Conflitto o partecipazione? Un falso dilemma. Un testo di Pierre Carniti

Pubblichiamo per gentile concessione della testata on line “L’Etruria.it” questa riflessione di Pierre Carniti (ex Segretario generale della Cisl) sulla strategia di fondo che il movimento sindacale deve seguire per la tutela del lavoro. Un testo che fa chiarezza su  un dilemma, che ha diviso il movimento sindacale italiano, tra “conflitto o partecipazione.

 

 

 

Per il “lavoro che manca” ed il “lavoro che cambia” non esiste, allo stato, una politica concreta e nemmeno obiettivi condivisi.  Continua infatti una navigazione a vista tra gli scogli. Avventurosa e del tutto priva di carte nautiche. Travisante è anche il dilemma sostanzialmente nominalistico, fasullo e deviante, che tiene banco sui media e divide trasversalmente: pseudo esperti, commentatori e apparati sindacali. Schierati tra “conflitto” e “partecipazione”. Considerate alternative nelle strategie di tutela del lavoro. In realtà si tratta, appunto, di un  dilemma falso. E per diverse ragioni. Intanto perché nelle società democratiche e relativamente  strutturate, il “conflitto” non può essere esorcizzato. In quanto costituisce un fattore di progresso economico, sociale e politico. Con esclusione naturalmente del “conflitto” praticato senza la “convenzione di Ginevra”. Vale a dire il conflitto fine e sé stesso. Puramente distruttivo. Per intenderci, quello che esercita  una irresistibile attrazione tra molti dei così detti antagonisti: “black-block”, “no-global”, “centri sociali”. Tra i quali, appunto, non mancano mai provocatori e violenti.

Altrettanto infondato risulta il riferimento alla “partecipazione”. Ritenuta da molti una categoria salvifica. Ma del tutto,del tutto evanescente ed irrilevante, quando non accompagnata da strumenti, norme, diritti di intervento, in definitiva di co-decisione. In particolare nei e per i processi di riorganizzazione e ristrutturazione aziendale e produttiva. A ben  vedere, requisiti del tutto estranei alla regolazione in atto dei rapporti di lavoro.

Naturalmente si può sempre cercare di cambiare il corso delle cose. A patto però  che si realizzino le indispensabili pre-condizioni. Per il cui conseguimento si richiede una consistente iniziativa  ed un impegno sindacale di lunga lena. Del quale purtroppo, almeno per ora, non si vede traccia. Non mancano quindi fondate ragioni di  preoccupazione. Anche per la buona ragione che il  conseguimento delle necessarie pre-condizioni è destinato e restare un pio desidero se non fosse supportato da un effettivo potere contrattuale.

Per correggere quindi le tendenze in atto è, innanzi tutto, necessario impegnarsi in una unificazione del mondo del lavoro. Oggi diviso e frammentato. Non solo tra lavoro stabile e precario, ma anche tra giovani ed anziani, tra impiego pubblico e privato, tra lavoro subordinato e pseudo  lavoro autonomo. In secondo luogo è indispensabile perseguire il monopolio della rappresentanza del lavoro. Scopo che diventa praticabile solo se accompagnato da un indispensabile recupero di tensione unitaria. Necessaria per restituire un ruolo essenziale al sindacalismo confederale. Altrimenti avviato alla irrilevanza. Basti pensare ai contratti nazionali. Arrivati ormai alla incredibile cifra di ottocento. Oltre la metà dei quali stipulati da “sindacati gialli”. Circostanza che, a parte ogni altra considerazione, è certamente una delle spiegazioni relative al deprezzamento ed alla svalutazione del lavoro. Infine c’è il problema, particolarmente grave, in Italia dell’occupazione. Il dato incontrovertibile e del quale si dovrebbe prendere atto, è che la coperta del lavoro disponibile è corta. Se copre gli ultracinquantenni, scopre i giovani. E viceversa. Occorre quindi che la contrattazione affronti, nei mille modi possibili, una ripartizione del lavoro disponibile.

Invece di perdersi in formule e chiacchiere inutili, impressione che si ha assistendo ai dibattiti della solita “compagnia di giro”, è richiesta, al contrario, capacità di mettere in campo un impegno vero, credibile. In grado di invertire la diffusa tendenza e la propensione all’individualismo e alla competizione. Che hanno soppiantato la solidarietà e l’eguaglianza. Producendo, tra l’altro, un intollerabile, continuo, aumento delle diseguaglianze.

Secondo Bauman queste sono alcuni fattori di quella che ha definito la “società liquida”. Dove domina la crisi dello Stato. Quale conseguenza del progressivo affievolimento della sua libertà decisionale. Di fronte allo strapotere delle multinazionali. In particolare della finanza. In tale quadro si è, mano a mano, indebolita una condizione che nel passato consentiva la ragionevole possibilità di affrontare e risolvere i problemi di coesione sociale. In particolare quelli relativi al lavoro. Per altro, con la crisi dello Stato, sono entrate in crisi le ideologie, così come i partiti e le grandi organizzazioni sociali. In sostanza le strutture che, con tutti i loro limiti, avevano costituito il tramite per una comunità di valori che permetteva al singolo di sentirsi parte di qualcosa che ne interpretava i bisogni. Ma soprattutto la speranza di un possibile miglioramento.

Rispetto a pochi decenni fa il contesto è dunque profondamente cambiato. Tuttavia, questa constatazione non può essere assunta  come giustificazione di impotenza e paralisi. Occorre quindi promuovere i requisiti essenziali che consentano di affrontare le nuove ed impegnative sfide del nostro tempo.

Poiché nel sindacato, pur senza eliminare la mobilitazione e l’azione quando necessaria, sembrerebbe  prevalere la “partecipazione” quale orizzonte strategico, occorre sapere che tale scelta, per essere credibile, esige anche un radicale cambiamento delle modalità di decisione delle stesso sindacato.

In questa prospettiva, la trasparenza e l’etica sindacale restano questioni perennemente aperte. Come, d’altra parte, si richiede ad organizzazioni che gestiscono poteri, influenzano ruoli e carriere, governano patrimoni umani. E non solo. Ebbene, di norma, i correttivi alle trasgressioni, ai comportamenti devianti risiedono in un uso accurato e rigoroso delle regole democratiche e nel culto della rettitudine. Ma a poco rischiano di servire i correttivi se non accompagnati da obiettivi, contenuti, modalità di comportamenti che diano il senso all’azione collettiva ed intorno ai quali affermare una credibile etica della responsabilità.

