Giorgio Napolitano: “Colpire i criminali e i corrotti ma l’ antipolitica è patologia eversiva”

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Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano

Quasi un testamento politico questa Conferenza del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che ha tenuto oggi all’ Accademia Nazionale dei Lincei. Il titolo “Crisi di valori da superare e speranze da coltivare per l’Italia e l’Europa di domani”.  L’intervento è  una critica severa all’antipolitica ma anche una durissima sferzata ai partiti colpiti dall’inchiesta romana. Giorgio Napolitano definisce l’antipolitica una  “patologia eversiva” ma  denuncia, facendo riferimento al recente scandalo che ha colpito il Comune di Roma, il grave decadimento della politica” che “senza moralità” degenera inevitabilmente nella corruzione. Di seguito pubblichiamo il testo integrale dell’ intervento:

Nel dare avvio al ciclo 2009-2010 delle Conferenze a Classi riunite, il Presidente Maffei pose drammaticamente l’accento sul degrado dei comportamenti sociali, alla base del quale stanno – egli disse – “la noncuranza e il disprezzo della cultura e più in generale la perdita di valori tradizionali…”. La sua diagnosi fu quella di una vera e propria “degenerazione o atrofia culturale del tessuto sociale, che tende a espandersi come una pericolosa epidemia”. Di qui venne l’invito a illustri oratori a sviluppare, in una serie di Conferenze a Classi riunite, l’analisi di così pericolose patologie e a suggerire contributi per averne ragione, in nome dei valori che l’Accademia ha il dovere di difendere e di trasmettere alle nuove generazioni nella loro sempre viva essenzialità.

E in effetti seguirono Conferenze ricche di problematiche e di riflessioni dalle quali emergevano esperienze e sollecitazioni riferite ai valori da ciascuno pensati e vissuti.

L’affettuosa insistenza del Presidente Maffei per associarmi a quest’esercizio si spiega, credo, con l’importanza che egli attribuisce al campo della politica come epicentro – ormai da tempo – dei fenomeni degenerativi denunciati e in pari tempo luogo deputato a combatterli. E’ comunque questo, chiaramente, l’angolo visuale dal quale posso pormi, considerata la durata e le caratteristiche di un’esperienza politica che ha abbracciato la mia vita fin dalla prima giovinezza, passando attraverso molte tensioni proprie del tempo che ho attraversato.

Tra le voci che si sono levate ai Lincei illuminando le radici antiche della nostra riflessione di oggi, mi piace richiamare quella di un maestro come Paolo Rossi Monti : “Nel primo Seicento” – egli disse nella Conferenza del 12 marzo 2010 – “tra le ragioni del rapido successo della scienza dei moderni, sta la piena e convinta assunzione, da parte dei sostenitori della nuova scienza, di quel mondo di valori che fanno riferimento all’appartenenza ad una comunità, ai doveri verso i cittadini, al bene comune”. Ebbene – lasciando nello sfondo l’analisi storica che a grandi linee Paolo Rossi poi evocò – penso che possiamo ancor oggi indicare in quei valori da lui citati la premessa essenziale di un qualsiasi riconoscimento delle ragioni della politica e quindi di ogni forma di partecipazione al suo esercizio complessivo.

Inutile dire che in periodi storici tra loro molto diversi e lontani, oscillanti e contradditorie sono state le sorti del processo di consolidamento di un’autentica identità e coscienza comunitaria, di una diffusa compenetrazione con le esigenze dei cittadini e con le istanze del bene comune. Nella prima metà del secolo scorso c’è stata in larga misura, nella nostra Europa, un’eclisse di quei valori, democratici e solidaristici, determinata dall’avvento e dal feroce dominio del nazifascismo. E ciò di cui discutiamo e ci preoccupiamo oggi – in questo inizio, ancora, degli anni 2000 – è, sia pure in ben altro contesto, di nuovo un oscuramento di parametri essenziali del comune vivere civile, tra i quali il rispetto della cultura e la cultura del rispetto : rispetto, innanzitutto, delle istituzioni e delle persone. Rischiamo, nella fase attuale, il logoramento e la perdita delle conquiste del periodo di riscatto e di avanzamento conosciuto dall’Europa nella seconda metà del Novecento.

Consentitemi qui almeno un breve richiamo alla stagione che vissi e di cui sono rimasto tra i sempre meno numerosi testimoni : la stagione della rinascita, in Italia, della politica come dimensione morale e ideale dell’essere persona e dell’essere cittadino. La politica sequestrata e stravolta dal fascismo in quanto regime liberticida e autoritario, in quanto monopolio del potere – repressivo di ogni confronto di idee e di posizioni – aveva visto staccarsi da essa, con disgusto e disprezzo, le nuove generazioni. La politica riapparve come qualcosa di nuovo e pulito attraverso i canali di un apprendistato giovanile anti-fascista nel pieno della guerra, e infine attraverso l’esperienza dirompente della Resistenza. Quel fenomeno venne analizzato da un giovane intellettuale straordinariamente dotato, che fu tra i primissimi caduti della nostra Resistenza, Giaime Pintor : e fu da lui identificato come “la corsa verso la politica” da parte dei migliori, simile “a quello che avvenne in Germania quando si esaurì l’ultima generazione romantica. Fenomeni di questo genere si riproducono ogni volta che la politica cessa di essere ordinaria amministrazione e impegna tutte le forze di una società per salvarla da una grave malattia, per rispondere ad un estremo pericolo”.

E in effetti, durò degli anni in Italia, oltre la Liberazione del 1945, quell’afflusso di massa di nuove energie all’attività politica, quello slancio di partecipazione che si accompagnò innanzitutto al processo costituente, fondativo di un nuovo ordine democratico nel nostro paese, e si tradusse in robusta crescita dei partiti politici, e in vitale competizione tra essi su basi formative e programmatiche serie e degne.

Nella complessa esperienza di più decenni di vita dell’Italia repubblicana, si succederono e via via si intrecciarono straordinarie trasformazioni e manifestazioni di progresso in senso economico, sociale, civile, culturale, e in pari tempo contraddizioni, ambiguità, deviazioni che avrebbero finito per inquinare gravemente la vita pubblica, lo sviluppo della società e i corpi dello Stato, fino a esplodere all’inizio degli anni ’90.

Non sto quindi – sia chiaro – tratteggiando un’evoluzione lineare e indolore dell’Italia rinata, dopo il fascismo e con la Costituzione, alla politica democratica nella ricchezza delle sue ispirazioni e nel rigore delle sue regole. Non potrei tendere a idoleggiamenti del genere, essendo stato tanto partecipe, anche con responsabilità rilevanti come Presidente della Camera dei Deputati, di un momento cruciale di emersione dei lati più deboli e oscuri di una prassi pluridecennale di gestione dei rapporti politici e del potere di governo.

E’ però vero che è tipico degli anni più recenti il declinare se non il dissolversi di valori e di costumi che avevano retto a lungo, ad esempio nella vita parlamentare, in quella sfera importante della politica che è stata sempre costituita dai rapporti in Parlamento tra tutte le forze politiche che vi fossero rappresentate.

Pur essendosi registrati già in periodi precedenti casi gravi di strappi alle regole e al clima abituali nelle aule parlamentari, mai era accaduto quel che si è verificato nel biennio ormai alle nostre spalle, quando hanno fatto la loro comparsa in Parlamento metodi e atti concreti di intimidazione fisica, di minaccia, di rifiuto di ogni regola e autorità, e in sostanza tentativi sistematici ed esercizi continui di stravolgimento e impedimento dell’attività politica e legislativa di ambedue le Camere.

Di che cosa si è trattato (ed è difficile pensare che stia per cessare)? Quando si verifichi quel che abbiamo potuto tutti seguire, attraverso le cronache televisive, il colpire cioè, impunemente, il funzionamento degli istituti principali della democrazia rappresentativa, non solo si stracciano in un solo impeto una pluralità di valori tradizionali o comunque vitali, ma si configura la più grave delle patologie con cui siamo chiamati come paese civile a fare i conti : quella che penso possiamo chiamare la “patologia dell’anti-politica”.

Essa si è espressa e si esprime in molte altre forme, fuori dal Parlamento, costringendoci a fare più complessivamente il punto sul travaglio che l’Italia ha vissuto dal 1992 ad oggi. Un moto di accesa contestazione nei confronti della politica, e per essa dei partiti e delle istituzioni rappresentative, si era fatto sentire fin dalla fine degli anni ’80 : reagendo ad abusi di potere, catene di corruzione, inquinamenti nella selezione dei candidati a incarichi pubblici e in generale nei meccanismi elettorali. Di qui lo stimolo e il sostegno all’opera della magistratura, simboleggiata dall’attività del pool Mani pulite. Far pulizia nel mondo della politica e riformare regole e istituzioni indubbiamente logoratesi o risultate inadeguate, apparvero i due imperativi della stagione 1992-94.

