Armi, finanza e conflitti: intervista ai promotori della campagna “banche armate”

QuaresimaDisarmataImageIl controllo delle transazioni finanziarie collegate alla compravendita di armi e di sistemi militari è cruciale nella lotta al terrorismo internazionale e per prevenire trasferimenti illeciti di armi. Da quindici anni è attiva in Italia la Campagna di pressione alle “banche armate”: promossa da tre riviste del mondo missionario e pacifista (Missione Oggi dei missionari saveriani, Nigrizia dei missionari comboniani e Mosaico di pace dell’associazione Pax Christi), la campagna ha portato i principali gruppi bancari italiani ad emanare precise direttive sulle attività di finanziamento all’industria militare e di sostegno all’export di armi. Ne parliamo con i direttori delle tre riviste e con Giorgio Beretta, analista della campagna.

Padre Alex Zanotelli, lei è, tra l’altro, direttore responsabile di Mosaico di pace. Come è nata e perché una campagna sulle “banche armate”? 

La Campagna è stata lanciata dalle nostre tre riviste quindici anni fa in occasione del Grande Giubileo della Chiesa cattolica e della mobilitazione internazionale per la cancellazione del debito dei paesi impoveriti del Sud del mondo. Abbiamo innanzitutto voluto evidenziare che gran parte del debito contratto da questi paesi era costituito dal “debito odioso”, quello cioè che i dittatori di diverse nazioni avevano contratto per acquistare dai nostri paesi del Nord del mondo armamenti sofisticati che spesso hanno usato per reprimere le proprie popolazioni e fomentare sanguinosi conflitti regionali. Ma, soprattutto, abbiamo voluto offrire un modo concreto per favorire un maggior controllo sulle esportazioni di armi e sistemi militari del nostro paese e sulle operazioni di finanziamento delle banche all’industria militare. Un compito che oggi ci pare ancora più urgente alla luce dei focolai di guerra nel mondo, soprattutto in Africa e nel Medio Oriente, e delle crescenti spese militari anche del nostro paese.

Padre Mario Menin è direttore della rivista Missione Oggi. Padre Mario, come avete promosso la vostra campagna e quali risultati sono stati raggiunti? 

La Campagna è partita chiedendo alle parrocchie, diocesi e a tutte le associazioni, cattoliche e laiche, di verificare se la propria banca figurava tra quelle, riportate nell’elenco della relazione annuale del Governo italiano, che svolgono operazioni in appoggio all’esportazione di sistemi militari: li abbiamo invitati a scrivere alla propria banca esplicitando che avremmo reso noto le risposte sulle nostre riviste. La campagna si è inoltre coordinata con altre iniziative simili in atto in altri paesi europei per promuovere un controllo attivo dell’attività delle banche nel settore militare e nell’export di armi. Le risposte delle banche italiane non si sono fatte attendere e, grazie alla pressione delle associazioni e dei correntisti, oggi possiamo dire che i principali gruppi bancari del nostro paese hanno emesso delle direttive restrittive, rigorose e abbastanza trasparenti, riguardo alle loro attività nel settore militare (si veda un’analisi dettagliata in questo articolo di approfondimento in .pdf ). Più difficile, invece, è il rapporto con le banche estere operative nel nostro paese, ma questo non è dipeso solo dalla nostra campagna….

Giorgio Beretta ha svolto diverse analisi in questo settore. Beretta, perché è stato più difficile coinvolgere le banche estere? Non c’è il rischio che la vostra campagna costringa le industrie militari a rivolgersi proprio a queste banche rendendo così più difficili i controlli? 

Avere l’attenzione delle banche estere è stato più difficile innanzitutto perché poche associazioni sono clienti di queste banche che spesso hanno solo una sede operativa in Italia e offrono servizi soprattutto alle imprese più che ai privati. Ma, e qui sta il nodo centrale, sull’azione della nostra campagna ha inciso pesantemente la sottrazione di informazioni operata a partire dal 2008 con l’avvento dell’ultimo governo Berlusconi che è proseguita coi governi successivi: senza alcuna giustificazione al parlamento, dalla Relazione ufficiale del governo è stato infatti sottratto il lungo elenco di dettaglio delle operazioni autorizzate e svolte dagli istituti di credito. In altre parole, dal 2008 dalla relazione governativa sappiamo solo l’ammontare complessivo delle operazioni assunte dalle banche per l’export di sistemi militari, ma non possiamo più conoscere né i paesi destinatari né i sistemi d’arma. Questo ha favorito proprio le banche estere, in particolare i gruppi Deutsche Bank e BNP Paribas: si tratta comunque di gruppi bancari che, per quanto riguarda queste operazioni, sono sottoposti agli stessi controlli delle banche italiane. Nessun allarmismo, quindi, ma il problema rimane: vedremo se il governo Renzi, che ha fatto della trasparenza un suo cavallo di battaglia, sarà in grado di ripristinare ciò che Berlusconi e i governi successivi hanno sottratto. Non stiamo parlando di alcun segreto: si tratta, infatti, di informazioni che erano presenti nelle relazioni ufficiali fin dai tempi dei governi Andreotti e Ciampi.

