Mafia Capitale: l’effetto “boomerang” sul Terzo settore. Intervista a Giovanni Moro

medium_110202-194741_mi130308cul_0005Quali sono gli effetti dell’indagine della Procura di Roma su Mafia Capitale , che ha visto il coinvolgimento di Salvatore Buzzi (a capo della Cooperativa 29 giugno), sul mondo del “terzo settore” italiano? Ne parliamo con Giovanni Moro, professore ordinario di Sociologia politica alla Universita’ “Roma Tre”. Moro è anche Presidente di Fondaca. L’autore è  molto attivo sui temi della cittadinanza attiva. Per Laterza ha pubblicato un saggio che ha fatto molto discutere: “Contro il non profit” (una analisi severa su quel mondo). 

 

 

Professor Moro, secondo lei l’incredibile vicenda criminale del responsabile della “cooperativa 29 Giugno”, Salvatore Buzzi , può gettare un ombra sul mondo cooperativo e quindi più in generale sul “terzo settore”?

Temo proprio di sì, e del resto sta già accadendo. Il punto è questo: per due decenni attorno alla etichetta “non profit” o “terzo settore” (è lo stesso) è stato costruito, grazie al supporto decisivo dei media, un alone di benemerenza a partire da iniziative indiscutibilmente meritorie la cui benemerenza, appunto, è stata proiettata su tutto l’insieme. Chi era “non profit” o di “terzo settore” era buono a prescindere. Questa situazione, benché fosse evidente che premiava anche chi non lo meritava e metteva i migliori sullo stesso piano degli altri, in fondo è andata bene a tutti. Però quello che nel mio libro “Contro il non profit” ho chiamato “effetto alone” porta con sé un altro effetto, che ho chiamato “effetto boomerang”. Succede, cioè, che quando qualcuno si comporta male tutti vengono giudicati allo stesso modo. Se una impresa privata viola la legge, la responsabilità viene attribuita solo ad essa; invece nel magma del non profit si riversa su tutti, anche sui moltissimi che non avrebbero alcun motivo di essere stigmatizzati. Ma questa è solo la conseguenza di non aver voluto fare chiarezza sulla “invenzione” del settore non profit e non aver voluto vedere a che cosa questa invenzione stava portando.

 

Resta, comunque, il fatto che su quella cooperativa non vi sono stati controlli, e questo pone il problema della trasparenza nel mondo del “terzo settore”. E’ garantito questo? Come rendere efficace la trasparenza? La Legge delega del governo sul “Terzo settore” come garantisce questo?

In generale, in Italia come altrove, è impossibile fare dei controlli simili a quelli che immagina chi pensa a questa soluzione per un magma di 300.000 enti che comprende anche bar, ristoranti, sindacati, Confindustria, cliniche religiose, scuole e università non statali, enti previdenziali come quello dei giornalisti, ecc. Non basterebbe un esercito per questo compito. Il problema si deve porre in modo più articolato, a mio parere. La cultura pubblica deve essere più attenta e devono essere fissati degli standard di comportamento: nel caso in questione, ad esempio, il fatto di dare lavoro a persone in difficoltà non può giustificare nessun rapporto abnorme con la pubblica amministrazione e nessuno si deve sentire a posto se lo fa; ma in tutt’altra dimensione non ci deve essere bisogno di una legge per stabilire che negli oratori non ci devono stare le slot machine come invece avviene. C’è poi da togliere alibi come quello del ruolo di controllo dei propri associati da parte delle centrali cooperative: visto che evidentemente non lo svolgono, bisogna che nessuno si possa nascondere dietro a questa finzione. Certo, la trasparenza è importante e l’obbligo della pubblicità dei bilanci potrebbe aiutare, ma non ci si deve illudere che possa risolvere, come ci insegnano casi diversi come quello di Parmalat. Penso che la cosa più importante sia concentrarsi sulle attività che vengono svolte: è quello che concretamente si fa, il modo in cui lo si fa e i risultati che si producono, in quanto legati all’interesse generale, che deve essere usato come metro di giudizio principale. Questo vuol dire rendere i beneficiari di queste attività importanti almeno quanto i donatori preoccupati che i loro soldi vengano spesi bene. Spero che il Parlamento, che sta discutendo la proposta di riforma del governo, colga questo punto, anche per fare pulizia in un magma in cui c’è veramente di tutto, ben al di là delle organizzazioni criminali.

 

Parliamo dei rischi d’infiltrazioni della criminalità organizzata in questo ambito: quali i settori più a rischio?

Direi che i settori più a rischio sono quelli dove girano soldi pubblici, in particolare quello dei servizi di welfare. Ma, come abbiamo visto, anche le pulizie, la cura dei giardini o l’emergenza neve possono diventare un buon affare allo stesso titolo degli immigrati che, come diceva il capo della banda romana, rendono più del traffico di droga. Dal punto di vista del tipo di organizzazione, le cooperative sociali sono sicuramente il soggetto più a rischio, in quanto favorito in molti modi per accedere a fondi pubblici. Lo abbiamo visto non solo a Roma, ma ovunque la criminalità organizzata abbia i suoi business. Non dimentichiamo però che c’è chi questi appalti li delibera.

Quali sono i “dark side” (lati oscuri) del “non profit”?

Se per “lato oscuro” intende gli atti illegali, il loro numero è basso ma la tipologia è ampia: si va dalla sottrazione di soldi della organizzazione alle truffe ai danni dello stato; dai maltrattamenti agli utenti dei servizi fino alla estorsione. Ma il vero problema, a mio parere, sono le patologie che non costituiscono violazioni di legge: situazioni ingiuste ma perfettamente legittime, come l’accesso al 5 per mille ad esempio di fondazioni di proprietà delle imprese private, o il fatto che a Roma 2800 enti non paghino l’IMU e tra questi enti ci siano circoli sportivi esclusivi o alberghi a cinque stelle che magari erano conventi; concorrenza sleale, perché se un bar o una palestra sono un’associazione culturale o sportiva hanno meno costi dei loro concorrenti, senza contare le associazioni che accedono al 5 per mille ma nello stesso tempo gestiscono un centro di assistenza fiscale dove i cittadini compilano la dichiarazione dei redditi; costi inaccessibili per i più come ad esempio quelli di servizi sanitari o scuole e università di fronte alle quali è giusto chiedersi “non profit per chi?”; e infine fenomeni di “mercatizzazione”, perché il non profit è diventato un grosso business e genera concorrenza per la raccolta fondi, privilegia le relazioni e la comunicazione sulla importanza dei progetti così come le organizzazioni grandi rispetto a quelle piccole, favorisce la creazione di servizi a scapito del dare voce e fare valere esigenze e bisogni dei cittadini; e naturalmente favorisce anche rapporti di subordinazione alle pubbliche amministrazioni desiderose di togliersi la responsabilità dei servizi pagandoli di meno.

 

Comunque sia il terzo settore è una realtà consistente: è fatta, stando ai dati Istat, di 4,7 milioni di volontari e produce il 3 % del Pil nazionale. Una cosa di assoluto rilievo per l’Italia. Il 6 di Agosto di quest’anno, il governo ha approvato una Legge delega che porterà a breve, si spera, una positiva innovazione legislativa di regolazione del settore. Le chiedo: quali sono i punti positivi di questa Legge? E quali  sono i punti deboli?

Premetto che questi dati sono scarsamente utili, proprio perché non si possono “contare” insieme una organizzazione di volontariato sanitario e una clinica religiosa, o un ristorante e una mensa per i poveri, o un circolo sportivo esclusivo e un’associazione che porta i disabili in barca a vela. Se ci riferiamo a quello che tutti immaginano che sia il settore non profit, cioè organizzazioni che si occupano di tutelare diritti, prendersi cura di beni comuni e sostenere soggetti in difficoltà, scendiamo a meno della metà. Quanto alla legge delega, essa contiene molti interessi e logiche in conflitto tra loro: una logica di mercato del welfare, una di pura filantropia e beneficenza, una amministrativo-regolamentare, una fiscale e una politico-costituzionale, che è quella che a me personalmente sembra l’unica che valga lo sforzo. La legge coglie il punto che citavo sopra, quello della priorità da dare alle attività in connessione all’interesse generale come criterio di valutazione delle organizzazioni. Ma contiene anche una visione formalistica in cui gli statuti sono più importanti di quello che si fa e una visione estremamente riduttiva della sussidiarietà, vista solo come erogazione di servizi nel welfare, nonché la previsione che capitali privati (e quindi remunerati) entrino nelle organizzazioni cosiddette non profit. Speriamo che il Parlamento faccia un po’ di chiarezza e che si produca una riforma che risolve i problemi anziché crearne di nuovi come spesso è accaduto in questo campo.

