Passi per sconfiggere in Brasile il fascismo e la politica dell’odio. Un testo di Leonardo Boff*

 

Pubblichiamo queste riflessioni, del famoso teologo Leonardo Boff, sulle prossime elezioni presidenziali. Infatti, nel 2022, si svolgeranno, in Brasile, oltre alle elezioni presidenziali anche quelle politiche per il rinnovo del Parlamento. L’articolo va collocato in questo contesto politico.

Questo articolo è dedicato a coloro che combattono in Brasile per una
democrazia ferita e per il riscatto della nazione devastata.

Le forze politiche, nemiche della vita, si sono alleate con il Coronavirus e stanno favorendo la decimazione di oltre 600.000 vite. Il loro obiettivo è condurci ai tempi premoderni, smantellando la nostra cultura e scienza, sopprimendo i diritti del lavoro e della sicurezza sociale, diffondendo menzogne e un odio codardo per i poveri, le popolazioni indigene, i quilombola, gli afro-discendenti, gli omosessuali e le persone LGBTI.

Ideologicamente tali forze sono ultraconservatrici con un profilo spiccatamente fascista. Sono salite al più alto potere della repubblica. Il principale rappresentante di queste forze vuole, con ogni mezzo, anche contro la legge, essere rieletto. Come parlamentare ha magnificato i torturatori e ha difeso le dittature. Come capo di stato, è stato indulgente con i grandi incendi nella foresta amazzonica, con i taglialegna e con l’insediamento di imprese minerarie e garimpos, anche nelle terre indigene. Ha commesso crimini contro l’umanità per il suo negazionismo nei confronti degli immunizzanti al Covid-19 e si è mostrato insensibile e senza alcuna empatia verso la sofferenza di migliaia di famiglie in lutto e milioni di disoccupati e affamati.

Purtroppo constatiamo la fragilità, fino all’omissione, delle nostre istituzioni ufficiali o giuridiche e la bassa intensità della nostra democrazia. Niente o poco è stato fatto per allontanare questa figura sinistra, autoritaria e fascistoide. Non possiamo assistere, impassibili, alla disgregazione demografica, culturale, politica e spirituale del nostro Paese.

Di fronte a questa tragedia storica, abbiamo bisogno, attraverso i mezzi elettorali, di frenare la pulsione di morte, presente nel potere esecutivo e nei suoi ausiliari. È necessario infliggere una clamorosa sconfitta elettorale a colui che si è dimostrato pazzo, indegno, malevolo e incapace di governare il popolo brasiliano. Merita di essere allontanato, legalmente, dalla scena politica e pagare per i suoi crimini, in modo che, alla fine, si possa vivere con un minimo di sviluppo equo e sostenibile, con pace sociale, con gioia schietta e con felicità collettiva.

Per realizzare questo passo politico ed etico, nei limiti della Costituzione e dell’ordinamento giuridico democratico, è importante, a mio avviso, compiere i seguenti passi:

Primo, garantire, se possibile al primo turno, la vittoria per la presidenza, da parte di qualcuno dotato di carisma, con la fiducia della grande maggioranza e con la capacità di tirarci fuori dal baratro oscuro in cui siamo stati gettati. In precedenza ha dimostrato di essere in grado di realizzare questa redenzione.
Non c’è bisogno di rivelare il suo nome perché è già emerso dai sondaggi
elettorali.

Secondo, non basta eleggere un presidente con tali caratteristiche. È fondamentale garantirgli un’ampia rappresentanza parlamentare affinché il presidenzialismo di coalizione non comprometta gli ideali e le finalità, presenti in origine e applicabili, come l’opzione per politiche sociali che vadano incontro alle grandi maggioranze impoverite e oppresse, con trasparenza, con l’etica di solidarietà a partire dai più vulnerabili e con un’attiva e fiera sovranità.
Altrettanto importante è garantire l’elezione dei governatori e, a tempo debito, di sindaci e consiglieri che, nei territori e alla base, diano sostegno al governo centrale con senso di giustizia sociale e cura della vita delle persone e della natura.

Terzo, – il più importante – rafforzare e, ove necessario, riprendere il lavoro di base, organizzando comitati popolari di ogni tipo, in modo che partecipino e si articolino con le organizzazioni già esistenti e attive nei campi della salute, istruzione, uguaglianza di genere e in altri ambiti, creando una coscienza di cittadinanza. Non basta garantire l’inserimento nel sistema attuale, perverso e antipopolare, ma creare una coscienza di cambiamento, puntando a un altro
tipo di società con democrazia partecipativa, ecologica e sociale.

Questo lavoro di base è imperativo se vogliamo creare le condizioni per una trasformazione che viene dal basso e creare movimenti progressisti e libertari, che traducano i sogni in pratiche fattibili e quotidiane. È a questo livello, al pianterreno, che inizia la prova del nuovo e si alimenta l’energia necessaria per continuare la rifondazione di un nuovo Brasile, contro il prolungamento della dipendenza storica, contro il gira-volta presente nella élite dell’arretratezza e contro l’oligopolio dei media, braccio ideologico della classe dominante, erede della cultura schiavista.

Siamo convinti che questo sofferente caos distruttivo passerà e si trasformerà nel promettente caos generativo di un ordine nuovo, più alto, più giusto, fraterno e premuroso per tutta la vita. Infine, di un Brasile nel quale avremo la gioia di vivere e convivere, dove sarà più facile l’amorevolezza e la giovialità che caratterizzano il meglio che è in noi.

*Leonardo Boff eco-teologo, filosofo e scrittore. Ha scritto: Brasil: concluir a refundação ou prolongar a dependência, Vozes 2018.

(Traduzione dal porrtoghese di Gianni Alioti)

La strana vita di un riformista europeo. Romano Prodi si racconta

(La recensione uscirà nel numero 3 della “Rivista dell’AREL”. Il numero è interamente dedicato al FORUM ITALIA-SPAGNA, organizzato ogni anno dall’ Arel, agenzia di studi economici diretta da Enrico Letta. Tra i numerosi contributi segnaliamo una bella intervista Carmen Yanez, moglie del grande scrittore cileno Luis Sepulveda, ucciso dal Covid-19 nell’aprile del 2020. Sarà possibile acquistare la rivista, nelle librerie, a partire dalla prossima settimana).

