Nasce un nuovo partito cattolico? Intervista a Don Rocco D’Ambrosio

Stefano Zamagni (Wikipedia)

Stefano Zamagni (Wikipedia)

Sta nascendo un nuovo partito cattolico? Pare di si. Il gruppo animato dal Professor Zamagni, Insieme questo il nome, sta facendo assemblee territoriali in vista dell’Assemblea generale che si terrà, stando ai loro documenti, alla fine di Giugno. Ma quali problemi porrà alla Chiesa? Ne parliamo, in questa intervista, con Don Rocco D’Ambrosio Professore di Filosofia della Politica alla Facoltà di Filosofia della Pontificia Università Gregoriana di Roma.

 Don Rocco D’Ambrosio (Università Gregoriana di Roma)

Don Rocco D’Ambrosio (Università Gregoriana di Roma)

Don Rocco, stando ad alcune notizie apparse in alcuni organi locali, esempio il Corriere Del mezzogiorno, c’è stata una assemblea, rigorosamente on line, in Puglia, qualche giorno dopo anche in Sicilia, di “insieme” (il gruppo organizzato dal Prof. Zamagni). Sta nascendo un
nuovo partito cattolico (di “ispirazione cristiana” anche se aperto ai non credenti)? 

Sembra proprio di si, visto che era stato già annunziato l’anno scorso e che ora, da quanto capisco, si sta organizzando a livello territoriale.

Sappiamo che il prof. Zamagni è il presidente della Pontificia Accademia delle Scienze sociali. Insomma non è una cosa di poco conto. Il papa Francesco, stando a passate dichiarazioni, non sembra che sia nella linea di costruzione di un “partito cattolico”. L’iniziativa non rischia di creare confusione?
I due problemi che lei pone sono rilevanti. Partirei dal papa e dalla sua posizione sul partito di cattolici. E’ il 30 aprile 2015 quando le agenzie di stampa riportano le parole di papa Francesco, in un discorso a braccio nell’aula Paolo VI: “Si sente: ‘Noi dobbiamo fondare un partito cattolico!’: quella non è la strada. La Chiesa è la comunità dei cristiani che adora il Padre, va sulla strada del Figlio e riceve il dono dello Spirito Santo. Non è un partito politico. ‘No, non diciamo partito, ma … un partito solo dei cattolici’: non serve e non avrà capacità convocatorie, perché farà quello per cui non è stato chiamato (…) Ma è un martirio quotidiano: cercare il bene comune senza lasciarti corrompere”. E’ interessante notare come il papa sposta l’attenzione dalla questione “partito cattolico” a quella dl “martirio quotidiano nel cercare il bene comune”.
Non abbiamo bisogno di una nuova D,C, né di nuove formazioni politiche – del resto l’Italia ha fin troppi partiti – che si ispirino al Cristianesimo. Abbiamo solo bisogno di donne e uomini coerenti con la loro fede, come anche d’intere comunità locali, che testimonino il Vangelo nei tanti e difficili campi minati, politica in primis.
Del resto il Vaticano II e Paolo VI hanno ben chiarito diversi nodi. «Una medesima fede cristiana può condurre a impegni diversi», scriveva Paolo VI nel 1971, sulla scia di Gaudium et Spes 76. L’affermazione conciliare pone fine a qualsiasi collateralismo fra comunità cristiana e partiti politici – vedi il caso DC in Italia – proprio perché presenta con chiarezza l’autonomia della sfera temporale da quella religiosa, restituendo alla comunità cristiana il suo proprio ruolo di profezia e coscienza critica, il suo evangelico servizio nei confronti dei detentori del potere e dell’intera comunità civile e politica.

E riguardo al prof. Zamagni…
Anch’io sono rimasto sorpreso dal coinvolgimento del prof. Zamagni, vista la carica di presidente Pontificia Accademia delle Scienze Sociali. E non riesco a spiegarmi le motivazioni. Tuttavia resta fermo quanto insegna il Concilio: “La Chiesa, in ragione del suo ufficio e della sua competenza, in nessuna maniera si confonde con la comunità politica e non è legata ad alcun sistema politico” (GS, 76). Forse un po’ più di chiarezza, da parte di tutti, non guasterebbe.

Come si pone la CEI nei confronti di ‘Insieme’? 
Che io sappia non ci sono stati pronunciamenti ufficiali in materia.

Insieme si ispira alla ‘dottrina sociale della chiesa’. Le chiedo: la ‘dottrina sociale’ ha bisogno di un partito?
Si tratta di una scelta storica e concreta che spetta all’autonomia dei laici cattolici di organizzarsi nella forma ritenuta più opportuna per testimoniare la fede. In nessuna di queste scelte possono dire di rappresentare la Chiesa; non a caso il Concilio precisa: “si faccia una chiara distinzione tra le azioni che i fedeli, individualmente o in gruppo, compiono in proprio nome, come cittadini, guidati dalla loro coscienza cristiana, e le azioni che essi compiono in nome della Chiesa in comunione con i loro pastori” (GS, 76). Fatta questa debita distinzione bisogna chiedersi se le condizioni culturali, politiche, sociali ed economiche, come anche ecclesiali, del nostro Paese siano, per esempio, simili a quelle, che, nel secolo scorso, hanno portato prima alla fondazione del PPI di Sturzo e poi alla DC di De Gasperi. Secondo me no. Ma è una personalissima opinione.

“Insieme” però pone un problema: quello della rilevanza dei cattolici italiani in politica. Qual è, secondo lei, lo ‘stato dell’arte’ al riguardo?
La poca rilevanza dei cattolici in politica è certamente un fatto e un problema… ma non solo politico. E’ anche culturale, sociale, economico, istituzionale, sindacale e via dicendo. In altri termini si tratta di atteggiamenti che rientrano in quella che Paolo VI chiamava frattura tra “fede e vita” (EN, 29). La possiamo recuperare – anche in politica – solo nella misura in cui crediamo e ci formiamo alla luce del Vangelo che va annunciato a “tutta” la persona (nella suo essere fisico, intellettuale ed emotivo), a tutte le persone e in ogni ambiente, nessuno escluso.

Con quale strumento e stile può oggi un cattolico può essere efficace in politica
Lo ricorda papa Francesco nella Fratelli tutti: “L’impegno educativo, lo sviluppo di abitudini solidali, la capacità di pensare la vita umana più integralmente, la profondità spirituale sono realtà necessarie per dare qualità ai rapporti umani, in modo tale che sia la società stessa a reagire di fronte alle proprie ingiustizie, alle aberrazioni, agli abusi dei poteri economici, tecnologici, politici e mediatici”. In sintesi: un cattolico maturo ha il dovere sacrosanto di formarsi, partecipare e assumere responsabilità nel mondo. Solo cosi avremo cattolici “efficaci”, autentici.

Ultima domanda: si farà il Sinodo della Chiesa italiana? Se si su quale tema? 
Lei ricorderà che i temi li ha indicati il papa sollecitando più volte l’apertura del Sinodo e legandolo alla riflessione sulla “Evangelii gaudium”. Sono temi che riguardano la comunità cattolica sia al suo interno che nel rapporto con il mondo. Si farà? Non so. Me lo auguro vivamente. Finora non sono note né date né indicazioni sulle procedure – ci auguriamo sinodali e dal basso – per farlo partire. Speriamo bene!

