aprile 1937, n. 880, Sanzioni per i rapporti d’indole coniugale fra cittadini e sudditi. Ugualmente, ricorrono ottanta anni da un altro decreto-legge, forse meno conosciuto, che si muove tra tutela del lavoro delle donne e dei fanciulli e la loro discriminazione per rispetto delle tradizioni e consuetudini religiose musulmane: l’articolo 6 del decreto-legge 3 aprile 1937, n. 1253, autorizza infatti il Governatore generale della Libia a “disciplinare nelle aziende con personale musulmano, il lavoro notturno delle donne e dei fanciulli in determinati periodi e ricorrenze, secondo le tradizioni e consuetudini religiose”;

il 5 settembre 1938 è la data di emanazione non soltanto dei primi due decreti-legge di persecuzione dei diritti degli ebre, ma di ben altri 81 provvedimenti d’urgenza. Attraverso la lente di questi provvedimenti, emanati in un solo giorno, si ha un vivido spaccato del regime fascista, dello Stato etico cui si ispira, dell’attenzione per l’esercito, delle politiche che oggi chiameremmo di welfare. Due in particolare hanno richiamato la mia attenzione: il n. 1449, che esenta i grandi invalidi del lavoro dall’imposta sui celibi; il n. 1514, che disciplina l’assunzione di personale femminile agli impieghi pubblici e privati. Il primo è un curioso ma certo non infrequente incrocio tra discriminazione (l’imposta sui celibi) e welfare (l’esenzione per i grandi invalidi del lavoro). Il secondo limita drasticamente l’assunzione delle donne agli impieghi sia pubblici sia privati “alla proporzione massima, del dieci per cento del numero dei posti”. In più, dà ampia discrezionalità alle pubbliche Amministrazioni, cui è riservata “la facoltà di stabilire una percentuale minore nei bandi di concorso per nomine ed impieghi”; “gli ordinamenti delle singole Amministrazioni stabiliranno l’esclusione della donna da quei pubblici impieghi ai quali sia ritenuta inadatta, per ragioni di inidoneità fisica o per le caratteristiche degli impieghi stessi”.

Da questi esempi si evincono alcune cose, note e al limite del banale, che pure vale la pena evidenziare:

– le prime leggi razziste investono l’Africa italiana e denotano la stretta connessione tra conquista dell’Impero e politiche di discriminazione e persecuzione razziale;

– in un regime come quello fascista che tende all’assolutezza e allo Stato etico le discriminazioni sono funzionali agli obiettivi del regime stesso: dapprima, discriminare i celibi per favorire la crescita della popolazione e quindi la potenza della nazione; poi, discriminare le donne, per favorire l’occupazione maschile, in periodo di grave crisi economica; quindi discriminare gli indigeni africani e gli ebrei, con durezza e pervicacia. Negli ultimi anni diversi studiosi si sono dedicati alle leggi razziste anche con riguardo al vero e proprio regime di segregazione razziale istituito nell’Africa italiana;

– infine, vi sono vaste zone grigie, classificabili in due tipologie: le previsioni della legislazione razzista tese a mitigarne le conseguenze o addirittura a offrire una via di fuga; le aree della legislazione ove disposizioni più o meno apertamente discriminatorie si miscelano con tutele e riconoscimento dei diritti: la prima che ho citato va a scapito di donne e fanciulli per garantire agli uomini musulmani di osservare al meglio il Ramadan; la seconda immette in una politica discriminatoria (la tassa sui celibi) una misura di welfare.

Sono proprio queste aree grigie su cui vorrei soffermarmi, richiamando solo per titoli la prima tipologia e soffermandomi un po’ di più sulla seconda. Infine accennerò alle aree grigio-nere dell’oggi, per una conclusiva proiezione sul presente.