 

Ultima domanda: Professore, nei giorni scorsi il nostro Paese è stato il teatro della rivolta delle Periferie (vedi Tor Sapienza e Milano). Quello della “periferia” è una frontiera classica per il “non profit”.  Come rendere più efficace la presenza del “terzo settore”? Quali le priorità?

Viviamo in un mondo in cui nessuno può risolvere problemi come questo da solo. Occorre una collaborazione tra soggetti pubblici, ma anche privati come le imprese, e organizzazioni di cittadini che sono la parte che ci deve stare a cuore del magma del non profit. Ognuno ha delle competenze da mettere a disposizione, delle risorse da investire, dei poteri da esercitare. E lavorando insieme si possono ottenere risultati che nessuno di questi soggetti da solo potrebbe conseguire. E’ il significato più forte della sussidiarietà, introdotta nel 2001 nella nostra Costituzione. Il nostro paese, anche a proposito dei conflitti che possono sorgere tra i migranti e la popolazione residente in aree abbandonate (i “bianchi poveri” come li chiama la letteratura scientifica), è pieno di esempi di successo di cui però non si parla. Certo, quando l’amministrazione locale si preoccupa solo di scaricare su qualcun altro l’onere di non aver previsto o pianificato la gestione di una emergenza come quella dei profughi il gioco non torna più. E la colpa, naturalmente, è da entrambe le parti. All’inizio di quest’anno ha fatto giustamente scandalo il caso di una cooperativa che annaffiava con il disinfettante nel cortile del centro di accoglienza di Lampedusa i migranti appena arrivati, che stavano nudi al freddo. I dirigenti della cooperativa si sono difesi dicendo che il comune aveva dato loro troppi pochi soldi per gestire il centro e non avevano altra possibilità. Ma allora perché quel contratto è stato accettato se non consentiva di garantire standard minimi di dignità umana?

Giorgio Napolitano: “Colpire i criminali e i corrotti ma l’ antipolitica è patologia eversiva”

Unknown

Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano

Quasi un testamento politico questa Conferenza del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che ha tenuto oggi all’ Accademia Nazionale dei Lincei. Il titolo “Crisi di valori da superare e speranze da coltivare per l’Italia e l’Europa di domani”.  L’intervento è  una critica severa all’antipolitica ma anche una durissima sferzata ai partiti colpiti dall’inchiesta romana. Giorgio Napolitano definisce l’antipolitica una  “patologia eversiva” ma  denuncia, facendo riferimento al recente scandalo che ha colpito il Comune di Roma, il grave decadimento della politica” che “senza moralità” degenera inevitabilmente nella corruzione. Di seguito pubblichiamo il testo integrale dell’ intervento:

Nel dare avvio al ciclo 2009-2010 delle Conferenze a Classi riunite, il Presidente Maffei pose drammaticamente l’accento sul degrado dei comportamenti sociali, alla base del quale stanno – egli disse – “la noncuranza e il disprezzo della cultura e più in generale la perdita di valori tradizionali…”. La sua diagnosi fu quella di una vera e propria “degenerazione o atrofia culturale del tessuto sociale, che tende a espandersi come una pericolosa epidemia”. Di qui venne l’invito a illustri oratori a sviluppare, in una serie di Conferenze a Classi riunite, l’analisi di così pericolose patologie e a suggerire contributi per averne ragione, in nome dei valori che l’Accademia ha il dovere di difendere e di trasmettere alle nuove generazioni nella loro sempre viva essenzialità.

E in effetti seguirono Conferenze ricche di problematiche e di riflessioni dalle quali emergevano esperienze e sollecitazioni riferite ai valori da ciascuno pensati e vissuti.

L’affettuosa insistenza del Presidente Maffei per associarmi a quest’esercizio si spiega, credo, con l’importanza che egli attribuisce al campo della politica come epicentro – ormai da tempo – dei fenomeni degenerativi denunciati e in pari tempo luogo deputato a combatterli. E’ comunque questo, chiaramente, l’angolo visuale dal quale posso pormi, considerata la durata e le caratteristiche di un’esperienza politica che ha abbracciato la mia vita fin dalla prima giovinezza, passando attraverso molte tensioni proprie del tempo che ho attraversato.

Tra le voci che si sono levate ai Lincei illuminando le radici antiche della nostra riflessione di oggi, mi piace richiamare quella di un maestro come Paolo Rossi Monti : “Nel primo Seicento” – egli disse nella Conferenza del 12 marzo 2010 – “tra le ragioni del rapido successo della scienza dei moderni, sta la piena e convinta assunzione, da parte dei sostenitori della nuova scienza, di quel mondo di valori che fanno riferimento all’appartenenza ad una comunità, ai doveri verso i cittadini, al bene comune”. Ebbene – lasciando nello sfondo l’analisi storica che a grandi linee Paolo Rossi poi evocò – penso che possiamo ancor oggi indicare in quei valori da lui citati la premessa essenziale di un qualsiasi riconoscimento delle ragioni della politica e quindi di ogni forma di partecipazione al suo esercizio complessivo.

Inutile dire che in periodi storici tra loro molto diversi e lontani, oscillanti e contradditorie sono state le sorti del processo di consolidamento di un’autentica identità e coscienza comunitaria, di una diffusa compenetrazione con le esigenze dei cittadini e con le istanze del bene comune. Nella prima metà del secolo scorso c’è stata in larga misura, nella nostra Europa, un’eclisse di quei valori, democratici e solidaristici, determinata dall’avvento e dal feroce dominio del nazifascismo. E ciò di cui discutiamo e ci preoccupiamo oggi – in questo inizio, ancora, degli anni 2000 – è, sia pure in ben altro contesto, di nuovo un oscuramento di parametri essenziali del comune vivere civile, tra i quali il rispetto della cultura e la cultura del rispetto : rispetto, innanzitutto, delle istituzioni e delle persone. Rischiamo, nella fase attuale, il logoramento e la perdita delle conquiste del periodo di riscatto e di avanzamento conosciuto dall’Europa nella seconda metà del Novecento.

Consentitemi qui almeno un breve richiamo alla stagione che vissi e di cui sono rimasto tra i sempre meno numerosi testimoni : la stagione della rinascita, in Italia, della politica come dimensione morale e ideale dell’essere persona e dell’essere cittadino. La politica sequestrata e stravolta dal fascismo in quanto regime liberticida e autoritario, in quanto monopolio del potere – repressivo di ogni confronto di idee e di posizioni – aveva visto staccarsi da essa, con disgusto e disprezzo, le nuove generazioni. La politica riapparve come qualcosa di nuovo e pulito attraverso i canali di un apprendistato giovanile anti-fascista nel pieno della guerra, e infine attraverso l’esperienza dirompente della Resistenza. Quel fenomeno venne analizzato da un giovane intellettuale straordinariamente dotato, che fu tra i primissimi caduti della nostra Resistenza, Giaime Pintor : e fu da lui identificato come “la corsa verso la politica” da parte dei migliori, simile “a quello che avvenne in Germania quando si esaurì l’ultima generazione romantica. Fenomeni di questo genere si riproducono ogni volta che la politica cessa di essere ordinaria amministrazione e impegna tutte le forze di una società per salvarla da una grave malattia, per rispondere ad un estremo pericolo”.

E in effetti, durò degli anni in Italia, oltre la Liberazione del 1945, quell’afflusso di massa di nuove energie all’attività politica, quello slancio di partecipazione che si accompagnò innanzitutto al processo costituente, fondativo di un nuovo ordine democratico nel nostro paese, e si tradusse in robusta crescita dei partiti politici, e in vitale competizione tra essi su basi formative e programmatiche serie e degne.

Nella complessa esperienza di più decenni di vita dell’Italia repubblicana, si succederono e via via si intrecciarono straordinarie trasformazioni e manifestazioni di progresso in senso economico, sociale, civile, culturale, e in pari tempo contraddizioni, ambiguità, deviazioni che avrebbero finito per inquinare gravemente la vita pubblica, lo sviluppo della società e i corpi dello Stato, fino a esplodere all’inizio degli anni ’90.

