“I musulmani europei sono la chiave per battere gli islamisti”. Intervista a Wael Farouq

 

 

I recenti attacchi di matrice jihadista, a Nizza e Vienna, stanno riportando al centro, nell’opinione pubblica europea, il ruolo dell’Islam in Europa. Ne parliamo, in questa intervista, con un importante intellettuale di fede musulmana: il professor Wael Farouq.. Wael Farouq è professore di Lingua e  Cultura Araba all’Università Cattolica di Milano.

 

 

 

 

Professor Wael Farouq, nel giro di pochissimi giorni, con gli attentati di Nizza e Vienna, l’occidente è tornato ad essere un bersaglio dei terroristi jihadisti. Sappiamo che il terrorista di Vienna era un “soldato” dell’Isis (cittadino austriaco dalla doppia cittadinanza austriaca e macedone). Lei pensa che ci troviamo ad una “nuova ondata” di attacchi terroristici da parte del sedicente” stato islamico”? Pensa che la jihad stia approfittando della pandemia per destabilizzare ancora di più l’occidente?

 Non si tratta di una cosa nuova né di una sorpresa, ma di un fenomeno atteso da quando l’ISIS è stata sconfitta in Siria e Iraq. Delle migliaia di jihadisti che erano concentrati in questi due paesi si sono perse le tracce, non si sa dove sono e come sono spariti. Da anni, inoltre, il terrorismo ha adottato la strategia dei lupi solitari. Un terzo fattore, poi, sono paesi come la Turchia che si oppongono alle politiche europee con una propaganda di natura religiosa. Certo, Erdogan non invita nessuno al jihad, ma affermare che la violenza jihadista sia la naturale conseguenza di queste politiche può avere lo stesso effetto di questo invito.

 

Sappiamo che la propaganda jihadista, ma è anche quella di Erdogan, che si alimenta nel disagio economico e sociale in cui vivono alcune comunità musulmane in Europa. Le chiedo qual è la situazione delle comunità musulmane in Europa? La comunità musulmana è davvero ai margini in Europa?

 Non c’è metropoli europea, oggi, che non abbia una “società parallela” nella quale vivono le minoranze di immigrati fino alla quarta generazione, senza un incontro vero con l’altro. I tentativi di integrare gli immigrati nelle loro nuove società non hanno fatto altro che rendere le barriere culturali e religiose “invisibili” nello spazio pubblico. Di conseguenza, si è radicato un certo concetto di pluralismo che ha trasformato lo spazio pubblico da melting pot, dove si incontrano e interagiscono positivamente le diverse componenti culturali della società europea contemporanea, in “confini” che separano queste componenti fra loro.

Il mio non è certo un appello affinché l’Europa rinunci a ciò che più caratterizza la sua cultura oggi, cioè il pluralismo. Al contrario, è un appello a proteggere il pluralismo da ciò che ha iniziato ad assumere le sembianze del “comunitarismo”, cioè il ripiegarsi di una comunità culturale su se stessa, attraverso la creazione di confini invisibili che la separano dalla società, della quale occupa uno spazio senza tuttavia condividerne il significato, l’identità e il futuro.

Ci sono milioni di musulmani europei che sono a tutti gli effetti occidentali. Ma vivono in ghetti, sono invisibili. Questa è una falsa integrazione. Un’Europa fedele ai suoi principi dovrebbe rendere visibili questi suoi cittadini, nella società civile, nell’università, nei partiti politici, nel governo. Integrazione significa visibilità.

 

 

Come può rispondere l’unione europea a questa propaganda?

 Le faccio un esempio. Nel 1978, allo scoppio della rivoluzione iraniana, il celebre filosofo Michel Foucault era a Teheran come inviato del Corriere della sera. Descrisse il conflitto in corso dicendo che “La situazione in Iran si può comprendere come una grande tenzone fra due personaggi dal blasone tradizionale, il re e il ‘santo’, il sovrano in armi e il povero esule, il tiranno che combatte un uomo inerme acclamato dal popolo.”