Riguardo alla prima tipologia, la legislazione razzista offre due possibilità agli ebrei che intendano sottrarvisi o per lo meno attutirne gli effetti. La seconda consiste nella discriminazione, che assume un significato positivo: l’ebreo discriminato per particolari meriti ha almeno in teoria qualche possibilità in più. La via di fuga dà luogo ad umiliazioni ed arbìtri: con la legge 13 luglio 1939, n. 1024, si riconosce la possibilità al Ministro dell’interno di dichiarare, su conforme parere di una Commissione composta di magistrati e funzionari del Ministero dell’interno, “la non appartenenza alla razza ebraica anche in difformità delle risultanze degli atti dello stato civile”. Il parere della Commissione è motivato ma resta segreto; il conseguente decreto del Ministro dell’interno non è motivato ed è insindacabile. Si apre un conflitto più o meno sotterraneo con la magistratura, cui viene sottratta ogni decisione in materia razziale. La Commissione, nota come tribunale della razza, rivendicherà di aver fatto il possibile per sottrarre molte persone alla persecuzione; il prezzo per sottrarsi, però, è la propria dignità, in aggiunta alla necessità di trovare le idonee raccomandazioni, anche di alti gerarchi fascisti, e, quasi sempre, in aggiunta alla necessità di corrompere. Il giudizio annotato da Piero Calamandrei nel suo taccuino, il 2 marzo 1940, è crudo al limite della volgarità: “il prof. Redenti mi diceva ieri gli sconci che succedono per il Tribunale della razza. Più di 50 domande di ebrei che chiedono di dimostrare di essere figli di puttane, cioè figli adulterini di padre ariano. E ci sono avvocati e funzionari che guadagnano fior di quattrini da queste speculazioni”.

Il poeta romano Carlo Albero Salustri, in arte Trilussa, gioca sul filo dell’ironia per descrivere “L’affare della razza”:

“C’avevo un gatto e lo chiamavo Ajò

ma dato ch’era un nome un po’ giudìo,

agnedi da un prefetto amico mio

pe’ domannaje se potevo o no:

volevo sta’ tranquillo, tantoppiù

ch’ero disposto de chiamallo Ajù.

“Bisognerà studia'”, disse er prefetto

“la vera provenienza de la madre”.

Dico: la madre è un’angora, ma er padre

era siamese e bazzicava er Ghetto.

Er gatto mio, però, sarebbe nato

tre mesi doppo a casa der Curato.

“Se veramente ciai ‘ste prove in mano

– me rispose l’amico – se fa presto.

La posizzione è chiara”. E detto questo

firmò ‘na carta e me lo fece ariano.

“Però – me disse – pe’ tranquillità

è forse mejo che lo chiami Ajà”.

Per qualche esempio della seconda tipologia di area grigia attingo ancora alla politica razzista italiana in Africa: l’anima di più spiccato stampo razziale di tutta la legislazione coloniale inizia a emergereiv nel regio decreto-legge 1° giugno 1936, n. 1019, recante “Amministrazione e ordinamento dell’Africa Orientale Italiana” che precede di un anno il primo provvedimento palesemente razzista del regime, già richiamato,v e che presenta un doppio volto: da un lato marca la differenza tra sudditi e cittadini; dall’altro, forse anche strumentalmente alla volontà discriminatoria sul piano razziale, mostra rispetto per la babele linguistica dell’Africa Orientale Italiana e per le religioni ivi praticate. Mi sembrano sintomatiche, soprattutto, tre disposizioni:

– l’articolo 30, primo comma stabilisce che “Il nato nel territorio dell’Africa Orientale Italiana da genitori ignoti, quando i caratteri somatici ed altri eventuali indizi facciano fondatamente ritenere che entrambi i genitori siano di razza bianca, è dichiarato cittadino italiano”;

– l’articolo 31, oltre ad usare una espressione (sorprendentemente) garantista nei confronti di tutte le religioni, pone particolare attenzione ai sudditi musulmanivi:

“Nell’Africa Orientale Italiana è garantito l’assoluto rispetto delle religioni.

Le istituzioni religiose dei cristiani monofisiti saranno regolate da leggi speciali e da accordi con le gerarchie ecclesiastiche.

Ai musulmani è data piena facoltà in tutto il territorio dell’Africa Orientale Italiana di ripristinare i loro luoghi di culto, le loro antiche istituzioni pie e le loro scuole religiose. Le controversie fra sudditi musulmani saranno giudicate dai cadi secondo la legge islamica e le consuetudini locali delle popolazioni musulmane.

È garantito a tutti il rispetto delle tradizioni locali in quanto non contrastino con l’ordine pubblico e coi principi generali della civiltà”;

– l’articolo 32 dispone che:

“Gli atti ufficiali, che per disposizione di legge debbano essere redatti o pubblicati nelle lingue scritte di sudditi dell’africa Orientale Italiana, saranno compilati nei seguenti linguaggi”: tigrino, amarico e arabo, a seconda delle zone.