E risultati non certo irrilevanti si registrarono in ambedue i sensi : con un rimescolamento assai vasto dei gruppi dirigenti dei partiti, addirittura con la scomparsa o dispersione di alcuni di essi, e con la riforma delle leggi elettorali per il Parlamento e per i Comuni. E se si è detto molto su quel che allora mancò, si è stati molto restii a riconoscere gli sforzi che successivamente, nel corso di anni più o meno recenti, si sono fatti : impegni concreti e ulteriori passi sulla via del rinnovamento, inteso ad esempio come superamento di posizioni di privilegio nell’ambito pubblico.

Si possono deplorare i ritardi e le riluttanze con cui le istituzioni pubbliche abbiano effettivamente preso decisioni e operato su quel terreno, a salvaguardia del prestigio della politica o al fine di superarne la crisi. D’altronde, non deve mai apparire dubbia la volontà di prevenire e colpire infiltrazioni criminali e pratiche corruttive nella vita politica e amministrativa che si riproducono attraverso i più diversi canali come in questo momento è emerso dai clamorosi accertamenti della magistratura nella stessa capitale. Eppure, il dato saliente resta quello del dilagare, ormai da non pochi anni a questa parte, di rappresentazioni distruttive del mondo della politica. Sono dilagate analisi unilaterali, tendenziose, chiuse a ogni riconoscimento di correzioni e di scelte apprezzabili, per quanto parziali o non pienamente soddisfacenti.

Di ciò si sono fatti partecipi infiniti canali di comunicazione, a cominciare da giornali tradizionalmente paludati, opinion makers lanciatisi senza scrupoli a cavalcare l’onda, per impetuosa e fangosa che si stesse facendo, e anche, per demagogia e opportunismo, soggetti politici pur provenienti dalle tradizioni del primo cinquantennio della vita repubblicana. Ma così la critica della politica e dei partiti, preziosa e feconda nel suo rigore, purché non priva di obbiettività, senso della misura, capacità di distinguere ed esprimere giudizi differenziati, è degenerata in anti-politica, cioè, lo ripeto, in patologia eversiva. E urgente si è fatta la necessità di reagirvi, denunciandone le faziosità, i luoghi comuni, le distorsioni, impegnandoci in pari tempo su scala ben più ampia non solo nelle riforme istituzionali e politiche necessarie, ma anche in un’azione volta a riavvicinare i giovani alla politica valorizzando di questa, storicamente, i periodi migliori, più trasparenti e più creativi. Un tale impegno, volto a rovesciare la tendenza alla negazione del valore della politica, e anche del ruolo insostituibile dei partiti, richiede l’apporto finora largamente mancato della cultura, dell’informazione, della scuola.

Certo, so bene che fatale è stato, per mettere in crisi soprattutto l’avvicinamento dei giovani alla politica, l’impoverimento culturale degli attori e dei punti di riferimento essenziali, cioè dei politici e dei partiti. L’ho percepito e l’ho scritto quasi 10 anni fa, nella mia autobiografia politica, scritta anche in vista del commiato da pubbliche responsabilità. Insisto sul dato dell’impoverimento culturale, inteso come smarrimento di valori, verificatosi anche per effetto di uno spegnimento delle occasioni di formazione e di approfondimento offerte nel passato dai partiti in quanto soggetti collettivi dotati di strumenti specifici e qualificati. E’ stato questo un fattore decisivo anche di impoverimento morale. Perché la moralità di chi fa politica poggia sull’adesione profonda, non superficiale, a valori e fini alla cui affermazione concorrere col pensiero e con l’azione. Altrimenti l’esercizio di funzioni politiche può franare nella routine burocratica, nel carrierismo personale, nella ricerca di soluzioni spicciole per i problemi della comunità, se non nella più miserevole compravendita di favori, nella scia di veri e propri circoli di torbido affarismo e sistematica corruzione.

Cari amici, ho cercato di suggerire qualche elemento di risposta sui caratteri della crisi che ha segnato un grave decadimento della politica nel nostro paese, contribuendo in modo decisivo a un più generale degrado dei comportamenti sociali, a una più diffusa perdita di valori che nell’Italia repubblicana erano stati condivisi e risultati operanti per decenni, sull’onda della sconfitta del fascismo e sulla base dello straordinario disegno ed impulso venuto dall’Assemblea Costituente. Dare nuova vita e capacità diffusiva a quei valori richiede oggi e nel prossimo futuro una larga mobilitazione collettiva volta a demistificare e mettere in crisi le posizioni distruttive ed eversive dell’anti-politica, e insieme, s’intende, a sollecitare un’azione sistematica di riforma delle istituzioni e delle regole che definiscono il ruolo e il profilo della politica.

E questo sforzo deve coinvolgere tutte le componenti dello schieramento politico, perché valori come quelli del rispetto delle istituzioni, della valorizzazione del merito e della cultura, della consapevolezza del bene comune, rappresentano il sostrato e la garanzia di una fruttuosa convivenza politica, entro la quale ogni forza, ogni idealità, ogni competizione per la guida del paese, possa riconoscersi e giuocare il suo ruolo.

E qui mi si lasci fare un pur brevissimo accenno a come quel che sono venuto dicendo riguardi anche l’Europa e il nostro rapporto con l’ulteriore corso del progetto di integrazione europea. Svalutazioni sommarie, posizioni liquidatorie hanno sempre di più negli ultimi tempi messo in questione anche le istituzioni, le politiche, le rappresentanze europee. Gli ingredienti dell’anti-politica in ciascuno dei nostri paesi si sono confusi con gli ingredienti dell’anti-europeismo. A ciò hanno certamente contribuito miopie e ritardi delle istituzioni comunitarie insieme a calcoli opportunistici degli Stati membri. Ma si è così finito per far cadere in ombra lo straordinario contributo al mantenimento della pace, al benessere economico e alla tutela dei diritti che l’Unione Europea ha saputo via via garantire ai suoi cittadini : in particolare alle più giovani generazioni che hanno la fortuna di crescere in un continente per la prima volta senza frontiere e barriere interne.

Signor Presidente, Signori Soci, ho inteso che si attendesse da me qualche riflessione sul tema del deperire, nonché del possibile recupero e rilancio, di valori di fondo, etici e civili, cui si conformino i comportamenti individuali e collettivi in ogni ambito della vita sociale. Valori che non dovrebbero conoscere confini di parte, e la cui condivisione dovrebbe anzi facilitare il dialogo e le opportune intese tra forze diverse su questioni di interesse generale, in nome – non retoricamente – del bene comune.

Mi sono però posto il problema se non sbagliassi, interpretando l’ambito di una conferenza sui valori, a trascurare del tutto il discorso sui valori intesi piuttosto come tratti caratterizzanti della visione propria di uno schieramento politico o politico-culturale : visione, intendo, del presente e del futuro della società. Valori che facciano quindi tutt’uno con gli ideali e i programmi di forze politiche in competizione tra loro per la conquista della maggioranza dei consensi o dell’egemonia nel confronto ideale e culturale.

A proposito della crisi dei partiti in Italia, manifestatasi a partire dai primi anni ’90, si è da qualche parte indicato nel decadere della “forza degli ideali” una delle sue matrici principali.

Ma questo discorso, che ha certamente un suo senso, non può non partire da più lontano. Dev’essere adeguatamente storicizzato e non può, a mio avviso, che partire dalla metà del Novecento. E mi ci riferirò anche in termini di esperienza personale, ricordando quel che significò il duro impatto della guerra fredda, già a cavallo tra gli anni ’40 e ’50 dello scorso secolo, su quella che si era profilata come possibile competizione virtuosa, in Italia, tra alcune grandi correnti ideali, emerse come le più ricche potenzialmente dall’esperienza dell’antifascismo e della Liberazione. Ogni disputa sugli ideali e sui valori venne drasticamente ideologizzata, poco dopo la conclusione del processo costituente che ne era uscito fortunatamente indenne. Gli ideali del socialismo da una parte, sotto l’egida della sinistra socialista e comunista, e quelli del popolarismo e solidarismo cristiano, dall’altra parte, sotto l’egida della Democrazia Cristiana, furono entrambe “sequestrati” dalla logica delle scelte di campo, della sfida tra Oriente e Occidente. Chi ne pagò maggiormente il prezzo fu la sinistra, dividendosi e cadendo in contraddizioni insuperabili.

