Dove va il PD? Intervista a Giorgio Tonini

Sono giorni di forte tensione all’interno del PD. La minoranza  è sempre più critica nei confronti del segretario-premier Matteo Renzi. Come si svilupperà il conflitto nel Pd? Ne parliamo con  Giorgio Tonini, Vice Presidente del gruppo PD al Senato e membro della Segreteria Nazionale.

Senatore Tonini, lunedì scorso la direzione ha ratificato, con un voto “bulgaro” (o “nordcoreano”, veda Lei..), la linea del Premier Renzi sulla legge elettorale. Il prezzo però è pesante, il partito si è ancora una volta spaccato. Insomma dopo l’elezione di Mattarella è stato un crescendo di  divisioni…Avanti di questo passo la scissione è dietro l’angolo. Non le sembra così?

La Bulgaria è da tempo un paese democratico, membro a pieno titolo dell’Unione europea. Quanto al paragone con la Corea del Nord, bisogna decidersi: o si dice che il Pd è un monolite, nel quale il dissenso è vietato, come a Pyongyang, o si dice che è un partito in preda alle divisioni interne. A me pare che non sia vera né l’una né l’altra caricatura. Il Pd è uno dei pochi, forse l’unico partito che possa definirsi democratico. Certo non possono definirsi democratici né Forza Italia, né il Movimento Cinque Stelle. E neppure la Lega: ha visto come è stato licenziato Tosi? Il Pd invece, come avviene in ogni corpo democratico, ha una maggioranza che governa il partito e una minoranza, nella quale sono presenti diverse sfumature critiche. Tra maggioranza e minoranza, si dialoga e si polemizza, ci si confronta e ci si scontra. Poi, ad un certo punto, si vota. Così è avvenuto sulla riforma elettorale. Un primo testo, approvato alla Camera un anno fa, è stato oggetto di molte critiche da parte delle opposizioni in Parlamento e della minoranza del Pd. Sulla base di quelle critiche, il testo è stato profondamente rivisto al Senato. La minoranza del Pd propone ora nuove modifiche, peraltro non tutte ben identificate. Lunedì in direzione la maggioranza del partito ha invece condiviso l’opinione del segretario Renzi che il tempo della discussione è finito ed è arrivato il momento della decisione. Si può non essere d’accordo, ovviamente, ma dove starebbe la ferita alla democrazia? Sono due anni che il Parlamento si sta occupando di riforma elettorale. Nel 1993, per approvare la legge Mattarella, bastarono quattro mesi. Quanto alla scissione, non mi pare proprio che sia dietro l’angolo. Si può uscire da un partito, perché si verifica un dissenso su questioni di fondo. Onestamente non mi pare che si possa rompere il Pd sulla questione se sia preferibile eleggere la quota bloccata di deputati con l’uninominale di collegio, come dice la maggioranza, o col listino regionale, come propone la minoranza…

Civati parla di elettori in fuga, certo è che, per alcuni, il PD sta diventando stretto. La “ditta” che fine ha fatto? Non vede il rischio  alle prossime regionali che si ripetano, in altre realtà,  fenomeni come quello dell’ Emilia Romagna, ovvero di una astensione dal voto di molti elettori del PD?

Gli elettori vanno riconquistati ogni volta e dunque stiamo alla larga da ogni trionfalismo. Però, che si possa dire che sarebbe in atto una fuga di elettori dal Pd mi pare grottesco. Renzi ha ripreso, rilanciato e in gran parte attuato l’intuizione originaria di Veltroni, del Pd come partito “a vocazione maggioritaria”, ossia capace di rappresentare ampi strati della società italiana, ben al di là dei confini tradizionali della sinistra, che peraltro, di recente, ai tempi della “ditta”, si erano molto ristretti. Il risultato della svolta renziana è stato lo storico 41 per cento che ha proiettato il Pd alla posizione di partito più votato d’Europa. Alle ultime elezioni regionali si è verificato un calo della partecipazione al voto che ha assunto le dimensioni di un crollo. Il rischio che questa tendenza all’astensione si confermi alle prossime elezioni è molto alto e deve interrogare anche il Pd. Ma non è solo un problema del Pd, anzi è un problema che tocca il Pd un po’ meno degli altri, se è vero che il Pd le recenti regionali le ha vinte. Speriamo che alle prossime elezioni regionali si confermi lo stesso risultato, magari con una partecipazione al voto più larga. Perché questo succeda, penso che il Pd debba dare agli elettori il chiaro messaggio che si sta battendo con tutte le sue forze per le  cambiamento del paese, sul piano della qualità della democrazia, su quello dell’efficienza economica e su quello della giustizia sociale.

Parliamo sempre di elezioni regionali.  E’ una partita importante per il suo partito. Vi sono situazioni imbarazzanti, definiamole così, vedi la Liguria e la Campania. In Liguria c’è un  vero e proprio disastro politico del PD: una “renziana”, supposta tale, Paita simbolo della vecchia “nomenklatura”, che si è imposta nelle primarie con l’aiuto di personaggi discussi del centrodestra, e in Campania avete un altro candidato molto controverso: De Luca. In Liguria il disastro è compiuto, infatti correrà anche un candidato “civatiano”. Come pensate di risolvere il “caso”  DE Luca?

