Popolarismo, populismo e opinione pubblica. Un testo di Maria Chiara Mattesini

Spesso nel dibattito politico contemporaneo si fa confusione tra “popolarismo” e “populismo”. In questo testo della storica Maria Chiara Mattesini, ricercatrice dell’Istituto “Luigi Sturzo” di Roma,  fa chiarezza sui termini. La relazione, che pubblichiamo per gentile concessione dell’autrice, è stata tenuta la scorsa settimana nell’ambito del Ciclo di seminari 2018: “Popolarismo e Populismo”, organizzato dall’Istituto Luigi Sturzo di Roma.

1) Dopo l’inutile strage

Quando fonda il Partito popolare, nel 1919, Sturzo ha di fronte a sé grandi masse escluse dalle decisioni politiche, che per la stragrande maggioranza sono analfabete. Dopo la prima guerra mondiale, la psicologia collettiva è fortemente connotata da un senso di isolamento, sradicamento, estraniazione, causato, soprattutto, dagli alti livelli di disoccupazione. Tutto questo crea masse amorfe, atomizzate. Sturzo si trova ad affrontare masse di reduci, di poveri, di spostati, di gente senza più casa nè patria, ad affrontare una situazione psicologica di disperazione e di sfiducia, un clima di odio di tutto e di tutti. Un odio che non ha un oggetto definito, che non può addossare la colpa a qualcuno, che sia il governo, la borghesia o una potenza straniera. Si pensi soltanto al fatto che la maggior parte degli uomini che andarono al fronte non sapevano perché e contro chi combattevano. Sono masse che non hanno qualcuno che li rappresenti e li protegga sono quindi disorganizzate. Quella con cui Sturzo ha a che fare, dunque, è una folla di apolidi, sovrastata dal senso della superfluità. Ma, pur tendendo a cancellare le differenze individuali in un generale risentimento, questa amarezza egocentrica non crea un vincolo comune, perché non è basata su una comunanza di interessi, economici, sociali o politici: «L’abnegazione, non come virtù, ma come senso della nessuna importanza del proprio io, della sua sacrificabilità, divenne un fenomeno di massa che non aveva più a che vedere con l’idealismo individuale. Le principali caratteristiche dell’uomo di massa erano l’isolamento e la mancanza di normali relazioni sociali. Essere sradicati, infatti, significa non avere un posto riconosciuto e garantito dagli altri; essere superflui significa non appartenere al mondo»1. Sono parole, queste, di Hannah Arendt. Sturzo definisce questa umanità con un linguaggio non dissimile: «disgregata, atomizzata in uno stato permanente di sofferenze sociali»2. Il fascismo trovò, così, un terreno favorevole: un terreno caratterizzato dalla passione e non dalla razionalità. Esso, scrive Sturzo con parole molto efficaci che colgono l’essenza dei regimi dittatoriali ed anche della cultura populista, fu un «movimento convulso ed espressione sentimentale di stati d’animo e di interessi contrastanti, non poteva fare altro che fissare nella sua lastra fotografica le impressioni esterne del momento e ingrandirle sullo schermo di proiezione, per determinare la folla a suo favore»3. E poi, ancora, scrive: «Ci sono in ciascuno di noi dei motivi fondamentali, ai quali consciamente o inconsciamente, si riducono i valori dei fatti o delle impressioni, per un complesso di tradizioni, convinzioni, interessi ed affetti; dei quali è molto difficile fare un’analisi completa e esatta: noi li chiamiamo stati d’animo. Questi influiscono potentemente anche sui giudizi dell’intelletto, e possono arrivare, se non corretti da un esercizio critico di se stesso molto sviluppato, a turbare l’esatta percezione della realtà. Io credo di vedere nel fenomeno che sto esaminando [l’adesione al fascismo], uno di questi stati d’animo, di queste oscure sintesi psicologiche, le quali, di certo, attenuano la responsabilità degli errori di fatto, e danno le spiegazioni di certe inversioni spirituali che altrimenti sarebbero inafferrabili»4. La crisi degli stati europei, con la successiva affermazione dei fascismi o, comunque, di regimi antiliberali, viene da lui intesa come l’esito estremo di una democrazia “individualista”, che esclude, cioè, qualsiasi organismo intermedio generatore di una democrazia collegiale, per fondarsi, invece, sui rapporti diretti tra il cittadino e le istituzioni. All’origine delle esperienze totalitarie degli anni Trenta, vi sono l’alterazione e la successiva soppressione delle autonomie locali, tanto care a Sturzo, e delle libertà politiche, con la conseguente manifestazione dello Stato come “primo etico”, fondato non sul consenso ma sulla forza. «Gli stati totalitari – afferma Sturzo – sopprimono la libertà politica e diminuiscono la libertà personale con l’ingerenza statale nell’atteggiamento del pensiero, nel dominio della morale e della religione… Gli individui non sono più considerati né come cittadini né come sudditi, ma solo come membri di un gregge, come unità di una collettività di ferro i cui atti morali si integrano nei fini dello stato… La persona si perde, assorbita nella pan-collettività, designata coi nomi simbolici di nazione, classe o razza»5. Così si presenta la società, all’indomani della prima guerra mondiale; una società, però, che già era stata travolta, a inizio del XIX secolo, dalla prima industrializzazione con tutti gli effettieb che questa comportò. Ma per Sturzo il popolo chi è? Che significato ha questa parola?

2) Il popolo nella concezione di Sturzo

Sturzo non considera il popolo solo morfologicamente, ma anche come espressione concreta di società, come esperienza che il popolo fa nella società. Il concetto di popolo si innesta su quello di libertà. La democrazia per Sturzo è un sistema politico e sociale che comprende tutto il popolo organizzato su una base di libertà. «Popolo e libertà è il motto di Savonarola; popolo significa non solo la classe lavoratrice ma l’intera cittadinanza, perché tutti devono godere della libertà e partecipare al governo. Popolo significa anche democrazia, ma la democrazia senza libertà significherebbe tirannia, proprio come la libertà senza democrazia diventerebbe libertà soltanto per alcune classi privilegiate, mai per l’intero popolo»6. Questo è uno dei motti adottati dal “People and Freedom Group”, sorto nel 1936 per iniziativa di Sturzo. Per Sturzo il popolo non è una massa amorfa e non è una massa arrabbiata mossa solo dalle passioni. Il popolo è una cittadinanza critica e la democrazia è partecipazione associativa e individuale, irriducibile alla primazia della politica. Inoltre il popolo non è, come per Rousseau e Robespierre, una volontà unica ed ha anch’esso dei limiti. Il popolo è sovrano, ma sono sovrani anche il parlamento, le regioni. Vi è una pluralità di sovranità che rimanda al valore dell’autolimitazione in democrazia: «La sovranità popolare esprime un valore morale indicativo e direttivo, quello che i corpi eletti tradurranno in politica economica e leggi. Così il popolo stesso è limitato nella sua azione di autogoverno, e a sua volta limita i suoi rappresentanti al potere… Il principio saldo è che la democrazia è limite essa stessa alla volontà popolare»7. 