Foucault invitava a stare tranquilli e faceva propaganda a Khomeini per un “governo islamista”. Diceva che gli uomini di religione non erano soltanto democratici, ma anche portatori di una visione politica innovativa: “Bisogna chiarire una cosa, con l’espressione ‘governo islamico’ nessuno, in Iran, intende un regime politico, nel quale gli uomini di religione detengono il potere e il governo.”

Foucault cercava anche di rassicurare i lettori francesi riguardo ai diritti della donna e delle minoranze religiose. Le sue fonti, vicine agli islamisti, gli assicuravano che: “Le libertà continueranno a essere rispettate, fintanto che il loro esercizio non nuocerà agli altri. Le minoranze godranno di tutela e libertà, e potranno vivere come desiderano, a condizione che non nuocciano alla maggioranza. Vi sarà uguaglianza fra uomini e donne, ma anche diversità, in considerazione delle differenze naturali fra loro.”

Foucault criticava i timori europei riguardo all’ “islam”, confondendolo con l’islamismo o islam politico, e contribuendo così a difendere l’oppressione operata da Khomeini nei confronti di milioni di donne iraniane, con la deprivazione dei loro diritti fondamentali.

Ecco, purtroppo l’Europa ha sempre trattato i movimenti islamisti come liberali, mentre in realtà non lo sono. L’Europa, allora, dovrebbe semplicemente restare fedele ai suoi valori e non sostenere tali gruppi e movimenti

 


Veniamo a Erdogan. Sappiamo quanto sia pericoloso il suo nazionalismo “religioso”. Uno dei gesti più eclatanti è stato quello di ritrasformare “Santa Sofia” in una moschea. Un gesto arrogante. Lei ha definito questo gesto come di conquista politica che non c’entra nulla con la fede. Perché?  Cosa pensano i teologi musulmani dei comportamenti di Erdogan? Perché non si ribellano a questa strumentalizzazione della fede?

Non è vero, i teologi musulmani si sono ribellati. Le più importanti cariche islamiche in Arabia Saudita – dove si trovano i luoghi santi dell’islam – e in Egitto – patria di al-Azhar, la più alta autorità sunnita – hanno subito dichiarato che la decisione di trasformare Santa Sofia in moschea è contraria agli insegnamenti dell’islam, perché il Corano non fa differenze riguardo alla necessità di tutelare sinagoghe, chiese e moschee (Co 22, 40). È anche contraria alla condotta tenuta dal Profeta con le chiese di Najran, nello Yemen, a quella del suo Compagno Amr ibn al-As con le chiese e i cristiani egiziani, e a quella del Compagno e Califfo Umar ibn al-Khattab, che strinse un patto con i cristiani di Gerusalemme, nel quale era scritto: “Nel nome di Dio, il Clemente, il Misericordioso… Questa è la sicurezza (aman) che il servo di Dio e Principe dei Credenti Umar ha garantito alla gente di Gerusalemme: ha garantito la sicurezza per loro stessi, le loro ricchezze, le loro chiese e le loro croci […] Le loro chiese non vanno usate come abitazioni, né distrutte, né va loro tolto alcunché […]. Non vanno costretti a cambiare religione, non deve esser fatto loro alcun torto”. Il Califfo si rifiutò di pregare nella Basilica del Santo Sepolcro per paura che dopo di lui i musulmani la distruggessero e la trasformassero in moschea. I giuristi dell’islam politico rifiutano questa fatwa, ma non ribattono con prove valide dal Corano o dalla Sunna, bensì con opinioni di giuristi ottomani che hanno dichiarato lecito per i sultani uccidere i loro fratelli per evitare rivolte.

 


Qual è l’errore più grande dell’Europa nei confronti dell’Islam?