 

Io non penso affatto che le primarie in Liguria siano state un disastro politico. Sono state un confronto democratico vero, molto partecipato, che ha visto confrontarsi tra loro, in modo anche aspro, due personalità che certamente incarnano due linee politiche divergenti e modi diversi di pensare il Pd e la sinistra. Alcuni episodi controversi non hanno inficiato né l’esito né la qualità del voto. Ora la candidata, del Pd e dei suoi alleati, alla presidenza della Regione è Raffaella Paita, che non è affatto il simbolo della vecchia nomenclatura, è una donna giovane, un assessore uscente, con una buona esperienza amministrativa e una linea politica in sintonia con la “vocazione maggioritaria” di Renzi. Ho partecipato un mese fa ad una sorta di “Leopolda genovese” a sostegno della Paita e ho visto una grande e bella assemblea di popolo, alla quale hanno attivamente preso parte, come è giusto è bello che sia, anche molti che alle primarie avevano sostenuto Cofferati. Più complessa la situazione in Campania, dove le primarie hanno visto il confronto tra due esponenti storici come De Luca e Cozzolino. Non è una notizia, ma certamente un problema aperto, che nel Mezzogiorno la rivoluzione renziana stenta a farsi largo nei territori, più ancora che nel Centro-Nord.

Ogni giorno è un “rosario” di scandali  di corruzione. Un  buco nero insopportabile. E il PD è investito in pieno dalla questione morale. L’ultimo caso del Sindaco di Ischia è l’ennesima conferma di questo. E l’elenco è lungo. Non sarebbe il caso che Renzi, invece che martellare chi dissente da lui, cominciasse a prendere decisioni radicali? Insomma vi rendete conto, voi della segreteria, che c’è del marcio al vostro interno? Avete la percezione di quello che avviene alla “periferia dell’impero”? 

La lotta alla corruzione è uno degli assi fondamentali dell’azione del governo Renzi e del nostro lavoro parlamentare. Ne sono prova l’attivismo del giudice Cantone, presidente dell’autorità anticorruzione nominato dal governo Renzi, o la severità, per non dire la durezza, delle norme anticorruzione che sta introducendo il Parlamento con il ddl che proprio in questi giorni è all’esame del Senato: una vera e propria legislazione di emergenza, paragonabile a quella introdotta nel passato contro il terrorismo o la mafia. E se si vanno moltiplicando le inchieste contro piccoli e grandi corrotti e corruttori in giro per l’Italia, è anche perché la magistratura sa che dal Pd non solo non verrà opposto alcun ostacolo alla sua azione inquirente, ma le sarà offerta piena solidarietà e collaborazione. Poi c’è il tema, tutto politico, del rinnovamento del Pd sul territorio. Da molte parti la rivoluzione renziana non è mai arrivata, se non in forme gattopardesche. Ma non si può paventare l’uomo solo al comando e poi rimproverare a Renzi di non avere doti taumaturgiche…

Parliamo di Landini. Renzi lo ha definito un “soprammobile” da talk show. Uno scambio di “cortesie”… Certo è che Landini è un leader,  sia pure con dei limiti. Eppure si fa portavoce di bisogni e delle aspettative che non dovrebbero essere estranei ai “democrat”… non trova eccessivo snobbare quel mondo?

Se per “quel mondo” si intende il mondo operaio, il Pd di Renzi alle europee si è affermato come il primo partito tra le tute blu: era solo il terzo un anno prima, ai tempi di Bersani, terzo dopo Grillo e Berlusconi. Del resto, il governo Renzi sta dispiegando una politica economica e sociale che ha posto al centro la crescita e il lavoro, come non aveva fatto nessun governo da decenni a questa parte. Se invece per quel mondo si intende la sinistra radicale, sindacale o politica, in tutto l’Occidente ha rapporti dialettici con la sinistra riformista. Il Pd è in Europa il primo partito del Pse ed ha stretto un rapporto profondo coi democratici americani. La sinistra antagonista è contro l’euro, considera Draghi un nemico del popolo e identifica i diritti dei lavoratori con le forme storiche concrete che essi hanno assunto nel secolo scorso. Mentre invece l’unico modo per dare futuro ai diritti è rinnovare profondamente gli istituti posti a loro presidio, a cominciare dallo Statuto dei lavoratori. Il voto operaio a favore del Pd, come le sconfitte della Fiom, in particolare ad opera della Fim-Cisl, in molte recenti vicende sindacali, sono la prova che il mondo del lavoro sta in larga maggioranza dalla parte dei riformisti e non da quella dell’antagonismo sociale o politico.

Veniamo al premier Renzi. L’ottimismo della volontà è sempre una cosa positiva, perché stimola ad operare. Ma c’è anche da fare i conti con una realtà dura. Gli ultimi dati Istat sono un richiamo. Infatti , la disoccupazione torna a salire (12,7%). A febbraio diminuisce il numero di occupati di 44 mila unità rispetto al mese precedente. Il tasso di occupazione è al 55,7%, in calo di 0,1 punti sul mese e in crescita di 0,2 punti sull’anno. Insomma troppo ottimismo?

Il governo e il Pd hanno sempre espresso grande fiducia sulle possibilità dell’Italia di uscire dalla crisi. Ma anche la consapevolezza che ciò sarà possibile solo se l’Italia riuscirà ad imprimere una significativa correzione di rotta alla linea di politica economica dell’Unione europea e se saprà mettere in campo le riforme necessarie a rendere il nostro paese più competitivo sui mercati internazionali, più attrattivo per gli investimenti, più giusto sul piano sociale. Su entrambi questi fronti, governo, maggioranza, Pd, stanno lavorando intensamente e si cominciano a vedere i primi frutti. In particolare i dati su crescita ed occupazione sono ancora ambigui: ci dicono che la fase dura della crisi è alle nostre spalle, ma anche che è ancora presto per dire che siamo in ripresa e, soprattutto, che hanno ricominciato a crescere i posti di lavoro. In un contesto come questo, la cosa più giusta da fare è continuare a battersi per il cambiamento e per un cambiamento che prenda forza subito, ora, adesso, senza perdere altro tempo, senza riportare il paese nella palude.

