“Per Freire tutti sono portatori di alcuni saperi e vanno ascoltati”. Intervista di Matías Loja a Leonardo Boff

Nel centenario della nascita del grande pedagogista brasiliano  Paulo Freire, pubblichiamo, in una nostra traduzione dallo spagnolo, questa intervista, apparsa sul sito del quotidiano argentino La Capital *, al teologo brasiliano Leonardo Boff.

Paulo e Leonardo. Uno, maestro; l’altro, uno dei fondatori della Teologia della Liberazione. Uno formatore di maestri, l’altro, teologo e ecologista. Ma entrambi educatori brasiliani che condividono l’opzione preferenziale per i poveri e per la loro liberazione. Essere liberi non per imitare l’oppressore, ma per essere protagonista di un altro tipo di società nella quale non ci siano relazioni di oppressione ma di collaborazione e amore”, dice Leonardo Boff.

La sofferenza della Madre Terra, la povertà e la disuguaglianza sono alcuni dei temi che occupano attualmente la sua agenda, che lo vede molto attivo attraverso discorsi e conferenze dalla sua casa a Jardim Araras, alla periferia di Petrópolis. «L’ecologia integrale e la teologia della liberazione hanno qualcosa in comune: entrambe partono da un grido», ha scritto in un suo libro Reflexões de um velho – Teólogo e pensador (Editora Vozes, 2018).

A cento anni dalla nascita di Paulo Freire, Leonardo Boff ha parlato con il quotidiano La Capitale ha raccontato aneddoti del suo legame con l’educatore, evidenziando l’eredità dei suoi principali libri e la validità di alcune delle frasi più ricordate del pedagogo. Tra queste l’affermazione che “educare è un atto d’amore”.

Come era Paulo Freire? Puoi raccontare un aneddoto con lui?

Paulo Freire era una persona che viveva concretamente quello che insegnava: profonda umiltà, capacità di ascolto dell’altro con amorevolezza, una parola che gli piaceva usare più del semplice amore. Ho avuto modo di conoscerlo meglio quando lavoravamo insieme, una volta all’anno, la settimana di Pentecoste a Nijmegen (Olanda). Era un gruppo di circa 25 persone, tra teologi, filosofi, sociologi di frontiera come Hans Küng, Rahner, Congar, Metz e altri. Lo scopo era quello di preparare i dieci numeri della rivista internazionale Concilium, che è tuttora pubblicata in sette lingue. Io ero il più giovane e rappresentavo l’America Latina. C’era una commissione di esperti di altre aree che accompagnavano le sessioni. Paulo Freire lavorava presso il Consiglio Mondiale delle Chiese in Svizzera ed era responsabile per la tematica dell’educazione nel mondo. Per diversi anni c’incontravamo lì a Nijmegen e si è sviluppata una grande amicizia, proseguita poi in Brasile quando ha potuto tornare dall’esilio. Ricordo che mi chiedeva sempre di portargli una bottiglia di succo di ciliegia. Era il modo per sentirsi a casa. Abbracciava la bottiglia e piangeva di saudade.

Quale pensi sia la sua migliore eredità?

La migliore eredità è il suo metodo apprezzato in tutto il mondo e che è stato assunto dalla Teologia della Liberazione. Per lui, tutta l’educazione è una costruzione collettiva, tra tutti, simultaneamente insegnanti e studenti. Tutti sono portatori di alcuni saperi e devono essere ascoltati. Quindi la prima cosa è ascoltare il mondo e l’altro. È ascoltando il mondo che apprendiamo. Leggere prima il mondo, poi leggere le lettere. Ignorante è colui che pensa che il povero sia ignorante. Il povero sa e deve essere ascoltato. Nasce così il dialogo che consente la costruzione collettiva della conoscenza. Partire sempre dal basso, dal livello di coscienza delle persone e attraverso il dialogo crescere insieme. L’educazione non cambia il mondo, cambia le persone che cambieranno il mondo. Educare è un atto d’amore e senza amore non c’è conoscenza che umanizzi i rapporti umani.

