Le cronache politiche, di questa estate, ci consegnano alla nostra mente alcuni fatti e avvenimenti cui prendere spunto per una parola un poco più profonda sulla politica. Continua a leggere
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L’oblio della nazione
I tempi furiosi della politica ci consegnano ogni giorno “materiale” su cui riflettere.
Tralasciando, per un attimo, la stretta attualità politica ma guardando, invece, nel “sottosuolo sociologico” della storia politica italiana, emergono con nitida chiarezza i nodi “strutturali” della debolezza del nostro Paese.
Ebbene uno di questi è l’oblio della nazione.
“La nazione, affermava il francese Ernest Renan, è un plebiscito di tutti i giorni. In Italia, nell’ultimo mezzo secolo, le frequenti elezioni politiche sono state simili a un plebiscito di tutti i giorni. Ma quasi tutte hanno fomentato aspre divisioni fra gli italiani, perché sono state vissute come una scelta di regime in una sfida mortale fra il Bene e il Male”.
Così lo storico Emilio Gentile, grande studioso di fama internazionale del totalitarismo fascista, nel suo ultimo saggio (Né stato né nazione. Italiani senza meta, Laterza Bari 2010, pag. 110) sul senso nazionale degli italiani, mette in evidenza subito, fin dalle prime righe del suo libro, una, tra le tante, debolezze del nostro Paese: appunto l’oblio della nazione.
E’ un saggio importante che esce alla vigilia del 150° anniversario dell’Unità dell’Italia e che sicuramente aiuterà a prendere coscienza dei limiti della nostra memoria collettiva.
“Una nazione, scrive ancora il discusso Renan, è una grande solidarietà, costituita dal sentimento dei sacrifici compiuti e da quelli che si è ancora disposti a compiere insieme. Presuppone un passato, ma si riassume nel presente attraverso un fatto tangibile: il consenso, il desiderio chiaramente espresso a continuare a vivere insieme”.
Stando così le cose, per lo storico Gentile, gl’italiani non hanno mai avuto il sentimento comune dei sacrifici compiuti insieme. E si sa quanto il passato ha diviso, e divide, gli italiani. E qui torna strategica la funzione della storia. Senza storia non si vive, si vive come gli animali (come ben ricordava il filosofo Nietzsche : “gli animali dimenticano subito e vagano in un presente senza storia”).
E qui l’analisi dello storico si fa spietata.
Riprende l’analisi, scritta sei anni dopo l’Unità d’Italia, da Massimo D’Azeglio. Il grande piemontese, infatti, non ha mai scritto nei suoi ricordi “fatta l’Italia bisognava fare gli italiani” , per lui gli italiani c’erano già quando fu fatta l’Unità d’Italia, ma proprio per questo egli pensava che gli italiani fossero i “più pericolosi nemici d’Italia”. Perché gli italiani “hanno voluto fare una Italia nuova e loro rimanere gl’Italiani vecchi di prima” con tutte le loro lacune culturali e morali: “pensano a riformare l’Italia, e nessuno s’accorge che per riuscirvi, bisogna prima che si riformino loro”.
E 150 anni dopo i “nuovi italiani” auspicati dal D’Azeglio non ci sono ancora…ancora “vizi” antichi persistono e non si è mai visto nella storia costruire una nazione sull’arte di arrangiarsi o sui gol della Nazionale di Calcio.
Insomma la Nazione rischia di essere un vuoto simulacro portato in scena per copione, ma incapace di suscitare emozioni.
Ora Il mondo in cui viviamo è diviso in Stati nazionali. Ma l’Italia sembra andare controcorrente: alla vigilia del 150° anniversario dell’Unità, il nostro paese è afflitto da una grave crisi di sfiducia nella propria esistenza. Molti cittadini pensano che la nascita dello Stato unitario sia stato un errore e che una nazione italiana non sia mai esistita (vedi la propaganda leghista). E vorrebbero prendere un’altra strada; ma non sanno quale. Così in un mondo di Stati nazionali, gli italiani rischiano di vagare, litigiosi e divisi, verso un futuro incerto e senza meta.
E’ ancora lunga , nonostante gli sforzi di Ciampi e Napolitano, l’opera di formazione della memoria storica italiana.