L’area socialista della sinistra italiana si divise anche nel suo seno, né fu capace di esprimere una conseguente caratterizzazione riformista, sfidando e attraendo su quel terreno la forza comunista. Quest’ultima, benché portatrice di un’elaborazione originale, che recava l’impronta forte del pensiero di Gramsci e nonostante potesse, soprattutto, esibire una formidabile esperienza di lotta per la libertà contro il fascismo, non riuscì a liberarsi dalla matrice di partito rivoluzionario, fedele al retaggio dell’Internazionale comunista e al mito del socialismo realizzato in Unione Sovietica con la leadership di Stalin. Questo complessivo travaglio della sinistra condizionò pesantemente la politica italiana, praticamente impedendo l’affermarsi di alternative di governo alle coalizioni dominate dalla DC e di una evoluzione della politica italiana verso una operante democrazia dell’alternanza.

Cambiamenti importanti si fecero gradualmente strada – tra tensioni e dissensi – all’interno del PCI, e non è questa la sede perché io dica autobiograficamente come ci muovessimo, ma non riuscendovi, a caratterizzare fino in fondo una svolta in senso riformista e socialdemocratico del PCI, prima del crollo del muro di Berlino e con esso del sistema e dell’impero sovietico. Interessa, nell’ambito della riflessione di questa sera, piuttosto mettere in evidenza come “la forza degli ideali” che animò la straordinaria ascesa dei partiti antifascisti in Italia, risultò corrosa dai condizionamenti della guerra fredda e compromessa dall’inadeguatezza delle forze dirigenti di quei partiti a rinnovare profondamente le loro culture originarie – rappresentative, ciascuna, di un mondo di valori e di ideali – in cui si erano nonostante tutto, e per un periodo non breve, riconosciute larghe masse di militanti e di elettori. Non si fu capaci, a questo proposito, di attingere abbastanza a contributi di pensiero liberi, aperti, innovativi, venuti già nell’ultima parte del secolo scorso, da studiosi di diverse provenienze, non condizionati dagli schemi dottrinari e dalle contrapposizioni ideologiche a lungo imperanti. A quel tipo di contributi – sui grandi temi della libertà, della giustizia, delle riforme, dello sviluppo – avrebbero dovuto con ben maggiore coraggio e disponibilità intellettuale rivolgersi soprattutto quelle forze di sinistra che sbarazzandosi degli ideologismi avrebbero così potuto non impoverirsi o svuotarsi culturalmente.

E desidero citare qui ad esempio l’apporto di un grande studioso di storia delle idee, Isaiah Berlin.

In particolare, nella sua splendida orazione per il Premio Agnelli ricevuto a Torino nel 1988 – “La ricerca dell’ideale” (The Pursuit of the Ideal”) – egli mise in evidenza un punto cruciale, in un modo che risultò illuminante anche per me :

“Quello che è chiaro – sono le sue parole – è che i valori possono scontrarsi tra loro. (…) L’incompatibilità dei valori può essere tra culture diverse, tra gruppi della stessa cultura o fra te e me. (…) Può benissimo accadere che vi sia un conflitto di valori nell’animo di uno stesso individuo ; e non è detto che per questo alcuni debbano essere veri e altri falsi. (…) La giustizia, una giustizia rigorosa, è per alcuni un valore assoluto, ma non sempre è compatibile nelle vicende reali, con la pietà, con la misericordia, cioè con valori che possono essere altrettanto assoluti agli occhi di quelle stesse persone. (…) Libertà e uguaglianza sono tra gli scopi primari perseguiti dagli esseri umani per secoli ; ma una totale libertà dei potenti, dei capaci, non è compatibile col diritto che anche i deboli e i meno capaci hanno a una vita decente. (…) Senza un minimo di libertà ogni scelta è esclusa e perciò non c’è possibilità di restare umani nel senso che attribuiamo a questa parola ; ma può essere necessario mettere limiti alla libertà per fare spazio al benessere sociale (…) per non ostacolare la giustizia e l’equità.”

E in quello stesso testo di Isaiah Berlin, si trovano anche argomenti essenziali sul tema delle utopie: “Le utopie hanno il loro valore – non c’è nulla che allarghi così meravigliosamente gli orizzonti immaginativi delle potenzialità umane – ma come guide al comportamento possono rivelarsi letteralmente fatali. La mia conclusione è che l’idea stessa di una soluzione finale non è soltanto impraticabile ma è anche incoerente. (…) Infatti se veramente si crede che una tale soluzione sia possibile, è chiaro che nessun prezzo sarebbe troppo alto, pur di ottenerla : arrivare a una umanità giusta, felice, creativa e armoniosa, arrivarvi una volta per tutte, per sempre – quale costo potrebbe essere troppo alto di fronte a questo traguardo? (…) Potranno essere giustificati i sacrifici per fini a breve scadenza (…) Ma gli olocausti in nome di fini remoti, no : è solo una crudele irrisione di tutto ciò che gli uomini hanno caro, ora e in qualsiasi tempo.”

Sappiamo a quali, terribili vicende storiche del Novecento, a quali “utopie” e “soluzioni finali” Berlin si riferiva.

E se oggi è facile dire che nella sinistra, in Italia o in Europa, non si professano più utopie e ricette rivoluzionarie né si invocano politiche coercitive in loro nome, il monito di Berlin non perde la sua validità. Perché esistono – magari al di fuori di ogni etichettatura di sinistra o di destra – gruppi politici o movimenti poco propensi a comportamenti pienamente pacifici, nel perseguire confuse ipotesi di lotta per una “società altra” o per una “alternativa di sistema”. Virus di questo genere circolano ancora in certi spezzoni di sinistra estremista o pseudo-rivoluzionaria, e concorrono ad alimentare la degenerazione del ricorso alla violenza, mascherato da qualsiasi fuorviante motivazione. Esiste un rischio nel nostro paese, di focolai di violenza destabilizzante, eversiva, che non possiamo sottovalutare, evitando allo stesso tempo l’errore di assimilare a quel rischio tutte le pulsioni di malessere sociale, di senso dell’ingiustizia, di rivolta morale, di ansia di cambiamento con cui le forze politiche e di governo in Italia debbono fare seriamente i conti.

Alcuni anni fa, Paolo Rossi, al quale ho piacere di rendere rinnovato omaggio, toccò da par suo il tasto delle posizioni presenti tra gli intellettuali e nel dibattito pubblico, che concorrono a diffondere esasperazioni distruttive dei giudizi critici sulla situazione dell’Italia, dell’Europa, del mondo, spingendo nella stessa direzione agitatoria inconcludente e dannosa, o destabilizzante dell’ordine democratico, nello stesso senso che prima indicavo in rapporto a fenomeni di diversa matrice.

Nella sua operetta “Speranze”, Rossi stroncò magistralmente e con coraggio l’influenza fuorviante che esercitano i “senza speranze” : la “letteratura apocalittica, le previsioni catastrofiche dubbie o fallite, il rifiuto dell’incertezza” e così via.

E in termini egualmente impietosi, egli analizzò i portatori di “smisurate speranze”, non insensibili al “fascino delle rivoluzioni”.

Indicò infine, con grande sapienza storica, la strada maestra delle “ragionevoli speranze”, da coltivare “con perseveranza” e con “ogni sobrietà, giorno per giorno”. Mi auguro siano risultate tali quelle ricavabili dalle mie considerazioni sulla politica, tenendoci ben lontani sia dai “senza speranze” sia dai banditori di “smisurate speranze”.

In questo inaspettato prolungamento del mio mandato istituzionale ho avuto la fortuna di incontrare molti giovani all’inizio della loro esperienza parlamentare e di governo, cui sono giunti spesso senza alcun ben determinato retroterra. A ciascuno di loro ho cercato di ricordare quanto sia importante impegnarsi a fondo e con umiltà nell’attività politica, con spirito di servizio e scrupolo nell’approfondimento di merito delle principali questioni che coinvolgono la nostra comunità. Sono convinto che questa sia la strada migliore per porre i loro talenti al servizio del Parlamento e del paese, impedendo l’avvitarsi di cieche spirali di contrapposizione faziosa e talora persino violenta, e invece alimentando, appunto, “ragionevoli speranze” per il futuro dell’Italia e dell’Europa.

Ho concluso. Grazie per la pazienza e per l’attenzione. E lasciatemi cogliere questa occasione per ringraziarvi molto più in generale : per come mi avete accolto, in tutti questi anni, qui ai Lincei. E’ stato qualcosa – ne ha detto stasera qui, con bellissime, generose parole, il Presidente Maffei – che mi ha profondamente toccato, sorretto, arricchito.