3) Il popolarismo e il fine della politica

Riandando con la memoria agli eventi fondativi del Partito popolare, Sturzo scrive: «Occorre adunque un principio distinto, che possa essere come il centro di sistemazione di una teoria e prassi politica, che sia comune e specifica insieme ai partiti popolari o simili, quali ne siano le denominazioni storiche nei vari paesi. Questo principio sarebbe la democrazia, ma abbiamo notato come questa parola si presti a confusione, sì da esigere da sè una specificazione. A me sembra che questa specificazione possa essere indicata dalla parola popolare… da questo aggettivo può bene dedursi, come uso specificativo, la parola astratta teorizzante di popolarismo»8. La parola popolarismo fu usata per la prima volta da Sturzo nel suo volume “Riforma statale e indirizzi politici”: «Esiste pertanto una dottrina politica che si chiama popolarismo e dalla quale il partito, come concretizzazione organizzativa ha la sua ragion d’essere, la sua ispirazione, la sua finalità?… La domanda serve a precisare i contorni e i presupposti teorici del movimento politico popolare. In quello e in altri volumi mi sforzavo di chiarire la portata storica di questo sistema che ho chiamato popolarismo, non per vano desiderio di creare una parola nuova, ma per obbligo di dare un nome a un movimento di idee politico e sociale, che aveva le sue concrete realizzazioni sul terreno dell’azione, in modo da opporlo ai sistemi, oggi predominanti, che si chiamano liberalismo, radicalismo, socialismo, fascismo, nazionalismo, comunismo, bolscevismo e simili. Il problema fondamentale su cui poggiare una simile teorizzazione è e non può essere che politico: tutto il resto dei problemi viene visto sotto l’angolo visuale politico, proprio perché si tratta di una teoria dello stato»9. Volendo ragionare sulla parola “popolarismo”, è utile soffermarsi sul suffisso “-ismo” che indica un parossismo, una esasperazione. Esasperazione di cosa? Se il populismo è stato definito una variante radicale della democrazia, come ha sostenuto Ernesto Laclau, più a buon diritto, allora, si può definire anche il popolarismo una variante radicale della democrazia. Questo “-ismo” significa, cioè, realizzare appieno, portare a massimo compimento le potenzialità e le funzioni dei così detti corpi intermedi. L’attributo “popolare” sta ad indicare, infatti, questo metodo di partecipazione alla vita civile. Il popolarismo, dunque, è una forza di integrazione istituzionale e di inclusione di ampi strati di cittadinanza in una prospettiva non identitaria, laddove, invece, il populismo è una forma di omogeneizzazione non finalizzata all’integrazione, ma è anti-istituzionale e antipolitico, in una prospettiva fortemente ideologizzata e identitaria. Il paragone tra popolarismo e populismo è interessante, perché attraverso di esso si possono rintracciare gli elementi “sani” del populismo nello stesso Sturzo. Si pensi allo “stare in mezzo alla gente”: ha una valenza negativa e vuol dire omologazione, massificazione e, ad uso dei politici, significa assecondare le passioni più basse in nome del consenso. Ma ha anche una valenza positiva e allora diventa rompere l’isolamento elitario, tendere all’incontro con la diversità, come nel caso di Sturzo. Ricordiamo, in particolare, la sua più che decennale attività politica comunale, che lo ha collocato nell’agorà, come organizzatore di cooperative di operai e contadini, casse rurali, come membro del Consiglio provinciale di Catania, come prosindaco di Caltagirone, come vice presidente dell’Associazione Nazionale dei Comuni d’Italia. Proprio a partire da queste esperienze Sturzo elabora il suo pensiero sociologico e politico. Si consideri, inoltre, l’insistenza con cui Sturzo chiede l’attuazione del referendum. Anch’egli, infine, usa un linguaggio forte e, potremmo dire, populista, quando, ad esempio, definisce lo Stato come «è un’enorme piovra, che assorbe la vita comunale… sovverte le ragioni municipali, paralizza le attività paesane o le travolge nell’agitarsi scomposto dei partiti»10. Un’affermazione affatto inusitata per quei tempi. Negli anni 1919-1922, dopo la prima guerra mondiale e mentre imperversavano drammatiche turbolenze sociali, si produsse, infatti, una violenta ondata populista contro i liberali al potere. Populismo e popolarismo, però, pur essendo entrambi espressione di ansie e di rabbie e delle parti più isolate della società, si differenziano nei mezzi e nelle finalità, fino a divenire l’uno negatore dell’altro. Non sono populistici i valori della razionalità, della prudenza e del pragmatismo, che portano Sturzo a non avere una visione messianica della politica e a non promettere una società felice. «Per noi il centrismo è lo stesso che dire popolarismo, in quanto il nostro programma è un programma temperato, e non estremo – siamo democratici, ma escludiamo le esagerazioni dei demagoghi; vogliamo la libertà, ma non cediamo alla tentazione di volere la licenza… e così via. Ogni affermazione del nostro programma non è mai assoluta ma relativa, non è per sé stante ma condizionata, non arriva agli estremi ma tiene la via del centro… noi neghiamo che nella vita presente si possa arrivare ad uno stato perfetto, ad una conquista definitiva, ad un assoluto di bene… Nel movimento popolare invece non c’è la futura età di Saturno, la città del sole, il 2000, la repubblica di Platone e simili ottimismi; perché la nostra fede cristiana e il nostro senso storico ci portano a valutare la vita presente come un relativo di fronte ad un assoluto, e quindi diamo valore fondamentale, anche nella vita pubblica, all’etica, che è per noi norma insopprimibile, e superiore a quella che si chiama ragion politica o ragione economica; e questo ci dà il senso di relatività, che incentra i problemi, e non li fa come per sé stanti, come fini assoluti da dover raggiungere per un logico predominio e per una ferrea legge»11. Pragmatismo, quindi, e praticabilità storica delle proprie idee che, tra l’altro, hanno fatto di Sturzo uno dei politici più coerentemente e coraggiosamente laici. Caratteristiche proprie del popolarismo, inoltre, sono quella comunalista e regionalista: «Queste due parole in Italia indicano il movimento che tende a rivendicare la tradizione italiana dei comuni liberi e del self-government locale, e a dare autonomia amministrativa e sotto certi aspetti politica alle diverse regioni di cui si compone l’Italia… Ecco pertanto i tre punti specifici che danno il carattere proprio a questo partito: la rivendicazione della libertà (religiosa, scolastica, economica, amministrativa); la difesa morale e sociale delle classi operaie; il decentramento statale e il self-government locale, anche nelle regioni… la base sociale del nuovo partito poggiava sulle classi rurali, sui piccoli proprietari, sui piccoli redditieri, sull’artigianato, su parte degli operai delle fabbriche, sulla classe media e professionista. Il partito popolare sorgeva come partito non di una sola classe, ma inter-classista, non per agitare la lotta di classe, ma per arrivare a forme parziali e concrete di armonizzazione delle classi»12. Da questa sintetica analisi del popolarismo, si può dedurre quale sia il senso della politica per Sturzo. Il senso della politica è la libertà, è aprire, il più possibile, gli spazi dell’agire pubblico. Si parla molto, e non può essere altrimenti, dell’importanza della limitazione dei poteri nel pensiero di Sturzo, ma occorre porre l’accento anche su un altro punto fermo della sua concezione: la politica come strumento, appunto, per ampliare gli spazi pubblici da realizzarsi, in modo particolare, con la creazione dei corpi intermedi.