Non sto quindi – sia chiaro – tratteggiando un’evoluzione lineare e indolore dell’Italia rinata, dopo il fascismo e con la Costituzione, alla politica democratica nella ricchezza delle sue ispirazioni e nel rigore delle sue regole. Non potrei tendere a idoleggiamenti del genere, essendo stato tanto partecipe, anche con responsabilità rilevanti come Presidente della Camera dei Deputati, di un momento cruciale di emersione dei lati più deboli e oscuri di una prassi pluridecennale di gestione dei rapporti politici e del potere di governo.

E’ però vero che è tipico degli anni più recenti il declinare se non il dissolversi di valori e di costumi che avevano retto a lungo, ad esempio nella vita parlamentare, in quella sfera importante della politica che è stata sempre costituita dai rapporti in Parlamento tra tutte le forze politiche che vi fossero rappresentate.

Pur essendosi registrati già in periodi precedenti casi gravi di strappi alle regole e al clima abituali nelle aule parlamentari, mai era accaduto quel che si è verificato nel biennio ormai alle nostre spalle, quando hanno fatto la loro comparsa in Parlamento metodi e atti concreti di intimidazione fisica, di minaccia, di rifiuto di ogni regola e autorità, e in sostanza tentativi sistematici ed esercizi continui di stravolgimento e impedimento dell’attività politica e legislativa di ambedue le Camere.

Di che cosa si è trattato (ed è difficile pensare che stia per cessare)? Quando si verifichi quel che abbiamo potuto tutti seguire, attraverso le cronache televisive, il colpire cioè, impunemente, il funzionamento degli istituti principali della democrazia rappresentativa, non solo si stracciano in un solo impeto una pluralità di valori tradizionali o comunque vitali, ma si configura la più grave delle patologie con cui siamo chiamati come paese civile a fare i conti : quella che penso possiamo chiamare la “patologia dell’anti-politica”.

Essa si è espressa e si esprime in molte altre forme, fuori dal Parlamento, costringendoci a fare più complessivamente il punto sul travaglio che l’Italia ha vissuto dal 1992 ad oggi. Un moto di accesa contestazione nei confronti della politica, e per essa dei partiti e delle istituzioni rappresentative, si era fatto sentire fin dalla fine degli anni ’80 : reagendo ad abusi di potere, catene di corruzione, inquinamenti nella selezione dei candidati a incarichi pubblici e in generale nei meccanismi elettorali. Di qui lo stimolo e il sostegno all’opera della magistratura, simboleggiata dall’attività del pool Mani pulite. Far pulizia nel mondo della politica e riformare regole e istituzioni indubbiamente logoratesi o risultate inadeguate, apparvero i due imperativi della stagione 1992-94.

E risultati non certo irrilevanti si registrarono in ambedue i sensi : con un rimescolamento assai vasto dei gruppi dirigenti dei partiti, addirittura con la scomparsa o dispersione di alcuni di essi, e con la riforma delle leggi elettorali per il Parlamento e per i Comuni. E se si è detto molto su quel che allora mancò, si è stati molto restii a riconoscere gli sforzi che successivamente, nel corso di anni più o meno recenti, si sono fatti : impegni concreti e ulteriori passi sulla via del rinnovamento, inteso ad esempio come superamento di posizioni di privilegio nell’ambito pubblico.

Si possono deplorare i ritardi e le riluttanze con cui le istituzioni pubbliche abbiano effettivamente preso decisioni e operato su quel terreno, a salvaguardia del prestigio della politica o al fine di superarne la crisi. D’altronde, non deve mai apparire dubbia la volontà di prevenire e colpire infiltrazioni criminali e pratiche corruttive nella vita politica e amministrativa che si riproducono attraverso i più diversi canali come in questo momento è emerso dai clamorosi accertamenti della magistratura nella stessa capitale. Eppure, il dato saliente resta quello del dilagare, ormai da non pochi anni a questa parte, di rappresentazioni distruttive del mondo della politica. Sono dilagate analisi unilaterali, tendenziose, chiuse a ogni riconoscimento di correzioni e di scelte apprezzabili, per quanto parziali o non pienamente soddisfacenti.

Di ciò si sono fatti partecipi infiniti canali di comunicazione, a cominciare da giornali tradizionalmente paludati, opinion makers lanciatisi senza scrupoli a cavalcare l’onda, per impetuosa e fangosa che si stesse facendo, e anche, per demagogia e opportunismo, soggetti politici pur provenienti dalle tradizioni del primo cinquantennio della vita repubblicana. Ma così la critica della politica e dei partiti, preziosa e feconda nel suo rigore, purché non priva di obbiettività, senso della misura, capacità di distinguere ed esprimere giudizi differenziati, è degenerata in anti-politica, cioè, lo ripeto, in patologia eversiva. E urgente si è fatta la necessità di reagirvi, denunciandone le faziosità, i luoghi comuni, le distorsioni, impegnandoci in pari tempo su scala ben più ampia non solo nelle riforme istituzionali e politiche necessarie, ma anche in un’azione volta a riavvicinare i giovani alla politica valorizzando di questa, storicamente, i periodi migliori, più trasparenti e più creativi. Un tale impegno, volto a rovesciare la tendenza alla negazione del valore della politica, e anche del ruolo insostituibile dei partiti, richiede l’apporto finora largamente mancato della cultura, dell’informazione, della scuola.

Certo, so bene che fatale è stato, per mettere in crisi soprattutto l’avvicinamento dei giovani alla politica, l’impoverimento culturale degli attori e dei punti di riferimento essenziali, cioè dei politici e dei partiti. L’ho percepito e l’ho scritto quasi 10 anni fa, nella mia autobiografia politica, scritta anche in vista del commiato da pubbliche responsabilità. Insisto sul dato dell’impoverimento culturale, inteso come smarrimento di valori, verificatosi anche per effetto di uno spegnimento delle occasioni di formazione e di approfondimento offerte nel passato dai partiti in quanto soggetti collettivi dotati di strumenti specifici e qualificati. E’ stato questo un fattore decisivo anche di impoverimento morale. Perché la moralità di chi fa politica poggia sull’adesione profonda, non superficiale, a valori e fini alla cui affermazione concorrere col pensiero e con l’azione. Altrimenti l’esercizio di funzioni politiche può franare nella routine burocratica, nel carrierismo personale, nella ricerca di soluzioni spicciole per i problemi della comunità, se non nella più miserevole compravendita di favori, nella scia di veri e propri circoli di torbido affarismo e sistematica corruzione.

Cari amici, ho cercato di suggerire qualche elemento di risposta sui caratteri della crisi che ha segnato un grave decadimento della politica nel nostro paese, contribuendo in modo decisivo a un più generale degrado dei comportamenti sociali, a una più diffusa perdita di valori che nell’Italia repubblicana erano stati condivisi e risultati operanti per decenni, sull’onda della sconfitta del fascismo e sulla base dello straordinario disegno ed impulso venuto dall’Assemblea Costituente. Dare nuova vita e capacità diffusiva a quei valori richiede oggi e nel prossimo futuro una larga mobilitazione collettiva volta a demistificare e mettere in crisi le posizioni distruttive ed eversive dell’anti-politica, e insieme, s’intende, a sollecitare un’azione sistematica di riforma delle istituzioni e delle regole che definiscono il ruolo e il profilo della politica.

E questo sforzo deve coinvolgere tutte le componenti dello schieramento politico, perché valori come quelli del rispetto delle istituzioni, della valorizzazione del merito e della cultura, della consapevolezza del bene comune, rappresentano il sostrato e la garanzia di una fruttuosa convivenza politica, entro la quale ogni forza, ogni idealità, ogni competizione per la guida del paese, possa riconoscersi e giuocare il suo ruolo.

E qui mi si lasci fare un pur brevissimo accenno a come quel che sono venuto dicendo riguardi anche l’Europa e il nostro rapporto con l’ulteriore corso del progetto di integrazione europea. Svalutazioni sommarie, posizioni liquidatorie hanno sempre di più negli ultimi tempi messo in questione anche le istituzioni, le politiche, le rappresentanze europee. Gli ingredienti dell’anti-politica in ciascuno dei nostri paesi si sono confusi con gli ingredienti dell’anti-europeismo. A ciò hanno certamente contribuito miopie e ritardi delle istituzioni comunitarie insieme a calcoli opportunistici degli Stati membri. Ma si è così finito per far cadere in ombra lo straordinario contributo al mantenimento della pace, al benessere economico e alla tutela dei diritti che l’Unione Europea ha saputo via via garantire ai suoi cittadini : in particolare alle più giovani generazioni che hanno la fortuna di crescere in un continente per la prima volta senza frontiere e barriere interne.