Ultima domanda: Lei, per compiti istituzionali, si occupa  di politica estera. Qual è la percezione in Europa del PD?

Il Pd, il suo leader e il suo governo sono guardati come un elemento di speranza nel cambiamento: in Italia e in Europa. Tutti quelli che hanno a cuore la costruzione europea fanno il tifo perché Renzi ce la faccia. L’alternativa è avvitarsi in uno scenario da incubo, che potrebbe riportarci agli anni più bui del Novecento

La politica nell’epoca dei trasformismi. Intervista a Pippo Civati

Trasmissione televisiva BallaròPippo Civati, deputato del PD, uno dei leader della minoranza interna del PD, ha pubblicato un saggio appena uscito nelle  librerie, dal titolo assai eloquente: “Il trasformista. La politica nell’epoca della metamorfosi”. Un’analisi sulle dinamiche del trasformismo in politica. In questa intervista, oltreché del libro, si parla anche della situazione interna al PD.

 

Civati, partiamo dal suo saggio, dal titolo volutamente polemico. Lei definisce il trasformista , in origine è così, come un “teatrante”, un “illusionista”,  un “vecchio” che si traveste da “nuovo”. Insomma, la sua analisi è realista e pessimista insieme: lei vede l’attuale fase politica italiana come il trionfo del trasformismo. Una malattia che lei vede annidarsi nella Sinistra. Allora le chiedo: per lei il “campione” attuale del trasformismo è Matteo Renzi?

 

Credo che in realtà si tratti di un fenomeno più grande di quello che possa riguardare una singola persona.  E’ uno schema politico, quello trasformistico, che conosciamo: è uno schema che prevede che ci siano larghe intese ,scambi di posizione, grandi accrocchi, soluzioni che all’inizio sono  fuori dal parlamento prima di tutto con il governo Monti che però era un governo di emergenza. Poi si è ripetuto nella scelta di formare un governo trasversale come quello di Enrico Letta che poi si è compiuto nel campione di disinvoltura politica che è stato Matteo Renzi nell’assumere la posizione di premier senza passare dalle elezioni scalzando proprio Enrico Letta.

Tutti meccanismi che poi vengono valutati soltanto sulla base del successo elettorale o del consenso che ottengono nella popolazione a posteriori che si basano su uno schema trasformistico che poi la politica intende estendere anche a livello locale. Conosciamo le vicende della Liguria della Sicilia e di altre  situazioni in cui si va verso un modello in cui ci sia un grande partito al centro in cui rientrano più o meno tutti e che poi dispone delle scelte dei cittadini che l’hanno votato.

 

Dove si manifesta il “trasformismo” Renzi?

 

Ma ripeto fosse da solo sarebbe  colpa sua. La responsabilità è molto più larga , si manifesta per esempio nelle scelte di un partito come quello di cui faccio parte che ha ribaltato la propria linea sul lavoro, che in questi giorni parla di sostegno alle scuole private, che ha cambiato anche il profilo sulle politiche ambientali scegliendo la strada del ministro Lupi. Anche in questo caso si vede come un fattore estraneo alla politica del centrosinistra si sia inoculato di fatto nelle proposte politiche del governo, quindi è uno schema molto più complesso non banale anche se sicuramente la rappresentazione è quella intorno al leader a cui attribuire tutti i meriti e tutte le colpe. Io cerco di fare un ragionamento un pò più profondo, non è del resto come già sottolineava lei non è la prima volta che ci sia in  Italia una sinistra che si trasforma in destra,  un tema che ci ha riguardato spesso, insomma una sinistra che deve abbandonare se stessa per diventare qualcosa di diverso.

A questo punto è legittimo chiedersi se sia ancora sinistra o se sia qualcosa di diverso.

 

 

Veniamo al PD. Per lei, come per altri, si sta trasformando nel “partito della nazione”, definizione assai ambigua, rischiando così di perdere i connotati di un partito di centrosinistra. Le chiedo, sinceramente, può essere una alternativa credibile di governo il “neo-frontismo popolare” (o coalizione sociale) di Landini, Revelli e altri?

 

Io credo che il problema sia quello di contrapporre dentro e fuori del Pd il progetto di un governo diverso che si basi su un manifesto condiviso con gli elettori, con i corpi sociali, con i corpi intermedi. Fanno bene Landini e Rodotà a richiamarci all’aspetto sociale; il problema però è dove finalizziamo questa sfida politica. Non deve essere soltanto una sfida di piazza, una sfida di numeri ma deve essere anche la soluzione per dare al Paese un governo diverso sulla base di una riflessione culturale che non scivoli via, sulla base di scelte chiare, di valori riconoscibili. E’ un lavoro che dobbiamo fare meglio  e che sicuramente non può non riguardare anche un pezzo di Pd perché non voglio credere che tutti si consegnino a questo destino.

Si tenga conto che c’è anche il caso di Milano per cui si dice che dopo Pisapia bisogna guardaci attorno, lo ha detto ieri il vicesegretario Guerini, dovremo guardarci intorno magari allearci con la destra o con un  pezzo di destra anche a Milano.

Insomma è abbastanza forte come soluzione, non credo che tutti la vogliano accettare.

 

Veniamo alla “minoranza” del PD. La galassia “renziana” si arricchisce ogni giorno di nuove “componenti”: l’ultima nata è quella dei “renziani di sinistra”. Vi stanno fagocitando? Come pensate di reagire?