Cè un legame tra la pedagogia della liberazione e la pedagogia della cura della Madre Terra?

Paulo Freire affrontò la questione ecologica solo alla fine della sua vita, perché all’epoca in cui elaborò la Pedagogia degli oppressi e l’Educazione come pratica della libertà, le sue due opere classiche, non era ancora rilevante. Alla fine, include nell’educazione la cura della Madre Terra, rendendosi conto delle minacce a cui è sottoposta. Ha creato il verbo “esperanzar“, l’azione che suscita la speranza operativa e la “possibilità praticabile”  (la sua espressione frequente) per raggiungere “una società meno malvagia che non renda così difficile l’amore“. All’interno di questo amore dobbiamo includere la Madre Terra senza la quale non c’è futuro per l’umanità.

Cosa significa pensare oggi nella liberazione in una regione come quella latinoamericana tanto disuguale e con tanta povertà?

Tutto il processo educativo di Paulo Freire parte da questa domanda sulla situazione di povertà e di disprezzo generalizzato verso i poveri. Il suo libro Pedagogia degli oppressi è l’espressione di questa preoccupazione. Non è una pedagogia per gli oppressi, ma il contrario: è come gli oppressi prendono coscienza della loro oppressione, come hanno dentro di loro l’oppressore e come tirarlo fuori per essere liberi. Essere liberi non per imitare l’oppressore, ma per essere protagonisti di un altro tipo di società in cui non esistano rapporti di oppressione, ma di collaborazione e amorevolezza. Se i poveri non prendono coscienza della causa della loro oppressione e insieme ad altri non lottano per liberarsi, non usciranno mai dalla situazione di povertà. Da ciò Paulo Freire ha coniato l’espressione “coscientizzazione“, che è molto più di essere consapevoli. È l’azione di creare coscienza della loro oppressione in funzione della loro liberazione.

Qual è il migliore omaggio che si possa fare a Freire in questo centenario?

Per il centenario della sua nascita, su internet (online) si svolgono dibattiti e incontri in tutto il mondo, soprattutto in Brasile. Data la degradata situazione mondiale in cui cresce il numero dei poveri, è importante il metodo di Paulo Freire: a partire dagli stessi oppressi, affinché loro stessi scoprano le cause della loro oppressione, sognino un altro tipo di società e si organizzino finalmente per realizzarla. Questo compito è urgente specialmente ora sotto il Covid-19, che attacca soprattutto i poveri. Loro devono organizzarsi in solidarietà per sopravvivere.

*(Dal sito: https://www.lacapital.com.ar/educacion/leonardo-boff-para-freire-todos-son-portadores-algun-saber-y-deben-ser-escuchados-n2688518.html

  • (Traduzione dallo Spagnolo di Gianni Alioti)

ADDIO A GIOVANNI AVENA, CRONISTA E CRISTIANO RIGOROSO. UN TESTO DI VALERIO GIGANTE

 

 

Nella giornata di ieri, presso la sua casa di Ciampino a Roma, si è svolta una breve cerimonia laica di commiato a Giovanni Avena. La morte di Giovanni Avena è avvenuta nella tarda serata di sabato scorso. Per chi si occupa di informazione religiosa Giovanni era un grande punto di riferimento. Infatti è stato il riformatore della prestigiosa agenzia di stampa ADISTA. Una combattiva testata di informazione religiosa, che ha fatto dell’indipendenza da ogni potere la sua cifra più alta. Giovanni era un giornalista rigoroso, e la sua conoscenza delle fonti lo rendeva prezioso a molti vaticanisti . Per me era anche un amico. Un amico generoso. Lo voglio ricordare con le belle parole di Valerio Gigante, dell’Agenzia Adista, scritte il giorno dopo la sua morte. Informo, inoltre, che Il 23 settembre, nel salone della Comunità di Base di San Paolo alle ore 17, ci sarà un incontro su di lui.

 

Nel momento in cui lo scriviamo ci pare impossibile. Eppure la lunga malattia che ne ha segnato gli ultimi anni di vita ci avrebbe dovuto preparare. Da ieri, 4 settembre, Giovanni Avena non c’è più. Si è spento serenamente, verso le 23.