Tutto questo, però, va ad aggiungersi alla preoccupante crescita di esportazioni di sistemi militari italiani verso le zone di maggior tensione del mondo come il Medio Oriente e i paesi dell’ex Unione Sovietica di cui abbiamo già parlato proprio con lei, Beretta, in precedenti occasioni.

Esatto. E qui siamo ad un vero paradosso. Da un lato tutte le forze politiche affermano che occorre evitare che le armi finiscano in mani indesiderate, dall’altro, però, ben pochi alzano la voce quanto è il nostro paese a fornire armi e sistemi militari ai vari dittatori e ai regimi autoritari. Il caso più interessante è quello delle forniture italiane di armi alla Libia di Gheddafi: da quanto nel settembre del 2003 è stato sollevato l’embargo di armi, l’Italia ha esportato in Libia un vero arsenale bellico che va dagli elicotteri militari AW109 di Agusta Westland all’ammodernamento di una serie di aeromobili CH47 e di una flotta di velivoli SF260W di Alenia Aermacchi fino alle componenti per i semoventi Palmaria della Oto Melara e per i missili Milan 3 della MBDA Italia. Oltre a questo c’è stata una grossa fornitura di “armi comuni”, non sottoposte cioè ai controlli della legge sulle esportazioni di sistemi militari: nel 2009, a seguito della visita di Gheddafi in Italia, sono state inviate in Libia oltre 11mila tra carabine, fucili e pistole semiautomatiche della Beretta di Gardone Val Trompia destinate proprio alla Pubblica Sicurezza del rais. Il giornalista del Corriere della Sera, Lorenzo Cremonesi, entrando nell’agosto del 2011 nel bunker di Gheddafi riportava testualmente: “Nelle stanze adibite ad arsenali militari ci sono le scatole intatte e i foderi di migliaia tra pistole calibro 9 e fucili mitragliatori, tutti rigorosamente marca Beretta. A lato, letteralmente montagne di casse di munizioni italiane. Ricordano da vicino gli arsenali che avevamo trovato nella zona dei palazzi presidenziali di Saddam Hussein, dopo l’arrivo dei soldati americani, il 9 aprile del 2003”. Dove siano finite e chi stia usando adesso quelle montagne di armi italiane non è mai stato chiarito.

Torniamo alle banche. Padre Efrem Tresoldi è il direttore di Nigrizia. Padre Efrem, il papa si è ripetutamente pronunciato contro i “fabbricanti di armi” fino a definirli “imprenditori di morte”. Un messaggio al quale, però, sembra che parrocchie e diocesi non siano cosi attente…

Le parole di papa Francesco sono state chiare e forti. Anche a seguito dei suoi pronunciamenti  abbiamo deciso quest’anno di lanciare la “Quaresima disarmata”. Una proposta concreta diretta principalmente, ma non solo, alle diocesi, alle parrocchie, alle comunità religiose, alle associazioni e ai singoli credenti di accogliere l’invito a verificare se la banca di cui si servono ha emanato direttive sufficienti almeno per un’effettiva limitazione delle operazioni di finanziamento e d’appoggio alle esportazioni di armi. Se come singoli o associazioni non abbiamo il potere decisionale per limitare la produzione di armi o il loro commercio, abbiamo però la possibilità di evitare che i nostri risparmi finiscano per alimentare questo mercato. Ma, soprattutto, crediamo che la comunità cristiana debba approfittare della Quaresima, che è un periodo di conversone individuale ed ecclesiale, per fare scelte chiare e coerenti con il messaggio di pace del Vangelo.

Tabella_BA_BIG

“Con il Giubileo della Misericordia Papa Francesco riorienta la Chiesa”. Intervista a Massimo Faggioli

Il compimento del secondo anno di pontificato di Papa Francesco si è intrecciato con l’annuncio, a sorpresa, del Giubileo Straordinario sulla Misericordia. Come si inserisce questo evento nell’opera riformatrice di Papa Francesco? Ne parliamo con Massimo Faggioli, storico della Chiesa presso la University of St. Thomas negli USA

Udienza generale del mercoledì di Papa FrancescoPapa Francesco compie il suo secondo anno di pontificato con l’annuncio dell’indizione del Giubileo straordinario sulla Misericordia. Per alcuni osservatori, questo evento, segnerà una svolta nella Chiesa contemporanea. È d’accordo su questo?

Non lo sappiamo ancora, ma di certo e’ una sorpresa: un pontificato che Francesco dice sara’ breve, ma Francesco programma nel lungo periodo… Di certo e’ una decisione che spiazza buona parte della opposizione contro di lui: uno strumento vecchio come il giubileo ma usato per un riorientamento della chiesa.

