“L’ora di lezione può cambiare la vita”. Un libro di Massimo Recalcati

 

Lo consigliamo a docenti e alunni. Vale la pena di leggerlo a scuola, offre molti spunti di riflessione sia per il docente e che per l’alunno.

Un libro intenso, pieno di pathos, questo libretto, “L’Ora di Lezione”, scritto da uno dei più noti psicanalisti italiani.

Il libro è un saggio ricco di analisi che tocca diversi livelli: dalla filosofia alla psicanalisi. Ma c’è anche un piccolo “tesoro”: sono le pagine dedicate alla sua esperienza di studente, uno studente cui “destino” pareva segnato dal fallimento: “Ero stato un bambino considerato idiota, fui bocciato in seconda elementare perché giudicato incapace di apprendere. Quando cerco di insegnare qualcosa, è a lui che mi riferisco.” “Andavo lento e ora mi rimproverano di andare veloce”.

Massimo Recalcati (Olycom)

Massimo Recalcati
(Olycom)

In quest’affermazione non c’è boria e trionfalismo. L’autore vuole sottolineare che era considerato una “vite storta”. E tutti siamo “vite storte”, la “stortura” può essere l’occasione di progredire nella conoscenza. Anzi è la condizione per conoscere la propria via. E’ la stortura, la nostra imperfezione, che accende il desiderio del sapere.

Ecco il punto, il tesoro del libro: in quel lontano 1977, gli anni del terrorismo, dell’esplosione della droga, in una classe dell’Istituto agrario, collocato alla periferia estrema di Milano, fa la sua apparizione una giovane e bella professoressa di lettere, Giulia, che incanta con la sua passione per la letteratura e la poesia il giovane studente annoiato dalla scuola. “Non esiste insegnamento senza amore. Ogni Maestro che sia degno di questo nome sa muovere l’amore, è profondamente erotico, è in grado di generare quel trasporto che in psicoanalisi chiamiamo transfert”. La parola diventa “corpo erotizzato”, accende il ionedesiderio. L’apprendimento, per Recalcati, non è pura ripetizione, plagio, sapere “morto” senza vita. L’insegnamento implica, per usare la metafora dell’amore, la trasformazione del soggetto che ascolta in soggetto attivo. Passare da “eromenos” a “erastes”. Ovvero passare al ruolo di “amante”.

La scuola come “sentinella dell’erotismo” del sapere, della possibilità del tuo futuro. Il luogo che mette in moto la vita che ti conduce all’altrove, verso mondi imprevisti.

Questo processo avviene nell’ora di lezione.

Ma oggi nel tempo della scuola “Narciso”, fatta di nozionismo pieno di efficienza fine a stessa, come se la mente degli studenti fosse da riempire con dei “file”, questo è assai complicato. Una scuola “narciso” che non contempla il fallimento, tutto è giocato sull’ansia della prestazione. Non è una bella evoluzione rispetto alla scuola, così viene definita dall’autore, “Edipo” (quella basata sull’Autorità). La proposta di Recalcati è quella di investire nella scuola lo spirito di “Telemaco”, ovvero dell’apertura al futuro delle possibilità.

La scuola come isola di anticonformismo sano, che rifiuta l’intruppamento, e ponga limiti all’indisciplina del godimento immediato.

La scuola come luogo della “legge della parola”. E senza legge non c’è desiderio.

Quindi come si trasforma un “libro in un corpo erotico”? ovvero come “tradurre ogni corpo che incontra in un libro da leggere”?

Per Recalcati gli autori di questa “magia” sono stati i suoi “maestri” :dalla splendida Giulia Terzaghi, “un corpo celeste che veniva da un altro universo”, la professoressa di lettere, ai grandi professori di Filosofia della Statale di Milano, “Heidegger e Sartre diventavano incredibilmente vivi, pulsanti, straripavano dalle loro cornici stabilite per entrarci dentro”.. Ecco perché – scrive Recalcati – “portare la parola è portare il suo fuoco”: è “il miracolo dell’insegnamento: mostrare che quel sapere che ritenevamo morto è vivo, è erotico, si muove, respira. In questo modo, il maestro, sempre, mentre insegna impara, ovvero ridà vita a tutto ciò che lo ha formato”. Ecco l’arte dell’insegnamento (che è un atto di amore).

E per ognuno di noi sicuramente c’è stato qualcuno che ha segnato il nostro destino, che ci ha aperto la via inesplorata o che ci ha consentito di “ripartire”. Ecco questi sono i “maestri” che ricorderemo a distanza di anni la voce, che è “espressione materiale e spirituale del desiderio di insegnare”. E’ Il desiderio d’insegnare che distingue il “maestro” dai replicanti. “Sei una presenza che insiste a vivere in me”, scrive della sua professoressa Recalcati. In-fine il sapere è, anche, un nome. L’amore è sempre, direbbe Lacan, l’amore per il nome. “Magia” dell’ora di lezione.