 Un libro che ha avuto un grande riscontro di lettori e di opinione pubblica. Non poteva che essere così. Il personaggio, infatti, è tra quelle persone – in Italia onestamente non sono moltissime – che nel dibattito politico fanno pensare.

Il titolo incuriosisce. «Strana vita la mia. Sono del 1939. Appartengo a una generazione partita con la guerra, ma che poi è stata fortunatissima». E ha ragione. «Non solo per il noto fattore “C”, o per gli incarichi accademici o politici, ma perché può vantare di averci davvero provato a lasciare un segno», scrive Marco Ascione nell’introduzione. Per questo il libro si presenta ricco di storia e suggestioni.

L’immagine che esce fuori dalla lettura di queste pagine è quella di un uomo assolutamente consapevole di possedere grande competenza e con gli strumenti giusti per attivare le azioni di governo. Un uomo appassionato e determinato. Proprio come diceva di lui Edmondo Berselli: «Una bonomia che gronda da tutti i suoi artigli». “Artigli”, l’immagine è forte ma sta a significare certamente un uomo che non si piega (ne sanno qualcosa i cardinali Ruini e Bagnasco), ma anche la forza delle sue “armi”: riformismo e competenza.

Alla base della sua formazione economica c’è una formazione umanistica. Aver frequentato il Liceo Classico, l’Università Cattolica, la facoltà di Legge, gli ha permesso di gettare le fondamenta del suo “discorso” economico. La London School of Economic è la fucina dalla quale uscivano, e continuano a uscire, grandi economisti. Per un giovane di quei tempi, i primissimi anni Sessanta, frequentare quell’ambiente significa sprovincializzare le sue “categorie” politiche ed economiche. Se c’è un tratto permanente nella vita di Prodi è l’assoluto rifiuto di ghetti politici, culturali e perfino ecclesiali («sono un cattolico adulto»). Ha fatto dell’innovazione, e quindi del riformismo, il tratto della sua azione. Ed è anche un uomo attento alla complessità della storia.

Il libro si sviluppa sullo sfondo della grande storia italiana ed europea. Dal secondo dopoguerra fino ai giorni nostri. Forte è il legame con la sua terra: l’Emilia. L’Emilia democristiana che si confronta con quella comunista. Ma quella Emilia democristiana è una terra riformista. Pensiamo ai Dossetti, ai Gorrieri senza dimenticare il “bolognese d’adozione” Beniamino Andreatta (il rapporto con Andreatta è stato, come si sa, particolarissimo). Lo stesso comunismo emiliano non era certo, per come si svilupperà, un vetero comunismo. Anzi!

Per cui si può ben dire che senza quel confronto sviluppatosi in quell’Emilia non vi sarebbe stato il grande progetto dell’Ulivo.

Il saggio di Prodi, scritto con il bravo giornalista del «Corriere» Mario Ascione, presenta e fa conoscere gli innumerevoli incontri del Professore.

Dall’esperienza, anche drammatica, con l’IRI («il mio Vietnam»), alla breve avventura ministeriale,  fino alla Presidenza del Consiglio, per due volte, passando per la Presidenza della Commissione Europea. Sono davvero tanti, impossibile qui ricordarli tutti (una sola annotazione critica: un vero peccato non aver trattato, professore, il suo rapporto con il sindacato confederale, con la Cisl in particolare. Siamo certi che il suo riformismo si è alimentato, anche, del rapporto con uomini come Pierre Carniti, Raffaele Morese e Bruno Manghi, per fare solo tre nomi. E Franco Marini è citato come segretario del PPI non come sindacalista).

Ma l’importanza del libro è nel suo messaggio politico, che si sviluppa in tre direzioni.

La prima. Come già detto, il suo riformismo si alimenta del riformismo emiliano, e in questa radice si comprende il suo obiettivo strategico: tenere insieme tutte le componenti riformiste. Famose, al riguardo, sono le sue parole al Congresso del PDS nel 1995: «Mi sento uno di voi, siamo un solo tronco ma con radici diverse». Questa scelta lo pone agli antipodi di un cattolico, che in gioventù gli è stato molto amico, il potente cardinale conservatore Camillo Ruini. Una scelta non indolore per Prodi. Ma anche in questo ha mostrato di essere, sulla scia del Concilio Vaticano II, un figlio adulto della Chiesa cattolica: testimoniare con laicità e responsabilità il suo impegno politico. Dicevamo del primo grande progetto politico, quello di unire tutti i riformismi, interrottosi con la fine dell’Ulivo. Con la Segreteria del PD di Enrico Letta Prodi vede la ripresa di questo grande disegno.

Il secondo messaggio è di natura economico-sociale. E questo contiene una forte critica al neoliberismo per una forte impronta di solidarietà sociale. Per questo il Professore vede un nuovo ruolo dello Stato nella rifondazione economica dell’Italia.

La terza componente sta nella grande attenzione alla dimensione internazionale dell’azione politica. Una dimensione che si è caratterizzata fin dall’inizio della sua “bella avventura” grazie alla formazione in U.K. e USA e si è consolidata poi con l’impegno in Europa. Per Prodi l’atlantismo (quindi il rapporto privilegiato con gli Stati Uniti) non deve essere coniugato in modo becero come fortezza occidentale contro il resto del mondo. È invece la base per costruire il multilateralismo, quindi il dialogo con Cina e Russia. Senza fare sconti a nessuno degli attori in campo. Guai a cedere alla nuova “guerra fredda” (tra USA e Cina), una guerra per la supremazia. In questo scenario l’Europa deve crescere nella sua consapevolezza di essere protagonista per l’equilibrio del pianeta. Per questo Prodi auspica il superamento del bipolarismo per proporre un maturo multilateralismo: «Il cammino verso il multilateralismo renderebbe certamente più percorribile un pacifico cammino di sviluppo del nostro pianeta» (p. 205). E l’appello è rivolto soprattutto all’Europa.

Allora, in questo quadro articolato, si capiscono le sue parole conclusive: «Il filo conduttore di queste mie semplici pagine (…) sta proprio nella profonda convinzione che il dialogo sia lo strumento più importante che la politica ha a disposizione. E sono anche convinto che, in questo momento storico, solo l’Europa possegga la cultura e l’autorità per poterlo usare» (p. 215).