A tale proposito meritano una riflessione, ed un profondo rinnovamento, le modalità di comunicazione. Per renderle idonee a coinvolgere effettivamente militanti, iscritti e non iscritti al sindacato. Si tratta di una esigenza ineludibile. Tenuto conto che sono praticamente esaurite le modalità originarie della comunicazione sindacale: i volantini, i giornaletti ciclostilati, le assemblee di piccoli o grandi gruppi di lavoratori. Inizialmente nelle parrocchie, o nelle Case del popolo. Successivamente, quando è stato conquistato il diritto di assemblea in fabbrica, nei reparti, o nelle mense aziendali. Non  è un mistero che queste modalità comunicative sono praticamente andate in disuso. Il circuito comunicativo si è infatti, poco a poco, ridotto a coinvolgere solo una parte di dirigenti ed operatori. Lasciando fuori  il grosso dei rappresentanti di base, degli iscritti, ma anche le centinaia di migliaia, per non dire milioni,  di lavoratori collocati fuori dal perimetro della rappresentatività sindacale.

Il punto quindi è che la “partecipazione”, per essere efficace nel rapporto tra le parti deve essere sorretta da una parallela e vera partecipazione interna all’organizzazione sindacale. Tale da assicurarle la forza e la credibilità necessaria. E’ arrivato perciò il momento, reso possibile anche dalle enormi potenzialità delle nuove tecnologie, di costruire un sistema di comunicazione e di interlocuzione interna che consenta al movimento sindacale confederale di ricostituire una condotta di relazioni personalizzate. Una struttura che permetta al singolo iscritto, ma anche al lavoratore senza rappresentanza, di dire la sua opinione. Sulle priorità, sulle cose da fare, sugli obiettivi da assumere. In buona sostanza, di poter valutare e condividere o meno le proposte che si vorrebbero portare avanti. Senza naturalmente alcuna concessione alla chimera, cara (stando a quel che si legge e si ascolta) a buon numero di politici. Confusi ed eccentrici. In particolare i devoti della “democrazia diretta”, concepita come sostitutiva delle forme di democrazia deliberativa e rappresentativa. Rifiutare queste pericolose e stravaganti bizzarrie non significa, ovviamente, cadere nell’errore opposto. Cioè quello di pensare che sia possibile esaurire la democrazia sindacale nell’autoreferenzialità degli apparati.

Se si intende  scongiurare questi opposti errori è necessario, assieme alla consapevolezza dei termini attuali della situazione, poter disporre di una piattaforma informatica. Per intenderci, una struttura hardware, cioè fisica. Che consenta di collegare centinaia di migliaia di componenti periferiche  (i computer, i telefonini) e coloro che li usano. E’ indispensabile inoltre un sistema operativo (software) che svolga la stessa funzione della prima. Ma in modalità digitale. E’ facile capire che si tratta di  un progetto piuttosto impegnativo. Il quale anche, per la sua necessaria consistenza, può essere realizzato solo con un impegno unitario di tutto il movimento sindacale confederale.

Chi ha qualche esperienza in grandi organizzazioni sociali non farà fatica a rendersi conto che un simile proposito possa suscitare la contrarietà, la reazione, la resistenza trasversale, di un certo  numero  di dirigenti sindacali. Che si faranno verosimilmente forti dell’argomentazione che non andrebbe fatto nulla che possa implicare il rischio di una limitazione al pluralismo culturale e politico. Esigenza sempre irrinunciabile. A maggior ragione quando si è impegnati ad attraversare una incerta fase di passaggio della storia.

Tuttavia costoro non dovrebbero ignorare due aspetti. Altrettanto essenziali. Il primo riguarda la cospicua quantità di risorse che devono essere impegnate per realizzare e far funzionare una simile piattaforma. La seconda è che di per sé la tecnologia è “neutra”.  Dipende sempre, naturalmente, dall’uso che ne viene fatto. Per altro le piattaforme di comunicazione ed interlocuzione, per loro natura, sono semplicemente strutture-ospiti, che abilitano la funzionalità di altri elementi, tanto del mondo fisico (telecamere, monitor, smartphone, ecc.), che del mondo digitale (documenti, dichiarazioni, giudizi, ecc.).

Comunque, una cosa è certa. Si possono sempre capire tutti i dubbi e le perplessità. Ma viene un momento, e questo momento per il sindacalismo confederale è indiscutibilmente venuto, che dubbi e perplessità rischiano di non essere altro che un alibi per sfuggire alle proprie responsabilità.

L’auspicio quindi è che tutti e ciascuno riescano a fare propria l’esperienza che ci viene dalla vita. Non ci è forse capitato di trovarci alle prese con problemi che ci sembravano irrisolvibili, prima di rivelarsi invece del tutto solubili? Da quelle esperienze dobbiamo perciò sapere trarre la necessaria lezione: il rischio dell’impegno è sempre da preferire alla rassegnazione.

Pierre Carniti

La nuova “Rivoluzione Metalmeccanica”
Intervista a Giuseppe Sabella

Siamo nell’epoca dell’industria 4.0. Il termine Industria 4.0 (o Industry 4.0) “indica una tendenza dell’automazione industriale che integra alcune nuove tecnologie produttive per migliorare le condizioni di lavoro e aumentare la produttività e la qualità produttiva degli impianti” (da Wikipedia). Il nuovo contesto produttivo pone non pochi problemi al sindacato confederale. Come sta rispondendo a questa sfida? Ne parliamo con Giuseppe Sabella. Sabella è direttore di Think-inthink tank specializzato in lavoro e welfare nel cui comitato scientifico fanno o hanno fatto parte eminenti studiosi e esperti, quali in particolare Tiziano Treu, Giuliano Cazzola e Sergio Belardinelli. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: “Rivoluzione Metalmeccanica – dal caso Fiat al rinnovo unitario del contratto nazionale” (Guerini e Associati, 2017). Il libro è da pochi giorni nelle librerie.

 

Sabella nel suo libro “Rivoluzione Metalmeccanica – dal caso Fiat al rinnovo unitario del contratto nazionale” (Guerini e Associati, 2017), mette in evidenza il nuovo protagonismo dei Sindacati dei metalmeccanici (Fim-Fiom-Uilm). Intanto, prima di addentrarsi nel libro, parliamo per un attimo del Congresso, appena concluso, della Fim-Cisl. Quali sono state le novità strategiche?