Dal Sito: http://www.quirinale.it/elementi/Continua.aspx?tipo=Discorso&key=2966

Politica Criminale. Intervista ad Alfio Mastropaolo

blog meleL’Indagine della Procura di Roma, guidata dal procuratore Pignatone, sulla “Mafia Capitale”, sta scoperchiando un mondo fatto di colpevole connivenza tra politica e criminalità organizzata. Quali conseguenze avrà sulla politica italiana? Ne parliamo con il Professore Alfio Mastropaolo, Ordinario di Scienza della Politica all’Università di Torino.

Professore, l’inchiesta sulla “Mafia Capitale” della Procura di Roma ci consegna una immagine devastata e devastante della politica: una politica totalmente asservita ad una banda di criminali (con a capo due “personaggi” come l’ex terrorista fasciomafioso Carminati, e un affarista “rosso” senza scrupoli come Buzzi) che ha fatto affari, nella Capitale, ai tempi della Giunta Alemanno. Insomma l’impressione che si ha e che quest’inchiesta, per alcuni analisti, segni la fine della poco gloriosa “seconda Repubblica”. Per lei?
La politica è un’attività come un’altra per conquistare il potere. Il quale, di per sé, non ha nulla di malvagio. E uno strumento con cui si tengono assieme gli esseri umani. Può però essere usato in molti modi, perché in molti modi questi ultimi li si può tenere assieme. Il potere può essere democratico, quando è esercitato in maniera condivisa e a beneficio di molti. E può non esserlo, quando è esercitato da pochi a beneficio di pochi. Può essere esercitato a beneficio dei ceti popolari o delle classi medie. Può essere esercitato a vantaggio dei ceti privilegiati. Da lungo tempo ormai a questa parte il potere è esercitato da pochi privilegiati a beneficio di se stessi e di pochi sodali.
Le ragioni per cui questo è successo sono complesse. Quella fondamentale è che i molti – e le classi medie e popolari – sono stati emarginati dalla vita politica. Basti pensare al destino toccato ai partiti di massa e ai sindacati. Questo ha fatto sì che potentati politici e potentati economici si mescolassero.
Che i potentati economici – non c’è bisogno di far nomi – usino la politica per arricchirsi, e che i potentati politici entrino anche loro nel giro degli affari, distogliendo la politica dal suo fine specifico, che è l’interesse generale, non è la prima volta che succede. Succede da quando è stato inventato il governo rappresentativo, nel quale chi detiene risorse economiche è avvantaggiato. Avveniva già nell’Inghilterra del 700. Mettere in gioco le classi medie e popolari, che, per il tramite  delle organizzazioni di massa, rivendicavano politiche di redistribuzione della ricchezza, era invece un modo per bilanciare i potentati economici e per contrastare gli incesti tra politica e economia.
Fra l’altro, le organizzazioni di massa si coagulavano grazie all’ideologia, la quale poneva robusti vincoli morali all’azione politica e forniva a chi faceva politica anche sostanziose gratificazioni simboliche: lavoravano, i politici, per costruire un mondo nuovo. Ebbene, tutto questo è – provvisoriamente – finito. Com’è finito un altro antidoto, che era la professionalità delle pubbliche amministrazioni, anch’essa inventata molto tempo fa per contenere le degenerazioni della politica elettiva.  Quando un funzionario si sente un servitore dello Stato, e dell’interesse generale, solitamente reclama il rispetto della legalità e avversa gli abusi. Ultimamente, invece, in nome dell’efficienza e contro il “burocratismo”, le pubbliche amministrazioni sono state indebolite e disperse, con l’effetto di asservirle ai potentati affaristici, politici e economici che siano.
Il mondo di ieri non era il regno delle fate. È giocoforza che le cose umane sian imperfette. Ma per un certo tempo le cose sono state disposte in modo da opporre resistenza al degrado e da favorire, per strappi, dei miglioramenti. Nella situazione attuale, che è dominata dai principi del profitto, dell’arricchimento, dell’individualismo appropriativo, in cui per l’appunto la politica si è ridotta a mero esercizio del potere, il decadimento si è rivelato inevitabile. Tanto più che i delicatissimi congegni della democrazia sono stati maneggiati – da tanti: società civile inclusa – con sciagurata superficialità.
La crisi economica, il declino del sistema produttivo, il disseccamento dell’apparato industriale, il collasso dei consumi, hanno fatto il resto. Se vuoi accumulare potere e ricchezza immischiarsi con la politica è assai più promettente – e assai meno faticoso – per gli stessi imprenditori, o per gli aspiranti tali, che non fare innovazione e  magari creare posti di lavoro.
E dunque, per concludere, guai a considerare la politica l’arto infetto di un corpo sano. Non ne usciremmo mai. È l’arto infetto di un corpo malato.

“Nel mondo di mezzo” (questa è la definizione di Carminati) la corruzione è il motore che fa andare avanti il “sistema” del “mondo di sopra”. Insomma c’è una putrefazione morale una adorazione totale alla “dea tangente” (così la chiama Papa Francesco). La corruzione ha una sua dottrina e sua megalomania: tutto si compra. Come è possibile contrastare questa cultura? Dov’è sta la radice di tutto?

Sicuramente un discorso pubblico più ricettivo ai temi della moralità pubblica, della solidarietà, della democrazia come regime che tutela la grande massa dei cittadini, per quanto non risolutivo, sarebbe di grande aiuto. Solo che Papa Francesco è davvero vox clamans in deserto. Abbiamo un presidente del consiglio che finanzia il suo partito, erede dei grandi partiti popolari che hanno costruito la democrazia italiana, a forza di cene coi  milionari e che mostra il più sdegnoso disprezzo per il popolo bue che l’ha votato, illudendosi che lui avrebbe promosso un effettivo  rinnovamento. Che questo lo conduca al disastro elettorale e politico il presidente del consiglio lo sa bene. Solo che, invece di cambiar strada, irride all’astensione, che è un avvertimento degli elettori, e punta a riscrivere la legislazione elettorale in modo tale da immunizzarsi da un eventuale disastro.

Nella “seconda repubblica” vince il leaderismo (sia di destra che di sinistra), e tutto questo viene definito come “modernizzazione” della politica. Le “selezioni” delle classi dirigenti avvengono in luoghi che sono lontani dai problemi quotidiani della gente. Non  trova che anche questo leaderismo sia un fattore di degenerazione della politica?

Il leaderismo non è una degenerazione. Anch’esso in democrazia è un rischio endemico. Per contrastarlo serve una concorrenza politica reale. Se ci sono forze politiche inclini al leaderismo, e intellettuali “di servizio” che lo legittimano, l’antidoto sono forze politiche che valorizzino il coinvolgimento popolare. Soffocare la concorrenza riducendola a competizione tra due leader avvelena la lotta politica.  Quel che è successo, non solo in Italia, è che le forze politiche si sono messe tutte d’accordo nell’assecondare il leaderismo e nello strozzare la concorrenza. Quando la concorrenza è strozzata tutto però diventa possibile. Come, per esempio, la comparsa sulla destra dello schieramento politico di forze politiche eversive e antidemocratiche, che molto approssimativamente denominiamo populiste, le quali attraggono il malcontento della parte moderata dei ceti medi e popolari e magari lo orientano verso il razzismo.
C’è qualche segno che sviluppi simmetrici siano possibili anche a sinistra: Tsipras e Podemos vanno interpretati in questo modo. Non come populismo di sinistra, bensì come forme radicali di protesta contro l’asservimento della sinistra convenzionale all’affarismo. La componente democratica di queste ultime formazioni è piuttosto evidente: rivendicano politiche a beneficio dei più e non dei pochi. Il problema è che i potentati affaristici e i loro sodali politici potrebbero, come hanno già fatto in passato, favorire l’eversione di destra pur di contrastare la protesta di sinistra.

Lei è uno studioso dei populismi. Quanto populismo c’è nella politica italiana?

Io non userei la parola populismo, che appunto vuol dire ben poco. Nella politica italiana c’è invece pochissimo popolo (se non nelle invettive di chi promuove leaderismo e razzismo) e tantissimo livore nei confronti del mondo politico. È paradossale che questo livore sia coltivato dal mondo politico stesso, oltre che dai media (come ben sappiamo per lo più controllati da potenti gruppi imprenditoriali). Ma è da un pezzo che i politici pensano di fare economia di discorsi più seri suscitando livore antipolitico. È facile prendersela con Roma ladrona o col teatrino della politica, oppure proporre la rottamazione di un po’ di politici di lungo corso. Ben più difficile è elaborare e mettere in atto impegnativi – e costosi – programmi per rilanciare il nostro sistema produttivo, per potenziare le pubbliche amministrazioni, per rinnovare la scuola, per promuovere l’occupazione. E via di seguito.

Ultima domanda: Davvero il futuro “bipolarismo” italiano sarà tra Renzi e Salvini?