“Ricostruire l’Italia, con il Sud”. Intervista a Luciano Brancaccio

 

Nei giorni scorsi la rivista “il Mulino”, nella sua edizione on line, ha pubblicato un documento appello di importanti docenti universitari, nella stragrande maggioranza di università del sud Italia, in cui si propone di mettere all’attenzione del piano di ricostruzione italiano, con i fondi del “Next Generation UE”, il mezzogiorno d’Italia. Un documento davvero interessante. In buona sostanza si afferma che non ci sarà una vera ricostruzione del nostro Paese senza il Mezzogiorno. Questo documento ci offre l’opportunità di fare il punto sul “meridionalismo”. Esiste un nuovo meridionalismo? Ne parliamo , in questa intervista, con il professor Luciano  Brancaccio.  Luciano Brancaccio insegna Movimenti Sociali e Politici all’Università di Napoli Federico II. Conduce studi sulla politica e sulla criminalità organizzata in una prospettiva territoriale. Su questi temi ha di recente pubblicato: Il populismo di sinistra: il Movimento Cinque Stelle e il Movimento Arancione a Napoli (con D. Fruncillo), in «Meridiana» (2019); Crisi del clientelismo di partito e piccole rappresentanze territoriali. Forme e spazi del consenso personale a Napoli, in «Quaderni di Sociologia» (2018); I clan di camorra. Genesi e storia, Donzelli (2017).

Professore, lei e alcuni suoi colleghi, in maggioranza docenti nelle Università del Mezzogiorno, avete scritto un documento appello, in dieci punti, interessante, dal titolo :”Ricostruire l’Italia, con il Sud”. Però, prima, se mi è consentito, vorrei fare alcune domande sulla cultura “meridionalista”. Sappiamo bene quanto importanza ha avuto nella storia unitaria del nostro Paese il meridionalismo. Salvemini, Gramsci, Sturzo, E di Pasquale Saraceno, sono nomi che hanno fatto grande il “meridionalismo”. Ebbene, nel dibattito politico italiano, il “meridionalismo” sembra scomparso. Perché? Perché nessuno si professa più “meridionalista”?

C’è una ragione di carattere politico e una riguardante la riflessione sul tema. Quanto alla prima, l’inabissamento del discorso sul Mezzogiorno è una conseguenza della scomparsa del Mezzogiorno dall’agenda politica nazionale. Fino agli anni 70 gli interventi per il Mezzogiorno si inscrivevano nelle politiche per l’industria fordista, che è stata una componente non trascurabile dell’economia del Sud. Essi consistevano essenzialmente in misure di carattere macroeconomico: incentivi automatici alle imprese e grandi investimenti industriali di natura pubblica. Tramontata la fase fordista, la politica non è stata in grado di riformulare il problema, limitandosi a misure di equilibrio finanziario. Ciò ha avvantaggiato la struttura produttiva basata sulla piccola e media impresa del Nord, che poteva contare, diversamente dal Mezzogiorno, su un vantaggio competitivo costituito dalla migliore funzionalità dei fattori di contesto, relativi per esempio all’accesso al credito, a una imprenditorialità diffusa che facilmente creava reti di collaborazione, a una maggiore efficienza della Pubblica amministrazione.

Ma se la politica non è stata in grado di fare ciò è anche perché il pensiero sul Mezzogiorno non è riuscito a innovare a sufficienza le proprie categorie di analisi. Il passaggio postfordista richiedeva di superare l’approccio economicistico per affrontare i nodi irrisolti del contesto che, dopo il tramonto della grande industria, diventavano ancora più decisivi: i problemi strutturali delle grandi città, delle aree interne, delle capacità sociali e dei limiti politici. Ci sono stati alcuni studiosi, sociologi ed economisti, che hanno spinto molto negli anni passati per innovare in questa direzione. Solo per fare due nomi, Carlo Trigilia e Gianfranco Viesti hanno messo in evidenza a più riprese l’importanza di analisi che inquadrassero il ruolo dei fattori non strettamente economici dello sviluppo. Ma, complice anche la congiuntura storico-politica sfavorevole di cui dicevo, queste analisi non hanno trovato adeguata connessione con le politiche nazionali e il Mezzogiorno è entrato in un cono d’ombra dal quale ancora non è uscito.

Saraceno parlava di un “blocco sociale” (che non era più la borghesia agraria) che ha condizionato l’intervento dello Stato piegandolo agli interessi di quel blocco sociale (dilapidando il bilancio dello Stato con le famose “cattedrali nel deserto”). Non c’è lo stesso rischio anche oggi?

Quella espressione si riferiva alla presenza di un potere consolidato basato su interessi parassitari e promosso anche in sede nazionale. Oggi, semmai il problema è opposto. Nel Mezzogiorno non c’è un problema di poteri forti che fanno gerarchia, c’è piuttosto un problema di carenza di interessi organizzati. D’altra parte, i grandi mediatori clientelari della prima repubblica sono tramontati all’inizio degli anni 90. L’impoverimento assoluto e relativo degli anni successivi ha messo il Sud alla mercé di interessi diffusi, parcellizzati, particolaristici (tra i quali anche i circuiti di criminalità organizzata, che tuttavia costituiscono un problema generale e non solo del Sud, come si vede dalle recenti inchieste). Non c’è un blocco sociale al Sud, quindi. Almeno non nel senso del temine e nella dimensione dei fenomeni analizzati dal meridionalismo classico nelle varie fasi storiche del 900. Non è un caso che una nuova offerta politica antisistema (vedi il consenso verso il M5S e marginalmente la Lega di Salvini) trovi ampie praterie proprio al Sud, con scarsa capacità di resistenza, se non da parte di alcune leadership locali che agiscono su un registro decisamente populistico. Questo rende, paradossalmente, il Mezzogiorno un terreno relativamente sgombro, adatto alla ricezione di politiche innovative, purché se ne controllino in modo efficace le procedure e i risultati.

Saraceno auspicava un nuovo meridionalismo. Le domando: Esiste? Quali sono i punti cardini?

Un disegno unitario ma che deve essere in grado di declinarsi secondo le specificità dei luoghi e dei contesti socio-economici. Occorre fare tesoro della storia dell’intervento – e del non intervento – per il Mezzogiorno che abbiamo alle spalle. Politiche che promuovano l’uguaglianza, come da dettato costituzionale. Che assicurino che i servizi per i cittadini e per gli operatori economici erogati dallo Stato siano omogenei, a cominciare dai settori strategici (scuola, sanità, università e ricerca). Che assicurino una infrastrutturazione delle reti (di trasporto, di comunicazione) che metta tutti i territori in grado di dare il proprio contributo alla ricchezza nazionale. Per una questione morale di equità nazionale, che pure è decisiva per il prestigio del paese, ma anche e soprattutto per la convenienza che deriva dalla maggiore remuneratività degli investimenti nel Mezzogiorno. Questo significa, per esempio, che i trasferimenti dello Stato devono essere parametrati almeno al peso demografico e alle possibilità di miglioramento delle istituzioni locali, non alla spesa storica che invece è un moltiplicatore delle disuguaglianze. E significa anche che occorre utilizzare in modo perequativo la spesa in conto capitale per investimenti mirati allo sviluppo nel Mezzogiorno.

Parliamo del vostro documento – appello. Il titolo è molto bello e significativo: “Ricostruire l’Italia con il Sud”. l’occasione viene offerta dal Recovery Fund. Qual è la filosofia di fondo del documento? Quali sono i punti strategici?