 

5) La funzione dei corpi intermedi

Le caratteristiche più evidenti ed essenziali di questi organismi, che fanno da tramite tra le persone e lo stato e fanno sì che il popolo esista, si possono individuare nella spontaneità (come nel caso della famiglia) e nella imprevedibilità (si pensi alla nascita dei comitati di quartiere a metà degli anni Sessanta in Italia). Si possono definire come una sorta di rigenerazione creativa della democrazia. Servono ad allargare il campo della rappresentanza, poiché i partiti, come ritiene Sturzo, non sono sufficienti, in quanto non rappresentano tutti. La sovranità è partecipazione e le istituzioni sociali debbono essere inclusive. Quando, invece, si prende la scorciatoia del modello di democrazia diretta si tende a scavalcare queste mediazioni, la cui esclusione genera una democrazia illusoria (la promessa di una futura società felice) e una politica senza società (masse disorganizzate e atomizzate). Sturzo, invece, procede nella direzione opposta: ridare spazio alla realtà sociale e ai corpi intermedi, soprattutto laddove la dinamica di sviluppo delle società moderne è caratterizza dall’incertezza e dal crescente bisogno di prevedibilità che privilegiava le forme statali e sociali preordinate e statiche. Incoraggia l’autogoverno di questi enti, che hanno la funzione di garantire lo spazio entro cui la libertà può manifestarsi, in quanto forme autonome di organizzazione, di democrazia e di potere, dove si stabiliscono legami e linee comuni e si forma l’opinione pubblica. Se libertà e democazia sono elementi prepolitici, grazie ai quali si può parlare di politica, grazie ai quali la politica esiste, lo stesso si può dire, allora, a proposito dei corpi intermedi: anche essi sono prepolitici e prepartitici, sono anche essi elemento indispensabile perché la politica esista. In questo senso, possiamo definire i corpi intermedi come “cosigli permanenti”, che ricordano le “repubbliche elementari” di Thomas Jefferson, la cui ragion d’essere aveva spiegato così: «Le repubbliche elementari delle circoscrizioni, le repubbliche-contee, le repubbliche-stato e la repubblica dell’Unione dovrebbero formare una gradazione di autorità, ciascuna in base alla legge, ciascuna in possesso della propria porzione delegata di potere e costituire veramente un sistema di freni e contrappesi fondamentali per il governo»13. Ossia: l’equilibrio tra la libertà e l’autorità di cui spesso parla Sturzo. Proprio come le repubbliche elementari di Jefferson, i corpi intermedi offrono un modo di raccogliere la voce del popolo migliore dei meccanismi del governo rappresentativo. Alla domanda sul perché delle repubbliche elementari, Jefferson non seppe fornire una risposta precisa, ma disse: «cominciate a farle, anche solo per un singolo scopo: e ben presto mostreranno per quali altri scopi sono i migliori strumenti»14. La società civile così intesa, e come la intende anche Sturzo, diviene l’unica sede tangibile in cui ciascuno può essere libero e questo è il fine dello Stato, il cui scopo principale negli affari di politica interna, appunto, è quello di offrire ai cittadini tali sedi di libertà e di proteggerle. Il principio basilare di questo sistema è che nessuno si può dire felice senza possedere la sua parte di felicità pubblica e che nessuno può essere considerato né felice né libero senza partecipare, avendone una parte, al pubblico potere. Questa tipo di partecipazione rimanda alla duplice eredità di ragione e democrazia che il diciottesimo secolo ci ha tramandato e che non ha mancato du influenzare, tramite Locke, anche il pensiero di Sturzo. Ragione significa fiducia nella capacità della mente di cogliere gli ordinati processi della natura e della società rendendoli intellegibili. Democrazia significa fiducia nella capacità di autogoverno della gente comune; essa presuppone in tutti gli individui capacità di ragionamento, affinchè questo elemento democratico sia incoraggiato, “esapserato” fino al massimo della sua attuazione pratica. Per Sturzo, infatti, la società è composta di diversi organismi sociali specifici, armonici e concentrici; la società non è un’accozzaglia di atomi, ma una condizione di forze e di finalità.

6) Popolo come opinione pubblica

«In via generale il popolo, come opinione pubblica, riesce ad essere una forza di controllo e di limitazione dello stato o meglio degli organi statali che si presume eseguano la sua volontà. Ciò avviene per una fondamentale esigenza della società politica, quella della limitazione dei poteri… “popolo”, preso come la somma degl’individui di una collettività politica, è potenzialmente la forza sociale di controllo; ma non diviene effettivamente tale se non si organizza a questo fine. Il semplice elettorato individualistico raramente riesce organico. Le circoscrizioni elettorali come tali non sono organismi viventi. I partiti politici sono già un inizio di organizzazione delle masse elettorali, quando rispondono alle esigenze, alle tradizioni e alla psicologia del popolo… In conclusione, la nozione di popolo non s’identifica con quella di stato; il popolo come tale influisce sulla struttura e funzionalità dello stato in quanto può organizzarsi spontaneamente come elettorato, inquadrarsi nei partiti liberi, partecipare alle espressioni della pubblica opinione, provocare la formazione e deformazione dei nuclei dirigenti»15. Il popolo per Sturzo può divenire opinione pubblica e forza morale come freno al cattivo potere e agli egoismi, come luogo di resistenza etica, mediante la sua articolazione in partiti, sindacati, mass-media, società civile e come forza motrice capace di mutamento e di civilizzazione: «Il metodo di libertà e il metodo di autorità dovrebbero essere usati in modo che, dove l’uno ecceda, l’altro serva a ristabilire l’equilibrio. E poiché è più facile che l’eccesso venga dall’autorità anziché dalla libertà – perché l’autorità ha dal suo la legge e la forza – occorre che il popolo sia chiamato con i referendum, con le elezioni locali e generali, amministrative e politiche a pronunziarsi sull’andamento degli affari del proprio paese. Occorre che i portavoce della pubblica opinione, stampa quotidiana e periodica, “meetings” e riunioni, associazioni permanenti o temporanee, siano aperti a tutti», La democrazia «consiste anzitutto nella libertà della vita pubblica»16. Per Sturzo quanto più è sviluppata e diffusa tale consapevolezza, insieme al sentimento di solidarietà, maggiore sarà la partecipazione popolare al governo della cosa pubblica, più stimati i valori etici legati al buon governo, più progredita la nazione, meglio organizzati i poteri dello stato e meglio soddisfatte le aspettative dei cittadini. «Si tratta di rendere edotto il popolo della sua funzione perenne e fondamentale in democrazia, sia come elettorato, sia come opinione pubblica, dell’economia, della cultura, della tecnica; sia per lo spirito di riforma che deve sempre animare le correnti ideali o mistiche, sia per il carattere di stabilità che si deve dare agli istituti politici, sia per la formazione delle tradizioni locali e nazionali, che tengono legate le nuove generazioni alle precedenti in una spirituale continuità della democrazia di oggi con quella di ieri, nonostante i dovuti cambiamenti e sviluppi»17. Il popolo, perciò, deve avere i caratteri della spontaneità, della creatività e lo deve ispirare, sempre, uno spirito di riforma. Agli istituti politici si chiede, invece, solidità e stabilità, che in Sturzo non sono sinonimi di fissità e staticità. Le opinioni, quindi, si formano in un processo di discussione aperta e di pubblico dibattito e, là dove non esiste alcuna possibilità che si formino le opinioni, possono esistere stati d’animo, ma non può esistere opinione.