Ecco il grande ed esigente lascito politico di Romano Prodi.

ROMANO PRODI (con MARCO ASCIONE)

Strana vita, la mia.  Ed. Solferino, Milano 2021

 

“Il problema non è “cosa farà Mario” da grande, ma che fine farà l’agenda Draghi”. Intervista a Giorgio Tonini

 

 

La politica del nostro Paese sta vivendo giorni complicati. Come si arriverà alla elezione del Presidente della Repubblica? E come si comporteranno le forze politiche? Ne parliamo con un acuto osservatore della politica italiana: Giorgio Tonini. Tonini ex senatore PD, giornalista ed esponente di spicco dell’area liberal, attualmente è Consigliere Pd della Provincia autonoma di Trento e della Regione Trentino-Alto Adige.

 

 

 

Senatore Tonini, incominciamo questa nostra conversazione dal centrosinistra. Il principale partito del centrosinistra, il Pd, ha avuto una vittoria importante alle amministrative, poi però ha subito una pesante sconfitta al Senato. Mi riferisco alla votazione sul ddl Zan. Sappiamo lesito che ha avuto (un esito pesante per il centrosinistra, ma sulle conseguenze politiche torneremo dopo). Che idea si è  fatto della vicenda?

 

Sono lontano dal Parlamento da tre anni e mi è dunque difficile giudicare il lavoro e l’impegno degli altri. Non c’è nulla di più sgradevole, del resto, dei maestri del giorno dopo. La complessità delle dinamiche, non solo politiche, di questo Parlamento è poi tale da rendere pressoché impossibile prevedere in anticipo le mosse dei tanti, troppi attori che affollano le Camere. E tuttavia, proprio la constatazione di questa complessità avrebbe dovuto (credo) suggerire al Pd un approccio, ad un tema tanto controverso, più aperto e dialogico. Mi permetto di ricordare sommessamente che così facemmo, nella scorsa legislatura, con la legge sulle unioni civili: una legge di compromesso, che esclude il matrimonio per le coppie omosessuali, ma riconosce loro il diritto di affermare la valenza giuridica della loro unione. Grazie a questa mediazione la legge è stata approvata in Parlamento ed è stata accettata dalla società italiana, nelle sue diverse articolazioni politiche, culturali, religiose. E nella scorsa legislatura noi senatori del Pd eravamo il gruppo di maggioranza relativa e avevamo in mano l’arma della questione di fiducia, che infatti Renzi, allora presidente del Consiglio, pose al Senato sbloccando la situazione. A maggior ragione si sarebbe dovuto usare la prudenza e la propensione alla mediazione con numeri tanto meno favorevoli. Vorrei aggiungere che l’attitudine al dialogo e alla mediazione, in particolare sui temi cosiddetti “eticamente sensibili”, non è solo raccomandabile sul piano della prudenza e sapienza tattica: è parte costitutiva del patrimonio genetico del Pd, si pone, per così dire, come una “informazione cromosomica”, che dovrebbe essere messa in atto in modo immediato, quasi istintivo. Perché il Pd è nato sulla base della convinzione che mettendo insieme in modo aperto e dialogico visioni, culture, tradizioni diverse, si possano trovare soluzioni migliori, più avanzate, più condivise e in definitiva più efficaci, ai problemi del paese e delle persone. Se il Pd dimentica questa sua “vocazione”, finisce per perdere e soprattutto rischia di perdersi.

 

Veniamo alle conseguenze. Per Enrico Letta, quellesito segna la perdita di fiducia nei confronti di Renzi. Certo questo pone, per alcuni osservatori, qualche problema: ovvero come proseguire nella costruzione del campo largo” del centrosinistra. Qualcuno ha parlato di rischio fortino per il PD. Insomma come dovrebbe, secondo lei, proseguire il cammino per la costruzione del campo largo? Egiusto il richiamo allUlivo?

 

Non voglio sminuire l’importanza dell’impegno per i diritti civili, che è  tanto più sacrosanto quando riguarda minoranze discriminate, ma non credo che il naufragio del ddl Zan avrà conseguenze elettorali significative. Come ha detto nei mesi scorsi Romano Prodi, sono altre le questioni prioritarie nell’agenda delle famiglie italiane, a cominciare dalle questioni economiche e sociali. La sfida per la politica riformista è ancora quella di costruire un consenso maggioritario attorno ad un programma di riforme che renda il nostro paese più forte e più competitivo, perché più efficiente e più giusto. Gli alleati vanno selezionati sulla base di questo criterio. Tutto il resto, secondo me, viene dal maligno, dal demone della divisione (diavolo, come è  noto, vuol dire divisione), che è la malattia, congenita forse più che infantile, della sinistra italiana. Il Pd è nato per unire e quando è riuscito a farlo ha dimostrato di poter essere maggioranza nel paese. Quanto al campo largo, a mio modo di vedere è un’espressione equivoca. Di positivo ha la tensione unitiva, che era alla base dell’Ulivo e poi del Pd. Ma non rende chiaro ed esplicito che l’unità che si persegue è quella dei riformisti e non genericamente di tutti coloro che sono contro la destra, come fu, non con l’Ulivo, ma con l’Unione, che vinse ma poi non riuscì a governare…

 

Una domanda sulla identità del PD. Gli ultimi sondaggi lo danno in crescita, perché? E cosa manca al PD di Letta?

 

Il Pd è entrato in questo Parlamento come il grande sconfitto delle elezioni del 2018, vinte a mani basse dai due populismi, quello di Grillo e quello di Salvini, che non a caso hanno dato vita al primo governo Conte, il governo giallo-verde, il governo che voleva portare l’Italia fuori dall’euro, dall’Europa, dalla stessa solidarietà atlantica. Quel progetto, folle e velleitario, è crollato sotto il peso delle sue stesse contraddizioni, a cominciare dalla negazione del principio di realtà. È stato a quel punto che il Pd è tornato in gioco, in quanto partito “degasperiano”, fedele ai principi costitutivi dell’Italia repubblicana, a cominciare proprio dall’europeismo e dall’atlantismo, nonché da un’aperta economia sociale di mercato. La pandemia e il grande piano “New Generation Eu” hanno fatto il resto. Al di là dei sondaggi, il Pd è tornato al centro del sistema politico, perché si è posto naturalmente come asse del possibile riformismo europeista italiano, prima col governo Conte2, poi con quello Draghi. Enrico Letta è un leader che ha tutti i numeri per incarnare questo ruolo centrale del Pd. Sondaggi e soprattutto risultati elettorali stanno dando corpo a questa prospettiva. La strada da fare è chiara, ma è ancora lunga e Letta penso sia il primo a saperlo.