 

Ma non lo so questi sono schemi interni di corrente, io sto parlando di qualcosa di diverso, il destino e la vocazione di un partito e il senso della nostra azione politica. Che ci sia una riorganizzazione nelle stanze del Nazareno è normale non mi piace neanche bollarla immediatamente come soluzioni che non mi interessano, però è chiaro che il problema è un pò più grande. Cioè  queste correnti  in quale direzione cambieranno il profilo del Pd, sapranno intervenire sulle politiche di Renzi, offriranno elementi di innovazione di cambiamento vero? Queste sono le domande.

 

Guardiamo fuori dal PD. La manifestazione di sabato della Lega ci mostra una destra sempre più aggressiva. La preoccupa Matteo Salvini?

 

Preoccupa più che altro per le cose che dice non tanto per il consenso elettorale.

Visto che c’è un dibattito molto forte è chiaro che a destra si pongano le stesse questioni che ci poniamo noi, con parole diverse e opposte alle nostre.

Anche per loro il destino sarà quello di arrivare ad un unico partito di centro. Chi è più di destra, a costo di imbarcare anche forme  fascisteggianti come quelle di Casa Pound, si chiede se sia il caso di costruire una destra che abbia valori di rifiuto completo ma che qualcuno vede come posizioni che devono essere rappresentate.

 

Ultima domanda: Lei crede ancora nel PD? Oppure pensa che ormai è arrivato il tempo di una scissione?

 

A me la parola scissione non piace, non credo che si tratti di questo anche perché sono uno dei pochi a porsi il problema di quanto si possa rimanere in uno schema che non si sente proprio, altri sono molto più sereni, comunque non considerano neanche l’ipotesi.

Il problema vero glielo pongo in questi termini: se i miei elettori quelli delle primarie, quelli che mi vogliono bene, che mi vogliono più bene, forse, e mi vogliono ancora bene, speriamo, se non votano più il partito democratico a me si pone un problema direi quasi “ontologico” e quindi io non sto a fare operazioni politiche o tatticismi. Sono rimproverato di essere incerto.

In realtà mi si pone un problema epocale, lasciare un partito così considerandolo perduto  non è una cosa banale perché dispiace, io ci credevo, io vengo dall’Ulivo, non certo della sinistra rivoluzionaria.

Vorrei una sinistra di governo e la domanda che mi pongo tutte le sere prima di addormentarmi è: come si fa ? Quando trovo la soluzione sarete i primi a saperlo però non è facile e chi lo bolla come mancanza di coraggio o come incertezza esistenziale secondo me fa un gioco divertente perché la satira il sarcasmo quando non sono troppo cattive a me piacciono anche, i politici se lo meritano. Però la questione non è di facile soluzione, a me piacerebbe un contesto grande in cui far vivere quei valori di cui le dicevo, di fare una battaglia minoritaria non mi interessa o si riesce a costruire una sinistra di governo con il Pd, io sarei felicissimo, senza il Pd è più complicato farlo ma forse diventa sempre più urgente.

L’Era di Mattarella. Intervista a Giorgio Tonini

Unknown

Per la nostra gente, il volto della Repubblica è quello che si presenta nella vita di tutti i giorni: l’ ospedale, il municipio, la scuola, il tribunale, il museo.

Mi auguro che negli uffici pubblici e nelle istituzioni possano riflettersi, con fiducia, i volti degli italiani:

il volto spensierato dei bambini, quello curioso dei ragazzi. 

i volti preoccupati degli anziani soli e in difficoltà il volto di chi soffre, dei malati, e delle loro famiglie, che portano sulle spalle carichi pesanti.

Il volto dei giovani che cercano lavoro e quello di chi il lavoro lo ha perduto.

Il volto di chi ha dovuto chiudere l’impresa a causa della congiuntura economica e quello di chi continua a investire nonostante la crisi. 

Il volto di chi dona con generosità il proprio tempo agli altri.

Il volto di chi non si arrende alla sopraffazione, di chi lotta contro le ingiustizie e quello di chi cerca una via di riscatto.

Storie di donne e di uomini, di piccoli e di anziani, con differenti convinzioni politiche, culturali e religiose.

Questi volti e queste storie raccontano di un popolo che vogliamo sempre più libero, sicuro e solidale. Un popolo che si senta davvero comunità e che cammini con una nuova speranza verso un futuro di serenità e di pace”.

Questa è la parte finale del discorso inaugurale del settennato, tenuto oggi alla Camera, del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Un discorso molto applaudito. L’intervento ci offre l’impianto che assumerà il suo impegno presidenziale. Per capire i possibili sviluppi abbiamo intervistato Giorgio Tonini, vicepresidente dei Senatori del PD e membro della Segreteria Nazionale del partito.

 

Senatore Tonini, oggi è iniziato il settennato di Sergio Mattarella alla Presidenza della Repubblica. Partiamo dal discorso alla Camera. Un intervento pacato ma molto fermo nei principi, e determinato nel prendersi le difficoltà quotidiane degli italiani, specie degli ultimi. Sembra che la cifra, la linea maestra, della sua presidenza sarà molto sociale. E’ così?

