I sindacati respingono la legge sul salario minimo. Intervista a Giuseppe Sabella

 

A poco più di un mese dalla data che segnerà l’inizio di una nuova legislatura, il dibattito intorno all’ipotesi di salario minimo è cresciuto molto. Non solo Matteo Renzi e il Pd a favore di questa misura, ma anche la stessa Lega di Salvini. Sarà forse questo che ha reso più vivace la discussione tra Confindustria, Cgil Cisl e Uil circa il rinnovo dell’accordo generale? Ne parliamo con Giuseppe Sabella, direttore di Think-in, oggi ospite della Fondazione “Marco Biagi” a Modena insieme al Segretario Generale della Fim Marco Bentivogli per un incontro sull’Industria 4.0.

Prima di Natale si davano le Parti molto vicine alla firma. E oggi?

Non a caso, nell’ultima chiacchierata con lei, dicevo appunto “finché non vedo non credo” e sostanzialmente è ciò che le ribadisco oggi. Resta comunque vero che le Parti sono molto d’accordo sui contenuti di questa intesa che, per quanto non rappresenti nessuna svolta particolare, credo che al sistema faccia bene.

Perché non si tratta di una svolta particolare?

Perché di fatto i contratti si sono già rinnovati, quindi sul piano degli assetti contrattuali l’accordo generale avrà poco da dire. Ci sono tuttavia altri aspetti su cui le confederazioni possono svolgere un ruolo di regia importantissimo.

Per esempio?

Vedi il problema enorme dei quasi 900 contratti nazionali depositati al CNEL, di cui solo 300 sono firmati da Cgil Cisl Uil e di cui quasi la metàà presentano minimi retributivi inferiori del 30%. Questo è ciò che spinge la politica verso il salario minimo, ma le parti non amano l’invasione di campo del legislatore, preferiscono difendere la loro autonomia. Questo è fondamentalmente ciò che oggi spinge le confederazioni alle firme.  

A che punto siamo in Italia col programma Industria4.0?

Confindustria ci dice che più o meno solo il 25% delle nostre imprese conosce un andamento solido, anche per via della loro presenza sul mercato globale. Sono, in poche parole, le imprese che hanno capito la trasformazione, consapevoli del fatto che oggi per competere bisogna “andare nel mondo”, il mercato casalingo non basta più. Credo che il programma industria4.0 abbia possibilità di incidere in questa fascia, la speranza è certamente che questo 25% possa crescere ma la difficoltàà più grande dell’impresa di casa nostra è di carattere culturale, è quella di comprendere la trasformazione. 

Come vede, in questo senso, il manifesto Calenda-Bentivogli?

Il manifesto per l’industria e per “l’Italia delle competenze” è un punto di partenza imprescindibile, se ne può discutere ma certamente rovesciarne l’impostazione – come qualcuno si azzarda a fare – significa non avere il polso della situazione dell’economia e dell’industria. Calenda e Bentivogli sono due bravi interpreti della trasformazione, sono le persone di cui abbiamo bisogno per ridurre quel gap culturale a cui alludevo prima. Credo, tuttavia, che ci si debba inventare qualcosa per aiutare in particolare la PMI, così reticente e refrattaria al cambiamento.

“Per un sindacato che affronta le novità e ne diventi protagonista”. Intervista a Marco Bentivogli

Il 2017 è stato un anno importante per il movimento sindacale italiano, in particolare per la categoria dei metalmeccanici. Quali saranno le prossime sfide per il sindacato confederale? Ne parliamo, in questa intervista, con Marco Bentivogli, Segretario Nazionale della Fim-Cisl.

Marco Bentivogli, facciamo un piccolo bilancio del 2017. Nel 2017 i metalmeccanici sono tornati protagonisti nel movimento sindacale. Puoi dirci i risultati dell’anno appena passato?

È stato un anno importante: si sono chiusi tanti rinnovi contrattuali, nei metalmeccanici li abbiamo centrati tutti cercando di innovare impianto e contenuti del Contratto Nazionale. Abbiamo risolto molte crisi industriali e riacceso la speranza per Alcoa, mancano ancora all’appello Ilva, Aferpi e tante altre su cui siamo impegnati anche in queste ore.

E sul piano confederale, la Cisl è stata determinante per dare un senso e risultati alla riapertura del dialogo col Governo, sul lavoro, la povertà, le pensioni, temi su cui abbiamo superato un’incomunicabilità pericolosa.

 

Quali accordi puoi definirli come “strategici”, nel senso che portano innovazione alla cultura sindacale?

È appena iniziata la gestione dei Contratti, fase spesso trascurata dopo la firma. Un bel colpo è stato il primo contratto territoriale firmato a Bergamo con Confimi. Tenteremo una pista del tutto nuova anche in Manfrotto. È il momento di consolidare ovunque un nuovo sistema di inquadramento professionale.