“L’insegnamento delle lingue locali è impartito in tigrino, amarico, galla, harari, caffino e somalo, a seconda delle zone.

È obbligatorio in tutti i territori musulmani dell’Africa Orientale Italiana l’insegnamento della lingua araba nelle scuole per i sudditi.

Il Governatore Generale Vice Re, con suo decreto, può stabilire che l’insegnamento in alcune regioni sia impartito anche in una lingua non compresa in quelle su elencate”.

La legge è interessante: da un lato sono presenti germi razzisti (il riferimento ai caratteri somatici e alla razza), dall’altro garantisce “l’assoluto rispetto delle religioni” e “il rispetto delle tradizioni locali in quanto non contrastino con l’ordine pubblico e coi principi generali di civiltà”. Proclamando l’assoluto rispetto delle religioni il legislatore fascista va ben oltre la “tolleranza” cui fa riferimento lo Statuto albertino e la legislazione sui “culti ammessi”; nel contempo, si prepara a discriminare e segregare, in Italia e in Africa.

Una seconda area grigia è presente nell’articolo 36 della legge n. 1045 del 1939, recante condizioni per l’igiene e l’abitabilità degli equipaggi a bordo delle navi mercantili nazionali, finora sfuggito ad ogni tentativo di abrogazionei.

L’articolo 36 presenta un contenuto particolare in relazione al contesto storico nel quale si colloca la sua approvazione: il primo periodo ha intenti chiaramente discriminatori (“Qualora tra i componenti l’equipaggio vi siano persone di colore, a queste dovranno essere riservate sistemazioni di alloggio, di lavanda e igieniche, separate da quelle del restante personale e rispondenti ai loro usi e costumi”) ma non ricorre ad espressioni dispregiative o al termine “razza”, usando un’espressione di derivazione anglosassonex. Il secondo periodo presenta un contenuto che potrebbe apparire perfino garantista (“Per tale personale di colore dovrà altresì esservi a bordo il modo di confezionare il vitto secondo le sue abitudini e i suoi costumi”).

Per inciso, il riferimento a persone “di colore” non ricorre soltanto qui: l’articolo 2 del decreto-legge 16 giugno 1938, n. 1192, Proroga delle norme contenute nel R. decreto-legge 10 febbraio 1937-XV, n. 210, relativo ai finanziamenti per gli assuntori di opere pubbliche nell’Africa Orientale Italiana, nel novellare integralmente l’articolo 2 del citato decreto n. 210 del 1937, si riferisce all’invio nell’Africa Orientale Italiana “di operai nazionali e di operai stranieri di colore”.

In una lettera inviata dalla Società Italiana di Antropologia ed Etnologia all’Ufficio centrale demografico nel 1937 si usa invece l’espressione più dispregiativa “individui appartenenti a razze di colore”.

Ebbene, la legge n. 1045 del 1939 è datata 16 giugno e precede quindi di sole due settimane la legge 29 giugno 1939, n. 1004, recante sanzioni penali per la difesa del prestigio di razza di fronte ai nativi dell’Africa italiana. Passando dall’igiene delle navi mercantili al contesto razziale anche il linguaggio si fa netto, in un’ottica decisamente segregazionista, confermata e brutalmente incrudelita, l’anno successivo, con la legge 13 maggio 1940, n. 822, recante norme relative ai meticci. Qui la volontà di separazione razziale è elevata all’ennesima potenza: il figlio nato da coppia mista cittadino italiano-nativo dell’africa Orientale (la cui formazione era già impedita dal decreto-legge n. 880 del 1937) non può essere riconosciuto dal genitore italiano né può assumerne il cognome; può essere accolto soltanto “negli istituti, nelle scuole, nei collegi, nei pensionati e negli internati per i nativi” (art. 6); non può essere adottato da cittadini. È una legge le cui conseguenze, pesantissime per tanti figli di coppie miste, si cercherà di sanare anche con iniziative legislative. L’ultima che mi risulta è del deputato Pasquale Giuliano e risale alla XIII legislatura (A. C. 5634): “Disposizioni per l’acquisizione della cittadinanza da parte degli italo-eritrei nati anteriormente al 1° gennaio 1953”.

A tutt’oggi, la ferita non è sanata.