Il mondo di Marchionne
Intervista a Bruno Manghi su Fiat, Sindacato e Globalizzazione
Bruno Manghi è un sociologo atipico e originale. Di formazione cattolica, progressista, fu protagonista delle lotte dei metalmeccanici e, nella Cisl guidata da Pierre Carniti, formatore di centinaia di sindacalisti. Già collaboratore di Prodi e poi consulente aziendale, oggi – lasciato il sindacato (dagli anni ’70, infatti, si dedica all’attività di sindacalista tra Milano, Taranto, Torino e il Sud America) – è uno spirito libero. Con lui gli schematismi saltano. E’ un sano esercizio di libertà. Tra le sue opere ricordiamo: ”L’Organizzatore sindacale” (Edizioni Lavoro 2007),“Fare del bene, il piacere del bene e la generosità organizzata” (Marsilio 2007),” Lavori inutili” (Rubbettino 2005), “Declinare crescendo” (Il Mulino), “Interno sindacale”(Edizione Lavoro).
Manghi, cosa sta succedendo alle relazioni industriali del nostro paese? Siamo davvero alla vigilia della “rivoluzione copernicana” rappresentata dall’AD Fiat Sergio Marchionne?
Assolutamente no. Nel senso che le relazioni industriali da vent’anni sono ad un livello di mera sussistenza. C’è una contrattazione aziendale modesta. Non mi sembra che stia accadendo nulla di “copernicano”.
Giuseppe De Rita ha scritto, a proposito della vicenda di Pomigliano che in questa fase vince “l’egoismo aziendale” ovvero è un egoismo “sulla cui base la strategia si sente libera da ogni condizionamento; fa le sue scelte con coraggio non lontano dall’improntitudine; pone le condizioni le condizioni su cui fare i nuovi confronti politici e sindacali; arrischia anche l’accusa di ricatto (o si fa così o si va altrove)”. E’ questa la logica che muove tutta la vicenda?
Secondo me bisogna evitare di fare teorie generali industriali. Pomigliano da anni “vivacchia” male. L’assenteismo è del 21%, qualità modesta del prodotto: o lo si lascia morire, ma socialmente è un costo inaccettabile, o con durezza si cerca di sviluppare la produzione. Marchionne ha un atteggiamento antipatico, al limite della provocazione. Questo l’abbiamo visto moltissime volte: quando i Riva comprarono Italsider fecero la stessa cosa. Ma questo atteggiamento ha un certo insuccesso. E la debolezza del sindacato deriva dalla debolezza dell’impianto.
Siamo, ormai, tutti investiti dalla globalizzazione. A me sembra che la lettura che ne fa Marchionne sia “meccanicistica”. Ovvero applicare standars competitivi da paesi emergenti in un contesto complicato come quello italiano, con le sue rigidità certamente, ma anche con le sue garanzie che sono poi conquiste storiche di tutto il Movimento sindacale italiano. Non vede rischi in questa strategia del Lingotto?
Indubbiamente l’alternativa è lasciare declinare il sistema auto italiano come a Termini Imerese. Certo questi sono temi duri. Oggi un operaio coreano guadagna più di quello italiano anche se non ha il Welfare. Dove c’è il lavoro prima o poi i lavoratori pretendono i loro diritti, il loro salario. Il caso di Pomigliano è che rispetto ad altri stabilimenti italiani ed europei è in termini di qualità diverso. Anche in Germania vi fu un grande con la Siemens:un abbassamento della dell’orario a cui corrispose un abbassamento del salario per mantenere la produzione. E’ necessario dialogare con i lavoratori, non sono novità copernicane, si tratta di affrontare il problema di Pomigliano e auto in Italia. Per quello che è. Prima il sindacato veniva convocato dalla Fiat che spiegava che “causa diminuzione delle vendite occorre ridisegnare l’organico e applicare la cassa integrazione”, qui si triplica la produzione in Italia e si è creata confusione.
Uno sguardo al sindacato italiano. E’ uscito dalla vicenda FIAT diviso (e questa non è una novità). Non intravede una debolezza complessiva del Sindacato? Quali sono le basi per una nuova unità sindacale?