Ho già risposto, credo, a questa domanda. L’errore più grande è stato confondere l’islam con l’islam politico. I musulmani sono le persone di fede islamica. Gli islamisti sono quelli che trasformano la religione in ideologia e sono pronti a morire e uccidere per renderla dominante. Una persona che prega, digiuna e rispetta la propria tradizione religiosa è un musulmano, ma una persona che considera la propria tradizione religiosa come un progetto politico per purificare le altre tradizioni (che ritiene corrotte) è un islamista. Il musulmano crede che Dio lo protegga, l’islamista crede che sia lui a proteggere Dio. Il musulmano si preoccupa della propria fede, l’islamista si preoccupa della fede degli altri. Il musulmano, quando non ama qualcosa, non lo fa; l’islamista, quando non ama qualcosa, proibisce agli altri di farlo. Il musulmano testimonia la propria fede di fronte agli altri, l’islamista giudica la fede degli altri.

L’islam politico, in sostanza, non è una scelta che si fa per se stessi, ma una scelta che si cerca in tutti i modi di imporre agli altri.



Il tema della satira riguarda tutti i sistemi di potere sia politico che religioso. È un segno di libertà nei confronti di qualsiasi potere. La offendono le vignette di Charlie Hebdo?

No, non mi offendono. Ci sono molti versetti coranici che insegnano ai musulmani come reagire alla derisione di Dio, dello stesso Corano e dei profeti. Tutti quanti chiedono di rispondere al male con il bene. Non c’è un solo versetto che preveda una punizione per blasfemia.

“Egli vi ha rivelato nel libro che quando sentirete rinnegare i segni di Dio oppure li sentirete deridere, non dovrete restare con coloro che lo fanno, finché non cambieranno discorso” (Sura 4:140).

“Quando vedi la gente che discute dei Nostri segni, dà loro le spalle finché discuteranno d’altro. Ma Satana te lo farà dimenticare e comunque, quando lo ricorderai, non trattenerti con gli ingiusti” (Sura 6:68)

“Il bene e il male non sono uguali; tu respingi il male con un bene maggiore, e il nemico sarà per te un amico sincero” (Sura 41:34)

“I servi del Clemente sono quelli che camminano sulla terra con umiltà e quando gli ignoranti si rivolgono a loro rispondono ‘Pace’ ” (Sura 25:63)

Anzi, il Corano stabilisce che la difesa dell’islam, del suo Libro e del suo Profeta non è in alcun modo affidata ai musulmani, ma spetta solo a Dio.

“Noi ti bastiamo contro quelli che si burlano di te” (Sura 15:95)

“Noi riveliamo il monito e noi ne siamo i guardiani” (Sura 15:9)

Per questo, secondo quanto riporta la tradizione islamica, il califfo ben guidato Umar b. al-Khattab (634 – 644 d.C.) ha detto: “Lasciate perire l’iniquo tacendo su di esso”.

 


Un altro fronte di confronto con l’islam è quello della laicità. Un tema antico. Dal suo punto di vista sono davvero incompatibili islam e laicità? Può nascere una inculturazione dell’Islam in Occidente?.

Questo tipo di domanda nasce dalla confusione già citata fra islam e islamismo, perché l’islamismo ha ridotto l’islam alla politica e a una lotta per il potere, presentando una lettura dei testi sacri secondo la quale possedere il potere è il punto di partenza per costruire una società islamica, ma questo non c’entra nulla con l’islam.

I musulmani europei sono la chiave per battere gli islamisti. Questi musulmani sono un vantaggio, non una minaccia, se capiamo che essi non rappresentano l’Islam in Europa, ma sono europei musulmani. Pensiamo a un ragazzo nato qui, che parla italiano, ma non la lingua dei genitori, che guarda film italiani, che mangia cibo italiano, che legge libri italiani: come possiamo dire che non sia un occidentale? Di fede musulmana, ma è un occidentale. Distinguere fra occidente e islam è un errore, forse il più grave pregiudizio che si sta compiendo in Europa. L’islam europeo è un dono che stiamo ricevendo e potrebbe essere un grande vantaggio. È a loro che dobbiamo chiedere di dare l’esempio. La prima linea di resistenza contro l’Isis sono gli europei musulmani. L’Islam europeo è l’unico vaccino che può immunizzare l’Europa contro il virus dell’Isis.