Credo che il Congresso della Fim sia stato un evento importante. A parte la grande partecipazione di persone che dimostra che il sindacato – a differenza del partito – è un luogo ancora vivo e capace di aggregare, tutti coloro che hanno avuto modo di prendervi parte hanno potuto percepire nitidamente che la Fim è un’organizzazione che sta guidando la trasformazione del movimento sindacale: è chiaro che qui c’è la consapevolezza di cosa sia il lavoro oggi e di cosa richieda a chi lo rappresenta; per dirlo con parole care a Marco Bentivogli, di cosa sia il Lavoro 4.0: in particolare, contrattazione “sartoriale”, ovvero sempre più prossima all’impresa.

Veniamo al libro. Lei afferma che “i Meccanici stanno ridando la linea al movimento sindacale italiano”. Nella storia italiana, e non solo, non è sempre stato così?

Negli ultimi 20 anni sono state tante le tensioni e le rotture in seno al settore della metalmeccanica. È difficile dare la linea se non c’è unità. Ma la portata delle novità è stata tale – prima il caso Fiat e ora il rinnovo unitario – che oggi la metalmeccanica si pone come riferimento per il sistema delle relazioni industriali. Tuttavia, ogni settore ha la sua storia, la sua cultura, i suoi modelli: quindi, inutile pensare che tutti debbano fare come i meccanici.

Quale tipologia di sindacato si delinea in questa “Rivoluzione Metalmeccanica”?

Un sindacato capace di stare al fianco dell’impresa e di accompagnare la grande trasformazione. L’industria italiana ha risorse eccellenti, non si spiegherebbe altrimenti il successo del made in Italy nel mondo. Certo è che oggi più che mai queste risorse devono lavorare in modo compatto, armonico. In quest’ottica, in particolare nei luoghi di lavoro, il sindacato può essere un grande faro. Lo stesso rimando alla contrattazione aziendale non è soltanto importante per aspetti retributivi, ma anche per costruire il perimetro di regole più funzionale al luoghi di lavoro, all’impresa.

Quali sono i limiti di questa rivoluzione?

Benché in tutte le cose ci sia un limite, il rinnovo metalmeccanico – anche perché unitario – è una bella notizia per il lavoro nel nostro Paese. Certamente sarà la capacità di applicarne i dettami sul campo che farà la differenza. Lo spirito tuttavia è quello giusto, ci sono tutte le condizioni affinché questa grande intesa si possa rivelare un driver di cambiamento.

Come si sviluppa la dialettica, per usare una “categoria” filosofica, tra conflitto e partecipazione? Non mi sembra una questione secondaria anche per il contesto di “Industria 4.0”…

Sicuramente c’è una componente del movimento sindacale più partecipativa ed una che lo è meno. La partecipazione è la strada obbligata verso Industry 4.0, questo perché per vincere la sfida c’è bisogno di tutte le forze in gioco. “La persona al centro” ama ripetere Fabio Storchi – Presidente di Federmeccanica e, insieme a Marco Bentivogli, autore di una delle due postfazioni del libro di Sabella, ndr – ; se questo non è uno slogan, significa che è chiaro a tutti che il futuro dell’industria e delle nostre imprese dipende molto dalla risorsa più importante, dal singolo lavoratore.

Vi sono casi concreti di eccellenza nell’industria metalmeccanica che rispondono al nuovo contesto del 4.0?

Si, a partire da Fiat ora FCA: gli stabilimenti italiani sono l’avanguardia nel mondo. Ma direi anche Ducati, Lamborghini, Brembo, Finmeccanica… insomma, il comparto metalmeccanico non solo vale quasi il 10% del nostro pil – oltre che il 46% dell’intero settore industriale – ma traina anche l’intera manifattura e i suoi prodotti ad alto valore aggiunto fanno il giro del mondo. Sarei però cauto sul contesto 4.0: il sistema produttivo italiano ha molta strada da fare.

Non era scontato che, con la firma del CCNL del 26 novembre 2016, si arrivasse all’unità tra le sigle sindacali. Il caso Fiat era stato lacerante. Oggi parlano tutti la stessa lingua?

Sono costretti a parlarla, ne va della loro stessa sopravvivenza. Oggi chi chiede di essere rappresentato vuole solo una cosa: il lavoro. Basta vedere quanto è costato alla Fiom il caso Fiat, decine di migliaia di tessere: certamente qualcosa è imputabile anche al comportamento antisindacale dell’impresa – che per questo è stata richiamata in sede giudiziale – ma molti lavoratori non hanno condiviso la battaglia di Landini. Lui stesso, a dire il vero, ha pubblicamente riconosciuto di aver sbagliato qualcosa. E oggi Fiom sta lavorando per rientrare in Fiat.

Un tempo l’operaio metalmeccanico incarnava la “classe generale”, era la misura della giustizia sociale. Nella situazione di oggi cosa può rappresentare?

Considerando quanto il settore è stato colpito dalla crisi economica – 300.000 posti di lavoro andati persi – oggi il lavoratore metalmeccanico rappresenta un modello di appartenenza alla comunità: ha sofferto in silenzio e oggi è di nuovo protagonista. Qualcuno si è permesso nell’Aula del Parlamento di dire “non siamo mica metalmeccanici”: in realtà questo certifica una sola cosa, la distanza della politica dal paese reale. E, se pensiamo alla grande capacità di sintesi che arriva da questo rinnovo, questo afferma la grande possibilità di rinascita che la rappresentanza del lavoro oggi ha.

“I ‘nuovi voucher’ sono una via per combattere il lavoro nero, ma non bastano”. Intervista a Marco Bentivogli

La manovra correttiva da 3,4 miliardi nel 2017 concordata con Bruxelles sarà votata, nel pomeriggio, alla Camera, che oggi darà il suo via libera votando la fiducia al maxiemendamento identico al testo licenziato dalla commissione Bilancio, si sono aggiunti alcune novità. A cominciare dal “nuovo voucher”  (PrestO). Il provvedimento è stato oggetto di forte polemica tra il governo e la Cgil. Ma anche tra Pd e i “bersaniani” . Cerchiamo di capire, in questa intervista,  con Marco Bentivogli, Segretario Nazionale della Fim-Cisl, la “natura”  e le criticità dei “nuovi voucher”

 

Bentivogli, ancora una volta i “voucher” sono la “pietra dello scandalo” nell’ambito della regolazione del lavoro occasionale. Il governo dopo averli aboliti, per evitare il Referendum Cgil, adesso li rimette, sotto altro nome (ora si chiamano “PrestO”). Non   le pare un po’ assurdo e, francamente, irritante il comportamento del governo. .Insomma la Cgil, questa volta, ha ragioni da vendere….