Nel mondo attuale – e vengo alla conclusione – la creazione e l’utilizzo di aree grigie a fini discriminatori è relativamente semplice perché sono sempre più complessi i bilanciamenti tra interessi in gioco e soggetti coinvolti, nuovi diritti e valori affermati, anche strumentalmente, a scapito di altri. Mi limito a qualche esempio che porterebbe molto lontano e che interroga le coscienze di tutti prima che il diritto: la proibizione della macellazione kosher o hallal in asserita difesa dei diritti degli animali; la proibizione della circoncisione per tutelare la salute dei bambini; la sostanziale proibizione di costruire nuove moschee in nome del governo del territorio. In questi ambiti il confine è chiaro ma talora può essere scivoloso (pensiamo ai temi della bioetica) o può essere strumentalizzato: occorre allora massimo discernimento ed equilibrio, per esempio tra la civile proibizione delle mutazioni genitali femminili e il discriminatorio divieto della ben diversa e superficiale (e talora medicalmente consigliata) circoncisione.

A queste aree grigie si aggiunge una questione che già si poneva negli anni Trenta: l’atteggiamento delle liberaldemocrazie verso le persecuzioni e i tentativi di genocidio compiuti in tante parti del mondo per motivi etnici e religiosi.

Dopo la notte dei cristalli, gli ebrei intenzionati a scappare dalla Germania e dall’Austria e dai paesi via via occupati trovarono molte barriere, alzate anche da Stati Uniti e Inghilterra. In più, il libro bianco inglese precluse la strada della Palestina, che avrebbe consentito la salvezza di molti. Il regime nazista, nei primi anni, aveva pensato all’emigrazione ebraica come possibile soluzione: la sua impraticabilità accelerò il genocidio di un popolo orami privato di tutti i diritti, segregato anche in patria, impossibilitato a mantenersi, ridotto a feccia della terra per poter essere più facilmente sterminato.

Nella sezione intitolata “Ridere per non piangere” Elena Loewenthal riporta questa “storia tremendamente, infinitamente triste:

Parigi sotto occupazione nazista. Un vecchio ebreo entra a capo chino in un’agenzia di viaggi: vuole comprare un biglietto d’imbarco per una delle navi che partono dal porto di Le Havre.

“Non c’è problema signore”, risponde la cortese impiegata, “per quale destinazione?”

“Destinazione…ah, già…scusi, ha per caso un mappamondo?” domanda il vecchio signore.

“Non c’è problema signore, signore. Ecco a lei”.

Il vecchio gira e rigira il mappamondo, studia, legge i nomi, e pensa. Passa un bel po’ di tempo, e alla fine, sospirando, domanda:

“Mi scusi, non ne ha per caso un altro, da vedere?”.

Quella del vecchio ebreo fu la situazione di tanti disperati che, pur potendo permettersi di pagarsi un viaggio, trovarono quasi tutte le strade sbarrate.

Oggi il compito cui sono chiamati gli Stati liberal-democratici è davvero improbo, con una pressione migratoria fortissima dovuta a motivi economici ma anche a tante, diffuse persecuzioni. Occorre allora volgere lo sguardo con equilibrio e fermezza a quel periodo cruciale tra fine anni Trenta e inizio anni Quaranta, in cui maturarono le condizioni dell’Olocausto, per evitare quello che purtroppo già accade, su scala più o meno ridotta, in tanti posti. L’obiettivo, prima ancora dell’accoglienza, dovrebbe essere quello di garantire a tutti una vita serena nei propri luoghi: difficile, ma forse non impossibile, visto che i focolai dell’odio e dei potenziali genocidi sono ben noti e circoscritti, anche se tante volte preferiamo non guardare e tacere, con lo stesso, terribile silenzio che avvolse dapprima la persecuzione dei diritti degli ebrei (e non solo loro) e poi la persecuzione delle vite.

I Diritti dell’Uomo e il dovere di rispettare la vita: tradizione ed esperienza ebraica. Un testo di Haim Baharier

Oggi è il “Giorno della Memoria”, molte iniziative sono in corso, e son avvenute in questa settimana, nel nostro Paese per ricordare le vittime dell’Olocausto. L’UCEI, l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, nell’ambito delle Celebrazioni del Giorno della Memoria ha dedicato un Convegno, che si è svolto ieri a Roma al “Palazzo Mattei di Paganica”, dedicato al tema : “Legge e legalità – le armi della democrazia dalla Memoria della Shoah ad una integrazione dei Diritti dell’Uomo nell’Unione Europea”.
Per gentile concessione pubblichiamo la riflessione di Haim Baharier, studioso della Torà, al Convegno dell’UCEI.