Giovanni Avena non ha fondato Adista, ma è come se olo avesse fatto. Se non l’ha fondata, l’ha rifondata. È stato infatti tra i protagonisti della trasformazione della testata (1979) da agenzia della Sinistra Indipendente a cooperativa di soci impegnati nell’idea di una informazione libera dai condizionamenti del potere economico, ecclesiastico, partitico, profondamente incarnata in una prospettiva evangelica, di sinistra, laica e pluralista.

In questi casi si dicono spesso frasi tipo “senza Giovanni Adista perde una parte importante della sua storia”. Ma non è così. Adista è Giovanni, nel senso che il suo contributo ha profondamente cambiato il giornale e la vita di ciascuno di noi che lo ha incontrato, conosciuto, stimato. Ciascuno di noi del collettivo di Adista porta dentro qualcosa della sua testimonianza umana, politica ecclesiale. E ogni giorno nel lavoro che facciamo, nelle relazioni che abbiamo, qualcosa di Giovanni  vive attraverso di noi. Nulla di lui è perduto, se non la possibilità, che abbiamo avuto anche nel lungo periodo della sua malattia, di confrontarci con lui, di avere il suo punto di vista sulle vicende attuali, sulle questioni della gestione della cooperativa, sulle iniziative da prendere per rilanciare la nostra informazione.

Giovanni era nato nel 1938. È stato per molti anni prete e parroco. A Palermo, dove divenne parroco della parrocchia del Cuore eucaristico di Gesù in corso Calatafimi, (1971), poco dopo che il card. Pappalardo – che inizialmente lo teneva in grande considerazione – era diventato arcivescovo della diocesi, era un prete stimato e di grandi prospettive. Poi le sue posizioni (a livello politico ed ecclesiale, a partire dalla sua posizione a favore del divorzio) gli alienarono progressivamente il favore della Curia. A ciò si aggiungeva la sua posizione intransigente rispetto al malaffare della Democrazia Cristiana e al connubio tra Chiesa, politica, criminalità mafiosa.

Ma soprattutto, la vita di Giovanni cambiò il giorno in cui volle entrare nell’’ospedale psichiatrico che era collocato proprio al centro del territorio parrocchiale, tra via Pindemonte e via Giuseppe Pitrè, che erano esattamente i confini della parrocchia. Divenuto parroco, il suo primo pensiero fu di entrare in quella struttura, con lo stesso spirito con cui voleva entrare nelle case dei parrocchiani per far fare amicizia aprire un dialogo con loro.

Si accorse di una situazione ai limiti dell’immaginabile, oltre ogni concetto di dignità umana. Giovanni iniziò così una lunga battaglia per i diritti umani calpestati di quei malati che nemmeno venivano considerati esseri umani. Lì dentro, anche tanti bambini. Bambini dai 7-8 anni in su.

Attraverso il suo impegno e con molta fatica Giovanni riuscì a far uscire, almeno per qualche ora, alcuni dei malati reclusi, a fargli fare qualche attività, mettendoli in contatto con la parrocchia e il quartiere. Nel frattempo, saldando la sua iniziativa anche con le lotte di Basaglia e di altri psichiatri democratici per la chiusura dei manicomi, denunciava le terribili condizioni in cui versava l’ospedale.

Alla fine riuscì a liberare almeno i bambini da quella realtà. Ma pagò il prezzo dell’allontanamento dalla parrocchia e dalla diocesi. E molti dei malati che aveva liberato furono nuovamente internati nell’ospedale. Fino alla legge che finalmente chiuse i manicomi. Ma per alcuni di loro fu ormai troppo tardi.

Era il 1977 e Giovanni, che riesce a ottenere l’incardinazione nella diocesi di Frascati, trova casa a Roma. Si reca ad Adista, che aveva parlato di lui negli anni delle sue lotte come parroco di punta a Palermo, e inizia a collaborare. Da lì, rapidamente, diventa un punto di riferimento per la redazione e il braccio destro (e pure il sinistro) del presidente della cooperativa e direttore storico di Adista, Franco Leonori. Quando Franco Leonori va in pensione, assume direttamente un incarico – quello di presidente e amministratore – che già nei fatti esercitava da tempo, mentre Eletta Cucuzza prendeva la direzione della testata.