La filosofia è quella di considerare l’Italia per quella che è e non per quella che spesso emerge nel dibattito pubblico: un paese unitario che sarà in grado di uscire dalla crisi in cui si è infilata e di cogliere le opportunità che ci vengono dal PNRR solo se saprà farlo con tutti i suoi territori. Occorre riconoscere e mettere a valore le complementarietà e le interdipendenze tra le economie e i territori del Sud e del Nord. La contrapposizione tra territori del nostro paese che spesso è sottointesa nel dibattito politico, nelle esternazioni di alcuni leader e anche nelle elaborazioni di alcuni tecnici ed esperti (qui spesso camuffata nel discorso sulle “eccellenze”) è una astrazione che non ha alcuna rispondenza nella vita reale dei cittadini e delle imprese, del Sud e del Nord. Se si vuole migliorare e offrire nuove prospettive per la parte attualmente avvantaggiata, occorre favorire un significativo avanzamento della parte più svantaggiata. D’altronde se abbiamo ottenuto come paese la porzione maggiore di aiuti europei è proprio per recuperare un gap territoriale interno che non ha eguali in altri paesi. Questo è l’obiettivo del piano europeo e su questo ci sarà chiesto conto. Chiediamo quindi che in ogni missione e linea progettuale del PNRR siano resi espliciti gli obiettivi territoriali e i risultati attesi per i cittadini e le imprese.

Sappiamo che l’Italia in Europa ha due pessimi primati: una cattiva capacità di spesa dei fondi europei e, anche, di cattive opere pubbliche (alcune). Come evitare che la storia si ripeta?

Rinforzando e innovando la PA. Occorre un intervento straordinario di riforma e rafforzamento delle amministrazioni pubbliche e in particolare di quelle comunali, di semplificazione delle norme e delle procedure. Nel Mezzogiorno gli organici sono ridotti rispetto al centronord e speso inadeguati dal punto di vista della formazione e dell’istruzione. Le nuove competenze e motivazioni dei giovani laureati devono essere trasferite direttamente, attraverso un piano straordinario di assunzioni, nel personale amministrativo degli enti periferici dello Stato e degli enti territoriali.

Un ruolo centrale, secondo voi, deve essere giocato dagli Enti locali. In particolare dai comuni. Ma non sono l’anello debole della catena?

Non più di altre amministrazioni pubbliche. Teniamo presente che i comuni negli ultimi anni hanno subito più di altre amministrazioni pesanti tagli ai trasferimenti. Gli organici si sono ridotti notevolmente di numero e sono invecchiati (anagraficamente, ma ancor di più come capacità di far fronte ai nuovi compiti richiesti dalla rivoluzione digitale). I comuni insieme alle aree metropolitane sono l’istituzione più vicina ai cittadini, quella maggiormente in grado di tarare gli interventi sulle specifiche caratteristiche dei territori.

Avete avuto un riscontro positivo al vostro documento?

Ci sono state molte manifestazioni di interesse, inviti a dibattiti, iniziative di ascolto. Di recente il Ministro per il Sud ha organizzato una giornata di ascolto in cui ha invitato Viesti che ha illustrato i contenuti del nostro documento. Tuttavia, siamo scettici per mestiere, sappiamo che non basta un dibattito o un gesto di interesse per modificare significativamente l’agenda politica del paese. Per questo intendiamo vigilare e rilanciare in tutte le sedi possibili i nostri convincimenti.

 

“La leadership di Letta potrebbe cambiare il corso della politica italiana”. Intervista a Fabio Martini  

 

Il ritorno di Enrico Letta, dall’ “esilio” parigino (dove per sette anni ha insegnato a Sciences Po), sta movimentando la politica italiana. Quali conseguenze porterà questa nuova leadership?

Ne parliamo con il cronista parlamentare e inviato della Stampa Fabio Martini.

Fabio Martini, bisogna riconoscere che la politica italiana non manca di sorprenderci. In poco più di un mese stiamo vivendo una fase di transizione assolutamente inimmaginabile fino a pochi giorni fa. Le novità, il governo Draghi e il ritorno di Letta in Italia stanno mettendo le premesse per la costruzione di scenari interessanti per l politica italiana, che sicuramente la condizioneranno nel medio periodo (non solo quello rimane della legislatura ma anche la prossima). È così?

«E’ così. Era dai tempi del triennio 1989-1992, tra Muro di Berlino e Tangentopoli, che la politica italiana non cambiava tanto e in un arco così ristretto di tempo. Nel giro di 40 giorni l’italiano più influente al mondo è diventato presidente del Consiglio; il leader della Lega – due anni fa individuato dalle principali cancellerie come un pericolo per il futuro dell’Europa – ha spiazzato tutti, votando un governo ultra-europeista e investendo sul futuro della Lega come forza di governo; i Cinque stelle, per 13 anni forza anti-sistema, sono arrivati a definirsi «liberali e moderati», affidandosi ad una personalità mai iscritta al Movimento; il Pd ha richiamato dalla riserva un personaggio fuori dalla logica delle correnti. E se i primi, decisi passi dovessero ripetersi, la leadership Letta potrebbe cambiare il corso della politica italiana. Il nuovo Pd punta a diventare il partito-guida della futura coalizione con i 5 Stelle, ma anche a far “correre” un’agenda democratica in Parlamento dove alcuni provvedimenti, fuori dal programma di governo, come lo ius soli, potrebbero essere approvati da maggioranze variabili».

Indubbiamente si tratta di un ritorno inatteso, spiazzante, per la politica italiana e i suoi attori. Pare di cogliere, per la modalità, una leadership forte che, come quella di Draghi, punta all’egemonia di questa esperienza di governo. È così?

«Sì. I primi atti – il discorso al partito, la reazione al “piattino” che il Pd romano gli stava preparando per la partita del Campidoglio e la nomina dei vicesegretari fuori dalla logica del bilancino correntizio  – dimostrano che Enrico Letta ha saputo fare tesoro delle esperienze politiche ed esistenziali del passato. Quello in campo sembra un “altro” Letta rispetto a quello che conoscevamo. Ha capito che le virtù  che lo avevano portato a palazzo Chigi da sole non bastano a dare durata ad una leadership. Saper mediare va bene, ma poi bisogna saper decidere al momento giusto. E quel momento, spesso, è qui ed ora. Rassegnandosi a scontentare qualcuno. Ecco perché le sue prime mosse autorizzano un investimento politico, almeno in chi le condivide».

Un cambio di stile e di piglio non era da mettere nel conto? 

«No. Per nulla. Era possibile ma non scontato. Lo sappiamo tutti per esperienza diretta e personale: nella vita di ognuno c’è tanta coazione a ripetere atteggiamenti mentali e scelte concrete già fatti e dai quali non sempre è facile liberarsi. Ragionare criticamente su se stessi è un esercizio non facile. Si potrebbe fare l’esempio di Matteo Renzi: un leader ricco di talento ma nel suo caso non sembra esserci stato “lavoro” su se stesso. E si vede: del suo fiuto politico si giovano altri ma non lui medesimo. Un “altruismo” apprezzabile, ma anche una nemesi amara per chi, come lui, si vuole così tanto bene».

Guardiamo all’intervento di Letta al parlamentino” Pd. Ricco di contenuti. Cosa ti ha colpito? 