Ultimamente non siamo un paese granché fortunato. Ma la fortuna, fortunatamente, è cieca. Speriamo che stavolta abbia pietà di noi.

Elezioni: Una vittoria con molte spine per Renzi. Intervista a Giorgio Tonini

UnknownIeri ci sono svolte, in Calabria ed Emilia-Romagna, le elezioni per eleggere i Presidenti di queste due regioni. Il risultato più forte , atteso ma non in quelle dimensioni, è stato l’altissima percentuale di astensione (clamorosa quella dell’Emilia Romagna). A questo si deve aggiungere il boom leghista in terra emiliana. Il Premier Renzi si è detto soddisfatto del risultato, 2-0 per il PD. In realtà questo voto ci consegna una Italia piena di sfiducia nei confronti della politica e della sua capacità di risoluzione dei problemi. Un dato, questo, che non può non preoccupare il Premier. Una vittoria, quindi, con molte spine. Di tutto questo parliamo con il Senatore Giorgio Tonini, vicepresidente del gruppo PD a Palazzo Madama e membro della Segreteria Nazionale del partito.

Senatore Tonini, partiamo dalle elezioni: ha vinto il PD 2-0.  Ma è una vittoria segnata da un dato pesantissimo: l’astensione record in Emilia-Romagna, dove il PD ha perso ben 700 mila voti rispetto alle Europee. Certamente hanno influito, in Emilia-Romagna, le inchieste della Magistratura. Le chiedo: non le sembra che l’astensionismo sia dovuto anche alla politica del governo Renzi sul fronte del lavoro?

Sarà meglio aspettare analisi più approfondite per dirlo, ma è  assai probabile che il voto emiliano abbia registrato una difficoltà nel rapporto tra il governo Renzi e il Pd da una parte, e una parte del mondo del lavoro, in particolare la componente operaia, dall’altra. Credo anche che sia del tutto evidente come non abbia giovato alla partecipazione al voto, di una parte significativa dell’elettorato di centrosinistra, l’asprezza dello scontro tra Pd e Cgil, che ha indubbiamente disorientato molti elettori. E tuttavia, il voto dell’Emilia, con il Pd sopra il 40 per cento e la sinistra alternativa ai minimi storici, ci dice che siamo lontani anni luce da un esito di tipo greco, con la sinistra radicale che, spinta dalla crisi, soppianta, nel consenso popolare, quella riformista. È probabile semmai che del clima di scontro sociale abbia finito per avvantaggiarsi la Lega di Salvini. Più in generale, il dato essenziale è che una vasta area di elettorato di centrosinistra si è messa in stand-by, rifugiandosi nel non voto e non votando altre formazioni politiche: né a sinistra, come ho già detto, ma neppure a destra e neanche più verso Cinque Stelle, che pare aver perso gran parte della sua capacità di attrazione. Per quanto riguarda il governo Renzi e il Pd nazionale, il dato complessivo non è dunque negativo: nel momento di massima difficoltà, quando delle riforme si paga tutto il prezzo dell’impopolarità, mentre il dividendo in termini di miglioramento percepibile è ancora lontano, la crisi di consenso si traduce in non voto, ma senza che sia premiato alcun competitore. Questa situazione rende del tutto aperta la possibilità, per il Pd, di recuperare queste fasce di elettorato, una volta che le riforme avranno dispiegato i loro effetti positivi. Detto tutto questo, resto della opinione che le motivazioni principali del non voto alle elezioni “regionali” dell’Emilia, abbiano a che fare con questioni di carattere, per l’appunto, “regionale”, peraltro tutt’altro che nuove: la crisi del modello emiliano e in particolare la crisi di credibilità delle classi dirigenti di quella come di altre regioni “rosse”. Ma questo è tutto un altro discorso, che richiederebbe ben altro approfondimento.

Veniamo a Matteo Renzi. Insomma Senatore Tonini, sul Jobs Act il Presidente del Consiglio non ha fatto una “politica comunicativa” positiva anzi tutta centrata sulla polemica antisindacale, o meglio anti Cgil. Lei mi dirà: “ma dall’altra parte si continua a guardare a Renzi come un usurpatore”. Lei che viene, per storia personale, dalla Cisl cosa consiglia al Presidente del Consiglio? Non trova giusto il richiamo di Marc Lazar, politologo francese, che ieri su “Repubblica” scriveva “che una operazione di rottura con i sostenitori tradizionali della sinistra è una operazione alto rischio, che presenta vantaggi indiscutibili, ma ha anche i suoi costi. Per la sinistra, e per tutta la politica e quindi per la  democrazia”?

Non so se la rottura con la sinistra conservatrice presenti dei vantaggi. Certamente ha dei costi, del tutto evidenti. Purtroppo, in certi passaggi storici, è inevitabile. Lo è stato in Italia, al tempo del referendum voluto dal Pci contro l’accordo sulla scala mobile (a proposito della mia estrazione cislina), firmato da Craxi con Carniti e Benvenuto. Lo è stato per Felipe Gonzalez, per Tony Blair, per Gerhard Schröder… Per una parte, per fortuna minoritaria, della sinistra, tutti questi nomi appartengono ad altrettanti traditori dei valori della sinistra e degli interessi dei lavoratori, nella più benevola delle versioni, a personalità ingenuamente subalterne al pensiero unico dominante. Per noi riformisti, sono leader che hanno fatto il loro dovere di far vivere in forme sempre nuove i valori antichi della sinistra, anche assumendosi il rischio di sbagliare, ma consentendo alla storia della sinistra di avere un futuro. Uno dei principali meriti di Renzi è quello di aver portato il Pd, superando ogni ambiguità, a far parte a pieno titolo della grande famiglia dei partiti socialisti, socialdemocratici, laburisti e democratici europei, fino a farne, per certi versi, il partito guida, quello guardato oggi con più attenzione e più interesse. Allo stesso modo, la principale contraddizione della minoranza interna al Pd, quella oggi più sensibile alle posizioni della Cgil e della Fiom, è quella di non avere alcuna sponda possibile in Europa, se non nella sinistra radicale “alla Tzipras”, comunque fuori dall’area del Pse. Questa contraddizione ci dice quanto arretrata sia la cultura politica del sindacato italiano, in particolare dalle parti della Cgil: una cultura politica che, al contrario del Pd, fondato sulla unità politica dei riformisti, ancora si attarda nella coltivazione del mito dell’unità della sinistra, che finisce per assegnare un ruolo egemonico alle posizioni radicali alla Landini. E così, venticinque anni dopo la caduta del muro di Berlino, l’Italia si ritrova ad avere ancora un sindacato diviso, modellato sulla base della geopolitica del 1947, quando la guerra fredda entrò a gamba tesa nella politica italiana. Insomma, si possono sempre moderare i toni, ma le ragioni della rottura tra Pd e Cgil non sono banali, caratteriali. Sono profonde. E tutte politiche.

Ritorniamo alle Elezioni: Il dato significativo è Lega che si mangia Forza Italia. Una Lega estremista  alleata dei neofascisti “Casa Pound” e “Forza Nuova”, antiimmigrati, anti euro. Insomma una  Lega dal colore “nero” che strumentalizza la  disperazione sociale. Non le sembra anche questo un monito per Renzi? Lui dice di essere di “Sinistra”, di avere a cuore la “povera gente”, eppure non si ha, nell’opinione pubblica, questa percezione. Per qualcuno è un “travestimento”. Qual è la sua opinione?

Non so se Salvini si sia mangiato Forza Italia, o se si sia limitato a tenere meglio i suoi voti. Aspettiamo per dirlo l’analisi dei flussi elettorali. Certo, lo scontro a sinistra tra il Pd e la Cgil sul Jobs Act ha tolto molto spazio ad un centrodestra moderato, favorendo l’emergere, come in molti altri paesi europei, di un’area trasversale destra-sinistra, accomunata da una medesima spinta antiriformista e antieuropea, ma di fatto egemonizzata dalla destra, che ovviamente ha molte meno remore della sinistra a cavalcare i sentimenti nazionalistici e xenofobi, prodotti dalla crisi economica e sociale. Sul piano strettamente elettorale, per il Pd questa situazione presenta l’indubbio vantaggio di consegnargli una posizione centrale e di farlo coincidere con l’area della governabilità. Da quella posizione il Pd può giocarsi le sue carte nella competizione con le forze antisistema: prima tra tutte quella di essere l’unica forza che non si limita a cavalcare la protesta, con esiti comunque effimeri, come insegna la parabola di Grillo, ma cerca risposte solide e durature, nell’alveo della sinistra riformista. Altro è il discorso di sistema: la mancanza di alternative moderate al Pd può riproporre in Italia, come del resto sta accadendo in molti altri paesi europei, una condizione di democrazia bloccata. Anche per questo abbiamo bisogno di regole elettorali e istituzionali che favoriscano la competizione e la contendibilità elettorale del governo.