 

Veniamo a Matteo Renzi. Che luomo sia uno spregiudicato giocatore di Poker lo sanno anche i sassi. Ora però ci sono i fatti: lalleanza in Sicilia con uno dei massimi rappresentanti di quello che è stato il berlusconismo rampante” (Micicché), landata a Riad proprio nel giorno della votazione (un segno brutto di sfrontatezza). Questi, insieme ad altri, sono segni di una volontà di sconfiggere il centrosinistra a partire dal Quirinale. Trova meccaniscistiche” queste mie considerazioni?

 

Tutte le purtroppo numerose operazioni di scissione del Pd, da Rutelli a Bersani e D’Alema, fino a Calenda e Renzi, frutto anche dell’affievolirsi di quella forza centripeta che è alla base della esistenza stessa del partito “casa comune dei riformisti”, hanno certamente indebolito il Pd, senza peraltro dar vita a vere forze politiche nuove, in grado di insidiare il primato dem nel centrosinistra. Anche Italia Viva si è dimostrata una vicenda perlopiù interna al ceto politico, per così dire al “palazzo”, senza alcun reale rapporto con le dinamiche in atto nella società italiana. Come sempre, le operazioni di palazzo finiscono per compensare la loro inconsistenza in termini di consenso e radicamento sociale, con la spregiudicatezza nella manovra politico-parlamentare: una spirale di solito inevitabilmente regressiva. Il Pd non deve rispondere alle provocazioni, deve mantenere la mano tesa, anche perché ci sono elettori, prima e più che partitini e leaderini, da riavvicinare, rimotivare, riconquistare.

 

Una domanda sul centrodestra: sono proprio così uniti? Come può il centrosinistra mettere in evidenza le divisioni strategiche tra Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia?

 

Sono uniti come tre amici che vogliono partire insieme da Milano: ma uno, il più anziano, vuole andare a Bruxelles, un’altra a Budapest e il terzo non sa che pesci pigliare. Però si fanno fotografare alla Stazione Centrale, uniti e sorridenti. Il loro problema è che, come hanno dimostrato le recenti elezioni amministrative, all’unità del centrodestra non crede più nessuno. Perché le divisioni tra Forza Italia e Fratelli d’Italia, con in mezzo una Lega incerta e divisa, se non lacerata, tra Salvini e Giorgetti, hanno un carattere strategico, hanno a che fare con questioni di fondo, non con problemi di dettaglio. A cominciare dal rapporto con l’Europa, per finire con quello col governo Draghi: Berlusconi e i suoi al governo, insieme alla Lega di Giorgetti e dei governatori del Nord, Meloni fieramente all’opposizione e Salvini con un piede dentro e uno fuori. Il campo del centrosinistra, M5S di Conte compreso, è molto ma molto più frammentato, ma paradossalmente  assai più unito sulle questioni fondamentali, a cominciare dal rapporto con l’Europa e col governo Draghi. L’unica speranza di unità, per il centrodestra, è considerare il governo Draghi come una parentesi e non come uno spartiacque. Una speranza che va in senso opposto agli interessi e ai sentimenti del paese e può dunque portare il centrodestra ad una sconfitta strategica. Anche per questo il Pd dovrebbe fare propria, in modo inequivoco, la lettura del governo Draghi come spartiacque, che cambia in profondità la politica italiana e non come una parentesi da chiudere quanto prima per tornare al “business as usual”: incuranti del fatto che lo “status quo ante” coincide con una competizione tra due schieramenti diversamente inadeguati alla complessità dei problemi dell’Italia. Solo proponendosi in modo netto ed esplicito come sostenitore e continuatore della discontinuità rappresentata dal governo Draghi, il Pd può candidarsi credibilmente alla guida del paese.

 

Parliamo del governo Draghi. Volendo fare un bilancio, per carità assolutamente provvisorio, come giudica il cammino percorso ? Ci sono stati errori? E come giudica latteggiamento del Sindacato nei confronti del governo?

 

Fin qui, il percorso del governo Draghi è stato privo di errori rilevanti e ricco di risultati importanti, sia sul fronte del contrasto alla pandemia e della campagna vaccinale, sia su quello della ripresa economica e della partecipazione italiana al piano europeo “New Generation EU”. Al momento, l’Italia è, tra i grandi paesi europei, quello col più alto tasso di vaccinazioni e il più alto tasso di crescita economica. E tuttavia, la sfida non può ancora dirsi vinta. Sul piano sanitario, non siamo ancora arrivati all’immunità di gregge e difficilmente ci arriveremo se non si supereranno presto le ambiguità di alcune forze politiche, a cominciare dalla Lega, nei confronti del mondo no-vax. E sul piano socioeconomico, la ripresa in atto non si è ancora tramutata in aumento strutturale del tasso di crescita potenziale, condizione tra l’altro per rendere sostenibile nel medio periodo il nostro debito pubblico, gonfiato dall’emergenza pandemia. Perché ciò accada, sono necessarie le riforme e le riforme si fanno in Parlamento e richiedono il consenso delle forze politiche e dei gruppi parlamentari. Questo consenso al momento sembra essere più passivo che attivo. È come se le forze politiche, in particolare ma non solo di centrodestra, considerassero il governo Draghi una medicina amara da mandare giù, con la speranza di poterne presto fare a meno. Il governo Draghi come parentesi, invece che come spartiacque. La vicenda delle pensioni è emblematica. Piegando le resistenze della Lega e purtroppo anche della Cgil, Draghi ha ottenuto il superamento di quota 100, che nel 2022 diventerà quota 102. Ma non è ancora riuscito a costruire il consenso su cosa succederà nel 2023. A fine ‘21 non sappiamo con quali regole si andrà in pensione nel ‘23. È l’idea della parentesi che vuole scongiurare lo spartiacque. O, se si preferisce, è il morto che afferra il vivo. Speriamo che non sia questa la cifra del dibattito parlamentare sulla legge di bilancio.