Il mondo del lavoro e più in generale la società stanno profondamente cambiando, come sono cambiati anche i bisogni dei lavoratori. Davanti ai cambiamenti del mondo del lavoro, il sindacato non può e non deve stare fermo, deve sapersi evolvere al passo di quella che ormai tutti definiscono la Quarta Rivoluzione Industriale. Industry 4.0 è una grande occasione per il rilancio della nostra industria ma serve un vero e proprio ecosistema 4.0 in cui tutte le parti agiscono con responsabilità ed integrazione. Il lavoro del futuro porterà a un lavoratore professionalizzato, con un ruolo crescente, diventerà sempre più stakeholder dell’impresa. Ci sarà un’evoluzione delle relazioni industriali con salto di qualità in senso partecipativo. Questo non determinerà la fine della rappresentanza ma servirà un’evoluzione nelle relazioni industriali. La smart factory la ‘fabbrica intelligente e agile’ non funziona senza le persone, e neanche senza la smart union, vale a dire che servirà un sindacato competente, che studia, ascolta e capace di guardare le spalle alle persone promuovendole nel lavoro. Il futuro che si apre davanti a noi sarà per un sindacato che non si chiude in difensiva con desueti slogan sulla contrattazione e la rappresentanza. Sarà invece per un sindacato che affronta le novità e ne diventa protagonista. Di fronte a tutti questi cambiamenti penso che sia necessaria una rappresentanza più snella e forte: non ha più senso la proliferazione dei soggetti sindacali. Modelli evoluti di partecipazione si realizzano nei Paesi in cui si è ridotti il numero dei sindacati, dei contratti collettivi e delle categorie. È necessaria una semplificazione dei livelli organizzativi che tenda alla realizzazione di un’organizzazione più leggera e partecipata. Per aprire questo nuovo ciclo sindacale, ci vuole coraggio e una visione lungimirante.

 

Il 2018 sarà un anno, per il sindacato, importante. E’ l’anno, anche, del Congresso della Cgil. Pensi che la nuova leadership di Corso Italia sarà più disponibile ad affrontare un cammino che porti all’unità del Sindaco Confederale? Quale elemento frena, ancora, questo cammino?

La Cgil è imprigionata in un’idea del lavoro e del sindacato le cui difficoltà sono accentuate dall’essere orfane di un rapporto organico con un partito di dimensioni degne di una grande confederazione. Mi sembrano più concentrati sull’insuccesso del Pd che sulle tematiche del lavoro. È vero che in tal modo si è rappresentativi dell’Italia del rancore” ma quel paese non si iscrive al sindacato e consegna lo stomaco ai populisti e alle destre.

Credo, come dice Mauro Magatti, che senza nuovi paradigmi rischiamo di fare solo tenerezza nella nostra auto-marginalizzazione. Nonostante le profonde divisioni penso che le ragioni che nel dopoguerra hanno dato vita a Cgil Cisl Uil non siano più attuali. Nei grandi sindacati europei coesistono culture, socialdemocratiche, liberali, ambientaliste, radici più vicine alla dottrina sociale della Chiesa. In Italia abbiamo fatto meglio dei partiti (guardi a sinistra dove ne nasce uno al giorno…) ma dobbiamo osare di più in futuro.

L’unità non guasta ma deve produrre avanzamenti. Quando si è uniti per star fermi o in retromarcia meglio non allontanarmi mai dal merito e difendere la nostra gente, proprio come abbiamo fatto questo mese su lavoro e previdenza.

Non nego che una semplificazione del quadro sindacale sarebbe utile, all’interno delle confederazioni, come è avvenuto in tutta Europa riducendo il numero delle categorie e nel numero delle sigle sindacali. In Fca siamo in 7 sindacati, in altri settori si siedono al tavolo anche 30 sigle. Non solo bisogna rendere operativi gli accordi sulla rappresentanza sostenendo la selezione di rappresentatività per sindacati di lavoratori e imprese con una cornice legislativa ma credo bisognerebbe andare oltre.

 

La Fabbrica 4.0 mette in discussione vecchi paradigmi fordisti. Eppure c’è Ancora, nel lavoro italiano, molto fordismo. Torna il tema del conflitto sociale. Questo il sindacato non lo può dimenticare…. Qual è il tuo pensiero?

Mette in soffitta antagonismo padronale e sindacale ma funziona se è sostituito da modelli di partecipazione evoluti. Il conflitto sorge dove si utilizza la tecnologia senza progettazione sociale o dove non si investe affatto in tecnologia. C’è un dualismo economico tra imprese che innovano, investono, esportano e il resto, che non punta al futuro e investe solo su conflitto e ammortizzatori sociali.

 

Ci sono forze politiche che propongono il ripristino dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Una mossa giusta? Più in generale qual è il tuo giudizio sul Job act?

Credo che la partita del Job Act sia stata viziata fin dall’inizio da due atteggiamenti sbagliati: da una parte il trionfalismo che vedeva nel provvedimento la soluzione di tutti i problemi del lavoro in un paese in cui l’industria aveva perso 1/3 del suo tessuto. L’altro atteggiamento sbagliato è stato quello ideologico che vedeva nel Job Act e nell’art 18 la causa di tutti i mali perché avrebbero determinato l’aumento dei licenziamenti. Possiamo sicuramente rintracciare nel provvedimento degli aspetti positivi e negativi. Non banalizzo l’aspetto positivo del provvedimento sulle assunzioni e sull’apprendistato di primo livello che sono elementi fondamentali ma ritengo che il Job Act, poteva essere una grande opportunità per fare molto di più. Quando parliamo di lavoro bisogna essere più realistici, per far ripartire le assunzioni bisogna pensare a come poter rilanciare l’industria e far ripartire gli investimenti, motori essenziali per la crescita del Paese. Tra gli aspetti negativi che non condiviso del Job Act sicuramente lo scarso coraggio messo in campo dal governo per lo sfoltimento delle forme contrattuali. Nella maggior parte dell’Europa ci sono al massimo 4/5 forme contrattuali con cui è possibile assumere e che rendono il sistema più stabile. Non condivido la possibilità di procedere a licenziamenti collettivi mentre sui disciplinari andavano specificate meglio le casistiche all’interno delle quali confinarli. Ma i temi della formazione e dell’apprendistato dovevano essere centrali. Ce se ne accorge solo adesso.