Signor Presidente, Signori Soci, ho inteso che si attendesse da me qualche riflessione sul tema del deperire, nonché del possibile recupero e rilancio, di valori di fondo, etici e civili, cui si conformino i comportamenti individuali e collettivi in ogni ambito della vita sociale. Valori che non dovrebbero conoscere confini di parte, e la cui condivisione dovrebbe anzi facilitare il dialogo e le opportune intese tra forze diverse su questioni di interesse generale, in nome – non retoricamente – del bene comune.

Mi sono però posto il problema se non sbagliassi, interpretando l’ambito di una conferenza sui valori, a trascurare del tutto il discorso sui valori intesi piuttosto come tratti caratterizzanti della visione propria di uno schieramento politico o politico-culturale : visione, intendo, del presente e del futuro della società. Valori che facciano quindi tutt’uno con gli ideali e i programmi di forze politiche in competizione tra loro per la conquista della maggioranza dei consensi o dell’egemonia nel confronto ideale e culturale.

A proposito della crisi dei partiti in Italia, manifestatasi a partire dai primi anni ’90, si è da qualche parte indicato nel decadere della “forza degli ideali” una delle sue matrici principali.

Ma questo discorso, che ha certamente un suo senso, non può non partire da più lontano. Dev’essere adeguatamente storicizzato e non può, a mio avviso, che partire dalla metà del Novecento. E mi ci riferirò anche in termini di esperienza personale, ricordando quel che significò il duro impatto della guerra fredda, già a cavallo tra gli anni ’40 e ’50 dello scorso secolo, su quella che si era profilata come possibile competizione virtuosa, in Italia, tra alcune grandi correnti ideali, emerse come le più ricche potenzialmente dall’esperienza dell’antifascismo e della Liberazione. Ogni disputa sugli ideali e sui valori venne drasticamente ideologizzata, poco dopo la conclusione del processo costituente che ne era uscito fortunatamente indenne. Gli ideali del socialismo da una parte, sotto l’egida della sinistra socialista e comunista, e quelli del popolarismo e solidarismo cristiano, dall’altra parte, sotto l’egida della Democrazia Cristiana, furono entrambe “sequestrati” dalla logica delle scelte di campo, della sfida tra Oriente e Occidente. Chi ne pagò maggiormente il prezzo fu la sinistra, dividendosi e cadendo in contraddizioni insuperabili.

L’area socialista della sinistra italiana si divise anche nel suo seno, né fu capace di esprimere una conseguente caratterizzazione riformista, sfidando e attraendo su quel terreno la forza comunista. Quest’ultima, benché portatrice di un’elaborazione originale, che recava l’impronta forte del pensiero di Gramsci e nonostante potesse, soprattutto, esibire una formidabile esperienza di lotta per la libertà contro il fascismo, non riuscì a liberarsi dalla matrice di partito rivoluzionario, fedele al retaggio dell’Internazionale comunista e al mito del socialismo realizzato in Unione Sovietica con la leadership di Stalin. Questo complessivo travaglio della sinistra condizionò pesantemente la politica italiana, praticamente impedendo l’affermarsi di alternative di governo alle coalizioni dominate dalla DC e di una evoluzione della politica italiana verso una operante democrazia dell’alternanza.

Cambiamenti importanti si fecero gradualmente strada – tra tensioni e dissensi – all’interno del PCI, e non è questa la sede perché io dica autobiograficamente come ci muovessimo, ma non riuscendovi, a caratterizzare fino in fondo una svolta in senso riformista e socialdemocratico del PCI, prima del crollo del muro di Berlino e con esso del sistema e dell’impero sovietico. Interessa, nell’ambito della riflessione di questa sera, piuttosto mettere in evidenza come “la forza degli ideali” che animò la straordinaria ascesa dei partiti antifascisti in Italia, risultò corrosa dai condizionamenti della guerra fredda e compromessa dall’inadeguatezza delle forze dirigenti di quei partiti a rinnovare profondamente le loro culture originarie – rappresentative, ciascuna, di un mondo di valori e di ideali – in cui si erano nonostante tutto, e per un periodo non breve, riconosciute larghe masse di militanti e di elettori. Non si fu capaci, a questo proposito, di attingere abbastanza a contributi di pensiero liberi, aperti, innovativi, venuti già nell’ultima parte del secolo scorso, da studiosi di diverse provenienze, non condizionati dagli schemi dottrinari e dalle contrapposizioni ideologiche a lungo imperanti. A quel tipo di contributi – sui grandi temi della libertà, della giustizia, delle riforme, dello sviluppo – avrebbero dovuto con ben maggiore coraggio e disponibilità intellettuale rivolgersi soprattutto quelle forze di sinistra che sbarazzandosi degli ideologismi avrebbero così potuto non impoverirsi o svuotarsi culturalmente.

E desidero citare qui ad esempio l’apporto di un grande studioso di storia delle idee, Isaiah Berlin.

In particolare, nella sua splendida orazione per il Premio Agnelli ricevuto a Torino nel 1988 – “La ricerca dell’ideale” (The Pursuit of the Ideal”) – egli mise in evidenza un punto cruciale, in un modo che risultò illuminante anche per me :

“Quello che è chiaro – sono le sue parole – è che i valori possono scontrarsi tra loro. (…) L’incompatibilità dei valori può essere tra culture diverse, tra gruppi della stessa cultura o fra te e me. (…) Può benissimo accadere che vi sia un conflitto di valori nell’animo di uno stesso individuo ; e non è detto che per questo alcuni debbano essere veri e altri falsi. (…) La giustizia, una giustizia rigorosa, è per alcuni un valore assoluto, ma non sempre è compatibile nelle vicende reali, con la pietà, con la misericordia, cioè con valori che possono essere altrettanto assoluti agli occhi di quelle stesse persone. (…) Libertà e uguaglianza sono tra gli scopi primari perseguiti dagli esseri umani per secoli ; ma una totale libertà dei potenti, dei capaci, non è compatibile col diritto che anche i deboli e i meno capaci hanno a una vita decente. (…) Senza un minimo di libertà ogni scelta è esclusa e perciò non c’è possibilità di restare umani nel senso che attribuiamo a questa parola ; ma può essere necessario mettere limiti alla libertà per fare spazio al benessere sociale (…) per non ostacolare la giustizia e l’equità.”

E in quello stesso testo di Isaiah Berlin, si trovano anche argomenti essenziali sul tema delle utopie: “Le utopie hanno il loro valore – non c’è nulla che allarghi così meravigliosamente gli orizzonti immaginativi delle potenzialità umane – ma come guide al comportamento possono rivelarsi letteralmente fatali. La mia conclusione è che l’idea stessa di una soluzione finale non è soltanto impraticabile ma è anche incoerente. (…) Infatti se veramente si crede che una tale soluzione sia possibile, è chiaro che nessun prezzo sarebbe troppo alto, pur di ottenerla : arrivare a una umanità giusta, felice, creativa e armoniosa, arrivarvi una volta per tutte, per sempre – quale costo potrebbe essere troppo alto di fronte a questo traguardo? (…) Potranno essere giustificati i sacrifici per fini a breve scadenza (…) Ma gli olocausti in nome di fini remoti, no : è solo una crudele irrisione di tutto ciò che gli uomini hanno caro, ora e in qualsiasi tempo.”

Sappiamo a quali, terribili vicende storiche del Novecento, a quali “utopie” e “soluzioni finali” Berlin si riferiva.

E se oggi è facile dire che nella sinistra, in Italia o in Europa, non si professano più utopie e ricette rivoluzionarie né si invocano politiche coercitive in loro nome, il monito di Berlin non perde la sua validità. Perché esistono – magari al di fuori di ogni etichettatura di sinistra o di destra – gruppi politici o movimenti poco propensi a comportamenti pienamente pacifici, nel perseguire confuse ipotesi di lotta per una “società altra” o per una “alternativa di sistema”. Virus di questo genere circolano ancora in certi spezzoni di sinistra estremista o pseudo-rivoluzionaria, e concorrono ad alimentare la degenerazione del ricorso alla violenza, mascherato da qualsiasi fuorviante motivazione. Esiste un rischio nel nostro paese, di focolai di violenza destabilizzante, eversiva, che non possiamo sottovalutare, evitando allo stesso tempo l’errore di assimilare a quel rischio tutte le pulsioni di malessere sociale, di senso dell’ingiustizia, di rivolta morale, di ansia di cambiamento con cui le forze politiche e di governo in Italia debbono fare seriamente i conti.