Massimo Recalcati, L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento, Ed. Einaudi, Torino 2014, pagg. 160, € 14,00

Il volto dell’Europa dei nazionalismi. Intervista a Eva Giovannini

 

Schermata 2015-09-20 alle 20.04.22La drammatica vicenda dei migranti ha fatto scoppiare una grave crisi del sogno Europeo. Egoismi e nazionalismi sono riemersi in maniera prepotente. Ci sono movimenti politici che soffiano contro l’ideale europeo. Chi sono e quale è il loro volto? Ne parliamo con Eva Giovannini, inviata del programma di Rai 3 “Ballarò”, autrice di un libro-inchiesta, uscito in questi giorni per i tipi di Marsilio, dal titolo: “Europa anno zero. Il ritorno dei nazionalismi” (pagg. 208, € 16,00)

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In questi mesi del 2015 il sogno Europeo ha subito una grave battuta d’arresto: dalla crisi della Grecia alla vicenda tragica e drammatica dei migranti che fuggono dalle guerre e dalla fame. Insomma lo spirito europeista di Spinelli è tramontato?

Non so se sia tramontato, ma sicuramente non attraversa il suo periodo migliore. La “creazione di un solido Stato internazionale”, per usare le parole del Manifesto, non sembra mai essere stata così lontana. Eppure non dovremmo gettare la spugna, perchè è proprio nei momenti più drammatici che spesso avvengono i cambi di paradigma, come insegna la scienza. Questo anno di crisi per l’Unione Europea potrebbe anche essere l’anno della sua rinascita. Ma per costruire gli Stati Uniti d’Europa, per rinunciare a un pezzo importante della propria “sovranità” il progetto politico deve essere chiaro, omogeneo, lungimirante. Non possiamo condividere il pareggio di bilancio senza preoccuparci di condividere anche i valori, non possiamo essere una comunità monetaria e non anche umanitaria.

Nel suo libro analizza il panorama delle “nuove” destre europee (da Alba Dorata alla Lega di Salvini). “Nuove” per modo di dire, visto che nel loro “repertorio” c’è molto di antico (nazismo e fascismo). Le chiedo qual’è la radice della “rinascita” di questa “ideologia” estrema? Quanta responsabilità ha l’Unione Europea in questa rinascita?

Faccio subito una precisazione: nessun leader da me intervistato in questo libro accetta di essere definito come “di destra”. Tutti sfuggono a questa etichetta, da Matteo Salvini ai patrioti di Pegida, passando per Marine Le Pen, che non solo non si considera una donna di destra, ma arriva a dire che la destra oggi non esiste più, “perchè la divisione è tra mondialisti e nazionalisti”. Comunque, credo che la spinta verso queste nuove forme di nazionalismo sia da ricercare nella grave, e non ancora superata, crisi economica che ha attraversato il nostro continente. La paura diffusa di perdere il welfare, il lavoro, il proprio patromnio di valori, ha fatto da brodo di coltura ideale per la rinascita di questi “populismi patrimoniali” che, con declinazioni diverse, si pongono come nemici dell’euroburocrazia e difensori dei popoli sovrani contro i “migranti-invasori”. L’Unione Europea certamente ha alcune responsabilità in questo: ha avuto negli ultimi anni un atteggiamento molto sbilanciato, ha dato un peso eccessivo al rigore economico – che è importante, certamente – dimenticandosi però che una comunità di Stati deve avere anche una visione politica condivisa. La gestione della vicenda migranti, ad esempio, ha colto l’Unione impreparata, come se un asteroide fosse caduto dal cielo.

Secondo Lei qual’è la formazione politica, tra queste, più pericolosa?

Se devo dire la verità, in questo mio viaggio in sei paesi europei – Regno Unito, Francia, Germania, Ungheria e Grecia e Italia – sono due i movimenti che più mi hanno fatto paura. Alba Dorata in Grecia e gli ultranazionalisti di Jobbik in Ungheria. Jobbik in ungherese vuol dire “i migliori”, ma anche “più a destra”: hanno una struttura paramilitare e si richiamano alle croci frecciate delle milizie naziste, odiano gli immigrati e sono antisemiti. Alle ultime elezioni politiche hanno preso oltre il 20% e il loro astro nascente, un giovane deputato di nome Màrton Gyӧngyӧsi, nell’intervista che mi ha rilasciato, ha difeso la formazione di classi speciali per soli bambini rom e la necessità di stilare una lista di tutti gli ebrei nel parlamento ungherese. Orbàn fa politiche sempre più radicali per inseguire il loro elettorato.

Alcuni di questi leader guardano alla Russia di Vladimir Putin come ad un modello a cui ispirarsi. Che ruolo gioca la Russia nella rinascita di questa destra?

La Russia è la grande alleata di questi movimenti. Non so se ha ragione George Soros quando dice che l’obiettivo di Mosca è “destabilizzare l’Europa”, ma sicuramente Putin strizza l’occhio a tutti questi movimenti. Non ci dimentichiamo dei nove milioni di euro dati al Front National di Marine Le Pen da una banca di proprietà di un amico di Putin, dell’investimento di dieci miliardi di euro che Mosca ha fatto per allargare l’unico impianto nucleare ungherese, a Paks, o dei rapporti strettissimi tra la Russia e il piccolo partito nazionalista di Anel, alleato di governo di Tsipras. Ma anche, più banalmente, la simpatia verso i media russi tra i militanti di Pegida, i patrioti contro l’islamizzaione che hanno marciato decine di volte a Dresda: mentre tutti i giornalisti venivano allontanati al grido di “lugenpresse!” (giornalisti bugiardi!), i microfoni blu dell’emittente di Mosca Poccnr venivano accolti dalla folla con il sorriso. 