Penso di si. Il presidente Mattarella è un fine studioso e un uomo delle istituzioni. Ma la sua formazione e la sua lunga esperienza politica, vissuta in particolare nella sua Sicilia, hanno fatto maturare in lui una forte sensibilità sociale. A cominciare dalla questione sociale per antonomasia, la questione meridionale, con l’inestricabile intreccio tra sottosviluppo, criminalità organizzata e corruzione politica che la caratterizzano. Una questione nazionale, non solo per il peso delle regioni meridionali, ma anche per la pervasività di quell’intreccio perverso, che ormai affligge anche regioni che un tempo ne erano immuni. Penso che il richiamo su questi temi caratterizzerà il suo settennato, anche se non avremo da lui nessun cedimento a tentazioni demagogiche o populistiche, purtroppo tanto frequenti nel dibattito pubblico, quanto controproducenti.

 

Dunque la lotta alla mafia e alla corruzione viste come priorità. Anche questo è uno stimolo molto impegnativo per il governo…

Certo. Il governo Renzi ha avviato un lavoro importante in questa direzione, che ha già dato i primi frutti. Basti pensare alla istituzione dell’autorità anticorruzione e della nomina a presiederla di un magistrato esperto e appassionato come Raffaele Cantone. Ma molto è ancora da fare o almeno da completare. E il presidente della Repubblica sarà uno stimolo instancabile a fare di più e meglio.

 

Veniamo all’aspetto istituzionale-costituzionale. Riconosce l’esigenza di fare le riforme ma ha rimarcato il rispetto delle prerogative del Parlamento.  Per il premier questo è sicuramente un monito.  Per lei?

Mattarella ha sottolineato l’urgenza delle riforme, a cominciare da quelle costituzionali ed elettorali. Lo ha fatto con toni molto diversi da quelli che fu costretto ad usare, due anni fa, con voce rotta dall’emozione, Giorgio Napolitano. Ma allora, il presidente della Repubblica aveva dinanzi un parlamento che non era riuscito a fare nulla nella legislatura precedente e prometteva di non far nulla nemmeno nella presente. Oggi, il nuovo presidente si trova dinanzi ad un cantiere aperto, che ha portato l’opera ad uno stadio molto avanzato di realizzazione. Dunque Mattarella ha potuto limitarsi ad un incoraggiamento e alla precisazione che le riforme sono affidate alla sovranità del parlamento, come a voler rispedire al mittente l’invito, trasmessogli da più parti, a entrare nel gioco e a bloccare o a correggere questo o quell’aspetto delle riforme in fieri. Quanto ai rapporti tra governo e parlamento, le parole di Mattarella mi hanno fatto ricordare un celebre intervento di De Gasperi alla Camera dei deputati, durante il dibattito sulla cosiddetta “legge truffa”. De Gasperi ricordava come il procedimento “normale” fosse quello che garantiva all’opposizione tutto lo spazio per esporre le sue ragioni e alla maggioranza la possibilità di decidere in tempi certi. Ma se il procedimento normale viene stravolto dall’ostruzionismo da parte delle minoranze, osservava De Gasperi, è inevitabile che anche la maggioranza finisca per utilizzare gli strumenti offerti dal regolamento per arrivare ad una decisione, a cominciare dall’apposizione della questione di fiducia. Giustamente Mattarella ha ricordato che l’arbitro ha bisogno della collaborazione dei giocatori. E dunque della disponibilità del governo a limitare decretazione d’urgenza e fiducia solo ai casi di effettiva necessità, ma anche alla speculare disponibilità da parte delle opposizioni a non indulgere a forme di ostruzionismo.

 

Un Presidente che auspica la “correttezza” del gioco politico implica un salto di qualità delle forze politiche. Al di là della facciata, non trova che ancora vi siamo troppi rancori?

Questa legislatura si è aperta all’insegna della incomunicabilità tra i tre principali partiti nei quali si era diviso il corpo elettorale: Pd, Forza Italia, Cinque Stelle. È stato merito di Giorgio Napolitano convincere e anche un po’ costringere i primi due a dialogare e anche collaborare tra loro, se non per il governo, almeno per le riforme. Mattarella ha rilanciato questa costante della presidenza di Napolitano, anche con il non scontato invito a Berlusconi per la cerimonia al Quirinale, ma estendendola ai giovani parlamentari di Cinque Stelle, che pare abbiano molto apprezzato l’apertura nei loro confronti. Del resto, la concezione inclusiva della politica democratica e parlamentare è uno dei tratti più caratteristici della cultura politica dei cattolici democratici, da De Gasperi, a Moro, fino al Mattarella di oggi.

 

Veniamo al PD. Indubbiamente l’elezione di Sergio Mattarella è stato un bel colpo per Matteo Renzi e per il PD. Reggerà quest’unità? Oppure vede nuvole all’orizzonte?

Nel 2013 il Pd si era clamorosamente spaccato al suo interno, aveva fallito l’obiettivo di eleggere un nuovo presidente della Repubblica e si era presentato agli occhi degli italiani come una parte del problema, anzi l’epicentro della crisi politica del paese. Stavolta, grazie in particolare a Renzi, il Pd è riuscito a proporsi credibilmente come parte, la parte fondamentale, della soluzione. Renzi e il Pd hanno così brillantemente superato un importante e difficile esame di maturità. Penso che nessuno vorrà ora prendersi la responsabilità di disperdere questo grande patrimonio di credibilità e affidabilità. Un grande partito democratico può vivere e crescere solo se dimostra di saper sia discutere che decidere. È stato ampiamente ricordato, in questi giorni, l’episodio che vide protagonista Mattarella nel 1990, con le dimissioni da ministro, insieme ad altri tre colleghi della sinistra dc, per il decreto sulle tv. Pochi ricordano che i ministri dimissionari, da deputati, votarono comunque la fiducia al governo su quello stesso provvedimento che aveva provocato le loro dimissioni. La disciplina di partito valeva ancora: e parliamo della Dc alla vigilia della sua crisi finale, non del Pci degli anni ’50. Sarebbe bene meditare su quei passaggi, a mio avviso utili anche oggi per capire come si possa stare in un partito, discutendo e anche dissentendo nel modo più radicale nella discussione pubblica, ma poi uniformandosi nel voto in parlamento alla linea risultata democraticamente maggioritaria.