L’ ecclesiologia che sta alla base dell’opera di Papa Francesco è quella del Concilio Vaticano II. Però,  a mio modo di vedere,  porta un arricchimento teologico rispetto al Concilio: ovvero la storia dei poveri e delle periferie “esistenziali”. In questo si comprende la “Chiesa ospedale da campo”. È  così?

Direi che Francesco recupera dei nuclei del concilio che non furono sviluppati e recepiti a sufficienza, come quello della chiesa dei poveri: i latinoamericani al concilio si aspettavano di più dal concilio su questo tema. Il primo papa latinoamericano attua il concilio facendo giustizia di alcune dimenticanze del concilio e del postconcilio.

Veniamo a questo biennio di pontificato. Un biennio intenso, dove la Chiesa è stata attraversata da una forte dialettica. Un grande sostegno popolare al Papa, ma anche resistenze forti da parte della Corte Curia le. Riuscirà il Papa a scardinare le resistenze? Dove si annidano le resistenze fuori dalla Curia?

La scelta di convocare il giubileo e’ geniale perché’ toglie alla Curia romana e alle elite ecclesiali in genere il potere di definire il successo del pontificato della misericordia. Il pontificato di Francesco e’ puntato su altro e non può’ essere preso ostaggio da piccoli gruppi di resistenza al cambiamento.

Oltre a Misericordia,  quali sono le altre “parole chiave”  di questo primo biennio di Pontificato? 

Poveri, gioia, periferie, idolatria.

In una intervista ad una emittente messicana,  il Papa parla della “durata”  del suo Pontificato definendolo “breve”. Quale è stata la sua reazione a queste parole?

Il Papa non vuole illuderci sulla durata del pontificato e non vuole creare aspettative irrealistiche. Certamente rispetto al pontificato di Giovanni Paolo II, che per molti è il paragone del pontificato post-conciliare, quello di Francesco sara’ più’ breve. Ma e’ anche un modo per gestire in modo accorto le resistenze contro di lui.

Lei è Italiano ma insegna negli Usa. Ed è molto addentro alla Chiesa italiana. Le chiedo  come stanno reagendo queste due Chiese all’opera di Francesco?

La chiesa italiana e’ molto più dominata dalle istituzioni ecclesiastiche (vescovi, clero) che in Italia mi sembra più risvegliata dall’effetto Francesco rispetto a quella americana, in cui la resistenza si annida in alcune cerchie accademiche e intellettuali neo-conservatrici o tradizionaliste – alcune delle quali arrivano persino ad accusarlo di eresia.

Ultima domanda : il Papa si batte contro i clericalismi. Com’è la situazione del laicato cattolico dopo due anni di Papa Francesco?

C’e’ qualche decennio da recuperare: il laicato si e’ in buona parte disabituato ad avere un ruolo attivo.

I “Re di Roma”. Destra e sinistra agli ordini di mafia capitale. Un libro di Chiarelettere

"I re di Roma" - Abbate Lillo

La triste vicenda di Mafia Capitale. Un sistema criminale senza precedenti,
Che ha dominato, per anni, su Roma con la complicità di politica e istituzioni viene raccontata in questo documentatissimo libro, appena uscito nelle librerie, di Marco Lillo e Lirio Abbate.

IL LIBRO

Una storia vera ma così incredibile che sembra creata da un’immaginazione diabolica.
Un ex terrorista finito in carcere più volte, legato alla Banda della Magliana e addestratosi in Libano durante la guerra civile. Da anni gira per Roma tranquillo con una benda sull’occhio perso durante una sparatoria. Lo chiamano il Cecato. È lui che governa politici di destra e di sinistra. Per i magistrati è il capo, Massimo Carminati.
Un omicida. Ha inferto 34 coltellate alla sua vittima ma in cella è diventato detenuto “modello”. I suoi convegni in nome della legalità raccolgono il plauso di grandi nomi come Stefano Rodotà e Miriam Mafai. In realtà ha fregato tutti. Fuori dal carcere è diventato il businessman dell’organizzazione criminale. I magistrati lo chiamano l’organizzatore, Salvatore Buzzi.
Un funzionario pubblico, già braccio destro di veltroni sindaco e poi uomo chiave del coordinamento nazionale sull’accoglienza per i richiedenti asilo del ministero dell’interno, che nasconde almeno tre false identità, le usa per coprire vari reati ma nessuno se ne accorge. È l’uomo di collegamento tra boss e politica, luca odevaine. E ancora neofascisti, ultras, soubrette, calciatori, attori. Una galleria eccezionale di personaggi, in cui compaiono perfino il capo della segreteria per l’economia del Vaticano Alfred Xuereb e il capitano giallorosso Francesco Totti. 
Tutto questo è “I re di Roma”. Abbate e Lillo hanno costruito un racconto potentissimo, con documenti inediti. La testimonianza appassionata di chi ha denunciato quel sistema criminale quando nessuno ne voleva parlare.