Parliamo della Lega di Salvini. Il consenso, stando agli ultimi sondaggi, è sul 14%. Le chiedo: pensa che la penetrazione “culturale” (inteso come modo di pensare) leghista sia destinato ad espandersi nella società italiana oppure no?

Non sono in grado di dare una risposta, dovrei avere una sfera di cristallo per vedere che direzione prenderà questo Paese da qui al 2020, almeno. Mi limito però a fare una considerazione, prendendo come esempio un episodio specifico: la famosa sparata della “ruspa” da parte di Matteo Salvini. Dopo che il segretario della Lega tirò fuori quel termine, nonostante il coro quasi unanime di sdegno e critiche, i sondaggi registrarono un boom di consensi, lanciando la Lega quasi al 16%. Ognuno tragga le sue conclusioni.

Ultima domanda: nel suo libro afferma che l’Europa ha bisogno di un nuovo “patto fondativo” per contrastare questa deriva nazionalistica. Su che basi fondare questo nuovo patto?

Credo che servano quanto prima misure più omogenee sul fronte fiscale, una politica estera che parli una lingua comune (ricordate Kissinger quando diceva “a chi devo telefonare per parlare con l’Europa?) e ridare centralità ai Parlamenti, e non solo al Consiglio europeo. In questo senso, la firma di una dichiarazione congiunta tra i presidenti del Parlamento italiano, tedesco e francesce, avvenuta a Roma lo scorso 14 settembre, è un passo importante verso la costruzione degli “Stati Uniti d’Europa”.

 

 

 

 

 

 

Nello Yemen “crimini di guerra” anche con bombe italiane

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www.amnesty.org/en/latest/news/2015/07/yemen-civilians-under-fire-in-pictures

Da più di cinque mesi in Yemen si sta consumando un conflitto con conseguenze pesantissime sulla popolazione civile. Le Nazioni Unite parlano di “catastrofe umanitaria” con 21 milioni di persone (più di tre quarti della popolazione) che necessitano di aiuti umanitari, oltre un milione di sfollati interni e migliaia di vittime, anche tra i civili, soprattutto bambini. Un confitto che si è acuito a seguito dell’intervento militare della coalizione guidata dall’Arabia Saudita (di cui fanno parte anche Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Kuwait, Qatar e Egitto) che, per contrastare l’avanzata del movimento sciita zaydita Houthi, sta bombardando lo Yemen senza alcun mandato internazionale.

Conflitto che prosegue nell’indifferenza della comunità internazionale, anche dell’Italia. Nei giorni scorsi, l’Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere e Politiche di Difesa e Sicurezza (OPAL) di Brescia, Amnesty International Italia e la Rete Italiana per il Disarmo hanno diramato un comunicato in cui chiedono al governo italiano di promuovere un’indagine dell’Onu sulle violazioni del diritto umanitario nel conflitto in Yemen e di fermare l’invio di bombe e sistemi militari anche ai paesi della coalizione guidata dall’Arabia Saudita. Ne parliamo con Riccardo Noury (Portavoce di Amnesty International Italia), Giorgio Beretta (Analista Osservatorio OPAL di Brescia), Francesco Vignarca (Coordinatore della Rete italiana per il disarmo)

Amnesty International ha denunciato che nel conflitto in Yemen tra le milizie sciite zaydite houthi e la coalizione guidata dall’Arabia Saudita stanno avvenendo “gravi violazioni del diritto umanitario”. A cosa vi riferite?

Riccardo Noury (Portavoce di Amnesty International Italia)
Quello dello Yemen è un conflitto che si svolge nel completo disprezzo del diritto internazionale umanitario. In un rapporto diffuso il mese scorso, Amnesty International ha documentato le gravissime conseguenze dei bombardamenti della coalizione a guida saudita contro zone residenziali densamente abitate e degli attacchi da terra, indiscriminati e sproporzionati, compiuti dalle forze pro-houti e da quelle anti-houti. Riteniamo che queste azioni militari, che hanno fatto più di 4mila morti di cui circa la metà tra i civili, costituiscano dei crimini di guerra e per questo, insieme ad altre ventidue organizzazioni non governative per i diritti umani abbiamo sollecitato il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite (UNHRC) ad istituire, nella sua 30esima sessione in programma a settembre, una commissione d’inchiesta al fine di indagare, in modo indipendente e imparziale, sulle gravi violazioni del diritto umanitario commesse da tutte le parti coinvolte nel conflitto. Già ad aprile, l’Alto commissario Onu per i diritti umani aveva infatti espresso grande preoccupazione per “gli attacchi indiscriminati e sproporzionati contro zone densamente popolate” e aveva sollecitato “indagini urgenti”.

Azioni militari che si stanno svolgendo anche con armamenti italiani. L’Osservatorio Opal di Brescia insieme con l’agenzia Reported.ly, ha segnalato la presenza di materiale bellico italiano nel conflitto. Che tipo di armi sono?