«Nei sette anni di “quaresima” Letta, a differenza dei suoi colleghi, ha potuto pensare e studiare. E di questo c’è traccia nel suo discorso. Ma che Letta sia studioso e disponga di un quadro di assieme, lo sapevamo. La novità vera – almeno per ora – è un certo piglio politico. Intendo la voglia di protagonismo, la voglia di vincere. Di superare il Pd fatalista e contemplativo in campo fino a 10 giorni fa: per una parte appagato dal mantenere le proprie quote di potere ministeriale e per la parte vicina alla segreteria interessato ad entrare nel prossimo Parlamento con la propria quota. Vincere le elezioni era un optional, l’importante era farle il prima possibile».

Per alcuni osservatori è stato un intervento da candidato premier. Qual è il tuo pensiero?
«Se continuerà con questo passo e il Pd uscirà bene dalle elezioni amministrative di ottobre, non avrei dubbi: Letta sarà il candidato premier della nuova coalizione di centrosinistra. Ma il passaggio sulle Comunali non è semplice».  

 Indubbiamente la riscoperta del profilo riformista per il PD creerà non pochi problemi a qualche “monopolista” del ramo. Chi pensi che soffrirà di più questo pressing?

«Sul profilo autenticamente riformista del Pd di Letta, bisogna essere più prudenti. Il Paese con la peggiore crescita nel mondo sviluppato negli ultimi 25 anni avrebbe bisogno di riforme coraggiose, molto coraggiose. Di un pungolo sul governo. Il Pd di Letta sembra un Pd genericamente di sinistra, un Pd dei diritti, non ancora delle riforme. Se saprà fare il giusto mix, credo che alla sinistra e alla destra del Pd saranno in tanti a doversi preoccupare. Ma bisogna aspettare».

Per qualche osservatore, invece, la destra può dormire sogni tranquilli. Perché i contenuti esposti da Letta non sono d’interesse per quell’elettorato. Qual è il tuo pensiero?

«Si tornerà presto ad un bipolarismo politico e sociale. Il Pd non sembra interessato a “parlare” a tutti quelli che rischiano o a chi privilegia le scelte individuali. La destra può stare tranquilla ma semmai la competizione potrebbe riaprirsi su quelle fasce sociali che oscillano: giovani, non-garantiti, piccola impresa».

Veniamo al rapporto con i 5stelle. Un rapporto strategico per il nuovo PD e per il centrosinistra italiano. Quali saranno i motivi di competizione?

«Per Zingaretti, Bettini e Franceschini la coalizione con i Cinque stelle veniva prima di tutto perché “garantiva” il presente e un futuro magari mediocre ma privo di stenti. Letta dice: prima il partito e poi la coalizione. Si aprirà una competizione con i Cinque stelle che non è esagerato definire “geneticamente modificati”: se sono passati dal “vaffa” al definirsi moderati e addirittura liberali, significa che insisteranno sullo stesso “mercato” elettorale del Pd. C’è da aspettarsi un Pd che si smarcherà. Ma senza aggressività».

Sulla legge elettorale avrà successo la battaglia per il Mattarellum?

«Se ne riparlerà dopo le Comunali di ottobre: i partiti si faranno i loro calcoli. E potrebbero decidere di tenersi l’attuale legge, nel frattempo diventata parecchio maggioritaria Per ora è solo pretattica».

“Il PD lanci una nuova Costituente del riformismo italiano”. Intervista a Giorgio Tonini

Giorgio Tonini (LaPresse)

Nel Partito Democratico sta crescendo il dibattito. La fine del governo Conte 2 sta facendo emergere un malcontento nel patito. Torna centrale il problema della linea politica (vocazione maggioritaria oppure no), come quello della sua identità. Facciamo il punto con Giorgio Tonini esponente dell’area liberal del PD e consigliere  provinciale della Provincia autonoma di Trento e della Regione Trentino-Alto Adige.

Senatore Tonini, incominciamo questa nostra conversazione con il governo Draghi. Le chiedo, adesso che la squadra  è completa, un giudizio sul governo. L’impressione è che, guardando la vicenda dei sottosegretari, non sia partito con il piede giusto. Trova esegerata questa affermazione?

Il mio giudizio è che, nelle condizioni date, si tratta del governo migliore possibile per il paese. Del resto l’Italia, che fatica ad organizzarsi in modo soddisfacente in via ordinaria, dà sempre il meglio di sé nelle situazioni eccezionali. Dinanzi alla triplice emergenza che dobbiamo affrontare – sanitaria, socio-economica e politica – il presidente Mattarella ha chiamato a raccolta tutte le forze politiche e sociali, attorno alla personalità oggi più stimata nel nostro paese, che è anche l’italiano più conosciuto e apprezzato nel mondo. A sua volta Mario Draghi, forte di un largo consenso trasversale, ha composto un Consiglio dei ministri di alto profilo, sia tecnico che politico, una miscela sapiente di competenza e rappresentatività, che sono poi le due componenti, ugualmente importanti, per dar vita ad un governo autorevole. Questi, a mio modo di vedere, sono i dati politici essenziali. Dopo di che, ognuno ha in testa il suo “dream team”, che si tratti della nazionale di calcio o del governo del paese. Ma il fuoco, diceva De Gasperi, si fa con la legna che si ha.

Sembra che la destra, in particolare la Lega, sia più a suo agio nel governo. Per lei?

Il Pd e il M5S entrano nel nuovo scenario dopo la crisi del “loro” governo, il governo giallo-rosso, il governo Conte2, quindi con un sentimento misto, al tempo stesso di convinzione (soprattutto da parte del Pd) e frustrazione (in particolare tra i grillini). Per il centrodestra il passaggio di fase assume un significato assai diverso. Da parte di Forza Italia, l’ingresso nel nuovo esecutivo è vissuto come la fine di uno stato di esclusione dal governo che durava dal 2011, a parte i primi mesi del governo Letta. E per la Lega, che pure è costretta ad ammainare tutte le bandiere “salviniane”, il terzo governo di questa legislatura è comunque vissuto come un ritorno, quasi una rivincita. Nella sintesi hegeliana, rappresentata dal terzo governo di questa legislatura, dopo la tesi e l’antitesi dei due governi Conte, è inevitabile che il centrodestra veda soprattutto la “negazione della negazione”. Ma se dal punto di vista della sua base politico-parlamentare, il governo Draghi è effettivamente la sintesi dei due stadi precedenti, dal punto di vista del programma e della cultura politica che lo sostiene, incarnati nella figura e nelle parole inequivoche di Mario Draghi, il nuovo esecutivo non è affatto equidistante tra Conte1 e Conte2, ma si pone semmai come la terza fase, quella conclusiva (vedremo se anche definitiva) della liquidazione politica del populismo sovranista e antieuropeo che tre anni fa era entrato da vincitore nelle aule della Camera e del Senato.

La domanda sul governo era una specie di ouverture. Arriviamo al vero argomento dell’intervista: il partito democratico. Possiamo dire che la pandemia e l’esperienza del governo Conte hanno nascosto il malcontento che ora sta emergendo nel suo partito. Un malcontento che tocca la gestione del partito e della linea politica portata avanti dal segretario Zingaretti. Le chiedo: non è deleterio, in questo contesto complicatissimo (e con questo governo), dividere il PD?