Ultima domanda: Alcuni della minoranza del PD non voteranno il Jobs Act, scissione in arrivo?

Non me lo auguro, ma un po’ lo temo. Quando si accumulano ragioni profonde di dissenso, ragioni politiche e perfino ideologiche, prima o poi qualcosa succede. E una parte della nostra minoranza interna ormai vive nel Pd da “separato in casa” e vive ogni cambiamento come un tradimento. Una cosa comunque è certa: non sarà la maggioranza riformista a espellere nessuno. Nel nostro partito a vocazione maggioritaria c’è posto per tutti.

La Bad Godesberg di Renzi. Intervista a Giorgio Tonini

Sulla Riforma del lavoro il PD sta compiendo la sua Bad Godesberg?

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Ne parliamo con Giorgio Tonini, vicepresidente del PD al Senato e membro della Segreteria nazionale del partito.

Tonini, qualche osservatore ha invocato per la riforma del lavoro a Renzi il coraggio di fare una “Badgodesber”, ovvero di rompere il tabù dell’articolo 18. La rottura nel PD ,avvenuta  nella tarda serata di lunedì, durante la direzione può essere considerata una piccola Badgodesberg per il PD ?

In un certo senso si. Renzi ha proposto alla direzione del Pd un cambiamento profondo di cultura politica sulla questione delicata e decisiva delle tutele del lavoro; e la direzione ha risposto con un si largamente maggioritario. Un partito riformista di centrosinistra, qual è il Pd, non sarebbe tale se non si battesse per i diritti dei lavoratori: il diritto al lavoro, innanzi tutto; e poi il diritto nel lavoro. Il problema è che le forme concrete che questi diritti universali devono assumere non possono essere oggi le stesse di quasi mezzo secolo fa. Allora, negli anni sessanta, in un contesto di crescita economica impetuosa e di quasi piena occupazione, il modello produttivo che appariva vincente era la grande fabbrica fordista, nella quale si entrava da ragazzi e si usciva da pensionati. In quel contesto, i diritti dei lavoratori si identificavano con la loro tutela sul posto di lavoro. Oggi quel mondo non esiste quasi più e comunque non è il mondo del futuro, quello nel quale abiteranno i giovani, i nostri figli. Il loro mondo è caratterizzato da una lunga durata della vita lavorativa e da un inevitabile alternarsi di periodi di lavoro e di periodi di ricerca o comunque di cambiamento di lavoro. Dunque, alla centralità della tutela sul posto di lavoro deve sostituirsi quella della tutela nel mercato del lavoro: offrendo più opportunità di essere assunti e in maniera stabile, un sostegno al reddito nei periodi di perdita del lavoro, strumenti di accompagnamento e ricollocazione in un nuovo lavoro, e in tutte queste fasi formazione, formazione, formazione. Il Jobs Act Renzi-Poletti si muove decisamente in questa direzione, la direzione di un nuovo patto virtuoso tra impresa e lavoro.

Veniamo al famoso editoriale del Corriere della Sera, firmato dal Direttore De Bortoli, in cui si criticava Renzi per la sua inconcludenza. Ma c’è un passaggio ,in quel pezzo,  che ha colpito l’opinione pubblica: ovvero che il patto del nazareno ‘odora di massoneria “. Cos’è una battuta o vede altri scenari?

Mi ha molto colpito quel passaggio. Renzi ha risposto al direttore del Corriere, protestando di essere un boy scout e non un massone. Questo è quello che vedono e sanno tutti gli italiani. Se De Bortoli sa qualcosa di diverso, lo dica: è il suo dovere di giornalista. In nessun paese anglosassone sarebbe tollerabile che il direttore di un grande giornale facesse intendere ai suoi lettori di sapere qualcosa di compromettente a riguardo del capo del governo e di non volerlo dire loro con chiarezza e trasparenza.

La scorsa settimana Renzi non ha fatto altro che prendersela con i “poteri forti “. Francamente la cosa è ridicola, visto le frequentazioni renziane (marchionne e Altri). Che idea si è fatto di questo scontro?

Credo che si tratti in gran parte di un dibattito mediatico, con pochi riscontri nella realtà. Del resto, lo stesso Renzi ci ha riso su, dicendo che in Italia più che poteri forti ci sono pensieri deboli. Nei giorni scorsi, alcuni imprenditori, come Della Valle, hanno aspramente criticato Renzi. Altri, come Marchionne, lo hanno coperto di elogi. Per fortuna siamo un paese libero e nei paesi liberi le cose vanno così: il governo, qualunque governo, ha una parte del paese che lo sostiene e una che lo avversa. Al momento, il gradimento del premier, del suo governo e del suo partito sono molto alti. Vuol dire che sono molto alte le aspettative del paese su questa in gran parte nuova classe dirigente. Renzi sa molto bene e lo ripete continuamente che ha sulle spalle la responsabilità di non mandare deluse tutte queste aspettative.

Renzi ha aperto, su alcuni temi, al Sindacato. Resta però il un fastidio del Premier verso il Movimento sindacale. Insomma, francamente, non trova semplicistico (per non dire altro) tutto questo?

Anche in questo Renzi è un uomo della sua generazione, nata quando il sindacato aveva da tempo oltrepassato lo zenit del suo consenso e della sua influenza nel paese. La verità è che in questi anni il sindacato non ha saputo rinnovarsi, se non molto, troppo lentamente e parzialmente, e chi non si rinnova declina. Basti pensare a quelle tre sigle: Cgil, Cisl e Uil, sigle gloriose, ma figlie delle divisioni della guerra fredda, cioè di un mondo che semplicemente non esiste più. Perché debbano esserci ancora oggi tre grandi centrali confederali e non una sola, grande organizzazione, unitaria, autonoma e riformista, come ad esempio il Dgb tedesco, è una domanda alla quale è impossibile dare una risposta. Negli anni settanta il sindacato guidava il cambiamento, anche col suo percorso unitario, mentre oggi fatica a inseguirlo. Al punto che la politica è più avanti: con il Pd si è realizzata l’unità politica dei riformisti, sognata per decenni, mentre dell’unità sindacale si sono perse le tracce.

C’è un altro punto che colpisce: ovvero una certa inclinazione di Renzi verso la cultura imprenditoriale più che al primato del lavoratori. E’ così?

No, non è così. Renzi ha denunciato, in modo anche aspro e urticante, la crisi di rappresentatività e dunque di legittimazione, prima dei partiti politici e poi anche delle organizzazioni sociali ed economiche, dei sindacati come delle organizzazioni imprenditoriali. Poi, certamente, Renzi non crede alla cultura del conflitto di classe, tradizionalmente egemone nella cultura marxista in generale e comunista in particolare, ma si riconosce piuttosto in una versione moderna di quel filone cristiano-sociale, ma anche liberal-socialista, che valorizza un approccio cooperativo e partecipativo delle relazioni industriali: un filone per il quale l’imprenditore non è il nemico di classe, ma una risorsa imprescindibile per la crescita e lo sviluppo. Nel corso della direzione di lunedì scorso, Renato Soru ha tenuto un appassionato e assai applaudito intervento in questo senso, ricordando il discorso di Veltroni al Lingotto, che aveva aperto una fase nuova su questo punto decisivo. Queste nuove relazioni sindacali hanno bisogno di regole nuove della rappresentanza e della contrattazione, compresa una norma di legge sul salario minimo. Su questo, lunedì in direzione Renzi ha detto cose nuove e assi interessanti, quando ha annunciato che riaprirà la sala verde di Palazzo Chigi, ma non per riprendere lo stanco rituale della vecchia concertazione, bensì per concordare nuove regole che consentano di spostare il baricentro della contrattazione dal livello nazionale a quello aziendale, l’unico nel quale si può apprezzare, incentivare e distribuire la produttività. Anche per questa via si rilanciano la crescita e l’occupazione.

Come sarà, secondo lei, il cammino del Job act?

Tutto è difficile e faticoso, in questo parlamento, segnato dal vizio d’origine della mancanza, almeno al Senato, di una chiara maggioranza uscita dalle urne. Ma entro l’anno il Jobs Act sarà legge. E ci saranno, nella legge di stabilità, risorse aggiuntive per i nuovi ammortizzatori sociali.

Cosa succederà alla minoranza del PD ?