GLI AUTORI

Llirio Abbate, inviato de “L’espresso”, è autore di inchieste giornalistiche sulle mafie e le collusioni dei politici con i boss. Negli ultimi vent’anni si è occupato dei principali scandali italiani su criminalità organizzata, tangenti e corruzione. Nel 2014 Reporters without borders lo ha inserito fra i “100 eroi dell’informazione” e nel 2015 Index on censorship lo ha annoverato tra le 17 personalità che nel mondo lottano per la libertà di espressione. Ha scritto i complici (con Peter Gomez, fazi 2007). Il suo libro più recente è “Fimmine ribelli” (Rizzoli 2013).
Marco Lillo, giornalista investigativo, caporedattore inchieste de “Il fatto quotidiano”, ha pubblicato, tra l’altro, i documenti segreti che hanno svelato le congiure in Vaticano e i trucchi nel bilancio del Monte dei Paschi di Siena ai tempi di Giuseppe Mussari. Ha scritto inchieste dure sull’ex presidente del senato Renato Schifani, sull’ex sottosegretario Carlo Malinconico e sull’ex ministro Nunzia De Girolamo. Ha svelato la storia della pensione di matteo renzi, assunto nell’azienda di famiglia pochi mesi prima dell’elezione in provincia. È autore dei libri “Bavaglio” (2008) e “Papi” (2009) con Peter Gomez e Marco Travaglio.

PER GENTILE CONCESSIONE DELL’EDITORE, PUBBLICHIAMO UN ESTRATTO DEL LIBRO

«Piano, piano… non lo vedo, non lo vedo… guida lui, guida lui…» Ancora un istante concitato, poi: «Scendi da questa cazzo di macchina… è bloccato!». La voce è di uno degli uomini del Reparto anticrimine del Ros di Roma, guidato dal colonnello Stefano Russo. Il video dei carabinieri ha invaso i media per giorni. Lui, l’ex terrorista nero, il boss della malavita romana, il punto di contatto tra manovalanza criminale e colletti bianchi, viene catturato dai militari mentre viaggia, apparentemente inerme, sulla sua Smart lungo una stradina di campagna a Sacrofano, alle porte di Roma. È il 1° dicembre 2014: l’arresto di Massimo Carminati segna un punto importante dell’inchiesta su «mafia Capitale», il terremoto giudiziario che si abbatte sui palazzi del potere travolgendo trasversalmente i principali partiti politici italiani. Un’indagine senza precedenti, che ha scoperchiato un vero sistema di corruzione, usura, estorsione, concussione, turbative d’asta e false fatturazioni. Una macchina ben rodata che lavorava per il controllo della città e degli appalti pubblici e poteva contare sulla connivenza della politica e delle istituzioni.
Carminati (C), secondo la Procura di Roma, è l’uomo chiave del «Mondo di mezzo», ha costruito un sistema di cui si vanta lui stesso in una conversazione intercettata con il suo braccio destro Riccardo Brugia (B) e con l’imprenditore Cristiano Guarnera (G):
C: «È la teoria del mondo di mezzo compa’… ci stanno… come si dice… i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo».
B: «Embe’… certo…».
C: «E allora… e allora vuol dire che ci sta un mondo… un mondo in mezzo in cui tutti si incontrano e dici cazzo come è possibile che quello… come è possibile, che ne so, che un domani io posso stare a cena con Berlusconi…».
B: «Certo… certo…».
C: «Cazzo è impossibile… capito come idea?… è quella che il mondo di mezzo è quello invece dove tutto si incontra… cioè… hai capito?… allora le persone… le persone di un certo tipo… di qualunque cosa… si incontrano tutti là…».
B: «Di qualunque ceto…».
C: «Bravo… si incontrano tutti là no?… tu stai lì… ma non per una questione di ceto… per una questione di merito, no?… allora, nel mezzo, anche la persona che sta nel sovramondo ha interesse che qualcuno del sottomondo gli faccia delle cose che non le può fare nessuno…».
B: «Certo…».
C: «Questa è la cosa… e tutto si mischia».
B: «E certo…».
G: «…sotto sotto, semo tutti uguali…».
La suggestiva teoria di Carminati – ispirata probabilmente dallo scrittore inglese John R.R. Tolkien, ideatore di quel luogo mitico chiamato «Terra di mezzo» in cui si svolgono le vicende de Il signore degli anelli e Lo hobbit – è la sintesi della mafia romana; quella che alle armi preferisce il denaro, che non spara ma corrompe, che i politici e gli imprenditori non deve rincorrerli per fare affari e per partecipare alla grande abbuffata degli appalti pubblici, che non si accontenta delle consuete attività criminali ma vuole dettar legge ovunque: raccolta e smaltimento dei rifiuti, accoglienza degli immigrati, campi rom, verde pubblico, mense, strade. Tutto.
Il «Mondo di mezzo» è la cerniera tra l’illegalità e la legalità, tra criminali di strada e uomini in doppiopetto. «Perché tanto… nella strada… comandiamo sempre noi…» spiega Carminati al sodale Brugia.
I magistrati della Procura di Roma definiscono il sistema Carminati una mafia «originaria e originale». I 101 indagati della prima ondata giudiziaria, accusati in base all’articolo 416 bis o con l’aggravante di aver avvantaggiato l’organizzazione criminale, sono infatti quasi tutti romani o, comunque, del Centro Italia. Ci sono pochissimi meridionali. Per questo può definirsi anche originale, perché ha caratteristiche proprie che rispecchiano in qualche modo la società in cui si è sviluppata: è una mafia che non controlla il territorio chiedendo il pizzo ai commercianti, che non lascia i morti sulle strade. Non ha una struttura rigida e piramidale, sebbene siano stati identificati dai giudici «un capo», Massimo Carminati, e altri due viceré, anche loro con un ruolo direttivo specifico: Riccardo Brugia sul fronte «militare», e Salvatore Buzzi su quello «economico e dei rapporti con la pubblica amministrazione». Tutti e tre con precedenti penali e, nonostante tutto, nuovamente presenti. Tutti e tre di nuovo sulla scena. Gli uomini di «mafia Capitale» conoscono bene però l’arte dell’omertà: «No, non deve parla’ mai, risponde’ alle domande… le domande sono lecite, le risposte non sono mai obbligatorie» dice Brugia a Guarnera riguardo la regola del silenzio imposta dal capoclan. Ed ecco Salvatore Buzzi che dà la linea a un suo collaboratore: «Bisogna essere riservati, non parla’ troppo, anzi, ‘ste cose di cui non le sa nessuno, nemmeno Alessandra [Garrone, moglie di Buzzi, nda] perché… infatti l’ho ripreso da Massimo,Massimo è bravissimo, lui non parla, parla pochissimo perché dice “meno sai, meno ti dico, meno sai e più stai sicuro”».