Alcuni anni fa, Paolo Rossi, al quale ho piacere di rendere rinnovato omaggio, toccò da par suo il tasto delle posizioni presenti tra gli intellettuali e nel dibattito pubblico, che concorrono a diffondere esasperazioni distruttive dei giudizi critici sulla situazione dell’Italia, dell’Europa, del mondo, spingendo nella stessa direzione agitatoria inconcludente e dannosa, o destabilizzante dell’ordine democratico, nello stesso senso che prima indicavo in rapporto a fenomeni di diversa matrice.

Nella sua operetta “Speranze”, Rossi stroncò magistralmente e con coraggio l’influenza fuorviante che esercitano i “senza speranze” : la “letteratura apocalittica, le previsioni catastrofiche dubbie o fallite, il rifiuto dell’incertezza” e così via.

E in termini egualmente impietosi, egli analizzò i portatori di “smisurate speranze”, non insensibili al “fascino delle rivoluzioni”.

Indicò infine, con grande sapienza storica, la strada maestra delle “ragionevoli speranze”, da coltivare “con perseveranza” e con “ogni sobrietà, giorno per giorno”. Mi auguro siano risultate tali quelle ricavabili dalle mie considerazioni sulla politica, tenendoci ben lontani sia dai “senza speranze” sia dai banditori di “smisurate speranze”.

In questo inaspettato prolungamento del mio mandato istituzionale ho avuto la fortuna di incontrare molti giovani all’inizio della loro esperienza parlamentare e di governo, cui sono giunti spesso senza alcun ben determinato retroterra. A ciascuno di loro ho cercato di ricordare quanto sia importante impegnarsi a fondo e con umiltà nell’attività politica, con spirito di servizio e scrupolo nell’approfondimento di merito delle principali questioni che coinvolgono la nostra comunità. Sono convinto che questa sia la strada migliore per porre i loro talenti al servizio del Parlamento e del paese, impedendo l’avvitarsi di cieche spirali di contrapposizione faziosa e talora persino violenta, e invece alimentando, appunto, “ragionevoli speranze” per il futuro dell’Italia e dell’Europa.

Ho concluso. Grazie per la pazienza e per l’attenzione. E lasciatemi cogliere questa occasione per ringraziarvi molto più in generale : per come mi avete accolto, in tutti questi anni, qui ai Lincei. E’ stato qualcosa – ne ha detto stasera qui, con bellissime, generose parole, il Presidente Maffei – che mi ha profondamente toccato, sorretto, arricchito.

Dal Sito: http://www.quirinale.it/elementi/Continua.aspx?tipo=Discorso&key=2966

Politica Criminale. Intervista ad Alfio Mastropaolo

blog meleL’Indagine della Procura di Roma, guidata dal procuratore Pignatone, sulla “Mafia Capitale”, sta scoperchiando un mondo fatto di colpevole connivenza tra politica e criminalità organizzata. Quali conseguenze avrà sulla politica italiana? Ne parliamo con il Professore Alfio Mastropaolo, Ordinario di Scienza della Politica all’Università di Torino.

Professore, l’inchiesta sulla “Mafia Capitale” della Procura di Roma ci consegna una immagine devastata e devastante della politica: una politica totalmente asservita ad una banda di criminali (con a capo due “personaggi” come l’ex terrorista fasciomafioso Carminati, e un affarista “rosso” senza scrupoli come Buzzi) che ha fatto affari, nella Capitale, ai tempi della Giunta Alemanno. Insomma l’impressione che si ha e che quest’inchiesta, per alcuni analisti, segni la fine della poco gloriosa “seconda Repubblica”. Per lei?
La politica è un’attività come un’altra per conquistare il potere. Il quale, di per sé, non ha nulla di malvagio. E uno strumento con cui si tengono assieme gli esseri umani. Può però essere usato in molti modi, perché in molti modi questi ultimi li si può tenere assieme. Il potere può essere democratico, quando è esercitato in maniera condivisa e a beneficio di molti. E può non esserlo, quando è esercitato da pochi a beneficio di pochi. Può essere esercitato a beneficio dei ceti popolari o delle classi medie. Può essere esercitato a vantaggio dei ceti privilegiati. Da lungo tempo ormai a questa parte il potere è esercitato da pochi privilegiati a beneficio di se stessi e di pochi sodali.
Le ragioni per cui questo è successo sono complesse. Quella fondamentale è che i molti – e le classi medie e popolari – sono stati emarginati dalla vita politica. Basti pensare al destino toccato ai partiti di massa e ai sindacati. Questo ha fatto sì che potentati politici e potentati economici si mescolassero.
Che i potentati economici – non c’è bisogno di far nomi – usino la politica per arricchirsi, e che i potentati politici entrino anche loro nel giro degli affari, distogliendo la politica dal suo fine specifico, che è l’interesse generale, non è la prima volta che succede. Succede da quando è stato inventato il governo rappresentativo, nel quale chi detiene risorse economiche è avvantaggiato. Avveniva già nell’Inghilterra del 700. Mettere in gioco le classi medie e popolari, che, per il tramite  delle organizzazioni di massa, rivendicavano politiche di redistribuzione della ricchezza, era invece un modo per bilanciare i potentati economici e per contrastare gli incesti tra politica e economia.
Fra l’altro, le organizzazioni di massa si coagulavano grazie all’ideologia, la quale poneva robusti vincoli morali all’azione politica e forniva a chi faceva politica anche sostanziose gratificazioni simboliche: lavoravano, i politici, per costruire un mondo nuovo. Ebbene, tutto questo è – provvisoriamente – finito. Com’è finito un altro antidoto, che era la professionalità delle pubbliche amministrazioni, anch’essa inventata molto tempo fa per contenere le degenerazioni della politica elettiva.  Quando un funzionario si sente un servitore dello Stato, e dell’interesse generale, solitamente reclama il rispetto della legalità e avversa gli abusi. Ultimamente, invece, in nome dell’efficienza e contro il “burocratismo”, le pubbliche amministrazioni sono state indebolite e disperse, con l’effetto di asservirle ai potentati affaristici, politici e economici che siano.
Il mondo di ieri non era il regno delle fate. È giocoforza che le cose umane sian imperfette. Ma per un certo tempo le cose sono state disposte in modo da opporre resistenza al degrado e da favorire, per strappi, dei miglioramenti. Nella situazione attuale, che è dominata dai principi del profitto, dell’arricchimento, dell’individualismo appropriativo, in cui per l’appunto la politica si è ridotta a mero esercizio del potere, il decadimento si è rivelato inevitabile. Tanto più che i delicatissimi congegni della democrazia sono stati maneggiati – da tanti: società civile inclusa – con sciagurata superficialità.
La crisi economica, il declino del sistema produttivo, il disseccamento dell’apparato industriale, il collasso dei consumi, hanno fatto il resto. Se vuoi accumulare potere e ricchezza immischiarsi con la politica è assai più promettente – e assai meno faticoso – per gli stessi imprenditori, o per gli aspiranti tali, che non fare innovazione e  magari creare posti di lavoro.
E dunque, per concludere, guai a considerare la politica l’arto infetto di un corpo sano. Non ne usciremmo mai. È l’arto infetto di un corpo malato.

“Nel mondo di mezzo” (questa è la definizione di Carminati) la corruzione è il motore che fa andare avanti il “sistema” del “mondo di sopra”. Insomma c’è una putrefazione morale una adorazione totale alla “dea tangente” (così la chiama Papa Francesco). La corruzione ha una sua dottrina e sua megalomania: tutto si compra. Come è possibile contrastare questa cultura? Dov’è sta la radice di tutto?

Sicuramente un discorso pubblico più ricettivo ai temi della moralità pubblica, della solidarietà, della democrazia come regime che tutela la grande massa dei cittadini, per quanto non risolutivo, sarebbe di grande aiuto. Solo che Papa Francesco è davvero vox clamans in deserto. Abbiamo un presidente del consiglio che finanzia il suo partito, erede dei grandi partiti popolari che hanno costruito la democrazia italiana, a forza di cene coi  milionari e che mostra il più sdegnoso disprezzo per il popolo bue che l’ha votato, illudendosi che lui avrebbe promosso un effettivo  rinnovamento. Che questo lo conduca al disastro elettorale e politico il presidente del consiglio lo sa bene. Solo che, invece di cambiar strada, irride all’astensione, che è un avvertimento degli elettori, e punta a riscrivere la legislazione elettorale in modo tale da immunizzarsi da un eventuale disastro.