Non credo si possa parlare di minoranza al singolare. C’è piuttosto un arcipelago di minoranze, alcune delle quali assai vicine alla linea politica del segretario, altre più inclini  alla nostalgia per la vecchia “ditta rossa”, altre ancora molto affini, per contenuti e linguaggi, al piccolo mondo della sinistra critica. Tutte queste componenti devono avere ed hanno piena cittadinanza in un grande partito democratico a vocazione maggioritaria. Alla sola condizione che il pluralismo interno al partito sappia poi trasformarsi in unità nel voto in parlamento. Fu l’incapacità o l’impossibilità di fare questo passaggio che impedì, prima all’Ulivo e poi all’Unione, di dar vita a governi stabili e credibili. Ma chi fece cadere i governi Prodi, sia a sinistra che al centro, non è stato premiato dagli elettori.

Dopo questi mesi di governo, come definirebbe il “renzismo”?

Lo definirei come la consapevolezza della necessità ineludibile, per l’Italia e per l’Europa, di riforme profonde e coraggiose. A cominciare dal cambiamento radicale della politica: delle istituzioni, dei partiti e dei loro gruppi dirigenti, e soprattutto della cultura politica. E come il tentativo di fare le riforme con il popolo e non senza o magari contro il popolo.

L’autunno caldissimo di Renzi. Intervista a Giorgio Tonini (PD).

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Si profila per il Premier Matteo Renzi una ripresa dell’attività di governo
molto difficile. I dati economici non scherzano: siamo in piena stagnazione.
Come si svilupperà l’azione di governo? Ne parliamo con Giorgio Tonini,
vicepresidente del gruppo PD al Senato.