Dividere il Pd, in qualunque scenario, non solo in questo, è molto più che deleterio, è un atto di irresponsabilità nei confronti del paese. Vede, nessun paese europeo ha dovuto affrontare la doppia emergenza, sanitaria e socio-economica, nel contesto di debolezza, precarietà e instabilità politica dell’Italia. Tutti e tre i governi di questa legislatura sono stati guidati da personalità (prima Conte, poi Draghi) scelte fuori dal parlamento e dai partiti. Tutto legittimo, sul piano costituzionale. Tutto necessario e anzi obbligato, sul piano politico. Ma tutto anomalo sul piano democratico. La politica italiana, questa è la verità, non è in grado di svolgere la sua funzione primaria: esprimere leader e assetti per il governo stabile del paese. La stabilità dei governi, bene primario di qualunque sistema democratico, è per noi italiani ancora un miraggio. Alla stabilità si può arrivare attraverso meccanismi istituzionali (come nel caso della Francia, governabile anche con partiti deboli o addirittura in crisi), o attraverso un sistema di partiti parlamentari forti e durevoli nel tempo, come in Germania o nel Regno Unito. Non si possono cumulare, come accade in Italia, regole istituzionali pensate per indebolire i governi e partiti deboli e precari. Un sistema democratico di tipo parlamentare è sano e forte se ha pochi (idealmente due) partiti grandi e duraturi, “a vocazione maggioritaria” come diceva Mitterrand, attorniati da qualche forza minore. Non quattro-cinque partiti medi, nessuno dei quali in grado di ottenere nemmeno un quarto dei voti, circondati da un pulviscolo di formazioni politiche in perenne metamorfosi, per lo più frutto di trasformismo parlamentare, o di scissioni motivate da ragioni contingenti se non effimere. Se ogni oppositore di Angela Merkel dentro la Cdu-Csu avesse dato vita ad un suo partitino, oggi la Germania sarebbe messa come l’Italia.

Veniamo alle critiche mosse al Segretario. In particolare, per l’area riformista, si fa osservare che il PD è stato troppo schiacciato sui cinque stelle. Per cui, sempre secondo l’area riformista, occorre tornare alla vocazione maggioritaria. Al di là delle parole qui si tocca il problema identitario del PD. Un problema enorme, che ancora non è stato definitivamente risolto. In un contesto così drammatico (disagio sociale enorme, esplosione della povertà, ricostruzione del Paese) quale identità per il PD?

L’identità di un partito, mi ha insegnato Alfredo Reichlin, è definita dalla sua funzione. Il Pd è nato da una grande convergenza e non da una scissione: dunque l’identità del Pd è la sua funzione di unire il riformismo per portarlo al governo del paese. Il Pd è la casa comune dei riformisti del centrosinistra, una casa grande e plurale, retta da un progetto politico, rendere il riformismo maggioritario nel paese per dare al paese quella stagione di riforme che non ha mai conosciuto. E retta da una regola aurea, la contendibilità di tutte le cariche e le candidature, per la quale nessuna vittoria e nessuna sconfitta nella dialettica interna è mai definitiva e irreversibile: il vincitore pro tempore non espelle gli sconfitti e gli sconfitti pro tempore non spaccano il partito. Progetto politico e principio democratico sono stati minati alle fondamenta dalle tante scissioni, inutili e dannose, perpetrate peraltro da chi dal partito aveva avuto ruoli di massima direzione, come Bersani o Renzi. Possiamo andare ancora avanti in questa diaspora, in questa deriva disperatamente nichilista, fino alla completa distruzione, fino all’annientamento del più importante e ambizioso progetto politico italiano di questo secolo. O possiamo invece assumerci la responsabilità di rilanciare la capacità inclusiva e la vocazione maggioritaria del Pd. Anche con un passaggio straordinario, una nuova Costituente del riformismo italiano, nella quale riscoprire e rilanciare le ragioni dell’unità in nome di una comune visione del futuro del paese. In questo rilancio di un riformismo ripensato e rinnovato deve esserci spazio anche per una riflessione non rituale sul populismo. Il riformismo perde se non ascolta, interpreta e rappresenta le ragioni del popolo. Le ultime riflessioni di Emanuele Macaluso sono state un grido d’allarme circa la gravità e l’aggravarsi progressivo della frattura tra riformismo e popolo. È in questa chiave che è stato giusto aprire un dialogo tra Pd e Cinquestelle: un dialogo che ho sempre sostenuto e difeso. Un dialogo che ha prodotto risultati importanti per il paese, a cominciare dal ritorno (e da protagonista) dell’Italia nel “mainstream” europeo, un ritorno che ha contribuito non poco a rendere possibile la “svolta keynesiana” della politica economica dell’Unione. Un dialogo che non è riuscito tuttavia a mostrare capacità espansive sul piano dei consensi, né in parlamento, né nel paese. Forse perché impostato, da entrambe le parti, più sul piano della divisione del lavoro e della spartizione di aree di influenza e di potere, che sulla produzione di una sintesi politica e programmatica più avanzata e persuasiva. Probabilmente, la crisi del governo Conte2 ha in questo limite strategico le sue cause non occasionali.

Voi del PD avete chiaro chi sono i vostri elettori?

I nostri elettori attuali e reali sono prevalentemente ceti medi urbani che vivono di spesa pubblica. Una parte pregiata, ma strutturalmente minoritaria, del paese. Il Pd, come l’Ulivo prima del Pd e in generale la sinistra e il centrosinistra dopo la fine della “Prima Repubblica”, fatica a rappresentare, per dirla con Claudio Martelli, sia il merito che i bisogni: sia i competenti-competitivi sul mercato, sia i perdenti della globalizzazione, a cominciare dagli operai. Vocazione maggioritaria significa oggi in concreto saldare i (relativamente) garantiti dalla spesa pubblica, con i competitivi da una parte e i perdenti dall’altra. Il ciclo di governo a guida Pd della scorsa legislatura (prima Letta, poi Renzi, poi Gentiloni) non è riuscito in questo tentativo: un fallimento del quale mi sento, per la mia parte, corresponsabile. Purtroppo nel Pd, dove si discute e soprattutto si litiga in piazza ogni giorno su tutto, non si è mai avviata una vera riflessione sulle cause e sui possibili rimedi di quel fallimento, riassunto nella cocente sconfitta del 2018. Ci si è divisi su Renzi: tutta colpa sua, cacciamolo, contro tutta colpa di chi lo ha contrastato, cacciamoli. Come i milanesi durante la peste raccontata dal Manzoni, invece di indagare le cause, ci siamo dedicati alla poco nobile arte della caccia al colpevole. Né i renziani, né gli antirenziani si sono chiesti perché nel giro di due anni, con lo stesso segretario, il Pd è volato sopra il 40 per cento, per poi precipitare sotto il 20. Dal massimo al minimo storico.

Torniamo al governo, non pensa che la lealtà, assolutamente doverosa, non debba essere la sola caratteristica del PD al governo, ma dovrebbe essere anche quella di un protagonismo capace di creare una egemonia politica nel governo?