Giorgio Beretta (Analista dell’Osservatorio OPAL di Brescia)
L’Italia negli ultimi anni ha inviato ai paesi del Medio Oriente numerosi sistemi militari e soprattutto a due paesi militarmente impegnati nel conflitto in Yemen, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti. Tra gli armamenti inviati alle forze armate della coalizione saudita figurano anche bombe aeronautiche: ho ricostruito queste esportazioni in dettaglio in uno studio per OPAL (si veda qui, in pdf). Si tratta di esportazioni per oltre 100 milioni di euro e particolarmente rilevante è un’autorizzazione all’esportazione dall’Italia nel 2013 relativa a 3.650 bombe da mille libbre MK83 attive della RWM Italia per un valore di oltre 62 milioni di euro per l’Arabia Saudita. Inoltre, lo scorso maggio sono state esportate dall’Italia agli Emirati Arabi Uniti “armi e munizioni” (tra cui bombe) per un valore di oltre 21 milioni di euro. Da diverse associazioni presenti in Yemen sappiano che ordigni inesplosi del tipo di quelli inviati dall’Italia all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti, come le bombe MK84 e Blu109, sono stati ritrovati in varie città bombardate dalla coalizione saudita ed è quindi altamente probabile che questa coalizione stia impiegando anche bombe inviate dal nostro paese. Nonostante l’aggravarsi del conflitto in Yemen non ci risulta però che il governo italiano abbia sospeso l’invio di sistemi militari alla coalizione saudita.

Eppure la legge italiana vieterebbe l’esportazione di armi e sistemi militari “verso i Paesi in stato di conflitto armato”. Come è possibile che armamenti italiani finiscano in teatri di guerra?

Francesco Vignarca (Coordinatore della Rete italiana per il disarmo)
Innanzitutto va detto che la legge italiana n. 185 del 1990 sulle esportazioni di armamenti, nonostante sia tra le più restrittive, lascia al governo ampi spazi di discrezionalità e di valutazione su tutta questa materia. Inoltre, alcune recenti modifiche legislative hanno trasferito il coordinamento decisionale dalla Presidenza del Consiglio ad un ufficio del Ministero degli Esteri che fa parte della “Direzione Generale per la Promozione del Sistema Paese” (DGSP) evidenziando una tendenza a promuovere le esportazioni di sistemi militari anche se queste hanno come destinatari paesi governati da regimi autoritari o zone di forte conflitto: lo abbiamo segnalato in un una conferenza stampa alla Camera (qui il video, qui il comunicato stampa) e con uno specifica infografica curata dall’Osservatorio OPAL (qui in .pdf). Ma soprattutto va rilevata la progressiva erosione di informazioni ufficiali tanto che, a differenza di qualche anno fa, le ultime Relazioni governative non permettono più di conoscere le specifiche esportazioni dall’Italia di sistemi militari: per questo abbiamo chiesto al Governo Renzi di ripristinare la piena trasparenza e al Parlamento di riprendere ad esercitare i dovuti controlli su tutta questa materia.

Per quanto riguarda il conflitto in Yemen cosa chiedete al Governo e al Parlamento italiano?

Francesco Vignarca (Coordinatore della Rete italiana per il disarmo)
La nostra prima richiesta al Governo è quella di sostenere in sede internazionale la richiesta di Amnesty International perché venga presto istituita una commissione d’inchiesta sulle violazioni del diritto umanitario commesse nel conflitto in Yemen. Inoltre, considerati gli effetti devastanti sulla popolazione dei bombardamenti della coalizione saudita sulle aree civili, riteniamo che l’Italia debba subito sospendere l’invio di mezzi e munizionamento militare a tutte le forze armate attivamente impegnate nel conflitto in Yemen e di promuovere una simile iniziativa in sede europea. Abbiamo quindi chiesto a tutti i gruppi parlamentari di appoggiare queste nostre richieste con specifiche iniziative e interrogazioni parlamentari.

“La Legge e la Coscienza”. Un testo di Pierluigi Castagnetti in ricordo di Mino Martinazzoli.

martinazzoli_620x410Di seguito pubblichiamo il testo del Discorso, tenuto a Brescia lo scorso 4 settembre,  in occasione del IV anniversario della scomparsa di Mino Martinazzoli durante la presentazione del libro “La legge e la coscienza”.

Ricordare Mino Martinazzoli qui a Brescia è sempre una emozione. Farlo in occasione della presentazione di tre suoi importanti testi che rappresentano quello che giustamente Tino Bino definisce il suo “testamento spirituale”, lo è ancor di più.

Se è vero infatti che il suo testamento politico è racchiuso nei suoi interventi congressuali e in quelli parlamentari, non c’è dubbio che nei testi che presentiamo stasera è contenuta l’essenza del suo pensiero più profondo che trascende, comprendendola, la lezione di una vita spesa per le istituzioni.