 

Veniamo al “Patto del Nazareno”:  Il centrodestra è un mucchio di macerie, non esprime più una leadership credibile. Come pensate di andare avanti?

L’elezione di Sergio Mattarella, su proposta di Matteo Renzi, dimostra che era vero che il cosiddetto patto del Nazareno non conteneva clausole o codicilli nascosti, ma era quel che diceva di essere: un accordo tra Pd e Forza Italia per le riforme, costituzionali ed elettorali, in nome del principio che le regole si fanno o si cambiano insieme, tra avversari. Io penso che il patto arriverà a portare fino in fondo i suoi frutti, del resto quasi maturi: sia la riforma costituzionale, sia quella elettorale sono vicine alla conclusione del loro iter parlamentare. Più complesso e delicato il discorso sul Nuovo centrodestra di Alfano, che si trova nella non facile condizione di dover spiegare come può stare al governo nazionale con Renzi e schierarsi alle elezioni regionali e locali con Berlusconi. La difficoltà di questo passaggio provoca una fibrillazione interna che deve essere rispettata. Ma anche gli amici del Nuovo Centrodestra, come noi del Pd, hanno la responsabilità di evitare che la loro dialettica interna finisca per rallentare il cammino del governo e delle riforme. La vita interna dei partiti è importante, ma guai se viene considerata più importante dei problemi del paese.

Riforma del “Terzo Settore”: a che punto siamo? Intervista a Luigi Bobba

Luigi Bobba (www.vita.it)

Luigi Bobba (www.vita.it)

Un’importante Riforma sta per essere varata dal Parlamento: si tratta della Legge di riforma del “Terzo Settore”. Ne parliamo con l’on. Luigi Bobba (PD), Sottosegretario al Welfare con specifica delega nei confronti del “Non Profit”

Sottosegretario Bobba, diamo qualche numero: quanto è grande la realtà del “Terzo Settore” in Italia?

L’ultimo censimento dell’Istat – maggio 2014 – ci restituisce un’immagine sufficientemente precisa e affidabile: sono più di 301.000 le organizzazioni non profit che l’Istituto di statistica è riuscito a raggiungere, attingendo ai molti registri in cui tali soggetti sono classificati.
Si tratta prevalentemente di associazioni non riconosciute di dimensioni medio-piccole; che operano nel campo sportivo, culturale e turistico (60%) o in quello socio assistenziale (23%), che mobilitano 4,7 milioni di volontari; che generano un PIL pari a circa 64 miliardi (4,2%) e occupano più di 700.000 persone. Diversamente da quanto si crede, tali soggetti associativi si finanziano mediante risorse private per il 65,9% (tessere, donazioni, vendite di beni e servizi) e, pur trovandoci di fronte a enti non commerciali, il 47% delle loro entrate deriva da vendite di beni e servizi. I loro bilanci però sono, per il 95% dei casi inferiori a 500.000 euro. Vi sono poi circa 3,1 milioni di volontari individuali e quasi il 26% della popolazione italiana ha effettuato una donazione per una finalità sociale.

Però dopo lo scandalo di Mafia Capitale, che ha coinvolto realtà della cooperazione, nell’opinione pubblica è aumentata la diffidenza nei confronti del “terzo settore”. Secondo lei è così? Quali strumenti per evitare il ripetersi di questi episodi?

Le vicende collegate allo scandalo “Mafia capitale” hanno certamente prodotto un danno rilevante in termini di reputazione a tutto il Terzo Settore e in particolare alla cooperazione sociale. Non bisogna però lasciarsi travolgere da questa ondata di giusto sdegno e intervenire in modo che casi simili non si ripetano. Le misure però devono essere appropriate in quanto, delle 301.000 organizzazioni censite dall’Istat, un terzo ha un bilancio inferiore a 5000 euro. Un altro terzo sta nella fascia da 5000 a 30.000 euro di bilancio; mentre più dell’80% delle risorse attivate dal terzo settore, ovvero 52 miliardi su 64 complessivi, è generato interamente dal 4,5% dei soggetti, ovvero poco più di 13.500 organizzazioni. E’ in questo segmento che occorre modificare regole, vincoli e controlli. In parte, con la Legge di stabilità, sono già state emanate alcune norme con questo scopo: per le cooperative sociali, gli affidamenti diretti devono essere sottoposti a procedure ad evidenza pubblica; inoltre, per i soggetti beneficiari del cinque per mille vi sarà l’obbligo di rendicontare con procedure trasparenti le risorse ricevute attraverso questo meccanismo fiscale.
Ancora, bisogna mettere mano al sistema di revisione dei bilanci delle cooperative affidato oggi alle Centrali Cooperative e al Ministero dello Sviluppo Economico (MISE). Il passaggio di questa funzione dal Ministero del Lavoro al Mise non ha certo migliorato l’efficacia dei controlli, disperdendo un prezioso patrimonio di competenze. Forse qui è necessario un ripensamento. Infine il Parlamento italiano sarà chiamato a recepire la Direttiva sugli appalti della UE del febbraio 2014. Tale direttiva, da un lato consente di utilizzare, a determinate condizioni, le “clausole sociali”; dall’altro prescrive che tali clausole si possano applicare se i destinatari degli interventi sono soggetti svantaggiati e se le imprese che li realizzano hanno una specifica qualificazione “sociale”.