Di esercitare il ministero smise progressivamente, dalla metà degli anni ’90. Soprattutto dopo l’arrivo nella diocesi di Frascati di mons. Matarrese, succeduto a mons. Luigi Liverzani, che lo aveva accolto benevolmente. Alla Chiesa cattolica non chiese mai nulla. Non voleva la congrua e l’8 per mille. Non volle nemmeno chiedere la dispensa dal ministero, per non sentirsi nell’obbligo di giustificare le sue scelte e di farne giudicare la bontà a una gerarchia a cui non riconosceva questo diritto. Conobbe in quegli anni Ivana, che sarebbe diventata sua moglie nel 2006, con cui ha vissuto una splendida storia d’amore e che lo ha accudito con enorme dedizione fino alla fine.

Per oltre 40 anni Giovanni è stato il punto di riferimento di una galassia di realtà, personalità, intellettuali del variegato mondo della sinistra cristiana. Sono pochi quelli che non lo hanno chiamato per avere un commento, un parere, un consiglio. Rispondeva a tutti, giornalisti vaticanitsti compresi (che lo chiamavano ogni volta che accadeva qualcosa di rilevante per avere la sua puntuale e radicale lettura dei fatti) con generosità e senza mai pretendere nulla per sé, nemmeno che venisse citato. O che venisse ricordato il suo contributo alla stesura di centinaia di lettere, discorsi, comunicati, articoli, appelli che ha contribuito a promuovere o a far circolare.

Per raccogliere sottoscrizioni per il giornale ha letteralmente girato l’Italia. Spesso in un weekend partecipava a due tre eventi in città diverse. Viaggiava in treno, dormiva in cuccetta, parlava di Chiesa, attualità, politica. E poi chiedeva a tutti di abbonarsi a Adista, affinché le idee che sentiva circolare negli incontri a cui partecipava avessero in Adista lo strumento per diffondersi.

Per il collettivo di Adista è stato il punto di riferimento fondamentale sia dal punto di vista organizzativo, che da quello intellettuale. Non si chiudeva numero a Adista senza prima portare le bozze del giornale a Giovanni, affinché rivedesse la lunghezza dei pezzi, la loro disposizione, e la loro titolazione. Lui suggeriva, tagliava, trovava sempre titoli fulminanti (i titoli di Adista per moltissimi anni sono stati un suo marchio di fabbrica).

Quando, ormai malato, ha progressivamente lasciato le sue responsabilità, delegandole a altri, si è percepito tutto l’impegno, il peso, l’importanza di ciò che aveva fatto, con dedizione e nell’ombra. Solo facendo ciò che aveva fatto lui ne abbiamo percepito appieno l’importanza e la straordinarietà.

Giovanni era stato sul punto di morire molte volte. E tutte quante si era ripreso. Il suo testamento lo aveva già scritto nel 2015, durante una delle crisi che aveva attraversato. Non lo aveva mai voluto cambiare. Lo pubblichiamo qui di seguito:

 

LE MIE VOLONTA’ POST MORTEM

IL MIO GRAZIE A DIO, ALLA VITA E A QUANTI MI HANNO AMATO

Ho creduto ardentemente nel Dio di Gesù Cristo che ho sentito costantemente presente nella mia vita e nella vita di quelli che mi hanno accompagnato con affetto e stima; ma anche di quelli che non hanno avuto da me quanto era loro diritto avere o si aspettavano da me. Ciascuna e ciascuno di essi mi hanno beneficato con generosità, amicizia e sinceri rimproveri. Per questo li saluto e li ringrazio.