7) Il popolarismo è diventato fenomeno storico?

Il popolarismo è rimasto una teoria o è diventato anche un fenomeno storico? In un certo senso se lo domanda anche Sturzo: «la parola popolarismo non ha il corso che ha quella di socialismo, di liberalismo e di nazionalismo, cioè di un sistema o di una concezione che crea un partito; ai popolari è toccata la strana avventura di essere contemporaneamente presi per clericali o demagoghi»18. Interessante questa affermazione di Sturzo, che ci dà anche notizia di come i popolari sono considerati, come clericali o demagoghi appunto. Queste parole sembrano implicitamente rispondere ed anche accogliere le critiche di due suoi contemporanei, Gobetti e Gramsci. Secondo loro, infatti, a Sturzo sarebbe sfuggito il problema centrale della politica italiana che condiziona tutti gli altri problemi: quello delle forze capaci di creare e sostenere una classe dirigente. Gobetti e Gramsci addebita al Partito popolare l’intento di puntare soprattutto alla riforma degli apparati statali, piuttosto che far avanzare una politica alternativa per preparare l’avvento delle masse alla guida dello stato. Questa critica non è priva di fondamento, ma non ci deve indurre a pensare che il popolarismo sia passato invano, tutt’altro. Possiamo, infatti, vedere tracce di questa cultura nella storia dell’Italia repubblicana, di come essa, anzi, si sia felicemente dispiegata ed abbia ottenuto i suoi frutti migliori quando ne ha avuta l’occasione, in un contesto politico democratico e caratterizzato da maggiore consapevolezza e partecipazione. Ad esempio, ritroviamo queste tracce nel nuovo Diritto di Famiglia che fu promulgato nel 1975 ad opera, tra le altre, di una parlamentare democristiana, Maria Eletta Martini: una riforma che andava proprio nella direzione indicata da Sturzo, nel senso di una maggiore valorizzazione degli organismi intermedi, primo fra tutti la famiglia. È probabile che Sturzo avrebbe salutato con favore questa rivoluzione nei rapporti marito-moglie, che dette luogo, inoltre, a quel felice fenomeno della piccola e media imprenditoria a carattere familiare, particolarmente sviluppato nel Nord-Est. Troviamo tracce di questa cultura anche nei già citati comitati di quartiere che sorsero dal basso, imprevedibilmente e spontaneamente nella metà degli anni Sessanta. Tra l’altro, è utile notare come ci sia stato un crescendo di presa di consapevolezza da parte del popolo sturzianamente inteso. Particolarmente illuminante in questo senso è la legislazione in favore delle donne: di iniziativa parlamentare nei primi anni della repubblica, si caratterizzò poi, a partire soprattutto dagli anni Sessanta, come la risposta alle domande che provenivano dal basso. Anche questa è la cultura del popolarismo, di cui, forse, non è più avvenuta, almeno in temi recenti, una discussione, una nuova sistematizzazione e teorizzazione. Se di questa cultura c’è stata una interiorizzazione, questa è avvenuta, però, senza una sufficiente consapevolezza e presa di coscienza. La mancanza di questa ratio ne ha indebolito la forza e la capacità di diventare prassi quotidiana, per rimanere fenomeno episodico e “intermittente”.

NOTE

1          H. Arendt, Sulla rivoluzione, Einaudi, Torino 1999, p. 439.

2          L. Sturzo, La lotta sociale legge di progresso, conferenza tenuta al circolo universitario di Napoli il 13 giugno 1902, al salone dell’Arcivescovado di Milano il 12 maggio 1903 e al circolo universitario di Torino il 19 maggio 1903. Ora in L. Sturzo, Sintesi sociale. L’organizzazione di classe e le Unioni professionali. Scritti pubblicati su «La cultura sociale» (1900-1905), p. 52.

3          L. Sturzo, Il partito popolare italiano, v. II, Popolarismo e fascismo, Rubbettino, Soveria Mannelli 2007, p. 235.

4          L. Sturzo, Per lo studio di un fenomeno etico-psicologico, in «Rassegna nazionale», n. 2, febbraio 1925. Ora in L. Sturzo, Il partito popolare italiano, v. III, Pensiero antifascista (1924-1925), La libertà in Italia (1925), Scritti critici e bibliografici (1923-1926), Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2003, p. 85.

5          L. Sturzo, Politica e morale (1938), Zanichelli, Bologna 1972, p. 34-36.

6          L. Sturzo, Nazionalismo e internazionalismo, Zanichelli, Bologna 1972, p. 108.

7          L. Sturzo, Nazionalismo e internazionalismo, cit., p. 311-312.

8          L. Sturzo, Il popolarismo, in «Politique», Paris, 15 agosto 1928 e in «Il Pungolo», Paris, 1-15 giugno 1929. Ora in L. Sturzo, Scritti politici 1926-1949, pp. 34-35.

9          L. Sturzo, Riforma statale e indirizzi politici, Vallecchi, Firenze 1923. Ora in L. Sturzo. Il Partito popolare italiano, v. I, Dall’idea al fatto (1919), Riforma statale e indirizzi politici (1920-1922), pp. 101 e ss..

10        L. Sturzo, Il programma municipale dei cattolici italiani, relazione e proposte al 1° Convegno dei consiglieri cattolici siciliani, tenuto a Caltanissetta il 5, 6 e 7 novembre 1901. Ora in L. Sturzo, in L. Sturzo, La Croce di Costantino, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1958, p. 273.

11        L. Sturzo, Il nostro centrismo, in «Il Popolo nuovo di Roma», 26 agosto 1923. Ora in L. Sturzo, Il partito popolare italiano, v. II, cit., pp. 166-167.

12        L. Sturzo, I precedenti del partito popolare italiano, articolo pubblicato nel 1926 su tre riviste: «Abendlnad», Kôln 1 maggio; «Contemporay Review», giugno; «La Vita nuova», New York, agosto. Ora in L. Sturzo, Scritti politici 1926-1949, Ed. Cinque Lune, Roma, 1984, pp. 29 e ss..

13        H. Arendt, Sulla rivoluzione, cit., 294.

14        Idem.

15        L. Sturzo, Presupposti e caratteri della Democrazia cristiana, in «Piccola Biblioteca di Cultura Politica», Roma SELI 1947. Ora in L. Sturzo, Nazionalismo e internazionalismo, cit., pp. 301-302.

16        L. Sturzo, La società sua natura e leggi. Sociologia storicista, Zanichelli, bologna 1960, p. 228.

17        L. Sturzo, Autogoverno e suoi limiti. Note sulla democrazia, in «Il Ponte», Firenze, ottobre 1946. Ora in L. Sturzo, Politica e morale, cit., p. 363.