 

Per tornare al terrorista di Vienna era un giovane che aveva seguito un programma di deradicalizzazione. Poi è ricaduto nello jihadismo. Insomma la integrazione, per alcune persone, è assai difficile da realizzare.

Quando accade questo genere di attentati si trovano sempre coinvolti due tipi di musulmani: quelli integrati e quelli non integrati. Per esempio, a Vienna ci sono stati tre musulmani, due turchi e un palestinese, che hanno aiutato la polizia dopo l’attentato e salvato la vita a un poliziotto e c’è stato l’assassino. Quello che non potrà mai essere integrato in Europa è l’islam politico, perché vuole per forza cambiare il potere. Bisogna, però, fare anche attenzione a non generalizzare, perché ci sono tantissimi giovani europei di origine straniera che sono sempre giudicati in base al colore della loro pelle. Un ragazzo italiano di origine cinese, per esempio, mi ha detto che ogni volta che visita Pechino nessuno lo chiama col suo nome: lo chiamano “banana”, perché è giallo fuori (per il colore della sua pelle) e bianco dentro (per la sua cultura). Molti italiani di origine straniera si sentono come lui: estranei nelle loro società di origine, a causa della loro cultura, ed estranei nella società italiana, a causa della loro etnia e del colore della loro pelle.

 

Come raggiungere questo obiettivo?  Cosa vuol dire, per lei, integrazione?

Integrazione, in realtà, è un termine che io non amo molto, perché è qualcosa che può avvenire solo fra forme rigide. L’integrazione è un compromesso fra due parti, ognuna delle quali ritiene che sia l’altra a dover cambiare per adattarsi a lei. Ci integriamo per evitare il conflitto, ma se il conflitto fra stereotipi è pericoloso, il dialogo fra stereotipi lo è ancora di più, perché nel primo sappiamo che c’è qualcosa di sbagliato e cerchiamo una soluzione, mentre nel secondo non avvertiamo il cancro che si diffonde, se non poco prima che deflagri o causi la morte.

In Europa sono affiorate enormi difficoltà con i vari modelli di integrazione, soprattutto con quello inglese e francese.  Il modello inglese di integrazione, nonostante la sua grande apertura verso le religioni e l’accettazione della loro presenza nello spazio pubblico, è fallito ed è fallito anche il modello laico francese che esclude le religioni e criminalizza la loro presenza nello spazio pubblico. Questo è accaduto, perché entrambi i modelli – malgrado la forte differenza fra loro – hanno in comune l’esclusione della persona a vantaggio della forma. Il modello inglese integra l’Islam come religione, ma ciò significa integrare un insieme di simboli e stereotipi a discapito del pluralismo e delle differenze fra credenti. In altre parole, nello spazio pubblico è presente la religione, non la persona. Nel modello francese, invece, integrazione significa che i cittadini, per accedere allo spazio pubblico, devono rinunciare a gran parte di quanto pensano sia la fonte del loro essere. Pertanto, anche questo modello ha come risultato l’assenza della persona in tale spazio.

Preferisco quindi usare il termine interazione che invece coinvolge le persone.

 

Come vede l’opera di Papa Francesco nel dialogo con l’islam?

Ricordo che l’anno scorso, quando fui ricevuto dallo sheykh di al-Azhar nel suo ufficio, lui ci chiese di unirci in preghiera per Papa Francesco, affinché Dio gli desse salute e forza per continuare la sua lotta per il bene dei poveri, dei deboli e degli oppressi, e continuare la sua battaglia contro la malattia più pericolosa del nostro tempo, cioè l’indifferenza.