Il tema dei “voucher” è sicuramente importante, benché riguardi lo 0.3% sul totale delle ore lavorate nel 2015 in Italia. Ma di fronte ad una disoccupazione giovanile più alta d’Europa e al forte deficit infrastrutturale che pesa sul nostro paese, forse bisognerebbe concentrare gli sforzi  sulla risoluzione dei problemi con il dialogo sociale. Per questo ha ragione da vendere Sabino Cassese quando dice che i costi del tempo perduto sono oramai insostenibili. Come ho avuto già modo di dire sulla vicenda voucher, l’inventore del Gioco Dell’Oca – chissà chi è e chissà se ne ha mai avuto consapevolezza – è anche l’inventore di una straordinaria metafora della vita politica italiana: ogni 10 caselle si ritorna al punto di partenza. Sui voucher è stato fatto un gran pasticcio. La Cgil ha deciso di trasformare uno strumento buono e utile in un’arma di battaglia ideologica, per di più in un clima di campagna elettorale permanente: tutto questo sulla pelle dei lavoratori ed alle loro spalle. Sui “vecchi voucher” sarebbe bastato un provvedimento per riportarli  al loro scopo iniziale, prima che l’asse Alfano-Bersani-Casini, con la riforma del lavoro introdotta dal governo Monti, ne estendesse l’utilizzo agli impieghi non saltuari. Sarebbe stato sufficiente ripristinare le condizioni iniziali, vale a dire ricondurli ai lavori meramente occasionali, dunque ad arma di contrasto del sommerso. La Cgil ha deciso, invece ,di farne una battaglia ideologica, come spesso accade sui temi del lavoro nel nostro Paese. L’abolizione decisa dal governo al fine di scongiurare il referendum si è dimostrata un boomerang politico per il Pd  e Renzi perché in questo modo è stato confermato che a vincere in questo paese è sempre chi frena. Il Pd ha rinunciato a fare battaglia coraggiosa perché è mancato il radicamento tra i tanti italiani che vogliono il cambiamento, cui evidentemente si preferiscono con le élite di fantomatici innovatori. La morale è che i populisti non si inseguono, si sfidano.

Veniamo ai “PrestO”, ci sono novità (certamente la maggiore tracciabilità e trasparenza). Per lei qual è la più importante?

Il “nuovo voucher” PrestO”, dove la “O” maiuscola sta per occasionale, introduce diverse novità e limiti, come quello dell’utilizzo per le imprese solo fino a 5 dipendenti e l’introduzione di una  soglia di 5 mila euro per datori di lavoro e lavoratori e non più di 2500 dallo stesso datore di lavoro. Cambia anche il valore lordo, che passa da 10 a 12 euro orari (10 netti), e si introduce per le famiglie che volessero farvi ricorso per i lavori domestici ( baby sitting, assistenza agli anziani, lezioni, private ecc.) il cosiddetto “libretto famiglia”. Il libretto sarà  nominativo e prefinanziato, conterrà cioè prestazioni da 10 euro l’ora a cui la famiglia dovrà poi aggiungere due euro l’ora che verserà per i contributi Inps e Inail. Mentre per le imprese fino a cinque dipendenti  (escluse quelle edili e degli appalti) i vecchi buoni verranno sostituti da un “contratto di prestazione occasionale”. Per ogni ora di  lavoro il compenso sarà di 9 euro, cui poi si aggiungeranno i contributi Inps, pari al 33% del compenso, e quelli Inail, pari al 3.5%. Le aziende agricole potranno utilizzare per il lavoro occasionale solo pensionati, studenti e disoccupati. Inoltre “ PrestO” non sarà più acquistabile dal tabaccaio, ma dalle imprese potrà essere attivato esclusivamente sulla piattaforma  del’Inps e per cui totalmente tracciabile mentre le famiglie dovranno aprire il libretto sul sito Inps o presso gli uffici Postali.

Le novità quindi sono molte rispetto ai vecchi voucher, che erano uno strumento sicuramente più flessibile ma che si prestava ad alcuni abusi. Di positivo c’è sicuramente la reintroduzione della tracciabilità, che viene rafforzata. Le imprese dovranno comunicare almeno un’ora prima dell’inizio della prestazione i dati sul lavoratore, il luogo di svolgimento della prestazione, l’oggetto, la durata e il compenso. Su quest’ultimo, la novità è che non potrà essere inferiore a 36 euro, il che significa che non saranno consentiti impieghi al di sotto delle 3 ore; così come non sarà possibile andare oltre le quattro ore consecutive. Un’altra rigidità della quale francamente si poteva fare a meno.

Ma è proprio questa la via migliore per combattere il lavoro nero?  

Sicuramente è una via, anche se va aggiustato il tiro su alcuni aspetti. Questa nuova versione dei voucher in effetti sana alcune criticità che contraddistinguevano la vecchia formula.  La cosa più importante è che ci dotiamo di uno strumento in grado di evitare che i lavoratori occasionali ripiombino nel nero, che divengano dei “fantasmi” per il fisco, che restino privi di tutele sul fronte previdenziale e assistenziale. Certo, anche se non voglio andare ad ingrossare le fila dei benaltristi, è evidente che bisogna agire pure su altri fronti: il primo che segnalo è quello dei controlli e dell semplificazione. Purtroppo negli ultimi venti anni tutti i governi hanno disinvestito dall’attività ispettiva, lasciando praterie aperte ai furbi. L’abolizione pura e semplice si è rivelata la solita scorciatoia delle “anime belle” che si vogliono mettere a posto la coscienza ignorando il problema.

La verità è che se la lotta al lavoro nero si vuole fare davvero, e necessario innanzi tutto favorirne l’emersione, con controlli che diano visibilità ai comportamenti devianti. Chi controlla, ad esempio, se quello che sulla carta figura come un part-time in realtà non va oltre l’orario stabilito, con pagamento in nero delle ore extra (sempre che vengano pagate)o non si configuri come un lavoro stagionale?

E’ deluso dal governo? Non sarebbe stato meglio coinvolgere il Sindacato?