 

Il governo Gentiloni ha avuto alcuni meriti, in particolare quello di riaprire il dialogo con il sindacato: Un dialogo che ha portato all’accordo di Novembre con Cisl e Uil senza la Cgil. Poi c’è stato il rinnovo del contratto degli Statali. Insomma un governo per certi versi “concertativo” .Ti chiedo, guardando alle elezioni, nel caso di una vittoria della destra sovranista e populista come si comporterà il sindacato?

Il populismo è nemico del lavoro, ma anche nemico del nostro ruolo educativo tra la gente. Come sindacato dobbiamo proteggere le persone dalla disinformazione che sta minando ed erodendo la nostra democrazia. La cultura è l’arma più forte, insieme al nuovo protagonismo delle persone.

Credo che il sindacato debba riappropriarsi con forme nuove del suo ruolo educativo nel lavoro e all’interno della società, deve tornare ad occuparsi dei nodi cruciali della vita delle persone per poter fronteggiare con coraggio l’ondata populista che fa leva sulle paure e insicurezze delle persone. È un compito difficile soprattutto in una società frammentata ma non possiamo rinunciare alla nostra missione. Il Sindacato è una delle più belle forme di solidarietà collettiva e non sarà mai compatibile col razzismo e con qualsiasi forma di totalitarismo né tantomeno con la falsa democrazia diretta dei click.

 

Ultima domanda: Sappiamo che sei molto corteggiato dalla politica e da diversi schieramenti. Cederai alla tentazione?

Mi fa molto piacere che ci sia stata un’attenzione da parte della politica ma per quanto mi riguarda ho ancora molto da fare nella mia Organizzazione. Stiamo trasformando la Fim in modo profondo, siamo soddisfatti ma a metà del guado. C’è sempre il rischio di tornare indietro verso la burocratizzazione e l’inaridimento valoriale. Non possiamo permettercelo.

A breve l’accordo interconfederale: ecco su cosa si stanno accordando Confindustria e Cgil Cisl Uil. Intervista a Giuseppe Sabella

Sempre più insistenti le voci secondo le quali Confindustria Cgil Cisl Uil sarebbero prossime ad un nuovo accordo interconfederale. Dalle Segreterie confederali filtrano indiscrezioni che le firme potrebbero arrivare prima di Natale. Ne parliamo con Giuseppe Sabella, direttore di Think-in e esperto di relazioni industriali.

 

Su quali punti si stanno accordando Confindustria Cgil Cisl Uil?

L’accordo che precede quello che si sta tentando di condividere è del 2009, tra l’altro non firmato dalla Cgil. Si è trattato del primo accordo interconfederale non unitario ed è tuttavia scaduto nel 2013. Con un ritardo che non può essere trascurato, le Parti stanno oggi tentando di ritrovarsi in particolare sui principi della rappresentanza e sugli assetti della contrattazione collettiva.

Perché questo ritardo?

Perché globalizzazione e crisi economica hanno sconvolto modalità e pratiche consolidate della rappresentanza sociale. Basti pensare al caso Fiat e alla deflazione del 2014: incredibilmente ci siamo trovati nella condizione che i lavoratori avrebbero dovuto restituire soldi alle imprese. Rappresentare industria e lavoro non solo è più difficile di ieri ma per chi ha da sempre presidiato il livello della sintesi – le Confederazioni appunto – la complessità è molto elevata.

E quindi oggi su cosa fanno sintesi le Confederazioni?

In particolare, come dicevo prima, sui sui principi della rappresentanza e sugli assetti della contrattazione collettiva. Sul primo aspetto c’è una tale emergenza che mina l’intero lavoro delle Parti: i contratti collettivi depositati al CNEL sono oggi 868 e solo 300 di questi sono dentro il perimetro di Cgil Cisl Uil. Gli altri ne sono fuori e, addirittura, presentano minimi retributivi inferiori anche del 30%. Urge quindi intervenire ma solo il legislatore può sanare questa patologia. Bisogna che però le Parti si decidano a delegarlo. E in questo accordo più che al legislatore si chiede aiuto al CNEL. È già qualcosa…

E sugli assetti della contrattazione collettiva?

Ritengo che resterà quell’ambiguità che ha attraversato gli ultimi 30 anni circa il rapporto tra i due livelli contrattuali: non sono tutti convinti, infatti, che il compito del CCNL sia solo quello di tenere il salario agganciato all’inflazione e di rinviare così al secondo livello ogni altro aspetto, come per esempio sancito in modo cristallino dall’importante rinnovo del CCNL metalmeccanico. Al di là di questo, sarebbe utile aspettarsi qualcosa di più.

Per esempio?