L’intoccabile. Il re del «Mondo di mezzo»

Lirio Abbate e Marco Lillo, I Re di Roma. Destra e sinistra agli ordini di mafia capitale, Ed. Chiarelettere, Milano 2015, pagg. 272, € 14, 90

La caccia al tesoro dei paradisi fiscali. Intervista a Nunzia Penelope

cop.aspxIn questi giorni il governo italiano ha concluso degli accordi per lo scambio di informazioni finanziarie e fiscali con paesi come: Svizzera, Liechtenstein, Principato di Monaco. Paesi definiti come “paradisi fiscali”. Tutto questo per garantire maggiore trasparenza. E’ la fine del segreto bancario? E’ davvero così? Nunzia Penelope, giornalista, ci spiega come stanno realmente le cose. Nunzia Penelope ha scritto un documentatissimo saggio su questo tema: Caccia al tesoro, uscito per la casa editrice “Ponte alle Grazie”. Il volume verrà presentato a Roma, all’Auditorium, il 14 marzo.

Incominciamo a dare un quadro riassuntivo del colossale furto planetario, il buco nero dell’economia mondiale, rappresentato dall’immenso flusso di denaro sfuggito ai controlli fisco. Secondo stime attendibili, a quanto ammonta? Quali le proporzioni di questo furto?

Piu’ o meno 30 mila miliardi di dollari: e’ questa la cifra a cui sono arrivata incrociando le stime di istituzioni e centri ricerca internazionali, dal FMI alla Banca Mondiale. In pratica, stiamo parlando di oltre un terzo dell’intera economia globale. Per fare un paragone piu’ semplice e dare l’idea delle proporzioni: 30 mila miliardi equivale al doppio della ricchezza prodotta ogni anno negli Usa o in Europa, e venti volte quella prodotta in Italia.

A chi appartiene questa enorme massa di denaro?
I paradisi fiscali sono un buco nero, e dentro c’e’ di tutto: i profitti esentasse delle multinazionali, i capitali degli evasori, il business del crimine, le tangenti della corruzione, e via dicendo. Ma il fatto e’ che dietro questa massa di denaro si muove una sorta di nuova elite globale, piu’ potente di qualunque governo, perché dispone di risorse finanziarie praticamente illimitate. E con risorse illimitate, e’ facile pagare eserciti di lobbisti che operino nei parlamenti di mezzo mondo, impedendo l’approvazione di leggi contro i paradisi fiscali. Un esempio banalissimo: quando in Italia nel 2013 si tento’ di approvare una legge contro l’elusione fiscale di Google, la stessa Google lancio’ attraverso LinkedIn una ricerca di lobbisti italiani da spedire nel nostro parlamento per bloccare la legge. Che infatti non ha mai visto la luce.