 

Guardiamo a Mario Draghi. Lunedì Alan Friedman sulla Stampa di Torino ha scritto un articolo assolutamente lusinghiero nei confronti del Premier. Tanto da affermare che erano tanti anni che lItalia non esprimeva una leadership così autorevole a livello mondiale. Forse Alan Friedman ha ragione. Si pone,però, il problema di dare continuità a questa leadership. Tanto che durante il G20 la stampa italiana rilanciava la domanda che facevano i leader politici di Usa e Europa: cosa farà Mario?”. Eun problema di non poco conto visto la prossima scadenza sistemica: quella del Quirinale.  Dalla risposta a quella domanda dipenderà il futuro della politica italiana. Le chiedo: quale Scenario vede? Per il PD è meglio un Draghi al Quirinale? Oppure è meglio che continui lopera da Presidente del Consiglio?

 

Il problema, a mio modesto avviso, non è “cosa farà Mario” da grande, ma che fine farà l’agenda Draghi. È penoso (e molto preoccupante) vedere che il centrodestra (di governo e di opposizione) si riunisce per candidare Berlusconi al Quirinale, mentre il centrosinistra cerca un nome sul quale convergere e Renzi non si sa de cha parte sta. Come se non si facesse parte della stessa maggioranza di governo. Come se si pensasse che non debba esserci alcun rapporto tra la maggioranza che sostiene il governo Draghi e quella che eleggerà il prossimo presidente della Repubblica. Come se si fosse dato per acquisito lo schema della parentesi, anziché quello dello spartiacque. Uno schema palesemente disastroso per l’Italia. Il Pd dovrebbe prendere l’iniziativa di un confronto nella maggioranza di governo per cercare insieme la soluzione di assetto migliore per “dare continuità alla discontinuità” rappresentata dall’agenda Draghi: in questa, ma anche nella prossima legislatura, posto che il programma di investimenti e di riforme previsto dal PNRR ha necessariamente una gittata pluriennale, che va ben oltre il mandato dell’attuale Parlamento. Se si aprirà questo confronto all’interno della maggioranza, si potrà ragionare insieme sullo scenario migliore e sulla persona da eleggere alla presidenza della Repubblica. Lo scenario migliore, nell’interesse del paese, è quello di una convergenza tra le forze politiche di maggioranza (aperta ovviamente anche all’opposizione) attorno alla figura di un garante super partes di un accordo di fondo tra avversari, per cui chiunque vinca le prossime elezioni politiche, non saranno messi in discussione i pilastri portanti dell’Agenda Draghi. Se così avverrà, non sarà troppo difficile individuare la persona più idonea e convergere sul suo nome.

LA STRAORDINARIA PERSONALITA’ DI CARLO DONAT CATTIN. UN TESTO DI FRANCESCO MALGERI E DUE LETTERE DI DONAT CATTIN

Convegno della Democrazia Cristiana Italiana DC – Il politico DC Carlo Donat Catti​n, Roma , febbraio 1980 (Contrasto)

Pubblichiamo, per gentile concessione dell’autore, il testo dell’intervento, del professor Francesco Malgeri, alla presentazione del libro, avvenuta martedì scorso nella sala dell’Istituto “Luigi Sturzo” di Roma,  del giornalista Giorgio Aimetti su Carlo Donat Cattin . Il libro di Aimetti, pubblicato dalla Casa Editrice “Rubbettino” «Carlo Donat-Cattin. La vita e le idee di un democristiano scomodo» (Soveria Mannelli, 2021, pagine 540, euro 29), è una lunga e densa biografia del leader della sinistra sociale della DC. Il libro, frutto di una ventennale ricerca, è di grande interesse storico. Sono presenti anche documenti importanti e inediti.  Ne pubblichiamo due . L’Osservatore Romano, organo della Santa Sede, in una sua anticipazione del libro ha pubblicato due lettere, presenti nel saggio, di Donat Cattin.  Le lettere si riferiscono alla vicenda  dolorosissima del figlio Marco.  Come si sa Marco era finito in carcere per terrorismo. La prima delle lettere è una risposta ad una lettera, mai trovata , di una suora impegnata nell’assistenza ai carcerati. La seconda lettera è inviata al Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, dopo la morte di Marco travolto da un’auto mentre soccorreva dei feriti di un incidente stradale. Sono due lettere molto toccanti. I documenti sono ripresi dalla testata che ha rilanciato le lettere pubblicate dall’Osservatore Romano:   http://www.ildomaniditalia.eu/un-padre-nella-tormenta-in-un-volume-di-giorgio-aimetti-le-lettere-di-carlo-donat-cattin-losservatore-romano/

 

Il mio giudizio su questo libro di Giorgio Aimetti ho già avuto modo di esprimerlo nella mia Introduzione, nella quale ho già sottolineato come l’autore abbia delineato la biografia politica di Donat-Cattin, sulla base di una ampia documentazione, cogliendo la fisionomia, il carattere, il ruolo e l’azione di una personalità politica che ha lasciato tracce profonde della sua presenza in campo sindacale, politico e di governo, in una lunga e intensa stagione, che attraversa la seconda metà del secolo scorso. A Ra

Abbiamo a disposizione, con questo libro, la ricostruzione di un percorso denso di avvenimenti, progetti, istanze sociali, politiche e culturali che hanno profondamente inciso sulla storia italiana nel corso di quegli anni.

Ma in questo mio intervento vorrei sottolineare altri aspetti, più generali, che emergono con evidenza da questo libro, che si colloca nel campo di una storiografia attenta a ricostruire le vicende di quegli anni, attraverso una lettura condotta con serietà di metodo e onestà intellettuale.

 

È ben noto come le vicende di quegli anni e in particolare il ruolo della Democrazia cristiana, siano stati – soprattutto a livello mediatico e nel giudizio di alcuni esponenti della nuova classe politica – oggetto di una sorta di demolizione, che tende a colpire l’in­tera storia politica italiana della seconda metà del secolo XX.

Si può affermare che questo libro fa giustizia delle non poche forzature interpretative, dettate in molti casi da una distorta rappresentazione della vi­ta politica italiana del secondo dopoguerra, influenzata da logori pregiudizi e soprattutto, direi, dalla ignoranza di chi ne scrive o ne parla.