L’unità sindacale che è stato il sogno della mia generazione non si è fatta in due casi: nel caso dell’unità organica dei metalmeccanici con Trentin, poi quando D’Antoni propose l’unità sindacale e vi fu il rifiuto di Cofferati. Quando non c’è unità c’è competizione. Competizione che può essere decente o indecente, e oggi è più importante dei risultati dell’azione dei sindacati stessi. Non sono pessimista, semplicemente in Occidente il sindacato ha ridotto la sua capacità di rappresentare, come spiega Baglioni nel suo “Accerchiamento”. La funzione è importante ma la sua capacità di attore decisivo dei fatti sociali si è ridotta. I sindacalisti emergenti rivivranno quello che abbiamo vissuto noi. Il sindacato dà molti servizi che non dava una volta,ma non è in grado di rappresentare. Io l’ho definito “La protezione civile dei lavoratori” e nei casi più gravi fa “la “croce rossa”.
Una domanda provocatoria: come è lo stato della Cisl?
Diciamo tutto sommato in questo quadro che ho descritto che la Cisl gioca dignitosamente il suo ruolo. Grosso modo tenta di fare il sindacato,il suo difetto è che ha molte idee giuste e interessanti che non si sviluppano in pratica. Anche nel caso di Pomigliano, sarebbe interessante se si creasse un’esperienza partecipativa dei lavoratori, per esempio se pur concedendo all’azienda margini di decidere orari superiori si associassero i lavoratori come azionisti e in base alle azioni collettive possano eleggere rappresentanti nel consiglio di amministrazione. Però poi la Cisl non realizza, da un lato per la diffidenza della Cgil, ma la ragione di fondo è che il ceto sindacale è abitudinario.
Succede in Israele…
E’ successo tutto nel 2008 ma il suo epilogo è avvenuto una settimana fa, con la condanna, da parte della Corte israeliana, a 18 mesi per “stupro con inganno”.
Protagonisti di questa, triste, vicenda due giovani cittadini d’Israele: lui, Sabbar Kashur, 30 anni palestinese di Gerusalemme Est (quella abitata dagli arabi), lei, una bella ventenne di religione ebraica.
Si conoscono all’uscita di una drogheria, tra le tante, del centro di Gerusalemme. Lei si avvicina alla moto di Dudu, questo è il nomignolo di Sabbar. Lei pare interessata alla moto, certamente un pretesto, dopo alcune domande sul mezzo, però, parte il gioco della seduzione. I due si desiderano, sguardi intensi, si scambiano parole dolci. Così parola dopo parola sentono di essere attratti l’uno per l’altro. Sabbar si presenta come Dudù, ovvero come un giovane ebreo scapolo in cerca di una relazione seria. Nascondendo così la sua vera identità di palestinese, sposato e padre di due bambini. Nel pomeriggio in una stanza, di un ufficio, fanno l’amore consenzienti entrambi.
Dopo questo episodio lei scopre l’amara verità: Dudù non è ebreo ma un palestinese, quindi un musulmano, sposato.
Per lei è un duro colpo. Si sente violata, così si precipita alla stazione di Polizia e denuncia l’uomo per stupro.
Dudù viene arrestato e messo ai domiciliari per due anni fino alla condanna, dopo un processo rapido, per 18 mesi per stupro con inganno.
Per il giudice, è scritto nella sentenza, se la donna avesse saputo che non era uno scapolo ebreo lei non sarebbe stata consenziente. E che, comunque, la Corte ha il dovere di proteggere i cittadini da “astuti criminali” che potrebbero ingannare vittime innocenti.
Sabbar Kashur non ci sta e farà ricorso all’Alta Corte israeliana. In una dichiarazione ad un quotidiano israeliano Sabbar afferma “che se fossi stato un ebreo non mi avrebbero incolpato di nulla”. Lo stesso difensore d’ufficio, Elkana Laist, ha definito la sentenza come “paternalistica nei confronti delle donne” . Invece per Nora Pugach, responsabile del Noga Center per le vittime dello stupro, la sentenza è giusta.
Così Il caso sta facendo discutere l’opinione pubblica israeliana e palestinese.
Tra le prese di posizioni più dure nei confronti della sentenza vi è da ricordare quella di un grande giornalista israeliano, Gideon Levy, editorialista del maggior quotidiano liberal Haaretz. Per Levy si domanda “Non si rendono conto (i giudici) che il loro verdetto ha l’odore sgradevole della purezza razziale, di non toccare le nostre figlie?” Se, ancora scrive Levy, “quest’uomo fosse stato un ebreo e avesse finto di essere musulmano per circuire una donna araba, che cosa sarebbe successo? Sarebbe stato condannato per stupro? Naturalmente la risposta è no”.