Pare oggi anacronistico che al centro dei contratti non vi siano le professionalità e le competenze delle persone ma ancora la massificazione dei rapporti di lavoro, come al tempo della fabbrica fordista. Oggi siamo nell’era di Industry4.0 ed è questo un aspetto della trasformazione che le Confederazioni sindacali potrebbero stimolare in modo forte, almeno in qualche ambito ristretto e sperimentale. Tuttavia in qualche modo ci arriveremo, è inevitabile.

​Verso una ridefinizione del potere sindacale? Intervista a Giuseppe Sabella

(ANSA/MASSIMO PERCOSSI)

Il contratto dei metalmeccanici ha portato ad una serie di novità significative per le relazioni industriali e per il sindacato. Come si sta muovendo il sindacato confederale? Lo abbiamo chiesto, in questa intervista, allo studioso di   “relazioni industriali” Giuseppe Sabella. Sabella è direttore di Think-in, think tank specializzato in welfare e relazioni industriali ora impegnato a proporre in modo itinerante una riflessione sul tema “Industria e sindacato un anno dopo il rinnovo metalmeccanico”.

Nel Novembre dell’anno scorso c’è stato l’importante rinnovo del contratto dei metalmeccanici che ha portato delle innovazioni al sistema delle relazioni industriali: i meccanici sono tornati a dare la linea, come negli anni ’70. Le chiedo si potrà arrivare ad un contratto unico per il comparto industria? Sarebbe una vera rivoluzione…

Chi conosce bene la storia delle relazioni industriali sa che questo rinnovo ha un’incidenza significativa. Al di là di qualche innovazione importante, vedi in particolare la chiarezza assegnata al rapporto tra i due livelli contrattuali e la formazione come diritto soggettivo del lavoratore – che come principio ricorda molto il diritto allo studio del contratto del ’73, quando con le 150 ore un milione di italiani portava a compimento la scuola dell’obbligo –, il punto è che tali novità provengono dal settore più importante della nostra industria (la metalmeccanica vale quasi il 10% del nostro pil) e più esposto agli investitori internazionali, ma che più ha espresso negli ultimi 10 anni la cultura sindacale massimalista, si pensi al caso Fiat. Tuttavia, considerando quanta difficoltà si registra da anni nell’arrivare a un modello contrattuale, mi pare difficile pensare che si possa giungere ad un contratto unico per l’industria, anche se la semplificazione è più che mai auspicabile.

In questo anno vi sono stati importanti best risultati di applicazione del CCNL metalmeccanico. Quali sono stati? Chi si è posto all’avanguardia nell’applicazione?

È chiaro che questo deciso rinvio alla contrattazione di secondo livello assegna a imprese e sindacati un protagonismo maggiore ma chiede anche una crescita in termini proprio di competenze: contrattare al secondo livello, in impresa in particolare, necessita di sapere con chiarezza quali obiettivi strategici l’azienda si dà in funzione dell’ottimizzazione del lavoro di tutti e di una partecipazione crescente del lavoro di tutti: da questo punto di vista, ci sono aziende che storicamente nel settore sono all’avanguardia, si pensi non solo a FCA ma anche a Lamborghini, Ducati, Brembo, Finmeccanica… Di recente, si sta sviluppando una progettualità importante in Siemens – dove si registra un recente ottimo accordo sullo smart working – e, anche, in ABB.

Dalle Confederazioni Cgil Cisl Uil e Confindustria si colgono voci che la trattativa per il modello contrattuale è alla stretta finale, qualcuno dice prima di Natale. Hanno un fondamento queste voci…

Si, lo hanno perché sono voci provenienti proprio dalle segreterie confederali. Io, però, rispondo con una battuta cara a San Tommaso: “finché non vedo non credo”.

Quali sono i punti di difficoltà di arrivare alle firme: siamo sicuri che la Cgil lo voglia? E anche gli altri, Cisl Uil? E la Confindustria lo vuole?

A parte il fatto che non si avverte una grande necessità di un modello contrattuale, considerato anche che i contratti di settore si sono ormai già rinnovati, è proprio questo il punto: davvero le Parti lo vogliono? Gli Industriali insistono da tempo – Boccia non si è mai mosso da qui – su una prospettiva in linea con quanto sancito dal rinnovo metalmeccanico: la ricchezza si distribuisce quando, laddove e se prodotta. A Cgil Cisl Uil conviene adeguarsi a questa filosofia? Vorrebbe dire, anche, sancire la linea dei metalmeccanici. Detto questo, credo che le confederazioni debbano impegnarsi a risolvere in modo definitivo il problema della rappresentanza e dei criteri di rappresentatività.

Ad oggi siamo arrivati infatti a 868 contratti collettivi nazionali di cui 500 presentano minimi retributivi inferiori del 30% ai contratti firmati dai sindacati maggioritari. Si pone, così, sempre più il problema della rappresentanza. Come risolverlo?

Credo che l’unico modo per risolverlo sia un intervento legislativo, ma non una legge che si inventi regole nuove. Basterebbe che le Parti delegassero il legislatore circa quanto già da loro convenuto nel Testo Unico del 2014, chiedendo al Parlamento semplicemente di recepire il loro accordo. Sarebbe, anche, una concreta lezione di come funziona una democrazia avanzata per i tanti fan della democrazia diretta, per cui i corpi intermedi vanno eliminati.