Che rapporto c’è tra la crescita dell’economia offshore e la crisi economia reale mondiale?
Vanno di pari passo: il boom dei paradisi fiscali coincide con la crisi mondiale del 2007, ne e’ nello stesso tempo causa ed effetto. La sottrazione di entrate fiscali per gli Stati di tutto il mondo e’ colossale. Gli Stati Uniti perdono 700 miliardi di tasse ogni anno, a causa del sistema offshore. In Ue, secondo dati Ocse, le tasse sottratte dalle multinazionali grazie ai paradisi fiscali ammontano a 1.000 miliardi annui, piu’ di tutta la spesa sanitaria europea, che e’ di 800 miliardi. Se queste risorse rientrassero nelle casse degli Stati, probabilmente la crisi economica sarebbe gia’ finita da un pezzo.

Quali sono le varie tipologie di “Paradisi Fiscali”. Com’è la situazione in Europa?
L’Europa e’ sostanzialmente un grande ‘’paradiso’’. Non solo Svizzera, Lussemburgo o Lichtenstein, ma anche Olanda, Irlanda, Gran Bretagna, e per certi versi la stessa Germania, o l’Austria, sono paesi fiscalmente molto ‘’tolleranti’’. Infatti, le grandi multinazionali americane hanno scelto paesi europei come sede fiscale. Il senato americano ha scoperto che la Apple, grazie a un accordo con l’Irlanda, paga appena lo 0,5 sugli utili, sottraendo al governo Usa un milione di dollari l’ora di tasse. E l’Italia non e’ da meno: praticamente tutte le nostre grandi banche e aziende hanno una sede in Lussemburgo, sempre per via dell’accoglienza fiscale. La stessa Fiat ha spostato la sede fiscale a Londra, allo stesso scopo. Poi, certo, tutti i governi ripetono periodicamente che vogliono la fine dei paradisi: ma nessun paese e’ ‘’innocente’’.

Il “private banking” è il principale motore dell’offshore. Come funziona?
Il private banking e’ quella sezione di ogni banca che ha il compito di gestire in modo riservato grandi patrimoni dei ricchi di tutto il mondo. E ovviamente, lo fanno appoggiandosi ad altre filiali aperte appositamente in paradisi fiscali. Basta fare una visita al sito internet di un qualunque istituto di credito per verificare quante sedi offshore hanno, e dove. Alcune li pubblicizzano apertamente: ‘’gestiremo in maniera riservata il vostro patrimonio’’. Ma riservata da che, se non dal fisco?

Parliamo dell’Italia. Quanto può essere stimato, in miliardi di euro, il capitale italiano nei paradisi fiscali? E dove sono maggiormente presenti?
Secondo la Banca d’Italia, quasi due terzi dei capitali italiani scappati oltre confine sta in Svizzera, il resto e’ piazzato in altri paesi europei, principalmente in Lussemburgo. Pochissimi invece nelle isole tropicali tipo Cayman: non c’e’ bisogno di andare troppo lontano per trovare ottimi ‘’paradisi fiscali’’, li abbiamo a due passi da casa. Quanto alle cifre, sempre secondo Banca d’Italia nel 2014 i capitali italiani scappati in Svizzera ammontavano a circa 200 miliardi. Se calcoliamo che con lo scudo fiscale del 2010 teoricamente ne erano rientrati 100, e’ evidente che la fuga dei capitali tricolori e’ piuttosto un esodo biblico. Infatti, alcuni dati parlano di un tesoro da mille miliardi, accumulato nella sola Svizzera nell’arco di vent’anni. Se fossero rimasti in Italia, dichiarati al fisco o investiti in attivita’ produttive, il nostro paese non soffrirebbe la costante mancanza di crescita economica che ben conosciamo.

Veniamo agli accordi, conclusi in questi giorni, con Svizzera, Liechtenstein, Principato di Monaco. Sono accordi importanti. Però se si guarda a quello importantissimo con la Svizzera vi sono dei limiti, quali?
Quando sento dire ‘’fine del segreto bancario’’, vado sempre a leggere le clausole scritte in piccolo negli accordi: per esempio, in quelli firmati recentemente e’ scritto che non saranno operativi prima di un paio di anni. Il che significa che ci sara’ tutto il tempo per traslocare i capitali neri altrove. Fondamentalmente, questi accordi hanno uno scopo non dichiarato ma molto preciso: far si’ che gli evasori italiani che decideranno di aderire alla nuova legge sul rientro dei capitali con autodenuncia, la cosiddetta Voluntary Disclosure, possano pagare sanzioni molto piu’ lievi. In qualche modo e’ anche giusto: il governo cosi’ si assicura una maggiore adesione alla sanatoria, e maggiori entrate. Pero’ appunto, dire che e’ finita l’epoca del segreto bancario, e’ quanto meno eccessivo e fuorviante.

Per quali ragioni molti capitali in “nero”, in Svizzera, prenderanno la via per l’Austria?
L’Austria, secondo i magistrati e gli esperti dell’antiriciclaggio, e’ attualmente uno dei paesi meno collaborativi col fisco e con le autorità giudiziarie italiane, e dispone di un segreto bancario blindato come e piu’ di quello svizzero. Come dicevo, i paradisi sono dove meno te li aspetti!