Il Pd non potrebbe non sostenere il governo Draghi, neppure se, per assurdo, lo volesse. Perché sarebbe come non sostenere se stesso, i fondamenti primari della sua cultura politica. Quindi lealtà è troppo poco. Il governo Draghi per il Pd non è un “governo amico”, è il “suo” governo. È il “nostro” governo. Il protagonismo del Pd deve esprimersi in due direzioni. Innanzi tutto sul piano programmatico. Ho parlato prima del nostro fallimento politico nella scorsa legislatura. A parziale nostro discarico, possiamo invocare l’argomento della totale inadeguatezza della linea di politica economica dell’Europa. L’allora ministro Padoan parlava di un “sentiero stretto” lungo il quale l’Italia doveva camminare a passi piccoli e prudenti: tra politiche restrittive, per evitare il default del nostro gigantesco debito pubblico, e politiche espansive, per evitare che la cronica stagnazione della nostra economia reale diventasse recessione e depressione. Quel sentiero era stato reso praticabile dalla politica monetaria, marcatamente espansiva, della Bce presieduta da Mario Draghi. Ma il sentiero restava stretto perché, come ripetutamente e pubblicamente sottolineato dallo stesso Draghi, la politica monetaria non era sorretta da una parallela politica economica espansiva a livello federale europeo, l’unica in grado di compensare le politiche restrittive necessarie nei paesi fortemente indebitati e di sostenere le riforme strutturali, indispensabili per accrescere la competitività delle nostre imprese sul mercato globale. Quella svolta è ora finalmente arrivata. Il governo Draghi deve poter dimostrare che la forza espansiva dell’imponente pacchetto di misure keynesiane europee sarà impiegata dall’Italia per fare solo debito “buono” (quello che si ripaga perché alimenta la crescita e non si limita ad accompagnare il declino) e per sostenere le riforme strutturali che rendano possibile e sostenibile la distruzione creatrice, che è la chiave per accrescere la competitività del nostro sistema e dunque la crescita e l’occupazione. Il Pd deve scommettere senza riserve mentali sul successo dell’Agenda Draghi: perché è l’unica chance per l’Italia, ma anche perché è l’unica chance per il Pd, per dimostrare a se stesso e al paese che è possibile una nuova convergenza tra riforme e popolo, una credibile ambizione maggioritaria del riformismo.

Questa è la prima direttrice del protagonismo Pd. La seconda?

La seconda è più semplice, se si realizza la prima. La componente cosiddetta “tecnica” del governo Draghi è perlopiù incarnata da personalità che da sempre si riconoscono nel riformismo di centrosinistra. Il Pd dovrebbe nutrire l’ambizione di diventare abitabile, in via naturale e spontanea, per personalità, mondi, ambienti che oggi fanno fatica a riconoscersi in un partito dilaniato da incomprensibili baruffe tra piccoli leader di ancor più piccole correnti.

Veniamo a Giuseppe Conte, qual è il suo pensiero su di lui? Pensa che possa essere ancora il punto di riferimento per i progressisti?

Non conosco personalmente Giuseppe Conte, ma gli riconosco il merito di aver guidato con dignità e responsabilità una transizione assai difficile. Sul suo futuro politico, non saprei. Spero che decida di portare il suo contributo alla ricomposizione della frattura tra riformismo e popolo. Sul proliferare di partitini personali ho già espresso la mia opinione.

Non le preoccupa la crescita di Giorgia Meloni?

Certo. È un segnale di quanto sia ancora irrisolta la frattura tra riformismo e popolo. Sul tempo medio, è un fattore di forza tattica, ma anche di debolezza strategica del centrodestra. Forza tattica, perché è del tutto evidente che il centrodestra, superata (come speriamo tutti) l’emergenza e scelto insieme il nuovo presidente della Repubblica, si appresta a chiedere il voto, convinto di poter saldare in modo vincente il “partito del Nord”, che si è ritrovato attorno all’asse governativo tra Forza Italia e Lega (almeno parzialmente) “desalvinizzata”, asse sdoganato dall’esperienza del governo Draghi, con le aree, geografiche e sociali, del paese che mantengono un atteggiamento di diffidenza e di protesta e che oggi tendono a riconoscersi soprattutto in FdI. Questa forza tattica rischia tuttavia di capovolgersi in debolezza strategica, se il partito della Meloni dovesse rafforzarsi in modo tale da mutare in modo significativo gli attuali rapporti di forza nel centrodestra. Molto dipenderà anche dal Pd: se saprà utilizzare appieno il sostegno e anzi l’identificazione col  governo Draghi come propellente di un allargamento delle basi del suo consenso nel paese, o se invece cederà questa opportunità al rinnovato asse tra Lega e Forza Italia. Come avviene in ogni grande coalizione, la collaborazione tra avversari non può che essere anche una competizione: per il migliore posizionamento, in vista del confronto elettorale futuro.

“Abbiamo bisogno di un vero amore politico”. Lettera alla Costituzione del Cardinale Matteo Zuppi

Un grande gesto d’amore nei confronti della nostra carta fondamentale come fonte di ispirazione alta per la politica. Proprio nel momento in cui la politica non da un esempio di attenzione alla drammatica situazione del Paese, questa del Cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna, è un forte richiamo, tra l’altro, alla serietà della politica. La lettera ha molto colpito l’opinione pubblica italiana. La pubblichiamo integralmente, la offriamo,  così, alle riflessioni dei lettori.

 

 

Cara Costituzione

Sento proprio il bisogno di scriverti una lettera, anzitutto per ringraziarti di quello che rappresenti da tanto tempo per tutti noi. Hai quasi 75 anni, ma li porti benissimo! Ti voglio chiedere aiuto, perché siamo in un momento difficile e quando l’Italia, la nostra patria, ha problemi, sento che abbiamo bisogno di te per ricordare da dove veniamo e per scegliere da che parte andare. E poi che cosa ci serve litigare quando si deve costruire?

Come cristiano la luce della mia vita è Dio, che si è manifestato in Gesù. E’ una luce bellissima perché luce di un amore, esigente e umanissimo, che mi aiuta a vedere la storia dove Dio, che è amore, si manifesta. Mi insegna ad amare ogni persona, perché ognuno è importante. Mi chiede di farlo senza interessi perché l’unico interesse dell’amore è l’amore stesso, quindi gratuitamente, senza convenienze personali, in maniera universale. Fratelli tutti! E questo, in un mondo che si è fatto piccolo e con tanti cuori troppo ristretti perché pieni di paura e soli. Penso ci sia bisogno di questa luce, anche nelle Istituzioni, perché dona speranza, rende largo e umano il cuore, insegna a guardare al bene di tutti perché così ciascuno trova anche il suo.