Nella prefazione Tino Bino rivela poi due episodi dei suoi ultimi giorni, molto toccanti, che illuminano la sua morte. Una morte silenziosa, dignitosa, avvolta nel mistero e nella speranza, che ne rende ancora più grande la statura umana e fa venire alla mente un verso di uno dei suoi poeti più frequentati, Giorgio Caproni,

…l’uomo che se ne va

e non si volta: che sa

d’aver più conoscenze

ormai di là che di qua…(1)

Mino è sicuramente stato una delle personalità politiche più importanti e originali della nostra repubblica, il cui carisma era legato, oltrechè a una particolare intelligenza della storia, alla sua capacità di parlare cesellando le parole, levigandole, approfondendone il valore e il significato. Per lui, come per il suo maestro Aldo Moro, la parola era la politica, la responsabilità della politica e degli uomini.

Ne troviamo conferma anche in alcune mirabili pagine di questo volume a proposito del sostantivo “nicodemismo”, scavato in profondità sino a rilevare l’inganno di una immagine attribuita al grande rabbi come l’uomo della visita notturna a Gesù, anziché come l’uomo che si è fatto interpellare in profondità dall’ insegnamento del suo interlocutore sino a farlo proprio, seppure nella sofferenza del dubbio e della non completa comprensione.

Martinazzoli era un seduttore del pensiero.

Con la parola catturava l’intelligenza dei suoi ascoltatori e interlocutori, li  trascinava lungo percorsi argomentativi anche impervi per costringerli all’approfondimento e al confronto; basterebbe ricordare il silenzio pensoso con cui erano seguiti i suoi interventi in parlamento. Per evocare una immagine classica, si può dire che nel suo discorso c’era l’ispirazione di Peitho e di Charis, le dee della persuasione e della grazia, poiché ciò che convince, come osserva Christian Meier, non sono semplicemente “le argomentazioni, ma qualcosa che va al di là di queste: la maniera di formularle, di esprimerle, il modo di presentarsi in pubblico, in definitiva la grazia, in cui spiritualità, spontaneità e consapevolezza, misura e libertà si uniscono “(2).

Di lui  è stato detto che fosse un intellettuale prestato alla politica. Io preferisco dire, parafrasando ciò che scrisse Achille Ardigò a proposito di Giuseppe Dossetti (3), che “in lui c’era l’intellettuale nel politico e il politico nell’intellettuale”, per rispettare e rendere onore a una persona che – giustamente-  ha sempre rifiutato l’idea di  non essere pienamente politico.

Mi soffermerò su ciò che più mi ha colpito nei  testi raccolti nel volume “La legge e la coscienza”, al di là dell’intrigante e sempre attuale conflitto fra la coscienza, la legge, il potere.

I tre testi sono apparentemente molto diversi, ma uniti dalla stessa ricerca sulle questioni di fondo che ha accompagnato Martinazzoli per tutta la sua esistenza e che io riduco a due: il senso della vita e il senso della democrazia.
Sì perché, pur essendo vero che almeno i primi due testi trattano di personaggi biblici, non è men vero che, dopo un’accurata esegesi del testo sacro, Martinazzoli lo contemporaneizza, lo fa parlare dei nostri problemi, senza forzature, quasi per un naturale sviluppo di un pensiero coltivato nella sua radice più lontana e portato a maturazione lungo il cammino della storia successiva. Qualcuno potrebbe sospettare in questa supposta piegatura del discorso un tentativo di riflesso autobiografico. Conoscendo Martinazzoli mi sento di negarlo: la sua sobrietà e il suo pudore glielo impedivano. E’ giusto invece cogliere un suo personale riconoscersi nella profondità e originalità di tali personaggi.

Martinazzoli non nasconde infatti la sua simpatia per Mosè, Nicodemo e Manzoni, proprio perché, dopo averne indagato in profondità lo spessore, vi ha trovato sofferenze spirituali e morali largamente condivise.

La solitudine innanzittutto.

“E’ un grande e solitario italiano – scrive infatti -il cittadino Alessandro Manzoni. Impolitico non perché ignorasse Macchiavelli ma perché non gli riusciva di comprendere un potere disgiunto dalla ragione morale”.
Così come dice di sentire il dovere di “pronunciare l’elogio di Nicodemo, della sua discrezione, persino dei suoi dubbi e della sua ambiguità”.

Ma è soprattutto attorno alla figura di Mosè che io colgo la suggestione, che  molto lo intriga, del peso e della sofferenza per la sua destinazione profetica. Perché, viene da chiedersi, l’aspetto tragico del servizio della parola, della profezia, viene sottolineato nella figura di Mosè piuttosto che in quella di altri grandi profeti, come Abramo ad esempio?  Andrè Neher, il grande rabbino francese, dà questa risposta: “Perché il profeta secondo Abramo è un individuo, il profeta secondo Mosè è inserito nella storia di un popolo. Abramo è il profeta da solo, è da lui che nasce il popolo; la missione di Mosè, invece, lo introduce nell’ambiente di una comunità umana… E allora necessariamente si crea il conflitto, la lotta concreta, il dialogo con gli uomini. Ed è un dialogo molto difficile e molto differente dal semplice dialogo con Dio, perché è molto più sottomesso al rischio dello scacco” (4).

Profeta del popolo e con il suo popolo, dunque.

Potremmo cogliere proprio in ciò la ragione della simpatia di Martinazzoli il quale, non a caso, pur scegliendo, per una sua postura caratteriale e in parte soffrendone, una certa solitudine, mai ha considerato la possibilità di un’esperienza umana e politica disgiunta da quella di una comunità, di un popolo. Il popolarismo per lui era esattamente questo: la scelta di camminare fra il popolo e insieme al popolo, costasse pure – e Dio sa quanto gli costò – sofferenze, incomprensioni e conflitti.