Nella “seconda repubblica” vince il leaderismo (sia di destra che di sinistra), e tutto questo viene definito come “modernizzazione” della politica. Le “selezioni” delle classi dirigenti avvengono in luoghi che sono lontani dai problemi quotidiani della gente. Non  trova che anche questo leaderismo sia un fattore di degenerazione della politica?

Il leaderismo non è una degenerazione. Anch’esso in democrazia è un rischio endemico. Per contrastarlo serve una concorrenza politica reale. Se ci sono forze politiche inclini al leaderismo, e intellettuali “di servizio” che lo legittimano, l’antidoto sono forze politiche che valorizzino il coinvolgimento popolare. Soffocare la concorrenza riducendola a competizione tra due leader avvelena la lotta politica.  Quel che è successo, non solo in Italia, è che le forze politiche si sono messe tutte d’accordo nell’assecondare il leaderismo e nello strozzare la concorrenza. Quando la concorrenza è strozzata tutto però diventa possibile. Come, per esempio, la comparsa sulla destra dello schieramento politico di forze politiche eversive e antidemocratiche, che molto approssimativamente denominiamo populiste, le quali attraggono il malcontento della parte moderata dei ceti medi e popolari e magari lo orientano verso il razzismo.
C’è qualche segno che sviluppi simmetrici siano possibili anche a sinistra: Tsipras e Podemos vanno interpretati in questo modo. Non come populismo di sinistra, bensì come forme radicali di protesta contro l’asservimento della sinistra convenzionale all’affarismo. La componente democratica di queste ultime formazioni è piuttosto evidente: rivendicano politiche a beneficio dei più e non dei pochi. Il problema è che i potentati affaristici e i loro sodali politici potrebbero, come hanno già fatto in passato, favorire l’eversione di destra pur di contrastare la protesta di sinistra.

Lei è uno studioso dei populismi. Quanto populismo c’è nella politica italiana?

Io non userei la parola populismo, che appunto vuol dire ben poco. Nella politica italiana c’è invece pochissimo popolo (se non nelle invettive di chi promuove leaderismo e razzismo) e tantissimo livore nei confronti del mondo politico. È paradossale che questo livore sia coltivato dal mondo politico stesso, oltre che dai media (come ben sappiamo per lo più controllati da potenti gruppi imprenditoriali). Ma è da un pezzo che i politici pensano di fare economia di discorsi più seri suscitando livore antipolitico. È facile prendersela con Roma ladrona o col teatrino della politica, oppure proporre la rottamazione di un po’ di politici di lungo corso. Ben più difficile è elaborare e mettere in atto impegnativi – e costosi – programmi per rilanciare il nostro sistema produttivo, per potenziare le pubbliche amministrazioni, per rinnovare la scuola, per promuovere l’occupazione. E via di seguito.

Ultima domanda: Davvero il futuro “bipolarismo” italiano sarà tra Renzi e Salvini?

Ultimamente non siamo un paese granché fortunato. Ma la fortuna, fortunatamente, è cieca. Speriamo che stavolta abbia pietà di noi.

Cattolici italiani e politica: quali nuove sfide nell’epoca di Papa Francesco? Intervista a Domenico Rosati

Con Papa Francesco gli antichi schemi del cattolicesimo politico italiano sono spiazzati. Quali nuovi paradigmi per i cattolici italiani impegnati in politica? Ne parliamo con il Senatore Domenico Rosati, ex Presidente Nazionale delle Acli, autore del recente saggio, appena uscito per la casa editrice Dehoniane di Bologna, “I cattolici e la politica. Potere e servizio nello spazio pubblico”. “Senza la sfida di Francesco”, ammette Rosati, “il mio libro non sarebbe mai stato scritto: sarei rimasto nel limbo della rassegnazione“. Proprio nell’insegnamento di Francesco -da prendere sul serio- c’è invece la spinta a esplorare inedite vie di presenza e responsabilità dei cittadini cristiani. Non più con le paure da cittadella assediata ma con la fiducia di una nuova profezia.

 

Senatore Rosati, Lei è un testimone autorevole delle vicende del cattolicesimo democratico italiano, nel suo ultimo libro ripercorre la storia dei “paradigmi” con cui i cattolici italiani ci sono confrontati con l’azione: quella della “mediazione” e quella della “presenza”. Ora con Papa Francesco questi schemi saltano. Che tipo di paradigma sta creando la predicazione e la testimonianza di Papa Bergoglio nei confronti della politica?

Quello che salta davvero con Papa Francesco è il paradigma della chiesa come “soggetto politico” che in varia misura ha accompagnato le diverse stagioni dell’esperienza cattolica in Italia. Voglio dire che la chiesa ha sempre immaginato se stessa come detentrice di una sorta di rappresentanza politica diretta o indiretta sia quando, dopo Porta Pia,  predicava il non expedit, l’astensione dal voto, sia quando patrocinava l’alleanza con i moderati giolittiani (patto Gentiloni), sia quando autorizzava (e condizionava) l’esperimento del partito Popolare di Don Sturzo, sia quando realizzava il compromesso concordatario con il fascismo, sia infine quando affidava alla  Democrazia Cristiana il compito di dare sfigura politica, nelle forme delle conquiste democratiche, alle elaborazioni della sociologia cattolica. Il Concilio, per la verità, aveva già rotto questi schemi, che però  non hanno mai abbandonato il campo anche nelle  fasi  successive.

 

Guardando alla storia degli ultimi vent’anni emergono debolezze e gravi limiti del “ruinismo”, ovvero il protagonismo pesante del Cardinale Ruini  sul cattolicesimo politico italiano. La gestione  centralizzata della Cei, la proposta sui “valori non  negoziabili”, il velleitarismo del “Progetto culturale” , hanno fatto perdere il protagonismo creativo dei laici cattolici in politica.  Quanto è costata ai laici cattolici la logica “clericale” in politica? L’impressione che si ha è che si faccia fatica a uscire dall’incubo notturno  del ruinismo… Insomma non c’è una vera autocritica del passato, sembra che tutto scorra…Anzi in alcuni settori cattolici, anche della gerarchia, c’è resistenza al nuovo corso di Francesco. E’ così?

Il libro non è reticente sulle responsabilità del “ruinismo” e sulle conseguenze che causa in termini di clericalizzazione complessiva del comportamento ecclesiale. Ma, attenzione, il clericalismo è sempre un “peccato a due mani”, come ha detto papa Bergoglio: anzi io ritengo che mentre non stupisce un chierico che si dimostra…clericale, fa impressione un fedele laico che parla soltanto dopo che ha parlato il vescovo. In questo senso ho voluto offrire, ragionando sui fatti accaduti e sulla loro sequenza, una traccia per una riflessione critica necessaria per tutti, vescovi e fedeli. Senza questo passaggio in chiaro lo stesso applauso per le “novità” bergogliane è esposto ai rischi del  conformismo clericale.

Ora attraverso quali percorsi si può ricostruire un protagonismo dei laici cattolici italiani?  

Il riferimento obbligato è il Concilio e,  con esso, l’autonomia e la responsabilità dei laici nelle cose del mondo. Per riscoprirlo bisogna però affrancarsi dall’ossessione che sin qui ha dominato la gerarchia cattolica in   Italia: quella di un’idea di chiesa che ha bisogno, per esistere, di un potere politico vicino, possibilmente amico, comunque funzionale.  E’ il  grande assillo dalla perdita del potere temporale in poi: il timore cioè di rimanere priva di una protezione politica e spinta, perciò, cercarne una sul mercato, con conseguenze traumatiche ogni volta che l’”agenzia” prescelta  non era   più in grado di offrire garanzie. Il nuovo cammino può cominciare solo da una consapevolezza di questo  genere.

Lei, nel suo libro, parla della “vecchia miniera” dove si possono estrarre ancora materiali preziosi per il presente. Quali? 

Io maneggio gli utensili di cui dispongo, che sono, per ragioni anagrafiche, quelli del mio tempo. Ma ultimamente ho avuto la sorpresa di scoprire che una delle più recenti elaborazioni giovanili di area cattolica, la “carta del coraggio” del mondo scaut, cerca un’idea di sintesi che ripercorre in modo originale  itinerari già seguiti in passato. D’altra parte vi sono stati filoni di scavo appena aperti e subito richiusi a causa di quella che Giuseppe Lazzati chiamava “l’inutile paura del nuovo”. Penso al modo con cui in Italia si sono liquidate le ricerche e le esperienze attorno alla gestione del pluralismo delle culture e delle scelte politiche dei credenti. Fino al punto da…censurare i testi che ne parlavano.