Torna di attualità il “Jobs act”. Per alcuni aspetti ha svolto una funzione positiva, per altri aspetti non ha fatto altro che aumentare la precarietà. Secondo lei su quali punti andrebbe cambiato?

Dal 97, con la legge Treu, è iniziato un percorso di riforma che – per via della propaganda che lo ha accompagnato – ha presentato i limiti più grandi sul versante dell’applicazione: la bagarre che si scatena ogni volta che il legislatore mette mano al lavoro, finisce col vanificare anche quanto di buono c’è sul piano normativo. Da questo punto di vista, credo che se oggi si vuole fare un passo avanti, anche in ottica di maggior sicurezza, bisogna insistere su quanto il Jobs Act presenta in chiave di politiche attive del lavoro. Anche perché la stessa ANPAL (Agenzia Nazionale Politiche Attive Lavoro), prevista proprio dal Jobs Act, presenta qualche criticità dopo la bocciatura della riforma costituzionale.

L’ultima domanda riguarda le trasformazioni del sindacato: il potere è sempre più nelle mani di chi contratta. E la “confederalità” che fine farà?

Questa è una bella domanda. Credo che le confederazioni dovrebbero – ma fanno molta fatica – accompagnare i settori merceologici nella trasformazione. Ci sono categorie oggi più che mai contigue nel cambiamento, si pensi per esempio a quanti lavoratori usciranno dal settore bancario e finiranno in quello dei servizi. Come gestire questo passaggio in termini organizzativi? È chiaro che c’è il rischio che le categorie di riferimento facciano fatica da sole, in questo le confederazioni potrebbero supportarle in modo non indifferente. Ma, credo, che l’orizzonte principale che queste dovrebbero darsi è quello di ripensare all’attuazione dell’art. 39 della Costituzione, che afferma che i sindacati possono “stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce”. Come si diceva prima, parlando degli 868 ccnl, questa efficacia oggi è molto minata.

Unità nella diversità, senza se e senza ma. Lettera aperta di Pierre Carniti a CGIL, CISL e UIL

Pierre Carniti (Foto LaPresse)

Ieri, nel pomeriggio, Pierre Carniti ha scritto una lettera aperta alle tre grandi Confederazioni sindacali italiane: Cgil,Cisl e Uil. Per gentile concessione, della  testata online letruria.it, pubblichiamo il tesato della lettera.

 

Cari amici e compagni,

la recente sortita di Di Maio, con la inconcepibile minaccia rivolta soprattutto al sindacalismo confederale, minaccia che comprende il proposito di riformarlo autoritariamente se mai lui dovesse arrivare a Palazzo Chigi, è sicuramente indicativa dei limiti del dirigente “pentastellato”. Sia della sua cultura costituzionale, come della sua consapevolezza circa il ruolo essenziale dell’autonomia dei gruppi intermedi nell’assicurare l’indispensabile vitalità democratica, nelle società complesse e fortemente strutturate. L’improvvida uscita del giovane parlamentare, della nebulosa grillina, potrebbe indurre i più sprovveduti a credere che la dialettica sociale possa essere neutralizzata “statalizzando” la società. Tuttavia, non c’è dubbio che la sconsiderata sortita di Di Maio può, al tempo stesso, essere interpretata come una spia anche del declino della popolarità del sindacato. Condizione che induce alcuni politici e politicanti ad uniformarsi a quello che viene considerato il “senso comune”. Anche se, come spiegava bene Manzoni, è generalmente diverso, e non di rado opposto, al “buon senso”. Insomma, Di Maio è stato l’ultimo in ordine di tempo a dire sciocchezze sul sindacato. Ma non è nemmeno l’unico. Basterà ricordare che non moltissimo tempo fa un noto politico, investito da preminente responsabilità istituzionale, non aveva esitato ad affermare che il tempo dedicato al confronto con il sindacato era da considerare, nei fatti, “tempo sprecato”.

In ogni caso, più che occuparci delle intimidazioni del candidato premier grillino con la sua pretesa di reclamare una “oscura autoriforma” del sindacato o, in assenza, di una riforma decisa dispoticamente dal governo, proposito che, fortunatamente non sembra costituire un reale pericolo imminente, vale la pena di interrogarci sulle difficoltà che hanno progressivamente indebolito ed indeboliscono il consenso su cui può contare il sindacato.

La prima cosa da dire è che sicuramente non hanno giovato alla sua credibilità ed al suo prestigio i deplorevoli episodi di devianza etica di singoli dirigenti e militanti. Anche perché non sempre sono stati contrastati con la tempestività e la determinazione che sarebbe stata invece necessaria. Il che ha ovviamente favorito l’ampliamento del fronte di quanti chiedono all’organizzazione dei lavoratori, come prova suprema di responsabilità, semplicemente di scomparire. Opinione incoraggiata da titubanze ed incertezze che, di fronte a riprovevoli episodi, che si sono purtroppo verificati, andavano invece scongiurate con la tempestività, la trasparenza e la determinazione necessaria. Quanto meno per impedire strumentalizzazioni e, soprattutto, che venisse gettata un’ombra sulla moralità e reputazione dell’intero sindacato. Il rammarico quindi è che ciò non si sia verificato con la decisione auspicabile. Che non sempre si è invece vista. Quanto meno nei termini e nelle forme necessarie ed attese. Tuttavia, per quanto questi episodi di devianza siano stati indiscutibilmente dannosi, non si può oscurare il fatto che i veri fattori di criticità e di debolezza del movimento sindacale vanno ricercati altrove. Soprattutto nelle questioni irrisolte di carattere strutturale. Che coinvolgono sia problemi oggettivi, che limiti soggettivi. Cause che sono alla base della tendenza diffusa a snervare progressivamente la reputazione ed il ruolo del sindacato.