 

Un giudizio che pren­de corpo non tanto alla luce di una riflessione sulla storia politica del paese, con le sue luci e le sue ombre, ma in una sorta di demonizzazione di un passato che viene rappresentato come espressione della partitocrazia, dell’assistenzialismo, del consociativismo, della corruzione e del malcostume.

Una sorta di giu­dizio sommario che tende a disconoscere le fasi più importanti del­l’intera nostra storia nazionale, sul piano dello sviluppo economico-sociale e della crescita civile e democratica del Paese.

Questo giudizio sembra dimenticare quan­to, in quegli anni, le forze politiche, ciascuna per la propria parte, hanno vissuto sta­gioni segnate da importanti risultati ed anche da una grande partecipazione ideale alle battaglie che hanno sostenuto.

Sembra non tener conto di quanto i partiti che ne furono protagonisti siano stati strumenti fondamentali nella crescita e nella formazione di grandi masse che si affacciavano alla vita demo­cratica.

Si deve ad essi la ricostruzione del paese, l’avvio di uno sviluppo economico che ha permesso per lunghi anni una esistenza serena ad una gran parte di cittadini, superando profonde sacche di miseria ereditate da quasi un secolo di storia nazionale, una crescita democratica ta­le da portare anche coloro che non si riconoscevano nel metodo del­la democrazia parlamentare, ad accettarlo con convinzione.

Certamente, con il passare degli anni, non so­no mancati, i limiti e i processi degenerativi, nei quali i partiti hanno assunto un ruolo e un peso che andava al di là di un corretto equilibrio tra forze politiche, istituzioni, poteri eco­nomici, apparati dello Stato, alimentando una crisi destinata a minare il sistema politico che aveva contraddistinto la storia della nostra Repubblica.

In questa lunga e complessa storia un compito di primo piano venne esercitato dalla Democrazia cristiana, un partito che, con la sua presenza e il suo ruolo domi­nante, è stato protagonista della storia dell’Italia repubblicana.

Un partito che seppe farsi interprete del paese, dei diversi interessi e delle diverse attese che emergeva­no dalla società civile, dal mondo del lavoro e delle professioni, con l’attenzione al­le esigenze del mercato e dello sviluppo capitalistico, ma sensibile anche al bisogno di assistenza sociale e del sostegno dello Stato per le categorie più deboli dei cittadini, ispirando la propria azione al rispetto della persona e ad una visione pluralista e ar­ticolata della società, al di fuori da qualsiasi concezione di stampo classista.

Un partito che visse la sua dialettica interna a volte in forma vivace e irrequieta, attraversata da personaggi che, seppur animati da una comune ispirazione, maturata nell’ambito della loro formazione cristiana, seppur sorretti dall’esigenza dell’unità e della condivisione delle scelte, anche nei momenti più delicati, esprimevano diverse sensibilità e orientamenti, arricchendo, con la loro presenza la dialettica interna di in partito interclassista e non chiuso all’interno di una connotazione ideologica.

Insomma, in seno alla Democrazia cristiana troviamo una pluralità di personalità, ciascuna del­le quali rappresentava, con le sue idee, il suo retroterra sociale e culturale e con i suoi legami con diverse realtà locali e regionali, un modo origi­nale di essere democristiano, a testimonianza della complessa e flessibile fisionomia del partito.

Il libro di Giorgio Aimetti ha il merito di offrirci l’immagine di una delle espressioni più forti e incisive che hanno attraversato la storia italiana e la storia della Democrazia cristiana.

Una figura di primo piano che si distinse per la sua straordinaria personalità, nel ricco campionario di figure che la Democrazia cristiana ha saputo esprimere nel corso della sua storia.

Questo libro ci consente di ripercorrerne la lunga e incisiva presenza nelle vicende sociali e politiche del nostro paese, e per questo dobbiamo essere grati a Giorgio Aimetti.

 

 

LETTERE DI CARLO DONAT CATTIN

Lettera a Suor Teresilla

Cara sorella,

devo prima di tutto farmi perdonare per il ritardo col quale le rispondo, causato dalla mia vita randagia e dalla minima capacità di lavoro che mi rimane dopo l’infarto. Ma voglio soprattutto ringraziarLa per l’azione che svolge, con passione, per dare aiuto e riportare alla speranza giovani carcerati per terrorismo e in particolare per l’ultimo dei miei figli, Marco. Mi rendo conto di un’opera sacrificata, esposta alla conoscenza degli abissi del male, non soltanto contro la vita, ma anche e continuamente contro la dignità degli uomini in un sistema di reclusione antiquato e tendente a peggiorare anziché recuperare i condannati. Ma la nostra storia di comunità cristiana nasce ai piedi di un patibolo ed ha le sue radici alimentate dal sangue dei martiri, di infinite testimonianze nella carcerazione, nelle torture e nelle esecuzioni capitali finali. Che Dio l’assista e la Madre di ogni misericordia Le sia sempre vicina. La prego non soltanto per Marco, se pure l’egoismo parentale me lo richiama davanti a tutti nell’immaginazione e nel cuore, ma per tutti quelli che Lei riesce ad avvicinare, e per quelli che non sono avvicinati in alcun modo o non lo vogliono.

 

Nella mia vita ho cercato di pensare al prossimo, di operare per il prossimo, quello che il linguaggio cristiano chiama con questo nome, ma, me ne rendo conto, in forme più generali ed astratte: la giustizia per tutti, il miglioramento delle condizioni di vita, la promozione delle classi subalterne (…). Cosa diversa è l’incontro col prossimo, uomo per uomo, quel sofferente, quel carcerato, quel disperato; è in più di un caso peso lasciato ad altri, alla costituzione di corpi specializzati come quelli delle suore, per la ripugnanza o il fastidio istintivo ed edonistico provocato dalla nostra natura chiusa, e ad un tempo che ha eliminato ogni trascendenza e riduce la vita alla soddisfazione personale (…).

 

Questi sono alcuni dei ragionati motivi, cara sorella, per i quali non sono sordo alla sua passione e non mi irrito per la sua conseguente aggressività; e per i quali la mia gratitudine non sarà mai sufficiente.