Un’altra suggestione che attraversa i tre testi è quella della rinascita.

Nei suoi discorsi politici Martinazzoli parlava spesso dell’esigenza di un ricominciamento, che è una declinazione meno impegnativa e più storica, anche se non rinunciava all’idea che a questo nostro tempo fosse necessaria una vera e profonda conversione culturale ed etica, diciamo pure antropologica. Sul testo del vangelo di Giovanni a proposito di Nicodemo, Martinazzoli indugia molto sulla risposta che Gesù dà alla domanda del suo interlocutore (“Come può un uomo nascere quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?): “Se uno non nasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio…Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è di chiunque nato dallo Spirito”. Mistero. Fede. Dubbi. Fascino. E proprio su questi interrogativi di Nicodemo, solo due giorni fa su Avvenire, scrivendo del Giubileo e delle ultime sorprendenti e profetiche prescrizioni a suo riguardo di papa Francesco, Pierangelo Sequeri chiosa: “Si può rinascere dall’impossibile. Non è la perfezione che cambia la storia: sarebbe già affondata. E’ la conversione che la cambia. La cambia individualmente e anche collettivamente” (5).

Per “rinascere di nuovo, si tratta effettivamente di tornare nel grembo: in quello di Dio, però, e non in quello della propria madre “(6).
Tornando al Mosè, vorrei brevemente soffermarmi sul percorso singolarissimo impresso da Martinazzoli ai testi del Pentateuco, per sospingerli nei meandri più intriganti del dibattito aperto, oggi ormai in tutto il mondo potremmo dire, sulla crisi della democrazia. Se la sua intenzione fosse stata quella di fare una lettura politica del testo biblico avrebbe potuto soffermarsi forse sui tanti spunti offerti dai dialoghi di Mosè con il faraone alla ricerca, come ha fatto in modo memorabile p. Carlo M. Martini (7), del loro insospettato valore politico, ma soprattutto alla ricerca del “faraone che è in noi” e del “Mosè che è in noi”.
E invece no, Martinazzoli rumina sino a sminuzzarlo il testo, senza volere distaccarsene, facendosi trascinare quasi senza intenzione: dalle tavole alla legge, dalla legge alla libertà, dalla libertà alla democrazia, partendo dalle “profondità minerali della storia” e, camminando attraverso i classici greci, su su sino a Heghel e Kafka, per arrivare a cogliere il definitivo salto di qualità del modello democratico moderno quando esso ha potuto configurarsi come “patto fra eguali”. Le tavole di Mosè evidentemente centrano con questa eguaglianza. “Giunti a un’epoca della storia – scrive – che dichiara come diritto la dignità di ogni creatura, non dovremmo indietreggiare”. (E invece proprio le cronache di questo tempo  che ci parlano dei flussi nuovamente biblici dei migranti, ci descrivono un maledetto indiettreggiamento che mette a dura prova la nostra capacità di “restare umani”). Martinazzoli ha ben presente, lo ha sempre avuto sin da quando lo ha scoperto, che “la dolorosa fondazione del fondamento” di quel patto fra eguali ha portato l’”inaudita potenza speculativa” di Antonio Rosmini (come l’ha definita Giuseppe Capograssi) a individuare nella persona la ricapitolazione di tutto, di ogni diritto, essendolo essa stessa: “non la persona ha il diritto, ma la persona è il diritto”.
In questo principio rosminiano è racchiuso tutto il sistema di pensiero di Martinazzoli, dell’uomo, del politico e dello statista.
Alcune altre figure, non moltissime per la verità, possono essere indicate come i suoi punti di riferimento: Sturzo, De Gasperi, Moro, Tocqueville, Montini e Manzoni appunto. Ma questo punto solido, questa pietra angolare su cui appoggia buona parte dell’antropologia e della filosofia rosminiana lo ha veramente conquistato.
Giuseppe Capograssi è il filosofo del diritto che, insieme a Leopoldo Elia costituzionalista e Mino Martinazzoli uomo più dedicato alla politica, ha contribuito a sviluppare il personalismo rosminiano.
Capograssi in particolare, pensatore molto stimato da Mino, ne ha fatto una sintesi assunta anche dagli altri due quando ha definito la persona come un’individualità infinita che ha bisogno del rapporto con gli altri, attraverso l’immersione nella storia, per raggiungere la sua pienezza; ma , nello stesso tempo, “proprio perché la persona è il diritto, la storia è storia di legislazioni, di istituzioni, di ordinamenti e di coazioni, l’affermazione positiva e volontaria che essa fa di se stessa nella individualità originale ed insostituibile della sua vita in mezzo al concreto” (8)

Queste considerazioni ci hanno portato al largo se ripensiamo i punti da cui siamo partiti.
Il viaggio di Mosè a un certo punto finisce, quantunque incompiuto.
Il prudente capo ebreo Nicodemo si trova imprevedibilmente a raccogliere il corpo crocefisso di Gesù.
Manzoni si trova solo a contemplare impotente le ragioni di una ingiustizia inopinatamente consentita dal Signore della storia.
Tre figure che costringono a riflettere sull’imperscrutabilità delle ragioni e delle circostanze che sottendono i diversi destini personali.