Di certo sono deluso per come il governo ha gestito la fase precedente. Prima ha avviato un confronto sulle modifiche dei voucher, ha chiesto ai sindacati il loro parere, poi ha fatto dietrofront e ha stabilito l’abolizione. In questo modo ha penalizzato le posizioni più responsabili e riformiste, premiando invece, per un calcolo politico di corto respiro, quelle più massimaliste. Nessuno pensa che l’epoca della concertazione possa rivivere dopo 30 anni, ma mi chiedo se in questo modo non si finisca per portare l’acqua al mulino di chi, come i movimenti populisti, chiede di saltare ogni mediazione per rivolgersi direttamente alla “gente”. Anche il Pd è stato tentato dalla disintermediazione in un momento i cui si percepiva in posizione di forza. Non vorrei che cadesse nello stesso errore per la ragione opposta, cioè perché, dopo la sconfitta del 4 dicembre, si sente più debole. Credo invece che sia nell’interesse di tutti – anche del governo – valorizzare il dialogo con chi nel sindacato ha scelto la strada delle riforme. Lasciando da parte per un momento la questione dei voucher, vedo con preoccupazione la crisi di fiducia nella politica che attraversa le democrazie occidentali. E’ la crisi che l’ex direttore generale della Bbc Mark Thompson analizza nel suo ultimo libro, in cui viene messo in luce lo stravolgimento del linguaggio del dibattito pubblico che si è prodotto con l’irruzione dei social media. Una comunicazione in cui le notizie hanno vita sempre più breve e le emozioni prevalgono sui giudizi degli esperti spalanca praterie ai populisti e rende sempre più difficile formare l’opinione pubblica. Lo vediamo bene, purtroppo, quando al centro di un dibattito del genere finisce il lavoro. Leggo in queste ore che la manovra del Governo sul “lavoro occasionale”  è un “attacco alla democrazia”. Ormai a sentirli e’ un pericolo quasi quotidiano, penso che il più grande attacco sia delegittimare il senso delle parole con un loro utilizzo roboante che ha il solo effetto di abbassare la guardia da eventuali pericoli reali.

Ultima domanda : questa volta c’è l’ accordo sulla legge elettorale , per lei questo significa andare alle elezioni anticipate ? Oppure pensa che sia meglio concludere la legislatura ?

Non entro nel dibattito sulle elezioni anticipate. In linea di massima mi sembra evidente che una legge elettorale in grado di assicurare, quanto meno sul piano teorico, la possibilità di dotare il paese di un governo stabile vada fatta. Preferivo un sistema maggioritario ma credo che in Italia ci sia una nostalgia di proporzionale. Nel contesto in cui ci troviamo, con l’Europa che ci tiene sotto osservazione sui conti, il profilarsi, dopo le elezioni in Germania, di un rilancio dell’asse franco – tedesco e, non ultimo, la probabile uscita dal Quantitative Easing della Bce, l’instabilità è un rischio che non possiamo permetterci.

“La speranza è un sogno fatto da svegli”. Un testo di Pierre Carniti in occasione dei suoi 80 anni.


pierre-carnitiPubblichiamo il testo dell’intervento di Pierre Carniti all’Auditorium Antonianum, lo storico leader della Cisl negli anni ’70 e ’80 ed uno dei grandi padri del movimento sindacale italiano, , durante la Festa, a Roma, che la CISL ha voluto organizzare per festeggiare i suoi 80 anni.

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Ospiti, tra gli altri, sono stati il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, l’ex premier Romano Prodi, Raffaele Morese, ex Segretario Generale aggiunto della Cisl e Annamaria Furlan, Segretaria Generale della Cisl. L’ incontro
è stato anche l’occasione per presentare il volume “Pensiero, azione, autonomia” (Edizioni Lavoro), una raccolta di saggi e testimonianze sull’azione sindacale di Pierre Carniti.

Consentitemi una brevissima premessa. Quando pochi giorni fa Raffaele Morese mi ha comunicato che gli serviva il testo scritto del mio intervento per oggi, richiesta del tutto inconsueta, per un momento mi è balenato il sospetto che la formula canonica utilizzata secoli fa dal censore ecclesiastico per le pubblicazioni a stampa ammesse “Nihil obstat quominus imprimatur” (nulla osta a che sia stampato) fosse stata fatta propria da un oscuro censore laico per gli interventi orali: “nulla osta che sia pronunciato”. Mi sono però subito reso conto che la spiegazione era assai più semplice. Persino banale. Poiché questa riunione ha una durata limitata, gli organizzatori volevano essere certi che non avrei sforato il tempo che mi è stato assegnato.

Venendo al dunque, voglio innanzi tutto ringraziare i tanti che, al di là dei miei indiscutibili limiti, hanno voluto benevolmente manifestarmi, in tutti gli ultimi anni ed anche in occasione di questo incontro, perduranti legami di simpatia ed amicizia. Tuttavia, come dice il proverbio latino: “amicus Plato, sed magis amica veritas”, non posso esimermi dal confermare i “dubbi”, le “perplessità” espresse a Raffaele Morese e Mario Colombo, quando mi hanno informato del loro progetto. Le ragioni delle mie obiezioni erano e restano semplici. Come sappiamo tutti nella pubblicistica dedicata esistono due tipi di scritti. Il primo “in memoria di” per celebrare personaggi defunti più o meno celebri, il secondo in “onore di”, di norma riservati a professori universitari che hanno concluso meritevolmente la loro attività accademica. A parte ogni altra considerazione, voglio sperare che sia prematuro inserirmi nella prima tipologia. Mentre per la seconda è del tutto evidente che non ne ho i requisiti.

Conoscendo le mie obiezioni il bravissimo Paolo Feltrin, con un espediente narrativo, ha trasformato il “suo” scritto in una “mia” auto-commemorazione. Per farla brave, voglio però dire che questo modesto contenzioso, non intacca certo i rapporti di forte amicizia. Del resto la vera amicizia non presuppone affatto la condivisione acritica di tutti i giudizi, di tutte le rispettive opinioni. Resta il fatto che pure questo piccolo diverbio costituisce una conferma della mia diffidenza verso la vulgata popolare, secondo la quale la vecchiaia porta saggezza. Personalmente, resto invece convinto che non è vero che quanto più si invecchia tanto più si diventa saggi. Semplicemente si è meno ascoltati. Del resto lo si osserva anche nel rapporto tra le generazioni. Non fosse altro perché assai spesso i vecchi si ripetono ed i giovani non ascoltano. Risultato: la noia è reciproca.