Senatore Tonini, “archiviata” la riforma del Senato, una riforma molto
discussa e, per qualcuno, con molti limiti, ora per il Premier incominciano
le sfide che toccano il vissuto concreto degli italiani, ovvero le riforme
economiche e quelle del lavoro. Le chiedo: non si è perso tempo a discutere,
in alcuni frangenti male, di una riforma che porterà beneficio, se li porterà,
solo tra qualche tempo, mentre la crisi morde sempre di più? Insomma non
ha avuto la sensazione che la riforma sia stata usata come arma mediatica di
distrazione nei confronti di problemi urgenti?
Assolutamente no. La discussione, inevitabilmente anche molto tecnica, sulle
riforme costituzionali, non ha alcun potere di distrazione di massa dai problemi
economici, che mordono sulla carne viva delle persone, delle famiglie e delle
imprese. La verità è che, per un verso, non è affatto vero che governo e
parlamento, in questi mesi, si siano occupati solo, o anche principalmente, di
riforme costituzionali. Le camere sono state letteralmente intasate di provvedimenti
sull’economia: dal decreto sugli 80 euro, a quello sui contratti a termine; dal
decreto sulla competitività, a quello su cultura e turismo, fino a quello sulla pubblica
amministrazione; e a settembre sono già programmate la discussione sulla delega
in materia di lavoro, quella sulla giustizia e quella sulle opere pubbliche. Detto
questo, e fermo restando che sarà la legge di stabilità il vero esame di maturità per
Renzi e i suoi ministri, il governo ha fatto non bene, ma benissimo ad impegnarsi
a fondo anche sulla riforma costituzionale, come su quella elettorale. Perché
solo l’Italia abbina ad una grave e ormai endemica crisi economica e sociale,
un’altrettanto cronica crisi politica e istituzionale: solo noi, in piena crisi, abbiamo
cambiato quattro governi, quattro premier e quattro ministri dell’economia in tre
anni. Nessun altro paese europeo si è trovato in una condizione di instabilità,
anzi di vera e propria precarietà, politica e istituzionale, come la nostra. Solo
la presidenza della Repubblica, grazie alla generosità e all’autorevolezza di un
galantuomo di quasi novant’anni, ha garantito la continuità istituzionale. Dunque
la riforma elettorale e quella costituzionale, con il superamento del bicameralismo,
sono un’emergenza nazionale, non un passatempo estivo. E l’impegno diretto del
governo è stato una necessità, dopo il fallimento dello schema adottato alla fine
della scorsa legislatura: al governo tecnico (Monti) le riforme economiche, alle forze
politiche in parlamento quelle istituzionali. Il risultato fu, com’è noto, l’ennesimo
nulla di fatto sulle riforme elettorali e costituzionali. Senza l’impegno diretto del
governo, che peraltro non ha impedito modifiche e miglioramenti del testo, il Senato
non avrebbe mai votato la sua autoriforma, come hanno dimostrato il duro e cieco
ostruzionismo delle molte opposizioni trasversali e l’uso strumentale di improbabili
allarmi contro la presunta deriva autoritaria.
Veniamo alle sfide: il ciclo economico segna il meno su molti indicatori
economici: dalla crescita alle entrate fiscali. Mentre segna il più sulla
disoccupazione giovanile. Un quadro pesante. Eppure il nostro premier è
ottimista, ma L’Europa lo è di meno di lui. Senatore Tonini, dove trae Renzi
tutto il suo ottimismo?
Chi governa ha il dovere di essere ottimista, di vedere sempre il bicchiere mezzo
pieno, di fare appello alle comunque ingenti risorse materiali e immateriali di cui
l’Italia dispone e che possono consentirle di riprendere il cammino dello sviluppo. In
questo senso, l’ottimismo è anche un richiamo alla responsabilità, a non aspettare
aiuti esterni, a rimboccarsi le maniche e a fare leva sulle nostre possibilità. Ma c’è,
ovviamente, molto di più. C’è in Renzi una forte e in un certo senso inedita
consapevolezza della radice comune delle difficoltà che incontrano tutti i paesi
europei a mettere in campo strategie di uscita dalla crisi e di ripresa della crescita e
dell’occupazione. L’accostamento simbolico del nostro -0,2 per cento al -0,2
tedesco, negli ultimi dati trimestrali sull’andamento del PIL, sta lì a dimostrare che
nessuno può farcela da solo, neppure la Germania; che tutti devono fare i compiti a
casa, noi col nostro debito, la Francia col suo deficit, la Germania col suo surplus;
e che senza una leva federale, un piano di massicci investimenti europei che
ricreino una forte domanda interna, l’andamento dell’economia europea finirà per
divergere in modo preoccupante, non solo da quello dei paesi emergenti, ma
perfino da quello degli Usa. Semmai, se una critica si può fare a Renzi e al
governo, è quella di aver sprecato troppo tempo e troppe energie in una inutile
polemica con la Germania sui margini di flessibilità consentiti dai trattati, una
questione intrinsecamente intergovernativa dalla quale ci si può attendere ben
poco, al massimo qualche decimale di punto di sforamento sul deficit, e di aver
lasciato sullo sfondo, almeno della comunicazione pubblica, la questione decisiva,
tutta comunitaria e federale, di come “cambiare verso” alla politica economica
europea, facendo come gli americani: applicare agli stati nazionali nel modo più
severo la regola del pareggio di bilancio e della riduzione del debito, insieme alle
relative riforme strutturali sul versante dell’offerta, ma rendere tutto questo
sostenibile, attraverso l’utilizzo della forza dell’euro (in analogia con quanto fanno
gli Usa col dollaro) per mobilitare capitali da utilizzare per il finanziamento di un
vero e proprio New Deal europeo, centinaia di miliardi di euro per finanziare
infrastrutture, riqualificazione del territorio, dell’ambiente e del patrimonio edilizio,
ricerca e sviluppo, formazione superiore, cooperazione militare… tutti investimenti
gestiti direttamente da un’autorità federale europea. Vorrei che non perdessimo la
formidabile occasione rappresentata dal semestre di presidenza italiana
dell’Unione, un semestre che coincide con quello di avvio della nuova commissione
e del nuovo parlamento, per imporre questa nuova agenda: capacità di bilancio
dell’Eurozona e grande piano di investimenti, da finanziare attraverso la Bei, la
garanzia della Bce e i project-bond. Il piano Juncker dei 300 miliardi va in questa
direzione, come pure le ipotesi avanzate da Draghi sulla concertazione comunitaria
delle riforme. I francesi condividono questa strategia e i tedeschi non possono più
dire di no. Con Renzi l’Italia può dare un apporto decisivo a questa svolta storica:
per l’Europa e non solo per l’Italia.
La maggioranza è attraversata da una disputa stucchevole, “teologica” ha
detto, con qualche ironia, Pierre Carniti, sull’articolo 18. Alfano e Sacconi
vogliono abolirlo, Renzi apre ma nel quadro di Riforme più ampie. Anche
queste sono “nubi” sul cammino del governo. Renzi andrà allo scontro con il
Sindacato, oppure troverà il modo di coinvolgere il movimento Sindacale?
Mi pare che Renzi abbia detto con chiarezza una cosa molto importante: il
governo, insieme al parlamento, è impegnato a riscrivere non un articolo, ma
l’intero Statuto dei lavoratori, per adeguarlo ad una realtà del mondo del lavoro che
davvero molto poco ha in comune con quello degli anni Sessanta e Settanta del
secolo scorso. Renzi non era ancora nato, lei ed io eravamo bambini, l’Italia era in
pieno boom economico e demografico, una generazione di giovani figli di contadini
aveva riempito di sé, della sua prorompente voglia di crescita economica e di
riscatto sociale, le grandi fabbriche del Nord del paese. Era scesa in campo una
grande forza di cambiamento, che chiedeva per sé non solo la sua parte di reddito
prodotto, ma una carta di diritti per una cittadinanza piena, nella fabbrica e nella
società. Accanto ai giovani operai, c’erano i giovani studenti, anche loro la prima
generazione che poteva studiare, invece di andare a morire in guerra. Studenti e
operai insieme, attraversati dall’altro grande movimento, quello di emancipazione
delle donne, hanno dato vita in quegli anni a quella che Aldo Moro, con sincera
ammirazione, definì “la stagione dei diritti”, ammonendo peraltro che essa avrebbe
finito per dimostrarsi effimera, se non fosse nato in Italia “un nuovo senso del
dovere”, un nuovo sistema di regole, basato su un nuovo patto sociale, per la
crescita, il lavoro, la cittadinanza. Del resto, già pochi anni dopo l’approvazione
dello Statuto dei lavoratori (1970), l’Italia era entrata in crisi, a causa dello shock
petrolifero e poi dell’inflazione a due cifre, espressione di una fragilità di fondo del
nostro sistema produttivo e della struttura stessa dello Stato e della spesa
pubblica, che non permettevano una crescita sana e solida, una volta usciti dal
regime dei bassi salari e del basso costo dell’energia. Proprio Pierre Carniti fu
protagonista, trent’anni fa, di quel patto contro l’inflazione, contro quell’idra a sette
teste che stava divorando salari e pensioni e stava mettendo in discussione le
conquiste economiche e sociali di un’intera generazione. Grazie a quel patto,
l’inflazione fu domata, ma le cause strutturali della fragilità italiana non furono
affrontate dalla politica con una compiuta strategia riformista e la febbre riemerse
sotto forma di deficit e poi debito pubblico. E quando con l’ingresso nell’euro non
abbiamo più potuto fare né inflazione né deficit, si è fermata la crescita. Da questa
spirale usciremo solo con politiche europee adeguate sul lato della domanda, come
abbiamo detto, ma anche solo se e quando ci decideremo a fare le famose riforme
sul lato dell’offerta. A cominciare da quella del lavoro, che in sintesi si riassume in
un punto fondamentale: dobbiamo passare dalla centralità della tutela statica del
lavoratore sul posto di lavoro, alla centralità di una nuova, dinamica tutela del
lavoratore nel mercato del lavoro. La vecchia tutela, quella solo e soltanto sul posto
di lavoro, si è tradotta nell’attuale, insostenibile regime di bassa produttività e bassi
salari. Da questo assurdo scambio tutto in perdita per tutti dobbiamo uscire con un
nuovo scambio, che ci dia alta produttività e alti salari, in un contesto di piena e
buona occupazione. Anche assecondando quella schumpeteriana “distruzione
creativa” di posti di lavoro che è l’unica via per accrescere la produttività, mettendo
in campo al contempo una nuova generazione di diritti e di tutele, per una nuova
generazione di lavoratori. Il primo diritto, il diritto basilare e fondamentale, in questa
nuova prospettiva, non è più la cosiddetta “job property”, l’idea che il lavoratore è
proprietario del “suo” posto di lavoro, una proprietà che quando l’azienda va in crisi
finisce per assomigliare tragicamente alle catene che nell’antica Roma legavano il
destino dei rematori alla loro galera, ma il diritto a restare competitivo sul mercato
del lavoro, attraverso la formazione permanente e ricorrente e a strumenti di
accompagnamento, nella certezza del reddito, garantita da nuovi ammortizzatori
sociali, da un lavoro che finisce verso un nuovo lavoro che può crearsi. Questo è il
cuore del nuovo Statuto, che può e deve segnare il definitivo superamento
dell’attuale dualismo tra lavoratori iperprotetti (peraltro in rapido declino) e la
crescente massa di lavoratori iperprecari, ai limiti della schiavitù, in favore di un
sistema di regole e diritti universali, sintetico e chiaro, “traducibile in inglese”, come
dice Pietro Ichino, perché pensato in chiave europea e rivolto anche agli investitori
esteri, che devono poter scegliere di venire in Italia anche per la semplicità e la
modernità del suo codice di diritto del lavoro. È in questo contesto più ampio che il
dibattito sull’articolo 18 esce dallo stanco rituale simbolico, “teologico” appunto, che
oppone i difensori di totem agli abbattitori di tabù, e si colloca in uno scenario
riformatore più ampio e innovativo.
Veniamo al quadro politico: Renzi dice no all’aiuto, questo si mortale per lui,
di Berlusconi sulla frontiera del governo. Reggerà?
Questa legislatura si è aperta con la “non-vittoria” del Pd di Bersani, l’impossibilità
di dar vita ad una collaborazione con il M5S e l’accordo obbligato con il
centrodestra e il suo leader, Silvio Berlusconi, prima per eleggere il presidente della
Repubblica e poi per dar vita ad un governo per le riforme elettorali e costituzionali,
che necessariamente si dotasse anche, attraverso un non facile compromesso tra
forze tra loro politicamente alternative, dei programmi idonei ad affrontare le gravi
difficoltà economiche e sociali del paese. Il governo di Enrico Letta ha impostato
questo lavoro comune tra il Pd e l’allora Pdl, con l’apporto delle formazioni centriste
che avevano sostenuto la leadership di Mario Monti, anche sulla base di una
clausola del tutto esplicita di separazione tra la vicenda giudiziaria di Berlusconi
e la vita del governo di larghe intese. La clausola di separazione non ha tuttavia
retto alla prova dei fatti. La condanna definitiva di Berlusconi in Cassazione per
frode fiscale e la conseguente sua decadenza da senatore, sancita da un voto
dell’assemblea di Palazzo Madama, hanno fatto saltare l’accordo di governo.
Berlusconi è uscito dalla maggioranza e il governo ha potuto continuare il suo
lavoro, solo grazie alla scissione consumatasi nel Pdl, con la rinascita di Forza
Italia e la fondazione del Nuovo centrodestra. Era chiaro tuttavia che il destino
del governo Letta era segnato e con esso la sorte della legislatura, che poteva al
più riuscire ad approvare una nuova legge elettorale per poi riportare il paese alle
urne. È in questo scenario che si inserisce il patto del Nazareno, il vero capolavoro
politico di Matteo Renzi, che è riuscito a riportare Berlusconi al tavolo delle riforme,
senza modificare la composizione della maggioranza di governo e, come hanno
dimostrato i risultati delle europee, senza pagare alcun prezzo elettorale, anzi
semmai ottenendone un consistente vantaggio per il Pd, che col nuovo leader
e la sua strategia di movimento, ha conquistato una inedita centralità politica ed
elettorale. Ora Berlusconi è tornato ad offrire il suo sostegno anche sul versante
dell’azione di governo, in particolare nel campo economico e sociale. Penso che
il Pd e il governo, tanto più in un passaggio così difficile come quello che stiamo
attraversando, debbano accogliere in modo aperto e positivo tutte le manifestazioni
di disponibilità al confronto costruttivo che vengano dalle opposizioni. Non credo
invece che sia all’ordine del giorno, neppure da parte di Forza Italia, una rimessa in
discussione degli equilibri di governo.
Ultima domanda. Parliamo della Comunicazione del Premier. “Dal tacchino
ai gufi e agli avvoltoi lo zoo politico s’è fatto cupo”, è il titolo di un articolo
firmato, qualche giorno fa, da Jacopo Iacoboni sulla Stampa.
“Il premier si sta cucendo addosso un immaginario fatto di animali cupi
(i gufi), per non dire palesemente profittatori (gli sciacalli e gli avvoltoi),
o iettatori, gli «uccellacci del malaugurio». È una visione del mondo che
Renzi addebita a chi lo critica, non a sé, ma gli finisce appiccicata addosso,
ci pensi; rischia di essere dal punto di vista della comunicazione un
purissimo autogol, la sensazione di qualcosa di buio, e di una lingua troppo
aggressiva”. Non è venuto, per lui, il tempo del realismo e dell’umiltà?
Il realismo, a Renzi, non è mai mancato, è anzi una sua spiccata virtù. Quanto
all’umiltà, mi pare che la pratichi nei fatti, pur senza professarla troppo nelle parole.
Il resto, mi pare siano più o meno gradevoli dibattiti estetico-estivi.