A Martinazzoli è toccato quello di una leadership politica non cercata ma non rifiutata, accompagnata da una incolpevole solitudine che non è mai degenerata in isolamento, non foss’altro  per le sue frequentazioni intellettuali, di uomini e autori, cui è stato chiesto di porre i sigilli sulla fine di una esperienza politica in cui più di altri aveva creduto. Lo ha fatto conservandone l’essenza, anzi risalendo alle radici primigenie per trovare quelle gocce di linfa generativa necessarie a chi, venendo dopo di lui, avesse avuto l’ambizione se non di una rinascita almeno di un ricominciamento o di una reinvenzione.

Per arrivare poi alla conclusione, valida per lui e per noi tutti, che “Amare il proprio destino, assumerne tutto lo spazio di libertà e di responsabilità: questa è forse, la ventura delle venture”.

 

NOTE

1) Giorgio Caproni, “Tutte le poesie”, senza titolo, Garzanti ed.
2) Christian Meier, “Politica e Grazia”, Il Mulino
3) “Di Dossetti si può dire che c’era il monaco nel politico, e il politico nel monaco”
4) André Neher, “L’essenza del profetismo”, Marietti ed.
5) Pierangelo Sequeri, “La Chiesa sfida anche se stessa”, Avvenire, 2 settembre 2015
6) Pino di Luccio s.j., “Qoèlet, Nicodemo e la vita eterna”, La Civiltà Cattolica, n. 3958 del 30 maggio 2015
7) Carlo Maria Martini, “Vita di Mosè”, Borla ed.
8) “Il diritto secondo Rosmini”, citato in Giorgio Campanini, “Giuseppe Capograssi, nuove prospettive del personalismo”, Studium ed.

dal sito:  www.pierluigicastagnetti.it

 

 

La sfida della Lega alla Chiesa di Francesco. Intervista a Roberto Cartocci

Roventi, nei giorni scorsi, sono state le polemiche tra la Lega (del suo Segretario Matteo Salvini) ed esponenti di spicco della gerarchia cattolica italiana. L’oggetto delle polemiche è stato il tema dell’immigrazione. Ma se si guarda con un poco più di attenzione queste polemiche hanno radici “antiche”. Per cercare di capire la “genesi” della sfida che la Lega di Salvini lancia alla Chiesa di Papa Francesco, abbiamo intervistato il politologo Roberto Cartocci. Cartocci, che è docente di Scienza Politica all’Università di Bologna, è stato tra i primi studiosi ad affrontare il tema dei rapporti tra la Lega e la Chiesa Cattolica. Suo, infatti, è il saggio, pubblicato dal Mulino nel 1993, “Fra Lega e Chiesa”.

L’immagine è tratta dal sito www.bergamonews.it

 

Professore, il conflitto tra Chiesa cattolica e Lega in questo periodo è molto acceso. Lei alcuni fa scrisse un saggio sui rapporti tra Lega Nord e la Chiesa. Volendo prendere un arco temporale di media durata, il ventennio della II Repubblica, vede dei cambiamenti nella strategia leghista nei confronti della Chiesa?Se si quali sono state le fasi più importanti?

In questi 20 anni la Lega ha preso varie posizioni. Quando io scrissi il libro Fra Lega e Chiesa, il sottotitolo era “L’Italia in cerca di integrazione”. Scritto nella seconda parte del 1993, descriveva un’Italia orfana dei vecchi partiti – veri collanti del paese, interclassisti, con elettorati di tutte le regioni, con macchine organizzative ancora parzialmente efficienti allo scoppio di Tangentopoli.
Di fronte al crollo della “prima repubblica” vedevo nella Chiesa e nella Lega Nord due soggetti alle prese con lo stesso progetto politico: offrirsi come strumenti di integrazione per coprire il vuoto lasciato dai partiti. Ovviamente le proposte erano molto diverse. La Lega aveva come obiettivo il voto dell’elettorato moderato e anticomunista del Nord, in chiave esplicitamente antimeridionale. Reclamava la fine della spesa pubblica improduttiva al Sud e accomunava tutti i vecchi partiti nell’accusa di aver sperperato nel Mezzogiorno le risorse prodotte nel Nord in cambio del voto clientelare. In un certo senso era la prima manifestazione di massa di populismo antisistema e contro la “casta”, dopo la fugace apparizione dell’Uomo qualunque nel 1946-48. La vera novità era, al di là dei pittoreschi richiami a un’inesistente radice celtica, l’appello secessionista, comunque più proclamato che perseguito.

Il mondo cattolico si era anch’esso mosso in direzione di un rinnovamento morale della politica e con un’esplicita contestazione del malgoverno delle regioni meridionali, e relative contiguità mafiose: si pensi alla cosiddetta “Primavera di Palermo”, alla nascita della “Rete” e di Alleanza democratica e alle varie scuole di politica, a cominciare appunto da quella animata dai gesuiti a Palermo. La CEI del cardinale Ruini mise a punto nel 1994 un ambizioso “Progetto culturale”, che doveva supplire al venir meno dello Scudo crociato con una complessa strategia mirante a salvaguardare i valori cattolici in un contesto orfano della DC.