Venendo al tema che è stato proposto per questo nostro incontro cioè il “lavoro per tutti”, vale a dire l’obiettivo della piena occupazione, dico subito che malgrado al futuro si dovrebbe sempre guardare con ottimismo, per quanto riguarda il lavoro l’Italia sembra sfuggire a questa regola. Il “lavoro per tutti” non c’è ed, allo stato, non esistono realistiche prospettive che la situazione possa cambiare significativamente. Quanto meno nel breve, medio periodo. Intanto perché la crescita annua dello zero virgola (o anche dell’uno per cento) non può risolvere il problema. In quanto non è in grado nemmeno di compensare i posti di lavoro che si perdono per l’effetto del sempre maggiore impiego dell’informatica, della robotica, dell’automazione. Non solo nel settore manifatturiero, ma anche in quello dei servizi. A questa situazione non si riesce certo a porre rimedio con interventi, tanto enfatizzati quanto ininfluenti, della normativa relativa al mercato del lavoro. In quanto, per ben che vada, al massimo sono dei semplici placebo. Aggiungo che ci sono tre cose alle quali non ho mai creduto nella mia vita: gli oroscopi, i pronostici e le interpretazioni statistiche. A quest’ultimo proposito il leader conservatore inglese Benjamin Disraeli sosteneva che ci sono tre tipi di menzogne che non era disposto a sopportare: le bugie, le bugie gravi e le interpretazioni statistiche. Difficile dargli torto, se solo pensiamo al vociante dibattito mediatico che ha accompagnato la pubblicazione mensile e trimestrale dei dati Istat su occupazione e disoccupazione.

In ogni caso, il punto da tenere ben presente è che la disoccupazione dilagante con cui siamo alle prese è la somma di diversi fattori. In primo luogo, una globalizzazione finanziaria sregolata che, pur avendo consentito anche qualche risultato positivo, ad esempio per alcune centinaia di milioni di persone (soprattutto in India ed in Cina) di uscire da una condizione di povertà assoluta, ha tuttavia contemporaneamente prodotto ed assecondato un parallelo aumento di diseguaglianze intollerabili. Sia a livello mondiale, sia soprattutto nei paesi occidentali (in Italia in particolare). Il tutto caratterizzato da una contestuale svalutazione dei diritti e del costo del lavoro, assunti nella maggior parte dei casi, come il terreno fondamentale, se non esclusivo, della competizione commerciale. Inoltre, sul piano economico hanno pesato tanto le politiche deflazionistiche, quanto i limiti di investimenti pubblici e privati sempre più asfittici. Per fare buon peso, negli ultimi anni si è teorizzato e praticato la disintermediazione dei gruppi intermedi. Si è insomma sostenuto che, nella attuale fase economica e sociale, si poteva ormai fare a meno della mediazione delle grandi organizzazioni del lavoro e della contrattazione. il risultato è sotto i nostri occhi. Credo però sia giusto fare anche notare, sperando che non si tratti di fuochi di paglia, qualche positivo segnale di inversione di tendenza negli orientamenti culturali e pratici delle controparti, sia private che pubbliche. Considero un indizio di questo ravvedimento culturale la recente firma del contratto per un milione e seicentomila metalmeccanici e per tre milioni e trecentomila statali.

Tuttavia, per quelle che ho sommariamente richiamato e per tante altre ragioni che potrebbero essere aggiunte, il lavoro, la disoccupazione siano da assumere come il problema cruciale economico e sociale del nostro tempo. Non solo per i milioni di persone coinvolte, ma per quasi tutte le famiglie. Perché più o meno in ogni famiglia c’è uno o più componenti che temono di perdere il lavoro, o lo hanno perso e non riescono più a trovarlo. A cui si somma la condizione sempre più disperante per il futuro dei figli. Costantemente in balia di una dilagante disoccupazione giovanile, che ha superato ogni soglia di tollerabilità. Intendiamoci. Essere disoccupati oggi, malgrado la povertà assoluta tenda continuamente ad aumentare, non significa necessariamente non fare nulla, o morire di fame. Come capitava alla generazione dei nostri padri e dei nostri nonni. Ma significa sempre essere esclusi. Perché. anche se molte cose relative al lavoro sono cambiate, basti pensare: all’organizzazione del lavoro, alla cultura del lavoro, al rapporto tra le persone ed il lavoro. Tuttavia, malgrado le continue trasformazioni, il lavoro resta un fattore decisivo di appartenenza, di identità individuale, familiare, sociale. Infatti in questa società sempre più individualista, disincantata ed indifferente, continuiamo ad essere anche in rapporto a ciò che facciamo. Al punto che la prima domanda che le persone si scambiano per riconoscersi è: “che fai?”. A conferma di quanto il lavoro continui ad essere un elemento imprescindibile di identificazione, di riconoscimento personale, familiare, sociale. Quindi non ci si può, e non ci si dovrebbe rassegnare al dramma di milioni di persone che ne sono deprivate.

Poiché, allo stato, ci troviamo alle prese con una situazione intollerabile cosa si può fare per eliminare, o quanto meno ridurre significativamente, questa grave tracimazione di sofferenza umana? A questo fine, ci sono compiti che spettano ovviamente alla politica. In primo luogo l’adozione di appropriaste misure economiche. A cominciare da investimenti pubblici destinati alla tutela della salute per tutti, alla scuola, ad un più efficiente funzionamento degli strumenti per l’avvio al lavoro, compresa la formazione continua, alla messa in sicurezza del territorio e delle persone. Tutte misure che, assieme ad altre, possono contribuire alla ripresa economica e dunque anche all’aumento dell’occupazione. Si tratta di interventi sicuramente importanti, ma che non bastano se si intende davvero assumere l’obiettivo del “lavoro per tutti”. Bisogna infatti fare i conti con il punto decisivo non offuscabile con discorsi blablatici. E il punto è che, allo stato, non c’e abbastanza lavoro per tutti. Per tutti coloro che vorrebbero lavorare. Perciò l’unico modo per affrontare concretamente il problema è quello di ridurre gli orari e ripartire diversamente il lavoro disponibile. I modi per conseguire questo risultato sono teoricamente innumerevoli. Ma essendo rispettoso dell’autonomia sindacale, non mi permetto di entrare nel merito. Nemmeno con semplici suggerimenti. Intendendo con questa condotta mantenermi fedele ad un comportamento al quale, negli ultimi trent’anni, ho sempre cercato di ispirarmi. Non a caso che, pur essendomi sempre interessato delle questioni generali relative al lavoro (“semel” sindacalista, “semper” sindacalista) mi sono contemporaneamente astenuto dall’esprimere qualsiasi giudizio tanto sulla appropriatezza, o sulla congruità delle piattaforme elaborate, come sugli accordi stipulati,