Il principio della legge quale difesa della vita mi evoca immediatamente l’istituzione delle Città Rifugio (Deuteronomio 19,1-14) in terra di Israele, preoccupazione quasi ossessiva del profeta Mosè. Cosa dovevano essere queste città rifugio? Poste geograficamente in modo tale da poter essere raggiunte velocemente, da qualsiasi punto del territorio, da chi doveva rifugiarvisi, costituivano i luoghi dove i colpevoli inconsapevoli di omicidio avevano l’obbligo di andare a dimorare. Chi è il colpevole inconsapevole? E colui che “tagliando la legna si vede sfuggire la lama della scure che uccide qualcuno nei paraggi”. Le città rifugio offrivano a costui il riparo dalla vendetta del goel haDam, il vendicatore del sangue. Lì primeggiava il diritto della città sui diritti individuali, tutelando la vita dell’omicida colposo. Questo dimostrava l’estrema attenzione del legislatore alla tutela della vita comunque e quantunque. Il dovere di rispettare la vita iscritto nel Pentateuco è indissolubilmente legato alla scelta tra il bene e il male. “La vita e il bene, la morte e il male” (Deuteronomio 30,15) menzionati in questo ordine nel testo, possono essere lette sia quali coppie consequenziali sia contrapposte. “Sceglierai la vita affinché tu e il tuo seme possiate continuare a vivere” (Deuteronomio 30,19) conclude il testo. Il seme rappresenta l’altro da te e anche il futuro. La vita è la tua e anche quella dell’altro. Scegliere la vita in questo modo costituisce il superamento del semplice istinto di sopravvivenza. E’ portare al rispetto della vita secondo una scelta squisitamente etica. Lo stesso Pentateuco in un suo paragrafo fondamentale, da ripetersi ritualmente due volte al giorno, prescrive un immane sforzo educativo da una parte, e dall’altra il dovere di discutere e ridiscutere costantemente i contenuti degli insegnamenti da trasmettere. La legge nella tradizione biblica è rappresentata da un piccolo armadietto contenente le famose tavole, con le stanghe per il trasporto sempre inserite nei loro anelli. La simbolica non è che la legge deve essere sempre pronta per il viaggio, bensì che la legge ebraica è viaggio. I diritti dell’uomo nella tradizione e nell’esperienza ebraica sono sempre e comunque ricondotti all’uscita dalla schiavitù d’Egitto. Non si tratta soltanto di ricordare l’esperienza della negazione dei diritti, ma di interiorizzare e elaborare i principi di un’uscita definitiva dalla condizione di schiavo e dalla schiavitù psicologica e mentale. Questo risulta chiaramente dall’economia del Seder di Pésach, poche righe sulle condizioni della schiavitù e un dilungarsi preciso e profondo sul percorso verso la libertà. Infine, il diritto dell’uomo, il dovere di rispettare la vita, a mio parere oggi più che mai, passa per una lotta senza quartiere al pregiudizio, poiché esso è destruente in quanto giudizio che non è stato oggetto né di discussioni né di dibattiti. Il suo equivalente positivo nel processo conoscitivo sarebbe il postulato che non va dimostrato. Prendiamo nel testo del Decalogo (Esodo 20,5) l’esempio di una parola sulla quale è stato costruito un pregiudizio tuttora intonso: la parola ebraica qanò. La traduzione in vigore, il dio “scrupoloso”, quando l’espressione del pregiudizio è lieve, oppure il dio “zelante” o il dio “geloso”, ha trovato terreno fertile anche tra i traduttori più attenti, grazie all’assunzione di una connotazione vagamente positiva. Il dio di Israele sarebbe così un dio serio, rigoroso, severo che non scorda mai, anzi ricorda alle generazioni successive i peccati degli antenati. Ma forse siamo in presenza di uno dei più antichi e più radicati pregiudizi biblicamente fondati. Il dio di Israele è definito qanò, etimologicamente, il dio che “acquisisce”, in quanto questo termine esprime la realtà giuridica della reciprocità ossia la legalità. Il verbo poqèd che è stato tradotto con “ricorda” significa originariamente “verifica”. A questo punto possiamo rendere per esteso l’espressione del Decalogo: il dio della “legalità” non reagisce d’impulso, bensì verifica la presenza o meno della colpa lungo le generazioni. Tendo molto a pensare che la difesa della vita, secondo la tradizione ebraica, si svolga essenzialmente sul terreno della legalità concepita come reciprocità giuridica. Esiste un Midrash che attribuisce in toto la distruzione del focolare del popolo di Israele alla mancanza della solidarietà. Preme aggiungere che la solidarietà di cui si parla comprende l’accoglienza dell’altro.