18        L. Sturzo, Riforma statale e indirizzi politici 1920-1922, in L. Sturzo, Il partito popolare italiano, v. I, cit.,  cit., p. 101.

Un atomo di verità. Aldo Moro e la fine della politica. Intervista a Marco Damilano

 

“Non è un saggio storico, come altri  miei libri, e neppure un romanzo, ho provato a fare un viaggio nella memoria che è anche un viaggio fisico, mi sposto in diversi punti d’Italia e non solo, utilizzando la parola io perché tutto comincia da una scena: sono un bambino e passo con il mio pulmino delle scuole elementari da via Mario Fani venti minuti prima della strage del 16 marzo 1978. Quel giorno, ho scritto, sono diventato grande”. Con queste parole Marco Damilano, giornalista parlamentare e Direttore del settimanale “L’Epresso”, inizia l’ intervista. Il suo libro ,pubblicato da Feltrinelli appena uscito nelle librerie, “Un atomo di verità. Aldo Moro e la fine della politica in Italia” (pagg. 272, € 18,00) ci offre una memoria viva di quel giorno fulminato, come lo definisce Martinazzzoli, per la democrazia italiana. Che cosa ha perso l’Italia con la morte di Aldo Moro? Ecco le sue risposte.

Marco, il tuo libro è suggestivo, ricordi personali e la drammatica storia di quei giorni si incrociano. Ad un certo punto scrivi: “i ricordi dei bambini sono emotivi, non si muovono restano fissati lì, incastrati nella memoria. ” Ci offri appunto un libro in cui consegni al lettore una memoria viva di quella ferita indelebile nella storia Italiana. Via Fani sanguina ancora per la nostra democrazia, e forse non smetterà mai di sanguinare. E’ così?
Ti ringrazio per aver sottolineato quella frase perché è stato il punto di partenza della mia scrittura. Non è un saggio storico, come altri  miei libri, e neppure un romanzo, ho provato a fare un viaggio nella memoria che è anche un viaggio fisico, mi sposto in diversi punti d’Italia e non solo, utilizzando la parola io perché tutto comincia da una scena: sono un bambino
e passo con il mio pulmino delle scuole elementari da via Mario Fani venti minuti prima della strage del 16 marzo 1978. Quel giorno, ho scritto, sono diventato grande. Ho provato a rivivere l’emozione e lo sconvolgimento di quel giorno di guerra e i quarant’anni successivi, con la chiave del racconto. Credo così di aver dato voce agli italiani normali che non dimenticano quel giorno, quel momento. E anche, al tempo stesso, provare a uscire dalla
rimozione collettiva di quel periodo: i ragazzi di oggi non sanno niente degli anni di piombo, del terrorismo, delle vittime inermi come Moro o come – fammelo citare perché anche per lui è un anniversario, Roberto Ruffilli – e certo non è colpa loro. Noi siamo diventanti grandi come persone, ma la democrazia non è diventata più adulta, come immaginava Moro: al contrario,
ha camminato all’indietro.

Il tuo itinerario si sviluppa, lungo tutto libro, da via Fani a Torrita Tiberina, si conclude, infatti, nel piccolo cimitero di quel paesino sulla Tomba di Aldo Moro. Sembra un cammino per capire il nostro presente. Che cosa ha perso l’Italia con la morte di Aldo Moro?
Si, hai ragione, il viaggio comincia da via Mario Fani e si ferma di fronte a quella piccola tomba di Torrita Tiberina. Si è perso con Moro l’idea della politica come intelligenza degli avvenimenti e capacità di persuasione, la democrazia che è una tensione e non una conquista una volta per tutte. Dopo di lui, la politica è stata sempre di più affidata esclusivamente ai rapporti di
forza. Fammi dire: non voglio fare un santino, Moro è stato un uomo di potere, ha conosciuto il potere in tutti i suoi aspetti, anche il più crudo e il più oscuro. Nessuno come lui sapeva cosa si muove nel fondale occulto della politica e della società italiana. Ma proprio per questo immaginava la costruzione di percorsi complessi, di tempi lunghi, di non esaurire un progetto
politico nello spazio di un istante. Anche la sua ultima operazione, l’ingresso del Pci nella maggioranza di governo, aveva un respiro strategico e avrebbe significato il superamento di Yalta con dieci anni di anticipo. La sua morte ha spezzato l’ultima possibilità della Repubblica dei partiti, come l’ha chiamata Pietro Scoppola, di auto-rinnovarsi. Dopo sono arrivati Mani Pulite, Tangentopoli, la fine di Dc, Pci, Psi, la fallimentare seconda Repubblica e l’impossibilità della politica di guidare i processi e dare risposte che spiega anche l’oggi. L’anniversario di Moro cade nel dopo 4 marzo, con gli elettori in rivolta e il buio pesto sulle prossime settimane. È un caso, “un’enigmatica correlazione”, avrebbe detto Sciascia.

Riecheggiano spesso nel libro le parole di Moro sull’Italia: “Un paese dalla passionalità intensa e dalla   struttura fragile”.  Dopo la morte di Moro è finita la prima repubblica, dopo  di lui è stato, come hai ricordato tu, il trionfo della visione corta della politica. E quelli che si autodefiniscono “eredi” oggi sono relegati all’opposizione. …  Eppure la voce di Moro ci parla ancora : “io ci sarò come un punto irriducibile di contestazione e alternativa”… Parole terribili alla DC, ma valide anche per l’oggi…

C’è una frase in un articolo giovanile di Moro che voglio citare: «il nostro posto è all’opposizione, il nostro compito è al di là della politica. Noi non abbiamo aspirazioni a governare. Non vogliamo il potere, perché esso ci fa paura. Potrebbe rendere anche noi conservatori, conservatori, non fosse altro, di una libertà meschina e personale. Potrebbe abituarci al compromesso, potrebbe insegnarci la finzione. E noi vogliamo essere liberi, liberi di tutta la libertà dello spirito…». Aveva ventotto anni, ma è significativo che le stesse cose le ha scritte prima di essere rapito, nell’ultimo articolo scritto per il “Giorno”, in cui rivendicava un ruolo per i grandi cambiamenti degli anni Sessanta, «il risveglio delle coscienze, il fiorire di atteggiamenti autonomi, la contestazione di espressioni del potere e di cristallizzazioni politiche, la riscoperta della società civile, la valorizzazione dei giovani e del loro diritto di cambiare. Questa specie di rivoluzione ebbe da noi una vibrazione singolare e certi non è passato senza lasciare tracce durevoli. Ed anzi non è passato, ma resta come un modo di essere vitale della nostra società». Era un uomo di governo e di potere, ma sosteneva che i partiti dovevano essere in grado di fare «opposizione a se stessi», non esaurirsi soltanto nell’esercizio del governo. Mi colpisce che lui usasse così spesso la parola cristallizzazione. Ora abbiamo una politica che si percepisce in movimento, vuole dare questa sensazione, e invece è immobile e paralizzata.