Ovviamente tra Chiesa e Lega non sono mancati gli attriti. Più dei riti del Po pesava il razzismo antimeridionali e la prospettiva secessionista, se non altro perché – nell’ottica della chiesa-istituzione – l’unità culturale del Paese è assicurata dalla profonda tradizionale cattolica.

Come sappiamo, queste tensioni sono state totalmente composte con l’avvento di Berlusconi. A parte la fase 1996-2000, la Lega è stata fedele alleata di Berlusconi, così come forte è stato il legame tra il Cavaliere e la CEI – basti pensare al caso clamoroso della legge sulla fecondazione assistita e del successivo referendum abrogativo.

Qual è il posto della religione cattolica nella “ideologia” leghista?

Difficile pensare ad un’ideologia leghista. Dalla difesa dell’Italia del Nord dai “terroni”, che rubavano il posto ai maestri veneti, siamo passati all’invocazione di un baluardo continentale a difesa dell’Europa cristiana. Naturalmente oggi non manca il terreno di scontro con la parola di Papa Francesco, che predica l’esercizio della misericordia cristiana verso migranti e rifugiati – richiamando la lettera del Vangelo. Più che di ideologia penso sia più opportuno parlare di una sintonia con gli umori più profondi e tradizionali degli italiani: la diffidenza verso gli altri, la sfiducia nelle istituzioni (oggi anche nelle istituzioni europee). La lunga crisi economica non ha fatto altro che aumentare questa sindrome di paura e di chiusura, che soffia contro la sinistra di governo e a favore della destra populista. Le invocazioni evangeliche di Francesco non sono facili da accettare, neppure per molti cattolici praticanti (che non superano il 20% della popolazione, e che in larga misura sono anziani, impauriti dalle immagini dei telegiornali). Salvini fa un altro mestiere, con altri argomenti.

Vi sono anche elementi “pagani” nella cultura leghista. Alla fine “l’ideologia” della Lega è un sincretismo?

Casomai si tratta di opportunismo, o più precisamente di semplice fiuto politico. Salvini è stato abbastanza abile per conquistare il vertice della Lega e rilanciarla dopo gli scandali che avevano coinvolto anche Bossi. Adesso, con la stella di Berlusconi appannata, ha la possibilità di presentarsi come il leader del centrodestra: volto nuovo, giovane, efficace in tv. E’ ovvio che non voglia lasciarsi scappare l’occasione: in politica il treno buono passa una volta sola. La questione globale dell’immigrazione e la collocazione dell’Italia come ponte naturale tra Europa e Africa rappresentano un tema ideale per un elettorato anziano come quello italiano, cui ogni giorno la tv racconta di migliaia di profughi e migranti (giovani, di pelle scura e spesso musulmani) da sistemare nelle varie regioni.

La Lega prende voti anche degli elettori cattolici. Eppure sui punti strategici della dottrina sociale della Chiesa (solidarietà, attenzione ai poveri e accoglienza) si colloca agli antipodi della cultura cattolico sociale. Che “tipologia” di cattolico vota Lega?

Dobbiamo essere chiari su questo punto. A parte il quadro di forte e crescente secolarizzazione, la quota dei cattolici che sono sensibili alle istanze evangeliche di Papa Francesco rappresenta una minoranza, altrimenti non potremmo spiegarci il basso livello di moralità pubblica che caratterizza, da secoli, gli italiani. Certamente i cattolici che votano, e voterebbero Lega, sono molto più numerosi di coloro che condividono l’imperativo evangelico della misericordia “a tutti i costi”. Per i paradossi di cui è ricco il nostro paese, le parole di Francesco fanno più breccia tra coloro che cattolici non sono, come simpatizzanti e attivisti di sinistra ed estrema sinistra, i quali su tematiche come le unioni tra omosessuali e l’eutanasia si pongono all’opposto della Chiesa cattolica.

Ilvo Diamanti, in un recente articolo apparso su Repubblica, afferma che La Lega “nazionale” di Salvini si vuole porre come la “vera” Chiesa dei “veri” Italiani. Insomma una Lega da “crociate”. Per lei è così?

Si tratta appunto di quanto dicevo prima. Il cattolicesimo degli italiani è in larga misura un cattolicesimo di moderati, abituati a contemperare le perentorie istanze evangeliche con i vincoli imposti dalla realtà effettuale.

Ultima domanda: I sondaggi portano La Lega al massimo pensa che avrà ancora una espansione?

La situazione politica è molto fluida, in un orizzonte geopolitico assai preoccupante per l’Italia. Sul piano politico-elettorale interno la risposta dipende da tre elementi: la capacità di Berlusconi di ricostituire un partito compatto, l’esito delle politiche economiche del governo Renzi e le mosse del Movimento 5 stelle. Il successo elettorale di Salvini sarebbe certo favorito dallo sgretolamento di Forza Italia e dal persistere della crisi economica. Ma, nelle stesse condizioni, se Grillo mantiene la sua posizione contro l’immigrazione la Lega trova un avversario duro, che le contende già adesso il voto anti-casta e contro l’Europa. Una bella sfida fra tribuni.