Per quanto riguarda i problemi oggettivi l’elenco delle questioni è noto. A cominciare dalla svalutazione del lavoro. Sia sul piano dell’affievolimento dei diritti, che del trattamento economico. Strettamente intrecciata è la questione cruciale del lavoro. Del lavoro che cambia e del lavoro che manca. Membri del governo e della maggioranza non lesinano, comprensibilmente, sforzi per valorizzare l’occasionale diminuzione di qualche decimale di punto del tasso di disoccupazione. Variazioni, che però non producono cambiamenti sostanziali dei reali termini del problema. Del resto basta osservare il “tasso di occupazione” per capire come stanno veramente le cose. Da noi sono occupate poco più di sei persone su dieci. Il dato peggiore dell’Unione europea. Ad eccezione della Grecia. Abbiamo inoltre un forte squilibrio di genere (71,7 gli uomini occupati, 51,6 le donne). Grande anche il divario territoriale tra Centro-Nord e Sud (69,4 contro 47 per cento). Dati che dovrebbero indurre a riflettere sulla congruità ed appropriatezza delle misure adottate per migliorare la situazione occupazionale. Come si sa, prevalentemente incentrate in interventi dal lato dell’offerta, incentivi, bonus ecc. Con il risultato di aumentare in parte la precarietà e comunque con esiti inversamente proporzionali alle cospicue risorse mobilitate. Non è perciò arbitrario ritenere che insistendo su queste politiche la soluzione del problema del lavoro resti un miraggio. Con tutte le gravi conseguenze personali, familiari e sociali che questa crisi si porta dietro.

Ci sono poi le questioni della tutela del lavoro e della protezione sociale. Al riguardo non si dovrebbe mai dimenticare che una fondamentale ragione d’essere del sindacalismo (specie confederale) sta nel conseguimento di modelli e regole “universalistiche”. In particolare, con riferimento alla previdenza, all’assistenza. alla salute, all’istruzione, ecc. In proposito, si deve rilevare che diversi indicatori segnalano come silenziosamente (nel senso che non se ne ritrova   traccia nel dibattito pubblico) si sta invece andando nella direzione opposta. Per fare un solo esempio. L’Istat ci informa che il 23,3 per cento della spesa sanitaria è ormai a carico delle famiglie. Risultato: secondo una stima, non contestata da nessuno, 12 milioni di italiani (soprattutto nelle fasce sociali più fragili e deboli) non si curano più. Perchè tra ticket e superticket, analisi a pagamento (se si vogliono effettuare gli esami in tempo utile) non sono in condizione di fare fronte alle spese relative.  Sicché un diritto fondamentale, come quello alla salute, tende a dipendere sempre più dal possesso, o meno, di una carta di credito. Colpisce il fatto che per giustificare tale involuzione si usi una formula esoterica. Gli “esperti e gli addetti ai lavori” parlano infatti di “universalismo selettivo”. Se la cavano quindi con un ossimoro. Che tradotto nel linguaggio popolare significa semplicemente “per un discreto numero, ma comunque non per tutti”. Il senso politico che se ne deve trarre è che la “libertà”, se deve essere difesa come requisito universale, richiede equità e giustizia sociale. Quando questi requisiti difettano, o diventano evanescenti, non si può parlare di vera libertà. Per la buona ragione che non è la condizione di tutti.

C’è poi il dramma di quanti, pur avendo un lavoro, non riescono ad arrivare alla fine del mese. I dati del rapporto Istat “Noi Italia” ci dicono che il nostro Pil pro-capite, misurato in standard di potere d’acquisto (depurato, per rendere possibile il confronto, dai differenti livelli dei prezzi nei vari paesi), risulta inferiore del 4,5 per cento rispetto a quello medio dell’Unione Europea. Significativamente più basso di quello di Germania e Francia (rispettivamente del 23,6 e 9,2). Naturalmente, come per tutte le statistiche, anche questa si basa sulla “media di Trilussa”. Il che ci aiuta comunque a capire perché le diseguaglianze dilagano, e 7 milioni di persone sono in condizione di povertà relativa, mentre 4 milioni e mezzo sono in condizione di povertà assoluta. Cioè senza casa, senza tetto, senza tutto.