Un altro punto che tocchi è quello dell’indagini alla ricerca della verità, con il lavoro dell’ultima Commissione di Inchiesta siamo arrivati a buoni risultati. Perché definisci la verità su Via Fani “parziale e ambigua”?
Moro va strappato alla riduzione di questi quarant’anni, va liberato dal “caso Moro” in cui è stato sequestrato per la seconda volta. Per questo mi soffermo poco sui misteri dei 55 giorni. Faccio solo notare che alcune conclusioni della commissione parlamentare presieduta da Giuseppe Fioroni sono importanti. E che, una volta di più, le presunte rivelazioni delle Br dei decenni scorsi appaiono una colossale montagna di omissioni e di manipolazioni. Per questo, e per principio, non ho voluto sentire nel mio lavoro neppure uno degli ex terroristi: non sopporto il loro narcisismo, le loro lamentazioni, le loro bugie. Non metto in dubbio che siano stati i brigatisti a rapire Moro e che la vicenda sia tutta italiana, interna alla nostra storia e alla storia della sinistra estremista che odiava il presidente della Dc e lo considerava il simbolo del regime democristiano. Ma c’era l’altra parte, la destra profonda, che voleva eliminarlo perché rappresentava l’impossibilità per la Dc di tradire la democrazia e di allearsi con la destra. Nel sequestro queste forze interne e internazionali hanno trovato un’occasione insperata. Questo si può dire, anche se certo in modo parziale.

“Datemi da una parte milioni di voti toglietemi dall’altra parte un atomo di verità, ed io sarò comunque perdente”. E’ la frase di Moro che chiude il tuo libro … Ed è quello che manca oggi alla politica. E’ così?
Verità, in politica, è una parola perfino pericolosa. In nome della verità si sono compiuti i crimini orrendi dei totalitarismi novecenteschi. Tuttavia la politica non può prescindere da un rapporto con la verità: su se stessa e sul Paese cui si rivolge. La frase di Moro mi sembra straordinariamente attuale in questa settimana post-elettorale: puoi prendere milioni di voti e poi perdere lo stesso perché non hai verità, cioè una visione, un progetto. Questo vale per gli sconfitti del 4 marzo e ancora di più per i vincitori.

I nodi politici del dopo elezioni. Intervista a Fabio Martini

Fabio Martini

Il post elezioni ci consegna molti “nodi” che non saranno facili da sbrogliare. Quali sono? Ne parliamo, in questa intervista, con Fabio Martini cronista parlamentare del quotidiano “La Stampa”.

Fabio Martini, queste elezioni fanno segnare un cambio radicale nella geografia politica italiana: il nord tutto, o quasi, blu (con sfondo verde, per il sorpasso leghista), il sud  quasi tutto giallo , colore dei 5stelle. Il rosso è rimasto confinato nell’area, sia pure ridotta. Su queste aree emblematiche dell’Italia il PD ha fallito. Dove è stata lacunosa l’offerta politica riformista?
Il Pd si è presentato con un consuntivo di governo oggettivamente importante. Sul piano dei diritti, ma anche sul piano macro-economico e del mercato del lavoro. Ma gli elettori quasi sempre sono irriconoscenti, come dimostrarono una volta per tutte le elezioni inglesi del 1945, quando Churchill, vincitore di una guerra terribile contro i nazisti, fu sconfitto dai Laburisti che proposero un piano di protezione sociale ad un Paese annientato dalla guerra. Oltretutto alcune misure controverse, come l’abolizione dell’articolo 18, hanno lasciato affiorare un volto “feroce” verso i lavoratori, che non ha giovato al Pd. E’ mancata una proposta ariosa per il Paese, un’idea dell’Italia e degli italiani. Altri si possono permettere di  vivere di “rendita”, per i progressisti di solito è più difficile.

Gli analisti elettorali hanno affermato, per rimanere sempre in ambito PD, che i 5stelle hanno intercettato i voti dei tanti delusi dal PD e che pochi sono andati a LeU. A me sembra la prova della inutilità della scissione. Per te?
La scissione dal Pd ha avuto una comprensibile motivazione legata alla sopravvivenza del gruppo dirigente della minoranza Pd: Renzi, facendo le liste, li avrebbe “sterminati” e dunque i vari Bersani, Speranza, D’Alema hanno preferito farsele da soli le liste. Da questo angusto ma comprensibile punto di vista hanno avuto quasi ragione. Quasi perché non sono tornati in Parlamento il personaggio più autorevole della compagnia, Massimo D’Alema, e il quarantenne più brillante, Pippo Civati. Dopodiché la vera operazione politica mancata è un’altra: dare vita ad una socialdemocrazia di sinistra, grintosa, credibile e innovativa nella difesa dei più deboli.

Visto il grande successo dei 5stelle al  Sud, qualche osservatore ha parlato  dei 5stelle come il nuovo partito della nazione (che era il sogno di Renzi). Insomma un partito di raccolta di ogni ribellismo contraccambiato da assistenzialismo (o per essere più eleganti da un Keynesismo un pò raffazzonato). Insomma la III Repubblica nasce con ricette vecchie…
Il partito della Nazione è il partito che parla – o prova a parlare – a tutti. Fino alla recente campagna elettorale i Cinque Stelle parlavano soltanto agli arrabbiati, al popolo del “vaffa”. Al quale hanno aggiunto, in extremis, il messaggio agli elettori interessati ad una forza capace anche di governare. Ed è vero che la presenza di questo Movimento è la più omogenea sul territorio. Ma  un certo eclettismo delle proposte programmatiche ci dice che quella del partito della Nazione una suggestione ancora molto lontana.

A sentire Salvini, ormai leader incontrastato del centrodestra, è parso molto convinto delle sue ragioni. E’ nota una incompatibilità di cultura con  l’Europa. Pensi che davvero Berlusconi si faccia fagocitare?
Nel tentativo di formare un governo, si giocherà il secondo tempo della sfida tra Salvini e Berlusconi. Una sfida molto personale e personalistica :per ora non affiora una sincera, disinteressata e patriottica vocazione a dare un governo al Paese.

Secondo te Di Maio, stando agli ultimi comportamenti, è più compatibile di Salvini rispetto all’Europa ?
In questi giorni i due vincitori delle elezioni sono apparsi entrambi molto rassicuranti. Anche con Bruxelles. Chi dei due riuscisse a formare un governo (inevitabilmente coalizionale) finirebbe per avere un rapporto dialettico ma non distruttivo con l’Ue.

Torniamo a Renzi e al PD. Le sue dimissioni “a scadenza” accompagnate dall’attacco a Mattarella e Gentiloni sono state una brutta vicenda. L’impressione che ha fatto, almeno a me, è stata quella  di un “capriccio”. Certo vi sono ragioni   politiche non secondarie. Renzi non accetta autocritiche e nel partito c’è il rischio nell’ennesima faida. Pensi che sia reale?
Se Renzi si dimetterà formalmente e solennemente davanti alla Direzione del Pd, saremo (o saremmo) davanti ad una sequenza esemplare: un leader che ha perso, lascia il campo e non preannuncia ri-candidature. A quel punto si aprirà una dialettica fisiologica tra diverse opzioni di partito e di leadership, un processo molto democratico. Vedremo se si concluderà tra 40 giorni con la cooptazione di uno dei maggiorenti, oppure fra tre mesi, con l’elezione popolare di un leader dopo un confronto serrato. Se venissero sospese le Primarie, sarebbe oggettivamente un passo indietro, un ritorno alla democrazia delle elites: Renzi è stato l’artefice del Rosatellum, ma si è dimesso, gli altri affosserebbero le Primarie: un esito paradossale.