Non è un caso, del resto, che pur essendo stato proclamato dal congresso confederale dell’85 membro a vita del consiglio generale (come qualcuno tra i più anziani probabilmente ricorderà), non abbia mai partecipato ad alcuna riunione di questo importante organismo di indirizzo strategico. La ragione che mi ha condizionato è molto semplice. Non so se sia ancora in vigore, o se sia stata riformata, oppure se nel frattempo sia caduta in disuso, ma c’era una norma nel diritto canonico la quale prescriveva che quando un parroco lasciava una parrocchia non poteva più ritornare. Neanche per confessare. Norma che credo farebbe bene se fosse estesa anche alle grandi organizzazioni collettive, sociali e politiche. In ogni caso. Intanto, almeno per quel che mi riguarda, ho ritenuto comunque opportuno di uniformarmi.

Per concludere, consentitemi qualche rapida considerazione. Gli ultimi due decenni per i diritti ed il trattamento del lavoro e per le organizzazioni di rappresentanza del lavoro è stato un lunghissimo, interminabile periodo di nuvole basse. Per tornare a vedere il sole occorre innanzi tutto impegnarsi con efficacia e determinazione ad unificare il mondo del lavoro. Normativamente tra pubblico e privato e per includere i milioni di persone ricattate con l’imposizione di contratti atipici che sono, di fatto, esclusi dalla contrattazione e dal riconoscimento di diritti essenziali. Compreso il riconoscimento della dignità del lavoro. Naturalmente la prima condizione per ricomporre il mondo del lavoro è che, a sua volta, il sindacalismo confederale non si presenti frantumato. In sostanza si dimostri capace di combattere la tendenza a trasformare divergenze occasionali, per quanto forti, o supposte tali, in contrapposizioni permanenti. Che determinano solo impotenza e paralisi. Si può senz’altro convenire che nel compito che sta di fronte al sindacalismo confederale non c’è niente di facile, ma ci si deve tutti convincere che non c’è neanche niente di impossibile. Il segreto consiste nel non trasformare mai i motivi di preoccupazione in ragioni di pessimismo.

Finisco con due versi noti a molti, di John Donne (famoso poeta inglese del ‘500) il quale descrive con espressioni commosse, che non andrebbero ignorate, il valore dei rapporti tra individuo ed individuo. Sostenendo che ciascuno vale solo in quanto parte del tutto. Dice infatti Donne: “Nessun uomo è un’isola, completo in sé stesso; ogni uomo è un pezzo di continente, una parte del tutto. …… E dunque non chiedere mai per chi suona la campana. Suona per te.”

Ai versi di Donne voglio aggiungere due righe di commento contenute nel bel libro (“Il futuro è nel nostro passato”) in cui, proseguendo sulle orme degli “Adagia” di Erasmo, la nostra amica Fiorella Casucci Camerini interpreta frammenti di saggezza greca e latina per auspicare un nuovo umanesimo. Queste le sue parole: “E oggi in questi nuovi tempi di individualismo sfrenato, di odio, di violenza, del sonno della ragione, in cui il suono della campana per ciascuno di noi è sommerso da un frastuono assordante, è essenziale recuperare il senso di solidarietà, di fraternità e di unione, pena la dissoluzione della comunità”.

Per scongiurare i rischi gravi del tempo che ci è dato di vivere è quindi necessario ricostruire con tenacia, determinazione, impegno costante la speranza in un possibile futuro migliore. Cominciando con il dare riposte concrete alla questione decisiva del “lavoro per tutti”. Senza farci intimorire, bloccare, fuorviare, dalle critiche, dalle obiezioni delle élite del potere economico finanziario. Che, negli ultimi anni. ha costretto la comunità a sopportare durissimi costi umani e sociali.

Credo che si possa finalmente invertire la tendenza. Ma occorre svegliarci. Sia perché non c’è più tempo da perdere. Ma soprattutto perché, come diceva Aristotile, “La speranza è un sogno fatto da svegli”

Intervento al Convegno CISL – ASTROLABIO SOCIALE su “Il lavoro che sarà, per tutti” del 06/12/2016

Il Contratto è il nostro Patto di Fabbrica per Industry 4.0. Intervista a Marco Bentivogli

bentivogli_marcoSabato scorso, dopo 13 mesi di una estenuante trattativa con Federmeccanica, i lavoratori del settore metalmeccanico hanno un contratto. L’intesa siglata dai sindacati di categoria, è stata definita, non senza ragioni, storica. Cerchiamo di capirne di più, in questa intervista, con un protagonista di questa trattaiva: Marco Bentivogli, Segretario Generale della FIM-Cisl.

Finalmente dopo 13 mesi, 1,6 milioni di lavoratori Metalmeccanici, hanno un contratto. Lei ha definito, il nuovo contratto, come il più difficile della storia. Perché? Non è un tantino enfatico?
Non era mai accaduto prima che si rinnovasse il contratto dei metalmeccanici in un contesto così complicato, in un settore che ha perso 300.000 posti di lavoro e con tante aziende ancora in crisi, in un quadro economico-finanziario contrassegnato dalla deflazione e con una controparte, Federmeccanica, che per oltre 10 mesi è rimasta marmorizzata sulla posizione di partenza, cioè di superare completamente il livello nazionale di contrattazione o comunque di arrivare a ridurre i livelli ad uno solo.
Siamo riusciti nell’impresa di convincere gli industriali che 1.600.000 metalmeccanici hanno bisogno di una cornice di regole e di strumenti che li tenga assieme e che contemporaneamente si diffonda la contrattazione di secondo livello e la partecipazione dei lavoratori nelle scelte strategiche delle imprese, attraverso i comitati consultivi di partecipazione.

Quali sono stati i momenti di maggior difficoltà? Quali erano i punti più problematici?
Senza dubbio la rigida posizione iniziale di Federmeccanica (di applicare il Contratto solo al 5% dei lavoratori e nella fase finale di riconoscere a tutti solo una quota (decrescente) dell’inflazione e sul sistema di inquadramento in particolare) è stata un grande ostacolo da superare, ma è servita per compattarci, anche se poi siamo riusciti ad andare oltre le divisioni e a fare importanti passi in avanti, insieme. Verso l’innovazione.