Non minore rilievo ha infine il problema delle pensioni. Che non a caso domina, a proposito ed a sproposito, sui media e nel dibattito pubblico. Con allarmi e disinformazioni che tolgono il sonno a milioni di lavoratori, a quanti sperano di diventarlo, ed alle relative famiglie. Sul tema prevale una voluta confusione. Si cammina infatti in una nebbia fitta nella quale si sentono in lontananza interventi allarmistici che, non di rado, sfociano in forme di terrorismo verbale. C’è quindi la urgente necessità di mettere una questione così delicata con i piedi per terra e cercare, per quanto faticoso, di farla uscire dal pantano. Muovendo da questo intento la prima cosa da fare consiste nell’impedire alla politica dal continuare a pasticciare in materia previdenziale. I disastri che ha combinato nel corso degli anni sono più che sufficienti per reclamare una decisione in tal senso. Per non farla lunga basterà ricordare: la concessione, quando la “bonomiana” era la più potente lobby parlamentare, della pensione ai coltivatori diretti, senza pagamento di contributi. Oppure il privilegio riconosciuto (nel 1973 dal governo Rumor) ai dipendenti pubblici inquadrati nell’Inpdap (Ente di previdenza per i dipendenti della P.A.)  delle baby pensioni. Trattamento usufruibile da tutti i lavoratori statali che avessero maturato un periodo di lavoro di almeno 15 anni sei mesi e un giorno. Ancora meno per le donne con figli. L’esito, come forse non era difficile prevedere (malgrado all’epoca la finanza pubblica fosse certamente in condizione migliore di quanto non sia ora), è stato che, nel giro di non molti anni, i conti dell’Inpdap sono finiti in dissesto. A quel punto la “soluzione” escogitata fu quella di trasferire e far assorbire dall’Inps l’Ente previdenziale dei dipendenti pubblici. Scaricando così sul bilancio dell’Inps, assieme all’obbligo di onorare il pagamento delle baby pensioni, anche i debiti accumulati. Il precedente aveva fatto scuola. Infatti, si è fatto ricorso all’Inps per fare fronte al sostanziale fallimento dell’Ente previdenziale dei dirigenti d’azienda. Poi per quello dei trasporti. Infine per quello delle telecomunicazioni. Anche tante altre questioni, nel corso degli anni, sono state affrontate con la stessa disinvoltura. Al punto che si è ormai determinato un inestricabile intreccio tra assistenza e previdenza. Tant’è vero che le pensioni vengono normalmente considerate dai commentatori come un unico capitolo della spesa pubblica. Assumendolo come parametro della loro  sostenibilità. In sostanza, la specificità della previdenza nel dibattito pubblico è sostanzialmente scomparsa. Ha contribuito ad alimentare questa confusione il fatto che a seguito delle cervellotiche scelte compiute dalla politica, l’Inps si è progressivamente trasformato in “un’ Idra”, in una “conglomerata”, in un “combinat”, nel quale è stato scaricato “anche se non tutto”, “un po’ di tutto”. Comprese un buon numero di incombenze, che con la corresponsione delle pensioni non c’entrano assolutamente nulla. Per rimediare a questo pasticcio la strada maestra non può che essere quella di dividere l’Inps. Istituendo due Enti distinti. Uno con il compito di occuparsi di Welfare pubblico e l’altro incaricato esclusivamente di gestire la previdenza. Senza questa misura tanto drastica, quanto razionale, è praticamente impossibile togliere il tema delle pensioni dal magma nel quale, ogni giorno che passa, rischia di affondare. Oltre tutto realizzando due organismi separati e distinti: uno per assicurare una efficace assistenza e protezione sociale, l’altro per gestire esclusivamente pensioni e garantire il loro equilibrio economico-finanziario, ci metteremmo in linea con il resto dell’Europa. Soprattutto si incomincerebbe a dare ai cittadini di questo paese, sempre più inquieti e preoccupati, la concreta prospettiva che venga ricostruita la speranza che torni ad essere possibile il passaggio dalla vita attiva ad una vecchiaia ancora ragionevolmente serena. Guardando i termini attuali della situazione si è indotti a ritenere che “non c’è tempo da perdere”. Anche perché diversamente, si deve mettere in conto che, se dovesse continuare l’attuale andazzo, “sarà il tempo a perdere noi”.

Quelle richiamate non sono ovviamente tutte le situazioni negative che gravano sull’incerta condizione attuale del lavoro, che richiedono di essere riformate. Tra l’altro vi si dovrebbe aggiungere la necessità di una ripartizione del lavoro. Passaggio obbligato, se l’obiettivo del pieno impiego deve essere preso sul serio. Oppure l’esigenza di intervenire sul cuneo fiscale che oggi pesa in maniera squilibrata sul lavoro dipendente rispetto agli altri redditi. O ancora sulla urgenza di migliorare le competenze, e quindi la produttività, con investimenti, non puramente simbolici, sul “capitale umano” e quindi sulla formazione continua. Dove siamo in grave ritardo rispetto al resto dell’Europa. Tuttavia ciò che serve non è un elenco dettagliato, analitico, delle questioni che pesano negativamente sulla condizione del lavoro e reclamano una soluzione.  Serve in particolare la capacità di selezionare e decidere le priorità. Per riuscirci dobbiamo fare i conti con i “limiti soggettivi”, che attualmente affliggono il ruolo sindacale. A cominciare dallo sbrindellamento della contrattazione e della rappresentanza del lavoro. Alcuni indicatori non possono che suscitare allarme e preoccupazione. Basti pensare che i contratti nazionali, o pseudo tali, hanno ormai superato l’incredibile cifra di 800 e  che le strutture organizzative vere, fasulle, false, contraffatte, danno vita ad un sottobosco nel quale si trova di tutto: formazioni composte da quattro amici del bar, oppure da “parentes et clientes”. In non pochi casi, esclusivamente finalizzate a beneficiare questo o quel personaggetto. Quindi il dato che colpisce è che siamo ormai in presenza di una frammentazione, di una proliferazione del tutto inimmaginabile fino a pochi decenni fa. Un paio di esempi possono valere di più di mille parole. Il primo. Come si ricorderà, non è passato molto tempo dalla protesta dei tassisti. Che per le modalità con cui si è svolta, più che uno sciopero, assomigliava piuttosto ad una incontrollata ribellione. Ebbene, con l’intento di riportare la situazione alla “normalità”, il Ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture ha convocato una riunione, alla quale hanno liberamente partecipato tutte le organizzazioni conosciute e sconosciute. Risultato: intorno al tavolo del confronto, in rappresentanza dei 50.000 tassisti di tutta Italia, si sono ritrovate ben 21 diverse sigle. Se passiamo dal lavoro autonomo, concessionario però di un servizio pubblico, a quello più classicamente dipendente, colpisce il caso dell’Atac (l’azienda di trasporto pubblico) di Roma. Dove in rappresentanza dei 12 mila dipendenti ci sono ben 15 organizzazioni sindacali. Anche senza voler stabilire un arbitrario rapporto di causa ed effetto, si è indotti a pensare che sullo sfascio dell’azienda, che è ormai sotto gli occhi di tutti, a crescere sono soltanto le rendite di posizione.