A leggere alcuni commenti di personaggi, culturalmente di area ex-democristiana, in cui si afferma che uno degli obiettivi politici da raggiungere è quello di “costituzionalizzare ” il movimento 5stelle. E questo favorirebbe un possibile accordo tra PD e 5stelle (ma su questo c’è da segnalare la posizione contraria del massimo esponente di area ex dc, nel PD Dario Franceschini). Tutto questo, si sa è cultura morotea, riveduta e corretta per i tempi. Sono cose troppo raffinate?
Difficile valutare se sia moroteo e dunque strategico, immaginare un accordo di governo con i Cinque Stelle. Per ora chi vi allude, lo fa in modo tattico. Senza respiro.

Intanto va segnalata la rottura tra Gentiloni e Renzi. Come si svilupperà? Tra i possibili scenari, di questa fase complicata, c’è chi addirittura pensa che Renzi, se non riuscisse a mantenere l’unità sulla linea politica, possa costituire il suo partito alla Macron. Fantapolitica?
Se sia fantapolitica lo vedremo. Ma se mai fosse, sarebbe piccolo cabotaggio: la terza forza europea, tra Ppe e Pse, che Macron vagheggiava con due personaggi che ambivano a governare (l’italiano Renzi e lo spagnolo Rivera, non c’è più.

Fine del “renzismo” o fine del PD? Intervista a Sofia Ventura

Matteo Renzi in conferenza stampa (Ansa)

Matteo Renzi in conferenza stampa (Ansa)

 Mentre la cronaca della politica fa registrare quanto sia complicatissimo far partire la legislatura, Il clamoroso risultato di domenica scorsa continua far discutere l’opinione pubblica, e continuerà a farlo  ancora nei prossimi mesi.  Il PD intanto cerca di riorganizzarsi. Lunedì si svolgerà la direzione nazionale, la prima senza Matteo     Renzi. Ma da quel risultato sorge una domanda strategica: è la fine del “renzismo” o la fine del PD? Ne parliamo con Sofia Ventura, politologa, docente di Scienza Politica all’Università di Bologna.

 

 

Sofia Ventura (Ansa)

Sofia Ventura (Ansa)

Professoressa Ventura, il risultato clamoroso di domenica, che ci consegna due vincitori Lega e Movimento 5stelle, che ha fatto segnare la disfatta del PD a guida renziana. Quindi si può dire che segna anche la fine di un progetto, di una idea di politica “creata” da Matteo Renzi (rottamazione. allargamento del consenso politico verso ceti moderati, iper decisionismo, ecc). È così?
Questa sconfitta clamorosa, 5 milioni di voti in meno rispetto alle europee del 2014, 2 milioni e mezzo rispetto al voto legislativo del 2013 e quasi sei milioni persi dalle legislative del 2008, segna probabilmente la fine del progetto del Pd nel suo insieme. Un progetto in realtà mai veramente decollato, segnato da un peccato originale, ovvero essere soprattutto lo strumento per due gruppi dirigenti in difficoltà (Ds e Margherita), per sopravvivere e continuare a svolgere un ruolo nelle istituzioni, usando le stesse istituzioni come risorsa di potere. Un peccato originale che spiega anche la scarsa capacità di sviluppare una visione culturale comune e convincente, forse anche a causa di un altro vizio di origine, ovvero la pretesa di trarre una visione riformista da due culture, quella comunista (e post-comunista) e quella dell’ultima Dc, che di riformista avevano davvero poco, ignorando la forza storica e intellettuale del riformismo socialista.

Renzi si è inserito nella lacerante crisi della breve esperienza del Pd, utilizzando innanzitutto quelle forme di democrazia diretta, le primarie, che all’inizio avevano avuto solo un ruolo legittimante di scelte compiute altrove e che con lui si trasformano in un vero e proprio oggetto contundente, in uno strumento di sfida e cambiamento. Purtroppo la sua spinta propulsiva non è andata molto oltre. Dopo l’ondata legittimante di elezioni dirette (la sconfitta più che onorevole del 2012, la vittoria del 2013), ha proseguito con l’onda rottamatrice e delle promesse mirabolanti, in un gioco di sfide continue, senza fermarsi a pensare e a mettere in campo un vero progetto politico e di partito. La speranza di allargamento verso nuovi elettori centristi, dopo l’illusione del 2014, è così naufragata di fronte alla pochezza del progetto e della leadership, mentre i ceti popolari e, più in generale, l’universo dei non garantiti, ai quali non è stato rivolto alcun messaggio, hanno continuato a spostarsi verso altri lidi.

 Sappiamo quanto sia facile per questo Paese innamorarsi del leader carismatico di turno, ed è un limite questo d cultura politica, eppure fino a poco tempo fa il renzismo aveva segnato, per molti italiani, un segno di speranza. Quali sono state, secondo lei, le cause della sua crisi profonda?
Innanzitutto la debolezza intellettuale e culturale, l’assenza di una visione, dello sforzo di costruire una visione andando oltre alcuni slogan e luoghi comuni. E qui forse il riformismo socialista (pensiamo solo ai “meriti e ai bisogni” di Claudio Martelli) avrebbe aiutato. Invece ci si è accontentati della eco di un blairismo orecchiato in un mondo profondamento cambiato. Peraltro senza interrogarsi su quali settori di una società profondamente mutata dovessero essere individuati come principale target, dimenticando i più svantaggiati e illudendosi che il modo fosse fatto di start up. Quindi l’ossessione per il consenso a qualunque costo, che ha prodotto un atteggiamento ambiguo, oscillante tra la pretesa di essere forza responsabile e l’inseguimento delle parole d’ordine della nostra anti-politica, dalla propaganda anti-casta al ritmo intermittente di europeismo/anti-europeismo. Una ossessione, tra l’altro, legata anche ad una ambizione smodata, un inseguimento del potere e del successo a prescindere attraverso un procedere meramente tattico, a detrimento di una visione strategica. E l’incapacità di auto-critica, di apprendere dagli errori, come si nota anche dalla sconcertante reazione di Renzi di fronte alla sconfitta del 4 marzo (“ah sì, avete vinto? e allora adesso voglio proprio vedere!” “Noi? Noi abbiamo fatto cose meravigliose, voi non avete capito, forse non abbiamo comunicato abbastanza bene, ma ora ricominciamo e vedrete. Il passato? Quale passato?”). Infine l’incapacità di costruire, forse la non volontà di costruire, un serio gruppo dirigente, fatto non solo di yes men e yes women, ma di persone capaci e con pensiero critico (e il coraggio di esprimerlo), oltre che il totale disinteresse per un partito, già ereditato in pessime condizioni (si pensi al potere del micronotabilato e dei potentati locali) e lasciato in quelle condizioni.