Invece, a partire dalla “vecchia miniera” , quali sono i nuovi punti fermi per un rinnovato, se ha ancora un senso, “cattolicesimo politico” italiano?

Eviterei di parlare di punti fermi, una formula che richiama una pratica disciplinare (la gerarchia comanda, i laici obbediscono) che andrebbe anche concettualmente superata. Indicherei invece, come esempi, una scelta di contenuto ed una di metodo. Il contenuto da mettere a fuoco, in compagnia di Francesco, è quello della “economia dello scarto”, che comporta l’abbandono di quel di più di benevolenza in favore delle virtù del capitalismo post-comunista che ha caratterizzato certe letture della dottrina, a scapito della radicalità evangelica.Il metodo è quello del dibattito a servizio di una esplorazione libera del terreno come condizione preliminare di ogni enunciato precettivo. Si chiama ance lettura dei segni dei tempi e comporta, se autentica, il dispiegarsi di un’opinione pubblica nella chiesa con il protagonismo dei laici come esperti delle questioni concrete, dal lavoro alla famiglia; e rimanda pure al metodo induttivo che va in crisi quando la dottrina avvolge e e vela la Parola.

Ultima domanda: Qualche giorno fa’ il Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, rispondendo ad un editoriale di “Repubblica” che lo invitava a chiarire la sua visione di società, affermava che nel suo Pantheon c’è, tra gli altri, Giorgio La Pira. Non vedo, in Renzi, un riverbero di La Pira…Lei che ne pensa?

Nell’occasione ho notato un certo affollamento. Ma resto fiducioso. Perché il richiamo a figure come La Pira, se c’è ed è autentico, lascia davvero poche scappatoie. Certe icone, se appena escono dalle teche dei Pantheon, mettono in crisi chiunque le utilizzi in modo strumentale e impongono una misura di verità da cui è impossibile svicolare. Semmai varrebbe la pena di non lasciare La Pira in solitudine. Vi sono altre figure che, nel tempo, hanno subito la condanna dell’oblio per essersi trovate in contrasto con le linee politico-pastorali dei tempi in cui hanno vissuto.  Chi si ricorda ad esempio di Livio Labor? Rileggerne la lezione sarebbe un esercizio istruttivo nel quale potrebbero misurarsi  con profitto associazioni e  movimenti. Non per rimpiangere ma per costruire.  imagesrosati-2

L’export armato italiano ai regimi dell’ex URSS. Intervista a Giorgio Beretta

Franco Gussalli Beretta (quello a destra ) col dittatore kazako Narzabayev

Franco Gussalli Beretta (quello a destra ) col dittatore kazako Narzabayev

Il recente conflitto nell’Ucraina orientale, le sanzioni dell’Ue verso la Russia e le costanti tensioni nel Caucaso hanno riportato all’attenzione la situazione nei paesi della ex Unione Sovietica. Ai quali l’Italia, nel silenzio generale, sta esportando sempre più armi e sistemi militari. Ne parliamo con Giorgio Beretta, analista di OPAL (Osservatorio permanente sulle armi leggere e politiche di sicurezza e difesa) di Brescia, membro della Rete italiana per il disarmo e che da anni scrivesu questi temi per il portale Unimondo.  

 

Facciamo innanzitutto una panoramica: quali sono gli Stati asiatici dell’ex URSS ai quali l’Italia esporta armi e sistemi militari? Quando sono cominciate queste esportazioni?

Sono diversi i paesi asiatici dell’ex URSS ai quali l’Italia sta vendendo armamenti. Si è cominciato nel 2010 con il Turkmenistan verso il quale in pochi anni è stata autorizzata l’esportazione di un vero e proprio arsenale militare che nell’insieme ammonta a quasi 370 milioni di euro: dai fucili d’assalto e pistole semiautomatiche della Beretta, agli elicotteri militari dell’AgustaWestland, dalle mitragliere della Rheinmetall ai cannoni navali della Oto Melara al munizionamento pesante della M.E.S, dai droni Falco della SelexES ai missili Marte della MBDA Italia (si veda elenco completo in fondo all’articolo). Esportazioni autorizzate inizialmente dal governo Berlusconi che sono state incrementate dal governo Monti e sono proseguite durante il governo Letta e spesso senza darne adeguata comunicazione – come invece sarebbe dovuto per legge – al Parlamento: il Ministero degli Esteri in questi anni non sempre ha indicato nella Relazione governativa ufficiale i sistemi militari esportati in Turkmenistan.

 

Tra l’altro la settimana scorsa il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, si è recato proprio in Turkmenistan. Vi sono stati nuovi contratti di tipo militare?

Ho chiesto personalmente ad alcuni giornalisti di interpellare il ministero degli Esteri, dello Sviluppo Economico, l’ICE (l’Agenzia governativa che ha il compito di promuovere i rapporti economici e commerciali italiani con l’estero – ndr) e Finmeccanica per sapere se qualcuna delle aziende militari del nostro paese era al seguito del premier Renzi: non mi risulta abbiano ricevuto risposta. A parte l’accordo siglato dall’Eni per la gestione e l’uso di idrocarburi in Turkmenistan, poco altro è trapelato dalle agenzie di stampa. Leggendo i vari resoconti ho trovato strano che nessun giornalista fosse al corrente che l’Italia non solo è uno dei principali partner commerciali ma anche il maggiore esportatore dell’Unione europea di sistemi militari al Turkmenistan: a fronte degli oltre 350 milioni di euro di autorizzazioni rilasciate dall’Italia nell’ultimo quinquennio, i 22 milioni di euro di esportazioni dell’Austria e i 19 milioni di euro dei Paesi Bassi sono davvero poca cosa. E ho trovato alquanto curioso, per usare un eufemismo, che nessun giornalista abbia posto l’attenzione sulle violazioni delle libertà messe in atto dal regime del presidente turkmeno Berdimuhammedov: il “Democracy Index” dell’Economist Intelligence Unit annovera da diversi anni il Turkmenistan tra i regimi più autoritari del mondo – peggio di Iran, Myanmar e Zimbabwe tanto per capirci – e lo stesso Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, oltre alle organizzazioni umanitarie, denunciano da tempo le reiterate violazioni dei diritti umani che avvengono in quel paese.

 

Torniamo alle esportazioni di armi italiane verso gli Stati dell’ex URSS. Quali sono gli altri paesi?

Oltre al Turkmenistan, l’Italia ha iniziato ad esportare armi anche al Kazakistan: si tratta per il momento solo i fucili d’assalto ARX-160 della Beretta dotati di lanciagranate. Armi che il vicepresidente della Beretta, Franco Gussalli Beretta, ha presentato personalmente al presidente kazazo Nazarbayev, alla mostra internazionale di armi e attrezzature militari Kadex 2012. Un’azienda bresciana ha inoltre ottenuto da qualche zelante funzionario la licenza per esportare 1.950 pistole semiautomatiche per un valore di oltre 1 milione di euro in Bielorussia probabilmente destinate alle forze di polizia proprio pochi giorni prima che l’Unione Europea decretasse il 20 giugno del 2011 un embargo totale di armi a causa delle violazioni dei diritti umani e della repressione messa in atto dal regime del presidente Lukashenko. Molto più consistenti sono le autorizzazioni all’esportazione di sistemi militari verso la Russia: superano infatti i 100 milioni di euro e riguardano soprattutto veicoli blindati Lince della Iveco. Il paradosso è che questi blindati – che sono stati motivo di un lungo tira e molla tra Roma e Mosca – a causa del recente blocco delle forniture di armi dell’UE verso la Russia si era pensato di inviarli in Ucraina: il ministro della Difesa ha poi smentito, ma l’annuncio era stato fatto e la smentita è arrivata, non a caso, a seguito anche del comunicato di Rete Disarmo che chiedeva di rinunciare a queste forniture. Ma proprio con l’Ucraina, l’Italia ha un accordo di cooperazione tecnico-militare che interessa diverse aziende del gruppo Finmeccanica. Infine lo scorso anno sono iniziate le esportazioni di armi anche all’Azerbaijan: finora si tratta solo di radar avionici di sorveglianza marittima della Selex ES, ma è il primo passo per prossimi contratti.

 

Tutti questi paesi sono ricchi di materie prime, dal gas al petrolio, che per il sistema produttivo italiano sono necessari. Come conciliare questa esigenza con le restrizioni alla vendita di armi?