Veniamo alla “Legge” per la Riforma del “Terzo Settore”. A che punto siamo?

La legge è all’esame della Commissione Affari Sociali della Camera. Si è conclusa la fase di discussione generale e sono stati presentati 430 emendamenti. In questa settimana e nel mese di febbraio verranno esaminati

Quali sono i punti “strategici” di innovazione? Quale sarà il principale vantaggio per il cittadino con questa riforma?

Il cuore della riforma consiste nel riordinare e riformare la disciplina dei soggetti del Terzo Settore alla luce del dettato costituzionale dell’art. 118, ultimo comma “Lo Stato, le Regioni, le Provincie, le Città metropolitane e i Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, nello svolgimento di attività di interesse personale, secondo il principio di sussidiarietà”. Un dettato semplice e chiaro ma spesso disatteso da una normativa cresciuta senza un disegno, a volte contradditoria e che rischia di complicare la vita ai cittadini che vogliono contribuire, associandosi, al bene comune. Per questo vogliamo arrivare a modificare il Codice Civile, per il riconoscimento di personalità giuridica; costituire un Registro Unico dei soggetti di terzo Settore e favorire quelle realtà che effettivamente generano un valore sociale aggiunto e promuovono la disponibilità all’impegno volontario. Vogliamo altresì riordinare la legislazione fiscale di settore. Vi sono poi due motori aggiuntivi della riforma: una revisione della disciplina del servizio civile per arrivare nel 2017 a 100.000 giovani in servizio; una riforma della legge sull’impresa sociale in modo di favorire la nascita di soggetti imprenditoriali capaci di generare innovazione sociale.

Torniamo al cammino della Legge. In commissione sono stati presentati, come lei ha detto. ben 430 emendamenti. Il PD, il suo partito, ne ha presentati più di cento. In estrema sintesi, che tipo di emendamenti sono? Cosa mettono in discussione della “Riforma”?

Distinguiamo: gli emendamenti dell’opposizione – in particolare dei Cinque Stelle – tendono a scardinare la riforma e ad impedire che si realizzi il disegno voluto dal Presidente del Consiglio. Gli emendamenti del PD e delle altre forze di maggioranza sono correttivi e integrativi. Li valuteremo con attenzione perché vogliamo arrivare ad un testo il più possibile condiviso e soprattutto ad una legge delega con principi chiari e innovativi. Così sarà facilitato anche il lavoro di stesura dei successivi decreti delegati.

Non c’è possibilità, quindi, di dialogo con il Movimento 5 Stelle?

Ho tentato un dialogo con il Movimento 5 Stelle anche prima che la Commissione avviasse l’esame del testo. Ma devo dire che sono deluso dalla linea che sembra prevalere nel loro gruppo politico. Nella discussione generale hanno esclusivamente messo in evidenza i fenomeni opportunistici, quando non illegali che sono presenti in questo mondo. Ma è una lettura che distorce completamente la realtà: il mondo associativo e volontario è un mondo fatto di milioni di persone che dedicano volontariamente tempo e capacità per il bene comune. Anche noi – come dicevano le linee guida – vogliamo distinguere il grano dal loglio. E cioè vogliamo che le risorse pubbliche siano effettivamente e interamente destinate a coloro che agiscono senza scopo di lucro, realizzano attività di interesse generale e producono un effettivo e misurabile impatto sociale. Il caso “Roma” ha poi enfatizzato questa propensione dei Grillini: ma così si finisce per voler statalizzare tutto, anziché promuovere la sussidarietà. Sono d’accordo con l’editorialista del Corriere della Sera, Mauro Magatti, che ha scritto che l’introduzione di norme più severe non è necessariamente una garanzia per vincere la battaglia contro la corruzione. Occorre invece ridurre l’area di intermediazione di risorse pubbliche soggette a decisione politica e chiamare in campo il Terzo Settore promuovendo regole e norme più semplici e trasparenti per l’identificazione dei soggetti nonché obblighi effettivi di rendicontazione sociale. Questa è la strada da seguire.

Ultima domanda: Il Premier Renzi aveva promesso entro Marzo la Riforma. Ci riuscirete?

L’impegno sarà rispettato. A Marzo, il provvedimento andrà in Aula alla Camera per l’approvazione. Nel frattempo avvieremo gruppi di lavoro per preparare i decreti legislativi. Entro metà 2015, la riforma dovrà essere operativa.

La grande partita sul Quirinale. Intervista a Marco Damilano

Marco Damilano (www.unibo.it)

Marco Damilano (www.unibo.it)

Il 2015 si apre con la grande partita dell’elezione del Presidente della Repubblica. Infatti, come annunciato nel suo discorso di fine anno, in questo mese, probabilmente verso la metà, Giorgio Napolitano darà le sue dimissioni. Come si svilupperà questo delicatissimo passaggio politico? Ne parliamo con Marco Damilano, cronista politico del settimanale “L’Espresso”.

 

Damilano, volendo fare un provvisorio, parzialissimo, bilancio di Napolitano come saranno ricordati questi anni?
«Come li ha ricordati lo stesso Napolitano nell’ultimo messaggio di fine anno. Anni di eccezionalità costituzionale. Per un doppio motivo. L’incrocio tra la crisi economica e la crisi del sistema politico nel 2011 che ha portato al governo Monti, fortemente voluto dal Quirinale. E la rielezione nel 2013, dopo l’impasse politico e costituzionale post-elettorale. Due eventi in cui Napolitano ha giocato un ruolo da protagonista. Con quali risultati? Il presidente ha messo al suo attivo l’uscita da una condizione pericolosa di instabilità. Però, parole ancora sue, “tutti gli interventi pubblici messi in atto in Italia negli ultimi anni stentano a produrre effetti decisivi” sul piano dell’economia. Non è responsabilità del presidente, ma governi da lui fortemente sostenuti si sono dimostrati inefficaci nell’affrontare la crisi».