Eppure una qualche idea positiva l’aveva, per esempio la non ideologizzazione della politica. O forse è anche questo un limite?
Liberarsi dai lacci di una visione arcaica, fuori tempo, della politica e della sinistra è stato certamente un merito del renzismo. Purtroppo, però, a quella visione è stata sostituita solo una debole e nebulosa ‘mentalità’. Anche destrutturare e sconfiggere l’oligarchia che aveva soffocato lo sviluppo del Pd è stato un merito, ma, anche qui, vediamo che a ciò si è sostituito un personalismo altrettanto inefficace in relazione alla possibilità di costruire qualcosa di nuovo, dal punto di vista organizzativo e del pensiero.

In prospettiva, conoscendo il personaggio, Renzi potrebbe essere tentato di fare un partito tutto suo?
Non lo escluderei. Sarebbe in linea con il suo esasperato narcisismo. Ma credo che gli manchino le risorse materiali e intellettuali, le capacità organizzative e anche comunicative (al contrario di quanto alcuni ritengono Renzi non è affatto uno straordinario comunicatore) per realizzare un tale obiettivo e avere successo. Certo, avrebbe comunque un certo seguito, poiché in questi anni si è formato un gruppo di elettori-seguaci (e qui richiamo la forza del narcisismo, non solo dei leader, ma anche dei seguaci, quando questi sono alla ricerca di una identità che trovano nella fedeltà al loro amato leader), un po’ come nel caso di Berlusconi. Ma in generale mi pare che l’immagine di Renzi si sia ormai logorata.

Adesso per la Sinistra italiana si apre una fase di “rigenerazione”. Da dove ripartire secondo lei?
Da zero. Anzi, da meno uno, rimettendo in discussione tanti suoi totem e guardando a come funziona il mondo reale. Ma ci vorrà tanto tempo e forse una nuova generazione.

Ultima domanda: quale strada per far partire la legislatura?
Non ne ho la minima idea. Vedo una destra cannibalizzata dalla Lega, e forse anche il drastico rimpicciolimento di una domanda di destra liberale e popolare (che già non è mai stata molto ampia), un partito che ha scarsa dimestichezza con le regole del gioco liberal-democratico e possiede un ceto politico e una leadership al di sotto della soglia della decenza, nonché modalità di funzionamento opache (il M5S), una sinistra al capolinea. Osservo e spero vi possano essere tempi migliori.

 

Dopo il voto, come cambia il sindacato.

Intervista a Giuseppe Sabella

 

 

Non c’è che dire, queste elezioni politiche saranno ricordate come quelle che hanno stravolto un quadro di potere. Che poi, come dice qualcuno in maniera esagerata, sia l’inizio della Terza Repubblica – o il ritorno alla Prima – questo è da vedere. Quel che è certo è che anche il sindacato non può non considerare la prepotente espressione di un nuovo orientamento politico. E con questo è chiamato a misurarsi. Ne abbiamo parlato con Giuseppe Sabella, direttore di Think-in e esperto di industria e sindacato.

Direttore, quali sono secondo lei le riflessioni che si stanno consumando nel sindacato?

Il sindacato, in generale, in questi anni non ha brillato per capacità di comprensione del cambiamento. Quindi, non è per nulla scontato che tra i vertici delle organizzazioni sindacali fosse previsto questo risultato. Intendo dire che, forse, le idee del tutto chiare ancora non ci sono, perché – comunque la si voglia vedere – la pesante affermazione del M5S e della Lega rappresentano uno shock per il sistema. Ovvio che anche tra il sindacato emergeranno nuovi orientamenti, semplicemente per una questione di sopravvivenza.

Eppure negli ultimi due anni si sono registrate novità importanti: il rinnovo del CCNL metalmeccanico e le innovazioni introdotte, la detassazione strutturale del salario di produttività, il piano Calenda e le sue misure per il sostegno all’innovazione d’impresa… non siamo forse su una buona strada per l’economia e il lavoro?

Tutti gli interventi che lei ha citato sono ottimi e, in alcuni casi, sono cose di cui si è parlato per anni e alle quali solo nell’ultima legislatura si è stati capaci di dare concretezza. Ma credo che in questi anni si sia giocato molto in difesa. Il basso livello dei salari in Italia è un problema troppo grande per essere lasciato alla contrattazione di secondo livello. Nel senso: se cresce ricchezza ce la dividiamo, bene. E se non cresce? Lasciamo i lavoratori e le loro famiglie in crisi perenne?

E quindi? Come si fa a crescere il livello dei salari in presenza di poca crescita economica?

Sulla questione salariale credo sia necessario un cambio di rotta. È chiaro, tuttavia, che molte aziende rischiano di andare in seria difficoltà in presenza di aumenti salariali. Tuttavia, con misure opportune che possono essere messe in campo, questo risultato può essere perseguito. Per esempio, tagliando il cuneo fiscale.

Ok, ma servono le coperture…

Vero che servono le coperture. Ma se la Spagna è riuscita ad attuare una riforma fiscale nel 2014, proprio con la finalità di dare respiro a famiglie e imprese, perché non lo può fare l’Italia? È chiaro che tutto ciò non può non essere negoziato con Bruxelles – certamente si va nella direzione di aumentare il deficit – ma più liquidità per lavoratori e imprese significa più consumo e più lavoro. E così il circuito dell’economia può trarne vantaggio e gradualmente ridurre il deficit. I sindacati devono battersi insieme, anche alla Confindustria, e pretendere che il prossimo governo attui una riforma fiscale. Certo, l’Europa può concedere flessibilità in presenza non solo di buone riforme ma anche di un progetto di riduzione della spesa pubblica.

A livello di riforma fiscale, il Centrodestra spinge per la FlatTax. Cosa ne pensa?

A parte che la stessa proposta è stata presentata diversamente da Salvini e Berlusconi. Quindi difficile commentare una proposta di cui al momento non si conosce fino in fondo il contenuto. Detto questo, secondo me la FlatTax potrebbe funzionare solo in presenza di una No Tax Area molto più alta delle cifre che girano. Tuttavia, una riforma fiscale seria non vuol per forza dire FlatTax.

La Cgil quest’anno avrà il suo congresso. Si tratta di un evento importante, la Cgil resta il maggior sindacato italiano. Da un punto di vista del merito, e non solo, quale può esserne l’esito?

La speranza è che arrivi un segnale forte. Credo che in casa Cgil si stiano preparando nel modo migliore al Congresso, visto che lo hanno spostato a fine anno (era previsto a maggio). Stanno lavorando molto sul tema dell’industria e dell’innovazione di impresa, credo che si debba guardare a ciò che succederà con molta attenzione. Detto questo, dal Congresso uscirà un nuovo Segretario Generale. E, sulla base di chi sarà, capiremo molte cose e l’orientamento che la Cgil si darà.

Chi secondo lei sarà il nuovo Segretario della Cgil?

Mah… da ora a fine anno potrebbe cambiare tutto. Ci sono sindacalisti molto preparati di cui in questo momento si fa il nome, vedi Vincenzo Colla, Franco Martini, Serena Sorrentino… Tuttavia, stante il clima politico, credo che se la Cgil uscirà da questo congresso con una chiara proposta sindacale, Maurizio Landini sia l’uomo che può far bene non solo alla Cgil ma all’intero movimento.