Sicuramente il merito di aver iniziato questa guerra ai “paradisi fiscali” va agli Usa, anche se poi hanno lo Stato del Delaware che è un “paradiso fiscale”. Le chiedo qual è, secondo
Lei, il livello di consapevolezza del nostro Paese rispetto agli altri paesi europei?

L’Italia sta scoprendo solo adesso il furto organizzato dei paradisi fiscali. Basti dire che quando l’anno scorso ho pubblicato la mia inchiesta “Caccia al tesoro”, era il primo libro italiano sull’argomento. Negli altri paesi i cittadini hanno maggiore consapevolezza, anche grazie al lavoro delle Ong e di molti centri di studio che divulgano costantemente informazioni sul tema, fruibili anche ai non addetti ai lavori. Da noi, invece, i media sono piu’ distratti: questo tipo di informazioni si trova solo sulle pagine tecniche dei giornali specializzati, o al massimo, ci si concentra su qualche ‘’scandalo’’ che colpisce volti noti dello sport o dello spettacolo. Ma questo, purtroppo, ha impedito fin qui di vedere il quadro completo. Ci scandalizziamo per il barista che non rilascia lo scontrino, ma non ‘’vediamo’’ la grande impresa che sfugge al fisco per milioni di euro, grazie a un paradiso fiscale.
Per quanto riguarda gli Stati Uniti: com’e’ noto sono severissimi dal punto di vista fiscale, ma non sono mai riusciti nemmeno loro a vincerla contro i paradisi e le multinazionali. Il primo a iniziare questa guerra era stato John Kennedy nel 1962, con un durissimo discorso al Congresso, col quale diceva esplicitamente ‘’basta’’ ai paradisi. Compresi quelli in casa, come Delaware, Nevada, Wyoming. Ma come e’ finita lo sappiamo: JFK e’ morto un anno dopo a Dallas, mentre i paradisi sono ancora tutti qui, e aumentano di numero ogni anno.

La politica nell’epoca dei trasformismi. Intervista a Pippo Civati

Trasmissione televisiva BallaròPippo Civati, deputato del PD, uno dei leader della minoranza interna del PD, ha pubblicato un saggio appena uscito nelle  librerie, dal titolo assai eloquente: “Il trasformista. La politica nell’epoca della metamorfosi”. Un’analisi sulle dinamiche del trasformismo in politica. In questa intervista, oltreché del libro, si parla anche della situazione interna al PD.

 

Civati, partiamo dal suo saggio, dal titolo volutamente polemico. Lei definisce il trasformista , in origine è così, come un “teatrante”, un “illusionista”,  un “vecchio” che si traveste da “nuovo”. Insomma, la sua analisi è realista e pessimista insieme: lei vede l’attuale fase politica italiana come il trionfo del trasformismo. Una malattia che lei vede annidarsi nella Sinistra. Allora le chiedo: per lei il “campione” attuale del trasformismo è Matteo Renzi?

 

Credo che in realtà si tratti di un fenomeno più grande di quello che possa riguardare una singola persona.  E’ uno schema politico, quello trasformistico, che conosciamo: è uno schema che prevede che ci siano larghe intese ,scambi di posizione, grandi accrocchi, soluzioni che all’inizio sono  fuori dal parlamento prima di tutto con il governo Monti che però era un governo di emergenza. Poi si è ripetuto nella scelta di formare un governo trasversale come quello di Enrico Letta che poi si è compiuto nel campione di disinvoltura politica che è stato Matteo Renzi nell’assumere la posizione di premier senza passare dalle elezioni scalzando proprio Enrico Letta.

Tutti meccanismi che poi vengono valutati soltanto sulla base del successo elettorale o del consenso che ottengono nella popolazione a posteriori che si basano su uno schema trasformistico che poi la politica intende estendere anche a livello locale. Conosciamo le vicende della Liguria della Sicilia e di altre  situazioni in cui si va verso un modello in cui ci sia un grande partito al centro in cui rientrano più o meno tutti e che poi dispone delle scelte dei cittadini che l’hanno votato.

 

Dove si manifesta il “trasformismo” Renzi?

 

Ma ripeto fosse da solo sarebbe  colpa sua. La responsabilità è molto più larga , si manifesta per esempio nelle scelte di un partito come quello di cui faccio parte che ha ribaltato la propria linea sul lavoro, che in questi giorni parla di sostegno alle scuole private, che ha cambiato anche il profilo sulle politiche ambientali scegliendo la strada del ministro Lupi. Anche in questo caso si vede come un fattore estraneo alla politica del centrosinistra si sia inoculato di fatto nelle proposte politiche del governo, quindi è uno schema molto più complesso non banale anche se sicuramente la rappresentazione è quella intorno al leader a cui attribuire tutti i meriti e tutte le colpe. Io cerco di fare un ragionamento un pò più profondo, non è del resto come già sottolineava lei non è la prima volta che ci sia in  Italia una sinistra che si trasforma in destra,  un tema che ci ha riguardato spesso, insomma una sinistra che deve abbandonare se stessa per diventare qualcosa di diverso.