In linea generale, se è vero che tutti i tipi di rapporti finanziari e commerciali in qualche modo sostengono un regime al governo in un paese – e il caso delle recenti sanzioni dell’Ue verso Russia nel settore finanziario ed energetico oltre a quello militare sta a dimostrarlo – è altrettanto vero che i rapporti commerciali tra paesi hanno generalmente anche un impatto positivo sul tenore di vita delle popolazioni: stabilire rapporti commerciali con un paese ricco di materie prime che ha l’esigenza di tecnologie sofisticate e di vendere i suoi prodotti è una pratica che risponde alla cosiddette “leggi del mercato” e non significa di per sé accettarne le limitazioni alle libertà democratiche. Diverso è invece il discorso sulle vendite di armi e sistemi militari: fornendo direttamente strumenti che possono essere usati da un regime per la repressione interna o per l’aggressione di altri paesi significa non solo avvallare le politiche di un regime, ma fornirlo degli strumenti mezzi per farlo. Non a caso la Posizione Comune dell’Ue del 2008 – come già in precedenza il Codice di Condotta del 1998 – riporta otto criteri restrittivi proprio per “impedire l’esportazione di tecnologie e attrezzature militari che possano essere utilizzate per la repressione interna o l’aggressione internazionale o contribuire all’instabilità regionale”.

 

Se ci sono queste limitazioni perché l’Italia e i paesi dell’Ue esportano armi ai quei regimi che prima ci ha elencato? Stanno violando qualche legge? E se è così, perché nessuno dice niente?

Come ho detto il Consiglio dell’Unione europea ha adottato nel 2008 una Posizione comune (la 2008/944/PESC) che però non è una direttiva: mentre una direttiva europea ha il valore di una legge, la posizione comune è più di un mero impegno, ma non ha carattere vincolante e, soprattutto, non prevede sanzioni nel caso di violazione. Gli  Stati dell’Ue hanno in qualche modo recepito la Posizione Comune nelle proprie leggi, ma il margine di discrezionalità dei governi è ancora troppo ampio. La stessa legge italiana (la legge n. 185 del 1990 che è stata modificata nel 2012 anche per recepire la normativa Ue) prevede ad esempio che sia vietata la vendita di armi e sistemi militari a paesi “i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani, accertate dai competenti organi delle Nazioni Unite, dell’UE o del Consiglio d’Europa” (art. 1, c.6): ma raramente, se non vi erano  condanne o decisioni formali da parte dei suddetti organi, i governi italiani hanno vietato esportazioni di armi a regimi responsabili di violazioni dei diritti umani.

 

Non possiamo però nasconderci che le esportazioni di sistemi militari sono importanti anche per le nostre industrie, permettono ricerca e sviluppo, creano lavoro diretto e indiretto…

E qui tocchiamo il vero paradosso. Innanzitutto va detto con chiarezza che non è lo scopo principale delle industrie militari quello di creare occupazione: un’industria di questo settore si giustifica solo per le esigenze della difesa, non certo per i ritorni occupazionali. I quali, tra l’altro – come dimostrano ormai diversi e autorevoli studi (qui una sintesi in italiano) – a parità di investimenti sono molto inferiori nell’industria militare rispetto al settore delle energie rinnovabili o a quello educativo, di cui tra l’altro l’Italia avrebbe particolare necessità. Non va inoltre dimenticato che proprio l’industria militare è tra quelle in cui si registrano i maggiori sprechi: sfido chiunque a indicarmi un solo progetto militare, non dico in Italia che è un caso patologico, che sia costato quanto era stato previsto. Ma il punto è un altro ed è quello più grave e spesso dimenticato: il compito della cosiddetta “industria della difesa”, nazionale ed europea, sarebbe quello di produrre strumenti per la nostra difesa e sicurezza. Da alcuni anni, invece, le politiche esportative di sistemi militari dei paesi dell’Ue stanno rispondendo sempre più a criteri e logiche di tipo economico ed industriale rispetto alle esigenze della sicurezza: alla tradizionale necessità di ridurre il divario nella bilancia dei pagamenti con i paesi produttori di petrolio, si è aggiunta l’urgenza per diversi paesi europei, tra cui l’Italia, di trovare nuovi acquirenti di sistemi militari per cercare di sostenere le proprie industrie del settore a fronte di una minor disponibilità di fondi per la Difesa. La crisi economica sta accentuando questa tendenza tanto che, come nota un recente documento dell’Ue, tutte le maggiori industrie militari con sede nei paesi europei oggi si focalizzano sui mercati d’esportazione e i ministeri della Difesa si stanno trasformando in espliciti promotori delle esportazioni di sistemi militari. Con gravi rischi, come si è visto nel caso della Libia e della Siria, per la nostra stessa difesa e sicurezza.

 

Un’ultima domanda: di fronte a questa situazione realisticamente voi della Rete Disarmo cosa proponete?

Credo che tre siano le priorità: innanzitutto che venga rafforzata la legislazione europea e le legislazioni nazionali in modo da impedire effettivamente che le armi vengano esportate a regimi autoritari, dove si verificano gravi violazioni dei diritti umani, in zone di instabilità, ecc. A questo scopo andrebbe previsto un comitato europeo indipendente che predisponga una relazione dettagliata e vincolante da inviare agli organi nazionali che rilasciano le autorizzazioni all’esportazione. In secondo luogo è necessario che i parlamenti nazionali e il parlamento europeo esamino con attenzione le relazioni governative ed esprimano un parere sulle esportazioni di armamenti dei propri governi: l’Italia in questo è molto carente perché – come già dicevo in una precedente intervista – è da sei anni che la Relazione governativa sulle esportazioni di sistemi militari del nostro paese non viene esaminata nelle competenti commissioni della Camera e del Senato. Ma c’è un punto, a mio parere, ancora più importante e decisivo: è venuto il momento di ripensare a livello europeo il ruolo, la funzione e la stessa sostenibilità delle industrie militari nazionali. Oggi non esiste un’impostazione strategica comune, né tra i governi, né tra le aziende europee del settore della difesa. Se l’Europa vuole una solida industria della difesa, capace di garantire la nostra sicurezza, è necessario un cambiamento radicale di mentalità e di politiche. Non è più accettabile e men che meno sostenibile che le industrie nazionali dei paesi dell’Ue, incoraggiate dai rispettivi governi, continuino a competere tra loro per accaparrarsi nuovi acquirenti soprattutto nelle zone ricche di risorse energetiche e materie prime che, come sappiamo, sono anche le zone di maggior tensione del mondo. Solo una visione e una strategia comune europea può impedire che gli attuali approcci obsoleti contribuiscano ulteriormente alla dispersione di risorse e di fondi e può favorire la creazione equilibrata di posti di lavoro ed evitare il rischio di dispersione verso i paesi terzi dei ricercatori e dei quadri altamente specializzati. Anche nel campo della difesa c’è quindi bisogno non solo di più Europa, ma di una Europa lungimirante e soprattutto sostenibile.

 

Esportazioni di sistemi militari autorizzate dall’Italia per il Turkmenistan

–   Due elicotteri AgustaWestland EH101 (circa 50,5 milioni di euro);

–   Cinque elicotteri AgustaWestland AW139 “per impiego militare” (64 milioni di euro);

–   1.680 fucili d’assalto Beretta ARX-160 con oltre 2 milioni di munizioni, 150 lanciagranate Beretta GLX-160, 120 pistole semiautomatiche Beretta PX4 Storm con dispositivi di soppressione del rumore (valore totale di quasi 3,9 milioni di euro);

–   Dodici mitragliere C/A da 25 mm. tipo KBA con accessori della Rheinmetall Italia (circa 2,4 milioni di euro);

–   Otto complessi del cannone binato navale compatto 40/70 compatti (28 milioni di euro);

–   10mila munizioni pesanti della M.E.S. tra cui 2.000 colpo completo cal. 40/70 HE-PFFC con spoletta di prossimità FB40; 2.000 colpo completo cal. 40/70 HE-PFF con spoletta di prossimità FB40; 2.000 colpo completo cal. 40/70 HEI-T con spoletta di percussione; 2.000 colpo completo cal. 40/70 TPT con finta spoletta e 4.000 colpo completo cal. 40/70 TP con finta spoletta (valore complessivo oltre 4,4 milioni di euro);

–  Tre droni teleguidati Falco XN (extra Nato) e assistenza tecnica della Selex Galileo, oggi Selex ES (valore 8,7 milioni di euro);

–   Parti di ricambio per 25 sistemi missilistici Marte della MBDA Italia (162 milioni di euro).

NdR

La foto pubblicata è tratta da:http://mto.kz/index.php?option=com_content&view=article&id=801:-kadex-2012&catid=1:latest-news&Itemid=50