Questa situazione non è stata e non è priva di conseguenze. Perciò, se, come sarebbe utile, Cgil, Cisl ed Uil intendono invertire la pericolosa frammentazione in atto, debbono fare scelte chiare ed assumere comportamenti coerenti. Ad iniziare da sé stesse. Per dirla in termini chiari la propensione alla dispersione ed alla frammentazione si combatte, innanzi tutto, con l’esempio di un impegno unitario. Condotta che in alcune circostanze si è anche fortunatamente realizzata. Ma che non può essere certo interpretata come un vincolo, bensì come un discrimine di valore strategico  al quale sia legata la gestione delle scelte sindacali. Infatti, sul bisogno di unità, nella pratica quotidiana dominano piuttosto le esigenze di identità. E, nella sostanza, un atteggiamento inevitabilmente orientato alla concorrenza ed alla competizione. La giustificazione degli “addetti ai lavori” per questo stato di cose è nota e, secondo alcuni, anche ragionevole. In sostanza viene invocato il motivo che le differenze di orientamento, di cultura, di tradizioni, nei fatti, producono inevitabilmente anche strategie politiche diverse. A ben vedere si tratta però di una spiegazione che non spiega nulla. Intanto per la buona ragione che le differenze sulle politiche ci sono sempre state e ci saranno sempre. Non solo tra diverse organizzazioni, ma anche all’interno di ciascuna organizzazione. E quando non si manifestano è un cattivo segno. Perché vuol dire che la dialettica interna è anestetizzata dal conformismo e dall’opportunismo. In ogni caso, si possono anche capire tutti i dubbi e le perplessità, ma viene un momento e questo momento per il sindacalismo confederale è sicuramente venuto, che dubbi e perplessità rischiano di non essere altro che un alibi per sfuggire alle proprie responsabilità. Il lavoro da sviluppare è, dunque, quello di cogliere l’unità nella diversità e di trasformare il superamento delle diversità in una ragione di irrobustimento dell’unità. Condizione indispensabile per realizzare, come richiesto dalle sfide da affrontare, un impegno solidale, condiviso, efficace. Va detto che in proposito non è possibile alcuna indulgenza, nessuna condiscendenza. Perché, mentre per la soluzione dei problemi che riguardano la condizione del lavoro si devono fare i conti con l’opposizione, la resistenza delle controparti e degli avversari, in questo campo tutto dipende esclusivamente dalla volontà e dalla coerenza soggettiva del movimento sindacale confederale.

Sappiamo che le cose sono cambiate e non saranno mai più le stesse di un tempo. Perché la storia accelera e scopriamo non solo di essere in affanno e spesso in ritardo. Tuttavia, non possiamo essere condiscendenti con noi stessi. Perché quanti, come chi scrive, sono convinti che il sindacato abbia ancora una funzione essenziale da esercitare, per realizzare più equità sociale, migliori condizioni di lavoro e di vita, garantire un importante pilastro della democrazia, devono fare quanto dipende da loro per cercare, con un impegno collettivo, di risalire la china. Non possono quindi esimersi dal compiere i passi necessari, a cominciare dalle indispensabili pre-condizioni, per ridare al mondo del lavoro un progetto ed una speranza credibili. Inutile sottolineare che la strada è tutta in salita e che il cammino è alquanto impervio. Perché le difficoltà da affrontare sono serie ed impegnative. Ma al   tempo stesso si deve essere consapevoli che c’è una sola difficoltà davvero insuperabile: è la rassegnazione. Per scongiurare questo pericolo, faccio mia l’affermazione dell’ex presidente del Consiglio europeo, già primo ministro belga, Herman Van Rompuy, che in un recente intervento a Roma,  ha detto: “Io resto un uomo della speranza”

Fiducioso quindi che verranno compiute le scelte necessarie, assieme alla conferma della permanente vicinanza e solidarietà di vecchio militante, invio fraterni saluti.

 

Pierre Carniti

Roma, 9 ottobre, 2017