 

Quando parla dei partiti, se ho bene inteso, lei parla del potere pubblico. Ed allora consideri che — rispetto a quanti hanno avuto coinvolgimento attivo nella lotta terroristica — l’azione dei pubblici poteri, con non pochi contrasti, è stata indirizzata alla clemenza verso chi abbia mostrato di dissociarsi dal suo passato, mentre è diventata pesantissima (…) verso chi non voglia sconfessarsi. Oggi l’attenzione è concentrata sul tema cosiddetto dei “pesci piccoli” per ottenere l’affrancamento. Credo che in un domani non lontanissimo e forse non lontano si giungerà a forme di remissione non dissimili da quelle stabilite già nel 1947 a beneficio dei fascisti di Salò ed anche dei partigiani che compirono reati nel corso della Resistenza, tenendo conto, tra l’altro, che quel periodo abbondò — come ogni guerra civile e politica — di nefandezze efferate.

 

Il compito essenziale del potere politico, alimentato dai partiti, ognuno con la
propria concezione della vita, è, nel caso, in questo campo. Devo dire che si è
stentato a far passare criteri di clemenza, specie rispetto alla mentalità media di
una fascia notevole del mondo cattolico. Mia moglie ed io abbiamo anche sentito il
gelo della ripulsa e dell’emarginazione. Molto più accentuate dal mondo comunista,
che — per altre ragioni — mi ritiene un nemico e, secondo i suoi sistemi, persona
perciò da eliminare, almeno moralmente. Ma, al di là del contatto umano dei
singoli, mentre tra i comunisti è prevalsa l’idea di una clemenza utilitaria — quella
verso il “pentito” in quanto delatore —, nel nostro mondo, in parte legato alla
mentalità inquisitoria, al rogo per la salvezza dell’anima, alla giustezza della pena
anticipata degli uomini, alla salutarietà dei tormenti, è stato ed è ancora difficile
entrare nell’anima del perdono. Agiscono in contrasto con quest’atteggiamento
donne e uomini come Lei, padre Bachelet, padre Riboldi, molti amici di C.L. e, in
generale, la mentalità più attenta della maggior parte dei sacerdoti (…).

 

Sul piano dei sentimenti non Le dirò molte parole. Marco sa di avere non soltanto
il perdono, ma l’amore di sua madre, dei suoi fratelli e mio. Sappiamo com’è difficile la vita carceraria e ci siamo resi conto, perciò, anche di alcuni errori
successivi. (…)

 

E mentre compio ogni tanto l’esame delle mie responsabilità per le vicende di
Marco, prego il Signore perché gli sia vicino anche attraverso la presenza Sua,
suor Teresilla, e degli altri che, nel nome di Gesù di Nazareth, sentono con più
forza l’amore. Con un cordiale saluto, Carlo Donat-Cattin.

 

*****

 

Lettera a Cossiga

 

Caro Cossiga,

 

mi vorrai perdonare del ritardo col quale, anche a nome di mia moglie, ti ringrazio
del biglietto che hai voluto con tanta premura e tanto affetto farmi giungere a
Torino subito dopo la morte di Marco. Sono rimasto in condizioni di non saper far
nulla altro che le cose meccanicamente conseguenti. La fede è faticosa per la mia
logorata umanità; eppure “tutto è grazia”. La prova più problematica è quella di
mia moglie: un figlio, giovane, ma il figlio che vivo lacera il cuore, viene ripreso
giorno per giorno, per anni di carcere (tutti quelli stabiliti, senza privilegi e
neppure consentite condizionali), recuperato da un amore senza confini. Ti ringrazia, in particolare, per il pensiero che le hai dedicato. Cerchiamo di pregare.
Ti abbraccio.

Il “bailamme” italiano. Intervista a Fabio Martini.

Sono giorni di tensioni sociali. Il ribellismo sta attraversando il Paese. Un Paese, però, che sta rispondendo alla Pandemia meglio di altri. Restano, comunque, fragilità che attendono risposte.

In questo quadro la politica è in una fase di movimento. I risultati, delle elezioni amministrative, ci consegna un quadro politico in evoluzione (con tensioni nel centrodestra uscito sconfitto dalle urne). Di tutto questo parliamo, in questa intervista, con Fabio Martini , inviato del quotidiano “La Stampa”.

Fabio Martini, stiamo vivendo mesi complicati, molto complicati. Il Paese è attraversato da tensioni, anche fomentate da gruppi neofascisti. L’assalto alla Cgil è l’esempio di questa infiltrazione neofascista trovi terreno fertile nel malcontento di una certa parte della popolazione. La risposta democratica è stata decisa (vedi la manifestazione dei sindacati di sabato scorso a Piazza San Giovanni). Ti chiedo: vedi un pericolo di rinascita del neo fascismo?

«I tanti commenti di questi giorni e le manifestazioni di protesta contro l’assalto alla sede della Cgil paradossalmente hanno finito per ignorare la gravità specifica di quel che è accaduto: l’ irruzione in casa altrui e la devastazione di uno spazio interno sono due “muri” letteralmente inviolabili per una convenzione democratica non scritta ma di lunga data: fenomeni di questo tipo in tutto il mondo sono tipici di forze violente, fasciste, o autoritarie di segno diverso. Messo questo paletto concettuale, è difficile dar credito all’ipotesi di un diffuso pericolo fascista per iniziativa di una organizzazione, Forza Nuova, che conta un centinaio di militanti in tutta Italia, che ha preso pochissimi voti quando si è presentata alle elezioni. Altro conto ancora sono le manifestazioni concrete ma anche esteriori di altre sigle: non possono oltrepassare un certo limite ma sarebbe delittuoso reprimerle quando si limitano alla manifestazione del libero pensiero. O ad una nostalgia che non può essere negata a nessuno. Gli avversari del centrodestra hanno cavalcato l’emozione, sfruttando anche espressioni infelici e ambigue (il meloniano «non capisco la matrice») e conducendo una campagna battente all’insegna contro un pericolo fascista che appare sovrastimato. E che è stato utilizzato a fini elettorali. Raramente il presidente Mattarella si è espresso con altrettanta efficacia: l’assalto alla Cgil ci ha turbato ma non ci preoccupa».