Ho creduto anche nella Chiesa come comunità di padri, madri, fratelli, sorelle, amici e avversari. Non ho piu creduto, invece, nella Chiesa dal volto e dalle azioni istituzionali: questa non mi è stata madre, ma neppure matrigna. Fin da ragazzo le avevo dedicato i miei ideali e il mio entusiasmo giovanile, ma quando, adulto, ho voluto realizzare con la pochezza delle mie capacità intellettuali ma con la generosità della mia esistenza, per e con le con le persone incontrate nel mio servizio umano e spirituale, sono stato “prudentemente demotivato e pesantemente angariato fino all’emarginazione e al ripudio. Penso ancora con dolore ai miei amici piccoli e adulti dell’Ospedale psichiatrico di Palermo, luogo di torture e sofferenze inaudite, dimenticati da tutti, Chiesa compresa, perché soggetti inutili alla società, e pericolosi per la convivenza civile. I miei superiori ecclesiastici mi impedirono, destituendomi dal servizio parrocchiale, di condividere con le donne e gli uomini del quartiere, la lotta per la dignità e i diritti umani, dei reclusi entro l’Ospedale psichiatrico. Il dolore di quella obbedienza mi ha trafitto e ha interrotto la mia comunione con i gestori istituzionali della Chiesa. Quella ferita non si è mai cicatrizzata e ancora sanguina. Per questo, alla mia morte, non voglio essere oggetto di alcuna pratica religiosa e funerale liturgico “somministrati e concessi” da una struttura di Chiesa ipocrita, povera di misericordia e ricca solo di potere e arroganza.

 Pertanto, non voglio alcun funerale ecclesiastico e sarò felice solo di un sobrio momento laico di memoria e preghiera, nell’ambito della Comunità cristiana di base di S. Paolo dove, negli anni ottanta, appena cacciato dalla Chiesa di Palermo e dalla Congregazione del Boccone del Povero, ho potuto ritrovare la pace e la dignità che mi erano state sottratte. Desidero anche che il mio corpo non venga “depositato” in un qualsiasi cimitero. Dispongo, invece, che venga cremato e che le ceneri siano disperse. Grazie di cuore a tutte e a tutti che comprenderanno queste mie volontà e mi perdoneranno se non le condividono.

Desidero salutare con grandissimo affetto i miei compagni e compagne di lavoro di Adista. Non mi bastano le parole per ringraziarli del bene che mi hanno voluto, della generosità con cui mi hanno sopportato quando non sono stato all’altezza delle loro attese: per questo chiedo scusa a tutte e a tutti, e confido, come sempre ho confidato nella benevolenza. Saluto e ringrazio tutte tutte, tutti tutti ho incontrato negli ambienti nei quali ho militato, lavorato e condiviso fatiche, speranze, sconfitte e risultati.

Abbraccio e bacio tutte e tutti. 

Roma, 13 gennaio 2015

Giovanni Avena

CIAO FRANCO! IL MIO RICORDO DI FRANCO MARINI

Franco Marini (GettyImages)

Questa mattina è morto Franco Marini. Politico e sindacalista, aveva 87 anni. Segretario generale della Cisl, poi presidente del Senato e poi ministro del Lavoro, segretario del Partito popolare italiano ed europarlamentare. Marini è morto per complicazioni legate al Covid.

A inizio gennaio era risultato positivo al coronavirus e ricoverato all’ospedale San Camillo de Lellis di Rieti. La notizia della scomparsa è stata data con un tweet da un altro esponente di lungo corso dei Popolari, Pierluigi Castagnetti che ha ricordato l’amico come “uomo integro, forte e fedele a un grande ideale: la libertà come presupposto della democrazia e della giustizia. Quella vera”. Di seguito un piccolo ricordo personale.

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De Gasperi tra Costituente e ricostruzione. Un testo di Marta Cartabia (Presidente della Corte Costituzionale)

Pubblichiamo, per gentile concessione della “Fondazione Trentina Alcide De Gasperi”, il testo della Lectio degasperiana 2020 tenuta, il 18 agosto a Pieve Tesino, dalla Professoressa Marta Cartabia (Presidente della Corte Costituzionale).

«Ti chiameranno riparatore di brecce, restauratore di case in rovina per abitarvi».