Stiamo vivendo un periodo difficile. Dopo tanti mesi siamo ancora nella tempesta del COVID. Qualcuno non ne può più. Molti non ci sono più. All’inizio tanti pensavano non fosse niente, altri erano sicuri che si risolvesse subito tanto da continuare come se il virus non esistesse, altri credevano che dopo un breve sforzo sarebbe finito, senza perseveranza e impegno costante. Quanta sofferenza, visibile e quanta nascosta nel profondo dell’animo delle persone! Quanti non abbiamo potuto salutare nel loro ultimo viaggio! Che ferita non averlo potuto fare! Sai, molti di quelli che ci hanno lasciato sono proprio quelli che hanno votato per i tuoi padri. Anche per loro ti chiedo di aiutarci. Quando penso a come ti hanno voluta, mi commuovo, perché i padri costituenti sono stati proprio bravi! Erano diversissimi, avversari, con idee molto distanti eppure si misero d’accordo su quello che conta e su cui tutti – tutti – volevano costruire il nostro Paese. Vorrei che anche noi facessimo così, a cominciare da quelli che sono dove tu sei nata. C’era tanta sofferenza: c’era stata la guerra, la lotta contro il nazismo e il fascismo e si era combattuta una vera e propria guerra fratricida. Certo. Non c’è paragone tra come era ridotta l’Italia allora e come è oggi! Tutto era distrutto, molte erano le divisioni e le ferite. Eppure c’era tanta speranza. Adesso ce n’è di meno, qualche volta penso – e non sai quanto mi dispiace! – davvero poca. Non si può vivere senza speranza! Quando sei nata c’erano tanti bambini e ragazzi, quelli che ora sono i nostri genitori e nonni. Vorrei che ci regalassi tanta speranza e tanti figli, tutti figli nostri anche quelli di chi viene da lontano, perché se abbiamo figli possiamo sperare, altrimenti ci ritroviamo contenti solo nel mantenere avidamente quello che abbiamo, e questo proprio non basta e in realtà non ci fa nemmeno stare bene.

Cara Costituzione, tu ci ricordi che non è possibile star bene da soli perché possiamo star bene solo assieme. Tu ci ricordi che dobbiamo imparare che c’è un limite nell’esercizio del potere e che i diritti sono sempre collegati a delle responsabilità collettive: non va bene che la persona – che tu ritieni così importante, che tu difendi e di cui vuoi il riscatto da ogni umiliazione – si pensi in maniera isolata e autosufficiente. I diritti impongono dei doveri. Ognuno è da te chiamato a pensarsi, progettarsi e immaginarsi sempre insieme agli altri. Tu, infatti, chiedi a tutti di mettere le proprie capacità a servizio della fraternità, perché la società come tu la pensi non è un insieme di isole, ma una comunità tra persone, tra le nazioni e tra i popoli. Fondamentale l’art. 2 in cui parli dei diritti inalienabili dell’uomo, di ogni uomo non solo dei cittadini e dei doveri inderogabili di solidarietà. Ci ricordi (art. 4) il dovere, per ogni cittadino, di impegnarsi in attività che contribuiscano al progresso sociale e civile. Si tratta di due dei “principi fondamentali”, che fanno parte del volto e dell’anima della Repubblica. Per te la libertà (e tu sapevi bene cosa significava non averla e combatti contro ogni totalitarismo, non solo ideologico, ma anche economico, militare o giudiziale) non è mai solo libertà da qualcosa ma per qualcosa. Nell’art. 4 affermi infatti che “ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta (quindi in piena libertà di risposta alla propria vocazione), una attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”, trasformando così tutte le “libertà da” – elencate soprattutto, ma non solo, dall’art. 13 all’art. 25 – “in libertà per”. Certo, purtroppo per questo la fratellanza è rimasta spesso indietro, perché senza essere liberi per qualcosa e per gli altri abbiamo finito per costruire una libertà distorta, che tradisce la vera uguaglianza. Tu ci dici che siamo uguali (art. 3), ma non è una enunciazione vaga, perché ci dici anche che uno dei compiti primari dello Stato è rimuovere gli ostacoli nella vita delle persone e del loro sviluppo esistenziale e civile (artt. da 35 a 38 e poi 41 e 42). In sostanza ci dai il fondamento di una società basata su una vera fratellanza ed eguaglianza e non solo una fredda e impersonale imparzialità.

Cara Costituzione, abbiamo tanto bisogno di serietà e i tuoi padri ce lo ricordano. Spero proprio che noi tutti – a partire dai politici – sappiamo far tesoro di quello che impariamo dalle nostre sofferenze, cercando quanto ci unisce e mettendo da parte gli interessi di parte, scusa il gioco di parole. Abbiamo bisogno di vero “amore politico”!

Tu ci rammenti che non possiamo derogare dai doveri della solidarietà (art.2) che sono intrecciati con i diritti. Questi esistono e si sviluppano (insieme alla personalità) nei gruppi sociali intermedi tra l’individuo e lo Stato: la famiglia, prima di tutto, ma anche le associazioni e i gruppi sociali, religiosi, ecc. Per te l’unità prevale davvero sul conflitto (artt. 10 e 11).

La stessa salute va curata – altro che vivere come viene: siamo davvero responsabili gli uni degli altri! (art. 32) – perché la salute non è solo un fondamentale diritto dell’individuo, ma interesse dell’intera collettività. Questo non vale solamente per difenderci meglio dai contagi o per gestire in maniera più efficiente il sistema sanitario, ma perché l’attenzione alla salute di tutti e di ciascuno è uno dei presupposti basilari di una vera cittadinanza attiva. Insomma: star bene anche per potersi impegnare per gli altri e quindi per tutti.

Anche per questo (art. 35) la Repubblica “cura” (che bel verbo, invece di “tutela” o “garantisce”) non solo la formazione, ma anche “l’elevazione” professionale dei lavoratori. Questo significa dare una visione umanizzante del lavoro e del contributo che ci si aspetta dai lavoratori. Tu dici una cosa bellissima: (art. 36) il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro; e aggiungi che questa retribuzione deve essere “in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Per te il lavoro è collegato allo sviluppo umano. Io vorrei che dopo la crisi della pandemia si smettesse di praticare il precariato, il caporalato e il lavoro nero, e che ci potessimo impegnare nel mettere in regola i lavoratori, dando continuità e stabilità alla vita delle persone. Certo a qualcuno conviene avere la possibilità di non “sistemare” i lavoratori, ma come si fa a vivere e a progettare la vita senza sicurezze e senza sufficienti garanzie di futuro? Come non pensare anche a tutti coloro che sono in seria difficoltà e rischiano di perdere il lavoro in questo tempo di pandemia e in quello del dopo pandemia, quando emergeranno anche i problemi adesso sommersi! Ecco, per questo abbiamo bisogno di lavoro, di chi lo crea, non specula e di garantire equità e opportunità a tutti. Non c’è dignità della vita senza lavoro. Spero che tu ci possa aiutare a non aspettare sempre qualche bonus e a smettere di speculare.

Cara Costituzione, incoraggiaci a costruire, ad essere imprenditori che rischiano per sé e per gli altri mettendo in gioco tutta la nostra capacità e dedizione, sapendo che si tratta del futuro delle persone. Insieme, imprenditori e lavoratori. Tu (art. 41) garantisci la libertà dell’iniziativa economica, ma dicendoci che tale iniziativa “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” e aggiungi che la legge deve preoccuparsi affinché “l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. Papa Francesco ce lo ha ricordato più volte parlando della proprietà privata. Qualcuno si è spaventato, tradendo un pregiudizio oppure manifestando di volere per sé quello che, invece, deve servire per il bene di tutti, perché solo così si giustifica e si conserva. Tu (art. 42) stabilisci che “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”.

Insomma, siamo per davvero sulla stessa barca! Facciamo ancora tanta fatica a capirlo, ma è proprio così! Per questo aggiungi (art. 45) che lavorare insieme è importante riconoscendo la “funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità”. Quanto è utile che tu ci ricordi che solo insieme ne veniamo fuori, che chi resta indietro non lo possiamo abbandonare e che siamo chiamati come cittadini responsabili a lavorare per dare a tutti delle opportunità concrete.