A questo punto è legittimo chiedersi se sia ancora sinistra o se sia qualcosa di diverso.

 

 

Veniamo al PD. Per lei, come per altri, si sta trasformando nel “partito della nazione”, definizione assai ambigua, rischiando così di perdere i connotati di un partito di centrosinistra. Le chiedo, sinceramente, può essere una alternativa credibile di governo il “neo-frontismo popolare” (o coalizione sociale) di Landini, Revelli e altri?

 

Io credo che il problema sia quello di contrapporre dentro e fuori del Pd il progetto di un governo diverso che si basi su un manifesto condiviso con gli elettori, con i corpi sociali, con i corpi intermedi. Fanno bene Landini e Rodotà a richiamarci all’aspetto sociale; il problema però è dove finalizziamo questa sfida politica. Non deve essere soltanto una sfida di piazza, una sfida di numeri ma deve essere anche la soluzione per dare al Paese un governo diverso sulla base di una riflessione culturale che non scivoli via, sulla base di scelte chiare, di valori riconoscibili. E’ un lavoro che dobbiamo fare meglio  e che sicuramente non può non riguardare anche un pezzo di Pd perché non voglio credere che tutti si consegnino a questo destino.

Si tenga conto che c’è anche il caso di Milano per cui si dice che dopo Pisapia bisogna guardaci attorno, lo ha detto ieri il vicesegretario Guerini, dovremo guardarci intorno magari allearci con la destra o con un  pezzo di destra anche a Milano.

Insomma è abbastanza forte come soluzione, non credo che tutti la vogliano accettare.

 

Veniamo alla “minoranza” del PD. La galassia “renziana” si arricchisce ogni giorno di nuove “componenti”: l’ultima nata è quella dei “renziani di sinistra”. Vi stanno fagocitando? Come pensate di reagire?

 

Ma non lo so questi sono schemi interni di corrente, io sto parlando di qualcosa di diverso, il destino e la vocazione di un partito e il senso della nostra azione politica. Che ci sia una riorganizzazione nelle stanze del Nazareno è normale non mi piace neanche bollarla immediatamente come soluzioni che non mi interessano, però è chiaro che il problema è un pò più grande. Cioè  queste correnti  in quale direzione cambieranno il profilo del Pd, sapranno intervenire sulle politiche di Renzi, offriranno elementi di innovazione di cambiamento vero? Queste sono le domande.

 

Guardiamo fuori dal PD. La manifestazione di sabato della Lega ci mostra una destra sempre più aggressiva. La preoccupa Matteo Salvini?

 

Preoccupa più che altro per le cose che dice non tanto per il consenso elettorale.

Visto che c’è un dibattito molto forte è chiaro che a destra si pongano le stesse questioni che ci poniamo noi, con parole diverse e opposte alle nostre.

Anche per loro il destino sarà quello di arrivare ad un unico partito di centro. Chi è più di destra, a costo di imbarcare anche forme  fascisteggianti come quelle di Casa Pound, si chiede se sia il caso di costruire una destra che abbia valori di rifiuto completo ma che qualcuno vede come posizioni che devono essere rappresentate.

 

Ultima domanda: Lei crede ancora nel PD? Oppure pensa che ormai è arrivato il tempo di una scissione?

 

A me la parola scissione non piace, non credo che si tratti di questo anche perché sono uno dei pochi a porsi il problema di quanto si possa rimanere in uno schema che non si sente proprio, altri sono molto più sereni, comunque non considerano neanche l’ipotesi.

Il problema vero glielo pongo in questi termini: se i miei elettori quelli delle primarie, quelli che mi vogliono bene, che mi vogliono più bene, forse, e mi vogliono ancora bene, speriamo, se non votano più il partito democratico a me si pone un problema direi quasi “ontologico” e quindi io non sto a fare operazioni politiche o tatticismi. Sono rimproverato di essere incerto.

In realtà mi si pone un problema epocale, lasciare un partito così considerandolo perduto  non è una cosa banale perché dispiace, io ci credevo, io vengo dall’Ulivo, non certo della sinistra rivoluzionaria.

Vorrei una sinistra di governo e la domanda che mi pongo tutte le sere prima di addormentarmi è: come si fa ? Quando trovo la soluzione sarete i primi a saperlo però non è facile e chi lo bolla come mancanza di coraggio o come incertezza esistenziale secondo me fa un gioco divertente perché la satira il sarcasmo quando non sono troppo cattive a me piacciono anche, i politici se lo meritano. Però la questione non è di facile soluzione, a me piacerebbe un contesto grande in cui far vivere quei valori di cui le dicevo, di fare una battaglia minoritaria non mi interessa o si riesce a costruire una sinistra di governo con il Pd, io sarei felicissimo, senza il Pd è più complicato farlo ma forse diventa sempre più urgente.