Gli arabi in Israele sono il 20 % della popolazione. I rapporti sentimentali tra ebrei e palestinesi sono molto rari. Ed è in questo contesto difficile che si inserisce la triste vicenda di Sabbar Kashur.
Popoli che ancora sono sconosciuti l’uno all’altro. E chi è stato a Gerusalemme può percepire questo. In modo particolare se si attraversa la Gerusalemme vecchia. In poche centinaia di metri “convivono” mondi incomunicabili tra loro.
Certo non sono mancati profeti, in passato, che hanno gettato ponti tra queste due popolazioni.
In particolare la bella figura di Padre Bruno Hussard. Fondatore di Nevé Shalom (l’oasi della pace) a pochi chilometri da Gerusalemme. Padre Bruno aveva capito che la sfida principale per costruire la pace era quella educativa, ovvero la conoscenza profonda dell’altro. Senza questo cammino interiore, di abbattimento dei confini, la pace avrà breve durata. Questa è la politica lungimirante, insieme al reciproco riconoscimento dei diritti, per la pace in Terra Santa.
La memoria “sovversiva” di Giovanni e Paolo…
In questo tempo complicato, della politica e della società italiana, tornare con la memoria a quella tragica estate del ’92, quando lo stragismo mafioso e non solo, fece fuori, con una crudeltà inaudita, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, vuol dire per un attimo riflettere sullo stato del nostro Paese.,
Due autentici eroi cui questo sfortunato Paese, se avesse ancora un minimo di riserva etica, troverebbe lo spunto per indignarsi di fronte allo scempio di valori che la “brutta” politica (fatta di cortigianerie, conformismo, pensiero “unico”, biechi affarismi, ecc.) compie ogni giorno.
Ha ragione il Procuratore aggiunto di Catalnissetta, Nico Gozzo, che sta indagando sulla strage di Via Adamelio sulla base di nuovi elementi scaturiti dalle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, quando afferma, in una bella intervista, che l’Italia, vista da chi indaga su questi terribili fatti, “è un paese brutto, capace di dare tutto il peggio di se stesso. Un paese dove non esistono buoni e cattivi, dove il potere corrompe tutto o quasi: L’Italia migliore – continua Gozzo – è quella dei cittadini senza potere, quelle delle migliaia di persone che a Caltanissetta sono scese in piazza per non farci sentire soli ed esposti”.
Il giovane magistrato nisseno coglie nel segno.
E’ un paese, il nostro, che non sa farsi carico della memoria “sovversiva” di gente come Falcone e Borsellino.
Certo da quella stagione tragica è nata anche l’occasione di riscatto per la dignità della Sicilia e dell’Italia. Nessuno lo può negare.
Ma oggi quella stagione appare, purtroppo, lontana.
Diciotto anni di depistaggi, sulla strage di Via D’Amelio, stanno a dimostrare come la memoria “sovversiva” di Falcone e Borsellino faccia ancora paura al Potere.
Quella memoria che consentirebbe al nostro Paese di rompere definitivamente con le collusioni, omertà, e con quei pezzi di Stato deviato, che hanno messo a rischio la democrazia italiana.
Invece “a Palermo lo Stato rievoca il suo ‘eroe’ e a Caltanissetta (…) lo Stato è sotto indagine perché un suo rappresentante (un funzionario degli apparati di sicurezza, una spia di alto rango) è sospettato di avere caricato l’esplosivo che ha fatto saltare in aria quello stesso ‘eroe’”. (A.Bolzoni su La Repubblica del 19 Luglio)
Questa è la tragica “normalità” italiana. Un Italia doppia e sdoppiata. E’ l’abisso su cui camminiamo.
Riecheggiano le parole di Paolo Borsellino, sempre attuali:
“La lotta alla mafia, il primo problema da risolvere nella nostra terra bellissima e disgraziata, non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale che coinvolgesse tutti e specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità”.
Solo coltivando la memoria “sovversiva” di Paolo Borsellino, di Giovanni Falcone, di Antonino Caponnetto, di Rocco Chinnici, di Piersanti Mattarella, di Carlo Alberto Dalla Chiesa e di Rosario Livatino , questo Paese ritroverà la via della verità su stesso.