L’ascensore sociale non può restare guasto, perché altrimenti quelli che si trovano più in basso non riescono a rialzarsi, in quanto sono senza possibilità reali di riscatto e progresso. E così non solo non è giusto, ma ci depriva di ogni vero futuro! Per questo ci ricordi quanto è importante riunirsi, parlare, discutere, confrontarsi. Tu ci garantisci (art. 18) il “diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione…”, questo lo sottolinei non solo perché nessuno lo limiti ma perché è importante custodire ed incoraggiare la vita sociale e comunitaria. Hai voluto garantire espressamente un diritto fondamentale per la formazione della personalità (non era di per sé necessario, perché rientrava comunque nelle libertà già in altre norme genericamente riconosciute, ma tu hai voluto sottolinearlo con forza e decisione). Ma ci ricordi che la casa comune significa diritti e doveri e che è importante partecipare tutti. A te i furbi, furbetti, di vario genere proprio non vanno giù! Adesso che abbiamo tanti problemi come si fa a essere furbi, speculare per sé invece di aiutarsi (art. 53)? Perché poi ci rimettono i più deboli, quelli che non ce la fanno, i poveri, vecchi e nuovi. “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”. Insomma, bisogna pagare le tasse e perché nessuno si lamenti che non serve, anzi, rubi (in tanti modi perché non pagarle significa togliere agli altri!) hai chiesto (art. 54) a tutti i cittadini il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi. E anche che “i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge”. Oggi direi con correttezza esemplare, anche perché ne va della fiducia degli altri nella cosa di tutti! Ecco come si fa a vivere bene assieme. Come in famiglia.

“Infatti, la nostra società vince quando ogni persona, ogni gruppo sociale, si sente veramente a casa. In una famiglia, i genitori, i nonni, i bambini sono di casa; nessuno è escluso. Se uno ha una difficoltà, anche grave, anche quando ‘se l’è cercata’, gli altri vengono in suo aiuto, lo sostengono; il suo dolore è di tutti. […] Nelle famiglie, tutti contribuiscono al progetto comune, tutti lavorano per il bene comune, ma senza annullare l’individuo; al contrario, lo sostengono, lo promuovono. Litigano, ma c’è qualcosa che non si smuove: quel legame familiare. I litigi di famiglia dopo sono riconciliazioni. Le gioie e i dolori di ciascuno sono fatti propri da tutti. Questo sì è essere famiglia! Se potessimo riuscire a vedere l’avversario politico o il vicino di casa con gli stessi occhi con cui vediamo i bambini, le mogli, i mariti, i padri e le madri. Che bello sarebbe!” (FT 230). È solo pensando alla famiglia e all’intera famiglia umana che ci può essere la pace (FT 141). “La vera qualità dei diversi Paesi del mondo si misura da questa capacità di pensare non solo come Paese, ma anche come famiglia umana, e questo si dimostra specialmente nei periodi critici”. La pandemia ci ha coinvolto tutti, in tutto il mondo. Quanto vorrei che crescesse il sogno di ricercare il bene di tutti nella stanza del mondo dove viviamo assieme e dove possiamo riconoscerci “Fratelli tutti”.

A proposito. La famiglia (art. 29) è riconosciuta come “società naturale”, perché volevi sottolineare che la famiglia è una realtà umana precedente lo Stato e in qualche modo realtà autonoma da questo, perciò usi il bellissimo termine “riconosciuta”. Parola che utilizzi poche volte e sempre per diritti o realtà la cui esistenza è appunto “riconosciuta” e non originata dallo Stato, come per i diritti inalienabili dell’uomo (art. 2) in cui ci ricordi che l’educazione, la casa e il lavoro sono indispensabili per vivere. In questo quadro ci inviti anche ad essere accoglienti e ospitali. Nella nostra storia ci hanno accolto e ora noi non accogliamo? Forse dobbiamo ricordarci che dobbiamo agevolare “con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi” e sottolinei che bisogna avere particolare riguardo alle famiglie numerose (art. 31). Non dobbiamo finalmente mettere in pratica questa tua indicazione di proteggere “la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo”? E’ così sconfortante non vedere bambini e senza bambini c’è meno speranza e cresce la paura. Cosa ci richiede proteggere la maternità?

Un’ultima preoccupazione. Tu ricordi che la pace va difesa ad ogni costo (art. 11). Tu sei nata dopo la guerra. Avevi nel cuore l’Europa unita perché avevi visto la tragedia della divisione. Senza questa eredità rischiamo di rendere di nuovo i confini dei muri e motivo di inimicizia, mentre sono ponti, unione con l’altro Paese. Solo insieme abbiamo futuro! Abbiamo tanto da fare in un mondo che è bagnato dal sangue nei tanti pezzi della guerra mondiale! E se, come affermi solennemente, ripudiamo la guerra, dobbiamo cercare di trasformare le armi in progetti di pace, come Papa Francesco – grande sognatore e realista come te – ha chiesto. “Con il denaro che si impiega nelle armi e in altre spese militari costituiamo un Fondo mondiale per eliminare finalmente la fame e per lo sviluppo dei Paesi più poveri, così che i loro abitanti non ricorrano a soluzioni violente o ingannevoli e non siano costretti ad abbandonare i loro Paesi per cercare una vita più dignitosa” (FT 262). Ripudiare la guerra vuol dire costruire la pace praticando il dialogo per arrivare ad abolire la guerra! La pace e la stabilità internazionali non possono essere fondate su un falso senso di sicurezza, sulla minaccia di una distruzione reciproca o di totale annientamento. “L’obiettivo finale dell’eliminazione totale delle armi nucleari diventa sia una sfida sia un imperativo morale e umanitario”, scrive Papa Francesco senza mezzi termini.

Grazie. Cara Costituzione, ascoltando te già sto meglio perché mi trasmetti tanta fiducia e tanta serietà per la nostra casa comune. Se ce ne è poca anch’io devo fare la mia parte! Proprio come tu vuoi.

  • Matteo

Gennaio 2021

P.S.: Ti farà piacere, carissima Costituzione, rileggere queste parole di uno dei tuoi padri. Ti voleva bene e parlava spesso di te con amore grande e lo insegnava ai giovani che non ti conoscevano.

“Alla fine, vorrei dire soprattutto ai giovani: non abbiate prevenzioni rispetto alla Costituzione del ‘48, solo perché opera di una generazione ormai trascorsa. La Costituzione americana è in vigore da duecento anni, e in questi due secoli nessuna generazione l’ha rifiutata o ha proposto di riscriverla integralmente, ha soltanto operato singoli emendamenti puntuali al testo originario dei Padri di Philadelphia, nonostante che nel frattempo la società americana sia passata da uno Stato di pionieri a uno Stato oggi leader del mondo…E’ proprio nei momenti di confusione o di transizione indistinta che le Costituzioni adempiono la più vera loro funzione: cioè quella di essere per tutti punto di riferimento e di chiarimento. Cercate quindi di conoscerla, di comprendere in profondità i suoi principî fondanti, e quindi di farvela amica e compagna di strada. Essa, con le revisioni possibili ed opportune, può garantirvi effettivamente tutti i diritti e tutte le libertà a cui potete ragionevolmente aspirare; vi sarà presidio sicuro, nel vostro futuro, contro ogni inganno e contro ogni asservimento, per qualunque cammino vogliate procedere, e per qualunque meta vi prefissiate” (Giuseppe Dossetti, Discorso tenuto all’Università di Parma, 26.IV.1995).