Questo splendido passo di Isaia (Is 58,12), a me molto caro, ci introduce al tema scelto con grande lungimiranza dagli organizzatori per la Lectio degasperiana di quest’anno: «Ricostruzione e Costituzione».

La parola ricostruzione risuona da mesi nella riflessione pubblica ed è risuonata nel corso di questa estate, specie nelle ultime settimane, in occasione della cerimonia di inaugurazione del nuovo ponte di Genova, ricostruito, appunto, dopo la tragedia del crollo di due anni fa.

In quella occasione, l’architetto Renzo Piano, che ha donato il progetto del nuovo ponte, nel suo intervento di saluto, ha espresso, con parole bellissime, pensieri profondi da cui desidero prendere le mosse per la nostra riflessione odierna.

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L’ultimo saluto a Giorello: “Giulio era musica”. Intervista a Giuseppe Sabella

Ieri, a Milano, parenti e amici hanno dato l’ultimo saluto a Giulio Giorello. Non un funerale ma un dolce congedo che, anche nelle parole di chi ne ha ricordato frammenti di vita (la moglie Roberta Pelachin, Vittorio Sgarbi, il Rettore dell’Università di Milano Elio Franzini, etc.), ha fatto apparire quell’immagine di lui che si unisce a quella dell’epistemologo, del filosofo della scienza: Giorello è stato un filosofo della libertà. E i suoi libri testimoniano questa fortissima tensione per la libertà che negli ultimi anni si è sempre più accentuata. Non a caso, lo avevamo intervistato (leggi qui) proprio in occasione della sua ultima pubblicazione Società aperta e lavoro (Cantagalli 2019), scritta insieme al suo allievo Giuseppe Sabella, direttore di Think-industry 4.0, che collabora con RaiNews.it sui temi economici e del lavoro.

E proprio a Sabella abbiamo chiesto un ricordo del professore.

Giulio è stato strappato dall’affetto di chi continuerà ad amarlo in modo molto improvviso. Come si è saputo, aveva contratto il covid e, dopo due mesi di ospedale e due tamponi negativi, sembrava averlo superato. Ma una volta dimesso, ha avuto qualche complicazione che nel giro di pochi giorni si è rivelata letale. È quindi questa una ferita, per chi è affettivamente legato a lui, che chiede tempo per guarire. Ad ogni modo, è morto con un viso disteso e bello.

Che genere di filosofo è stato Giorello?

Allievo di Ludovico Geymonat, Giorello è stato un filosofo che non solo si è dedicato agli studi epistemologici, a Karl Popper in particolare e a chi ne ha discusso le posizioni, ma che – proprio come Popper – ha creduto che il metodo scientifico fatto di congetture e confutazioni potesse essere anche il giusto metodo per la costruzione della democrazia liberale. Non a caso, nel nostro Società aperta e lavoro c’è un capitolo che si intitola dalla fabbrica dei cieli alla società aperta. Giorello aveva questa sana tensione alla vita civile. In poche parole, Giorello è stato un intellettuale, figura che manca così tanto ai nostri giorni.

Ci racconta un episodio significativo?

Ricordo un episodio quando ero studente, proprio negli anni della tesi – che mi fece fare su Geymonat – che descrive molto bene il professore. Avendo lui intuito la mia passione per la metafisica (kantiana ed hegeliana in particolare), in un colloquio che seguiva alla lettura del primo capitolo mi disse: Sabella, sa cosa dice Aristotele nell’Etica? Pensi pure Platone al bene in sé, noi vogliamo il bene di questi cittadini qui. Io naturalmente gli feci quella che secondo me resta un’obiezione valida: Professore, come si fa a volere il bene di questi cittadini qui se non si ha un’idea di bene? Ho compreso nel tempo che la sua domanda aveva un senso di verità molto profondo e che sintetizzava bene il suo pensiero: o le idee sono in grado di agire e di modificare la realtà o non sono nulla, sono astrazioni. E, contro queste astrazioni, lui ha condotto fino all’ultimo la sua battaglia. Sono convinto, oggi, che se possiamo parlare di verità, la verità è dentro questa tensione che c’è tra Platone e Aristotele, come tra Hegel e Marx, e che è una tensione al vero. E al bello.