Per alcuni sono stati gli anni della “Supplenza” nei confronti di una politica debole. Per altri, i suoi critici, Giorgio Napolitano ha incarnato una figura di Presidente della Repubblica che è andata oltre il dettato Costituzionale. Esagerazioni?
«Qualcuno parla rispetto ai poteri del Capo dello Stato di fisarmonica. Nel senso che si possono allargare o restringere a seconda delle necessità. Di certo Napolitano è stato un presidente molto sensibile alle dinamiche politiche, ha rappresentato l’unico punto di riferimento anche sul piano internazionale di una politica che tendeva a disgregarsi. Quando fu eletto la prima volta a maggioranza assoluta, nel 2006, il suo grande elettore fu Prodi e c’era il governo dell’Unione, si è trovato a dover sciogliere quasi subito le Camere nel 2008, ha gestito il centro-destra di Berlusconi nella fase di massimo potere e poi nel crollo, quindi ha visto l’ascesa del Movimento 5 Stelle e quindi di Matteo Renzi da cui lo dividono cinquant’anni di età e un abisso per origini culturali e approccio ai problemi, ma lo unisce una comune idea sul primato della politica. Il paradosso di Napolitano è stato il suo essere un presidente espressione del sistema politico tradizionale che si ritrova costretto a operare strappi continui rispetto alle regole materiali di quel sistema».

Veniamo al discorso di fine anno. Un addio per niente sereno, date le condizioni pesanti dell’Italia, con toni marcati di grande preoccupazione (dalla crisi economica alla corruzione). Ha lanciato però segnali molto chiari, verso la fine, a proposito del suo successore: ha parlato di “senso della Costituzione”. Un segnale forte ai “grandi elettori” del prossimo Presidente. E’ così?
«Sì, ma come abbiamo visto il senso della Costituzione cambia a seconda delle circostanze. In quella frase c’è chi vede l’indicazione di un giudice costituzionale: Sabino Cassese o Sergio Mattarella o Giuliano Amato. Oppure una figura come il magistrato Raffaele Cantone. A me sembra soprattutto che Napolitano voglia giocare un ruolo sulla sua successione. A differenza di Ratzinger che dopo le dimissioni non è potuto entrare nel Conclave che ha eletto papa Francesco, Napolitano come senatore a vita potrà partecipare, se lo desidera, all’elezione del suo successore».

Ogni elezione presidenziale ha una sua storia e un suo “regista”. Questa volta tocca a Matteo Renzi. Come si muoverà? Lucia Annunziata, nel suo editoriale su L’HuffingtonPost, parlava di due alternative per Renzi: o fare eleggere un “avatar” (una sorta di seconda figura in modo da non ostacolare la sua visibilità) oppure un suo “pari”, ovvero un Presidente di grande spessore capace di bilanciare, come è giusto nella logica democratica, il potere dell’esecutivo. E’ giusta, secondo lei, questa alternativa?
«L’alternativa è questa. Renzi intende normalizzare il sistema politico italiano riportando il cuore delle decisioni a Palazzo Chigi, dove c’è il capo dell’esecutivo, cioè lui. In sintonia, si dice, con quanto succede in Inghilterra o in Germania, dove la centralità del potere politico spetta al premier o al Cancelliere, non alla regina o al presidente federale. Il Quirinale interventista sarebbe in questo schema un’anomalia da chiudere. Io credo però che Renzi sappia anche che in Italia i poteri costituzionali del presidente sono diversi da quelli del presidente tedesco. E che un nome spendibile sul piano internazionale sia un aiuto anche per lui, soprattutto in caso di scontro con le istituzioni europee».

Berlusconi e il Movimento 5Stelle quanto influenzeranno la partita per il Colle?
«Berlusconi si è già messo in una condizione di subalternità: voterà il nome del Pd di Renzi chiunque egli sia. Ma questa disponibilità è destinata a far innervosire parecchia gente, nel Pd ma anche in Forza Italia. M5S è di fronte alla tentazione di entrare nel gioco, come ha già fatto con successo in occasione dell’elezione di una giudice della Corte costituzionale. Oppure restare nel gioco più tradizionale, restare fuori dalle trattative e gridare all’inciucio. Arma spuntata, però, come si è visto».

Ultima domanda: Di nomi se ne fanno tanti. Chi, secondo lei, ha più chance? Romano Prodi può farcela stavolta?
«Se Renzi se la gioca in senso alto, prova a chiudere con Forza Italia e con una parte di M5S un accordo sul nome di Prodi. È il candidato con il curriculum più prestigioso, da tempo non è più un uomo di partito, da uomo di Maastricht si è trasformato in uno dei critici più severi dell’austerità alla Merkel e ha una rete di relazioni internazionali impressionanti. A Berlusconi può garantire che la pace si fa con il nemico, tra gli iscritti al blog di Grillo è già stato inserito nella top ten dei candidati nel 2013 e se i deputati e senatori di M5S avessero avuto il coraggio di votarlo la storia sarebbe cambiata. Se invece l’elezione si trasforma in una ruota della fortuna da cui può emergere un nome più debole, la lista degli aspiranti diventa lunghissima. E pescare la carta vincente sarà come giocare al mercante in fiera».