Veniamo alle elezioni. I ballottaggi ci hanno consegnato almeno quattro messaggi. Il primo riguarda l’alto astensionismo. Il secondo è la crisi del sovranismo, il terzo riguarda il PD. Partito dal telaio ancora solido, il quarto messaggio riguarda Movimento 5stelle e il duo Calenda Renzi… Incominciamo dall’astensionismo che ha toccato livelli di guardia. Ma è solo disaffezione o invece qualcosa di più profondo? 

«Una somma di motivazioni. Una cosa sembra acclarata: a disertare di più sono stati gli elettori di centrodestra. Una parte dei quali, i meno intransigenti, non si sono riconosciuti nella campagna ansiogena e allarmistica dei due principali leader di quell’area politica. E’ presto per dire se sia aperto un ciclo progressista in Occidente, ma qualcosa è in atto e per il momento sembra premiare leader rassicuranti e ansiolitici: Biden, Scholz, Letta. Chi non li ama, a destra, non va a votare. E si astiene dall’appoggiare una destra che tiene gli elettori in tensione in una fase nella quale gli italiani amerebbero allentare il pressing mentale, liberarsi dallo stress, anziché esservi ricacciati».

Veniamo ai sovranisti. Salvini e Meloni hanno mancato i loro obiettivi, Milano e Roma, per incapacità nella selezione dei candidati (una cosa inaudita per gente esperta), per errori politici gravi (fascismo e rincorsa sfrenata verso i no vax  e dintorni), per la loro competizione interna. Forse per una volta  ha ragione Guido Crosetto che, in uno slancio di sincerità, afferma in un tweet “Se i tuoi potenziali elettori si astengono, la colpa non è dei tuoi avversari: se vai vai al bancomat e cerchi di prelevare con il conto in rosso, non puoi imprecare contro lo sportello…”L’ironia è pesante (detto da colui che  “definisce Giorgia Meloni la sua migliore amica”).  Come svilupperà la dinamica tra i due leader sovranisti?  

«Giorgia Meloni e Matteo Salvini in questi giorni per la prima volta hanno capito che potrebbero – entrambi! – ridimensionare le proprie ambizioni di leadership. Le uniche alle quali rischiano di poter coltivare sono quelle per il proprio partito, perché negli ultimi mesi entrambi hanno faticato ad esprimere una vocazione e una cifra da leader nazionali. Per evitare il “Papa straniero” nei prossimi mesi potrebbero persino spalleggiarsi, secondo il vecchio adagio che se non stai in piedi assieme, rischi di cadere assieme»

Una parola su Berlusconi. È l’unico del centrodestra ad aver vinto. Come giocherà Berlusconi le sue carte in questa fase?

«Con un’ unica idea in testa: quella di essere il candidato del centrodestra nelle prime tre votazioni per il Quirinale. Rischia di sfuggirgli un dato essenziale: negli ultimi anni su di lui si è ricomposto un sentimento abbastanza diffuso di simpatia ma appena sarà chiaro che vuole diventare Capo dello Stato, diventerà oggetto di una campagna forsennata. In parte giustificata. Come può fare il presidente della Repubblica un condannato in via definitiva e anche in attesa di processo? Non può e questa speranza di risarcimento postumo costerà carissima a Berlusconi, se insisterà: dissiperà il credito riconquistato».

Mentre stiamo ragionando sul dopo elezioni, ecco arrivare la notizia di un accordo tra Matteo Renzi e Miccichè in Sicilia. Cose siciliane o preludío di un qualcosa?
«Matteo Renzi, il personaggio più ricco di talento politico apparso sulla scena italiana negli ultimi 10 anni, dopo aver commesso alcuni errori esiziali, sembra essere motivato soprattutto dalla prospettiva di un buon tenore di vita: per questo non sembra più puntare ad essere leader e sembra attratto maggiormente da attività professionali diverse dalla politica».

Per Enrico Letta si tratta di una bella vittoria. La sua linea è uscita vincente. Ma sappiamo della estrema volatilità del voto. Come dovrà investire il prezioso tesoretto di queste amministrative?
«Come investire il successo ovviamente lo deciderà il Pd. Sicuramente dovranno ricordarsi del 1993: il Pds e i progressisti avevano vinto a Roma e Napoli, pochi mesi dopo persero le Politiche. E tenendo presente un dato che è più impressionistico che misurabile. Il Pd vince, anzi stravince, ma non convince. Finché vivrà di “rendita”, senza esprimere una linea da “partito della nazione”, il Pd vincerà ma non convincerà. E questo è destinato a pesare negli orientamenti degli elettori».

Pensi che reggerà la linea pro Pd di Conte nel movimento 5stelle?
«Reggerà. Anche a costo di diventare irrilevanti a medio termine. Virginia Raggi ha dimostrato che i voti ci sono ancora ma su una linea “contro”, di chi è capace di predicare alterità anche stando al governo. A breve il Movimento è destinato a diventare una corrente esterna del Pd. Di Maio si è “imborghesito” e ama restare al governo, Conte non ha la stoffa per reinventarsi il M5s. L’unica vera scossa, e anche forte, potrebbe arrivare se Di Battista per davvero metterà su un movimento tipo gilet gialli. Per non sparire in pochi mesi, i Cinque stelle potrebbero essere costretti ad un ritorno, pur tardivo, alle origini».
Cosa dobbiamo aspettarci da qui all’elezione del nuovo presidente della Repubblica? Un “Bailamme”?
«Si, il rischio bailamme esiste. Al netto di un appuntamento di complicata gestione come il rinnovo della presidenza della Repubblica, alcuni dati, e non le impressioni, sono  eloquenti. Il Pd ha stravinto nei Comuni ma centro-destra e Cinque Stelle hanno straperso. Sin qui nulla di trascendentale ma il tutto è reso più instabile da una clamorosa asimmetria: 8 dei 10 comuni più popolosi del Paese sono guidati dal centrosinistra, le Regioni sono a stragrande maggioranza di centrodestra e in Parlamento la forza di maggioranza relativa sono i Cinque Stelle!Ora , dobbiamo saper aspettare. Se ai primi di gennaio la “pratica” non sarà stata ben lavorata potrebbe accadere di tutto».

E se la conclusione di tutto questo fosse : Mario Draghi candidato Premier per una coalizione Ursula? Troppa grazia?  

«Al momento è soltanto un legittimo sogno per chi apprezza Draghi. Ma sono tanti…»