In cosa consiste la svolta, per così dire,  “culturale”  del nuovo contratto? 
Con questo contratto, si riapre la partita delle relazioni industriali del nostro Paese e può essere da stimolo anche per la discussione che si sta affrontando sul nuovo modello contrattuale.
E’ una svolta culturale che si affermi un’impostazione sindacale partecipativa ed autorevole nelle relazioni sindacali. Partecipazione è responsabilità reciproca, condivisione di scelte, anche organizzative, per valorizzare il contributo dei lavoratori e aumentare la produttività delle aziende.
Si superano tutte le ambiguità degli “anche” che dal ’93 avevano sovrapposto i due livelli contrattuali indebolendo entrambi. Lo dico anche per una categoria come la nostra che ha uno dei migliori gradi di copertura della contrattazione di secondo livello (il 37% delle aziende che occupano il 70% dei lavoratori della categoria). Ogni livello avrà un ruolo rinnovato e distinto.

Quali i punti più innovativi?
Oltre alla diffusione – già richiamata – della contrattazione di secondo livello e della partecipazione, i punti innovativi sono tanti e riguardano nuovi diritti o strumenti rinnovati e potenziati. La formazione diventa un diritto soggettivo del lavoratore, 24 ore nel triennio o un budget di 300 euro da spendere per aggiornare e rafforzare la propria professionalità; il welfare contrattuale diviene uno strumento importante per riconoscere risorse completamente detassate che potranno essere modulate a seconda dei bisogni dei lavoratori; inoltre costruiremo uno dei fondi di sanità integrativa più grandi d’Europa e abbiamo centrato l’obiettivo per per un nuovo sistema di inquadramento, quello attuale era fermo al 1973. Inoltre abbiamo rafforzato il ruolo dei rappresentanti dei lavoratori alla sicurezza e introdotto nuove modalità di conciliazione vita lavoro, con una attenzione particolare anche alle esigenze dei migranti.

Nel contratto c’è una svolta partecipativa e  una maggiore attenzione alla contrattazione di secondo livello. Temi antichi per la Fim-Cisl. La Fiom di Maurizio Landini vi ha seguito su questo terreno. Insomma inizia una nuova storia per il sindacato italiano?
Per tutta la Cisl, fin dal consiglio generale di Ladispoli del 1953, la contrattazione di secondo livello è il nostro faro, perchè – come dicevo prima – solo contrattando nelle singole aziende si può fare vera innovazione nei processi organizzativi e partecipativi. La ricchezza si distribuisce laddove viene generata, cioè in azienda.
Sarà anche in discontinuità ma non ci interessano le dietrologie. Landini, in questa occasione, ha dimostrato lungimiranza e coraggio. Insieme abbiamo saputo scrivere una pagina nuova, di unità che guarda la realtà in avanti, non dallo specchietto retrovisore.

Torniamo al contratto. Sono presenti anche strumenti di Welfare e di previdenza integrativa? C’è attenzione per i giovani lavoratori?
Sì, certo. Da tempo la FIM sta spingendo perchè il tema delle pensioni sia vissuto, dai giovani in particolari, non solo come un tema che riguarda principalmente chi o è già in pensione o ci sta andando. Abbiamo realizzato anche una ricerca sulle future pensioni di 500 giovani metalmeccanici, oggi poco più che ventenni; senza fare allarmismo, la loro pensione rischia di arrivare dopo 50 anni di lavoro, con importi che possono arrivare, se il percorso professionale è stato discontinuo, anche alla metà dell’ultimo stipendio. Ecco perchè abbiamo chiesto di rafforzare la diffusione e l’informazione sulla previdenza complementare e di incrementare il versamento da parte delle aziende dall’1,6% al 2%.
Per quanto riguarda il welfare, sono stati previsti importi importanti (100 euro nel 2017, 150 nel 2018 e 200 euro nel 2019), completamente detassati. Ricordo che, se lo stesso importo fosse stato erogato sotto forma di salario, a causa della tassazione, ne sarebbero arrivati solo 58 euro nelle tasche dei lavoratori, 85 euro nel caso di contrattazione aziendale.
A queste cifre si sommano i 156 euro della sanità integrativa, strumento sempre più importante per le lavoratrici e i lavoratori, totalmente a carico dell’azienda e rivolta anche ai familiari o ai conviventi a carico dei metalmeccanici.

Come si svilupperà la “road map” per l’approvazione del contratto?
Giovedì 1 dicembre abbiamo convocato l’assemblea nazionale FIM-FIOM-UILM per approvare l’ipotesi di accordo che poi sarà sottoposta alle lavoratrici e ai lavoratori nelle fabbriche, tramite consultazione certificata, il 19-20-21 dicembre.

In che misura questo contratto riuscirà a rendere competitivo il settore industriale italiano?
Per essere competitivo, il nostro settore industriale – oltre che di riforme – ha bisogno di puntare sull’innovazione. In questo contratto sono tanti gli strumenti e le leve che vanno in questa direzione: non esiste reale e concreta innovazione che non tenga conto del contributo dei lavoratori nei processi di lavoro e organizzativi.

La partita per i rinnovi contrattuali non è terminata (vedi pubblico impiego), adesso c’è il referendum costituzionale. Avere una continuità governativa è interesse del Sindacato. Cosa dovrebbe fare Renzi se non riuscisse a vincere il referendum?
Ci sono ancora 10 milioni di lavoratrici e di lavoratori senza contratto, dai tessili ai ferrovieri, insegnanti, dipendenti pubblici, assicuratori, lavoratori della distribuzione. La FIM sarà al loro fianco per sostenere le loro richieste. Senza dubbio questo Paese avrebbe bisogno di stabilità, negli ultimi 70 anni si sono succeduti ben 63 Governi, a fronte dei 24 della Germania o dei 20 del Regno Unito ad esempio e questa instabilità ha reso impossibile fare quelle riforme che avrebbero sbloccato il Paese e rilanciato l’economia. Ma non voglio mescolare le carte, lo fanno già in tanti. Non voglio parlare di contratto e Referendum assieme perché sono due cose diverse e noi abbiamo trattato con Federmeccanica e Assistal, non con il Governo.
E in questa occasione i metalmeccanici, con idee e coraggio, hanno saputo superare le divisioni, facendo tutti un passo avanti, insieme.