Nel 2010, Giorello pubblicava per Longanesi Senza Dio. Del buon uso dell’ateismo. È giusto quindi ricordarlo come un ateo?

Il sottotitolo di questo libro che lei cita, Del buon uso dell’ateismo, dice ancora una volta moltissimo di lui. Giulio, da uomo non solo di filosofia ma anche di scienza, riteneva che la pratica scientifica e civile dovesse prescindere da Dio e dalla religione. Era un perfetto laico, convinto che qualsiasi scelta dovesse essere libera e responsabile. Non a caso amava gli illuministi come Adam Smith, Denis Diderot, David Hume. Ma, a proposito di Dio, ricorderei anche che Giorello ha avuto un rapporto speciale col cardinal Martini e che amava Baruch Spinoza. Noi sentiamo e sappiamo di essere eterni diceva Spinoza: è arduo, soprattutto oggi, dire che il grande filosofo olandese fosse un ateo.

Lei si occupa di economia e di industria, cosa vi legava tanto da condividere pensieri, dibattiti pubblici e, anche, un libro?

L’industria è stata e continua a essere il sistema tecnico più sofisticato che abbiamo inventato e sviluppato per coniugare le risorse della terra e il lavoro dell’uomo, quello fisico come quello intellettuale. È il più grande prodotto della scienza moderna. Ma, contrariamente al tempo degli albori del sistema di fabbrica, oggi abbiamo ragione di credere che non ci sia uno schema preordinato che in qualche modo sciolga l’enigma della storia, come per esempio voleva Marx. Crediamo invece che gli individui possano di continuo cambiarne l’apparente direzione. Una vera e propria direzione della storia in sé e per sé non esiste, il suo corso è imprevedibile perché, in particolare, è imprevedibile l’evoluzione scientifica e tecnologica. Ecco, oggi siamo nel cuore della rivoluzione digitale, che è la rivoluzione dell’industria, quella che chiamiamo Industry 4.0. Questo è diventato con gli anni il mio principale oggetto di studio che a lui interessava molto perché, appunto, è prova evidente del fatto che non è l’ideologia a cambiare il mondo ma la tecnica, perché questa è il vero contenitore in cui ricade la forma più alta di conoscenza: la tecnologia e le macchine non sono infatti nient’altro che idee della scienza in marcia diceva Giorello. Scienza e tecnica si fanno luce a vicenda, il loro rapporto è circolare, vive di continui riflessi. E così è sempre stato, soprattutto nell’antichità, quando ancor prima che l’uomo fosse in grado di porsi le domande fondamentali sulla propria esistenza, già era capace di creare strumenti tecnici, persino per formarne degli altri. Ovviamente la significatività della crescita tecnico-scientifica non deve minimamente far dimenticare la riflessione etica sulla condizione umana: altrimenti, il successo tecnologico può diventare un idolo. E di idolatria, diceva Giorello, non abbiamo alcun bisogno.

Come si spiega questa popolarità del professore e, anche, l’affabilità che lo contraddistingueva?

Giulio è stata una persona amabile, perché aveva un cuore gentile e generoso. Aveva una capacità di pensare e di comunicare molto lineare. Era molto diretto ma garbato, era in grado di esprimere qualsiasi idea senza offendere nessuno, perché era rispettoso ed elegante nei modi. Ricordo sin da quando ero studente la sua insistenza sull’eresia della scienza. In questo senso, Giulio ci ha insegnato ad essere eretici. E che il progresso della conoscenza come della civiltà si fonda su questa irriverenza, a dire il vero non sempre gentile e garbata come era lui. Leggere ciò che scriveva era emozionante perché il suo modo di esprimersi era musicale. Non a caso, oltre alla birra irlandese, amava la musica. E Bach in particolare, che nel giorno del congedo ci ha accompagnato con la sua musica. Aveva un senso dell’ironia particolarmente affilato e divertente: chissà se lo spirito è santo o solo sopra i 40 gradi? ogni tanto si chiedeva sorridendo. Oggi qualche risposta concreta comincerà ad averla.