Giornata della Memoria: una riflessione sulla SHOAH

auschwitz_h_partb27 gennaio 1945 i soldati dell’Armata Rossa sovietica liberarono il campo di concentramento tedesco di Auschwitz, ad ovest di Cracovia, nel sud della Polonia. Mentre si avvicinavano, le SS iniziarono l’evacuazione. Circa 60 mila prigionieri furono costretti a marciare verso ovest, la maggior parte, per lo più ebrei, verso la città di Wodzislaw nella parte occidentale dell’Alta Slesia. Migliaia di persone furono uccise in fretta nei giorni precedenti, il più possibile. Durante la marcia della morte le SS spararono a quelli che, stremati, non potevano continuare a camminare. Gennaio, gelo, fame. Morirono in più di 15 mila. Quando entrò, settant’anni fa, l’esercito sovietico trovò e liberò oltre 7 mila sopravvissuti, malati e moribondi. Si stima che circa 1,3 milioni di persone siano state deportate ad Auschwitz tra il 1940 e il 1945. Di queste, almeno 1,1 milioni sono state assassinate.
Dal 1933, con la creazione del primo campo di concentramento di Dachau, al 1945 6 milioni di ebrei vengono sterminati dall’orrore demoniaco del nazismo (senza dimenticare le altre vittime: omosessuali, disabili, rom, sinti, oppositori politici, testimoni di Geova, clochard, ecc.). La Shoah è il “cuore di Tenebra” dell’occidente, nasce all’interno del brodo di coltura dell’antigiudaismo e antisemitismo che ha attraversato nei secoli l’occidente. Certo la follia criminale nazista aggiungeva il razzismo e la cultura del sangue “ariano”.
L’infernale “macchina” del lager serviva non solo allo sterminio ma anche alla creazione, alla mutazione cioè, dell’essenza della natura umana: ovvero la creazione del sub-uomo (esseri inferiori e tali erano considerati gli ebrei) cui i “superuomini” nazisti potevano esercitare ogni sopruso e umiliazione. Quelli, dunque, che non erano “ariani” erano solo “larve umane”, manichini inermi.
Questo era lo scopo dell’ordine del terrore nazista, centrato sul lager. La shoah quindi svela alla radice di quale crudeltà è capace l’uomo, a che livello di abiezione può spingersi l’uomo: ridurre il suo simile a bestia.
L’”ordine” sociale del lager era un “ordine” gerarchizzato al massimo. Era un “ordine” del tutto rovesciato rispetto alla normalità: in cima alla gerarchia c’erano i più malvagi.
La Shoah, quindi, pone interrogativi enormi sulla natura dell’uomo e della cultura dell’occidente.
Ora “La banalità del Male” di Auschwitz, per dirla con Hanna Arendt, pone interrogativi abissali , in particolar modo, ai credenti nel Dio di Abramo, Isacco, Giacobbe e di Gesù di Nazareth. Tutta la “teodicea” è messa in discussione. Voltaire, nel suo cinismo filosofico contro Leibniz, con sarcasmo poteva affermare che “Lisbona è affondata e a Parigi si balla”. Ma come scrive Theodor Adorno: se Lisbona rappresenta i disastri che la natura compie ai danni dell’uomo, ed oggi sappiamo quanto questi disastri dipendano anche dal comportamento umano, Auschwitz, che “prepara l’inferno reale sulla terra”, pone interrogativi così radicali da sconvolgere sia il teologo che il filosofo: “Dov’era Dio mentre milioni di innocenti ebrei venivano sterminati?”
E’ l’interrogativo che si pone Elie Wiesel, nel suo libro La Notte:
Dietro di me sentii lo stesso uomo chiedere: Dov’è Dio adesso?
E udii una voce dentro di me rispondergli: Egli è qui – Egli è appeso qui su questa forca.
Questo è l’evento centrale del libro: la morte letterale di Dio. Altre domande sorgono in questo libro:
“Sia benedetto il nome di Dio? Perché, ma perché io avrei dovuto benedirlo? Ogni fibra di me si ribellava. Perché Egli aveva condannato migliaia di bambini a bruciare nelle Sue fosse comuni? Perché aveva continuato a far funzionare sei forni crematori giorno e notte, inclusi lo Shabbat e i giorni santi? Perché con la sua forza aveva creato Auschwitz, Birkenau, Buna e tante altre fabbriche di morte? Come potevo dirgli: Benedetto sei tu, onnipotente, Signore dell’Universo, che ci hai scelti fra tutte le nazioni ad essere torturati giorno e notte, per vedere come i nostri padri, le nostre madri, i nostri fratelli finiscono nei forni? […] Ma ora, non ho più supplicato per nulla. Non ero più in grado di emettere un lamento. Al contrario, mi sentivo molto forte. Io ero l’accusatore, Dio l’imputato!”
Sono domande radicali, angoscianti, che pongono al-limite la riflessione umana di un credente.
Tra i più importanti pensatori tedeschi, il teologo Jurgen Moltmann, è stato quello che più ha riflettuto su Auschwitz: La nozione tradizionale di una “motore immobile” impassibile, era morto in quei campi e non era più sostenibile. Moltmann propone invece un “Dio crocifisso”, che è un Dio “sofferente” e anche “protestante“. Vale a dire, Dio non si distacca dalla sofferenza, ma entra volontariamente nella sofferenza umana con compassione.
“Dio in Auschwitz e Auschwitz nel Dio crocifisso” .
Ciò è in contrasto sia con l’iniziativa del teismo che giustifica le azioni di Dio, e sia con l’iniziativa dell’ateismo che accusa Dio. La “teologia trinitaria della croce” di Moltmann afferma invece che Dio è un Dio che protesta e si oppone agli “dei di questo mondo” di potere e di dominio, entrando nel dolore umano e soffrendo sulla croce e sul patibolo di Auschwitz.
Un Dio “sovversivo” che chiede al credente di battersi radicalmente contro gli inferni di quaggiù, in questa opera noi, come ci insegna Etty Hillesum, la giovane donna ebrea che insieme ad Edith Stein, Simone Weil rappresentano le luminose figure della mistica femminile di radice ebraica e cristiana contemporanee, “aiutiamo Dio” ad essere ospitato nel cuore dell’uomo.
Ma Auschwitz, come scrive un altro pensatore tedesco Johnann Baptist Metz (anche lui teologo), pone ancora altre domande: “La domanda teologica dopo Auschwitz non è solamente: dove era Dio ad Auschwitz? Ma è anche: dove era ad Auschwitz l’uomo? Come si potrebbe credere nell’uomo, o perfino nell’umanità, quando si dovette sperimentare ad Auschwitz di che cosa «l’uomo» è capace? Come continuare a vivere tra gli uomini? Che cosa sappiamo noi della minaccia all’umanità dell’uomo, noi che abbiamo vissuto voltando le spalle a questa catastrofe o che siamo nati dopo di essa? Auschwitz ha ridotto profondamente il limite di pudore metafisico tra uomo e uomo. A questo sopravvivono solo coloro che hanno poca memoria o coloro che sono riusciti bene a dimenticare che hanno dimenticato qualcosa. Ma nemmeno questi restano illesi. Non si può peccare quanto si vuole contro il nome dell’uomo. Non solo l’uomo singolo, anche l’idea dell’uomo e dell’umanità è profondamente vulnerabile. Solo pochi collegano ad Auschwitz l’attuale crisi d’umanità: l’insensibilità crescente di fronte a diritti e valori universali e grandi, il declino della solidarietà, la furba sollecitudine nel farsi piccoli pur di adattarsi a ogni situazione, il rifiuto crescente di offrire all’io dell’uomo una prospettiva morale, eccetera. Non sono tutte scelte di sfiducia contro l’uomo? La catastrofe che è stata Auschwitz costituisce forse una ferita inguaribile?“

«E se anche l’attuale crisi d’umanità – conclude Metz-fosse figlia della ferita inguaribile del lager?» (Vedi: http://www.landino.it/2011/01/johann-baptist-metz-«la-shoah-e-entrata-tardi-nella-teologia»/)

(il pezzo è uscito anche su : www.laspeziaoggi.it)