Non è difficile oggi, nel mondo islamico, trovare chi afferma di prendere esempio da Papa Francesco, di amarlo, o semplicemente di rispettarlo. Il Papa gode di ampia popolarità fra i musulmani, non solo per le sue ripetute dimostrazioni di rispetto verso l’islam. Non solo per la sua solidarietà con le cause dei musulmani, come nel caso del riconoscimento dello Stato palestinese. In tutto ciò, il Papa non fa altro che mantenere la tradizione della chiesa cattolica dopo il Concilio Vaticano II. La sua popolarità non è neppure dovuta al fatto che lui è uno dei pochi leader mondiali a pronunciarsi apertamente contro il commercio delle armi, le guerre e il monopolio dei mercati alimentare e farmaceutico da parte delle multinazionali. La sua popolarità non è dovuta alla difesa dell’ambiente, né alla richiesta che il nord del mondo si assuma la responsabilità di aver immiserito e sfruttato il sud povero. Queste prese di posizione di fronte a grandi questioni politiche ed economiche come quelle citate sono, in fondo, prese di posizione comuni anche ad altri leader spirituali, i quali, purtroppo, non hanno il potere materiale di cambiare le cose. Il segreto del carisma di papa Francesco sta nella sua capacità di restituire valore alle piccole cose e al ruolo cruciale che esse giocano nel cambiare il mondo e noi stessi. Con ogni sua azione e parola, in tutto quel che noi pensiamo sia un demone, il Papa ci fa vedere, invece, un angelo che sbatte le ali.

Pregiudizio e odio sono alimentati dal vuoto, crescono nel vuoto, il vuoto è il loro primo alleato. Pertanto, il segreto per vincere odio e pregiudizio è la presenza. E Papa Francesco ha fatto una cosa in fondo molto semplice: ha riempito il vuoto, e i cuori, per combattere pregiudizio e odio. Il Papa non fa dialogo, ma porta una presenza.

Padre Sorge, da Sturzo aI Concilio Vaticano II. Intervista a Rocco D’Ambrosio

Padre Bartolomeo Sorge (Ansa)

Padre Bartolomeo Sorge (Ansa)

La morte di Padre Bartolomeo Sorge, avvenuta ieri mattina a Gallarate, ha lasciato un grande vuoto nel cattolicesimo italiano. Ma è tutta la cultura del nostro Paese che piange la scomparsa del grande gesuita. Con il professor Rocco D’Ambrosio, docente di Filosofia della Politica alla Facoltà di Filosofia della Pontificia Università Gregoriana, in questa intervista ripercorriamo alcuni punti del suo pensiero.

Professore, il cattolicesimo italiano è in lutto. La morte di Padre Bartolomeo Sorge, gesuita ex direttore di Civiltà Cattolica e di Aggiornamenti Sociali, lascia un grande vuoto nel pensiero cattolico sociale contemporaneo. Per alcuni in padre Sorge ha incarnato, in modo esemplare, la teologia del Concilio Vaticano II. È così professore?
Certamente si! Il suo pensiero e il suo agire ecclesiale sono in perfetta linea di attuazione del Vaticano II. Tutte le volte che ho avuto modo di confrontarmi con lui ho sempre avuto la percezione che il suo profondo spirito conciliare partisse dal desiderio di rinnovare la nostra spinta di evangelizzazione, senza mai disgiungerla da un’attenta analisi della realtà sociale e politica. Lo dico anche relativamente a quando, da discepolo, non condividevo la sua linea magisteriale: mi riferisco alla “ricomposizione dell’area cattolica”. Su di essa gli presentavo diverse perplessità, eppure anche in esse la sua intenzione era limpida: non perdere il patrimonio di pensiero sociale cattolico e permettere che potesse ancora ispirare azioni positive; al di là delle strategie pratiche.

Padre Sorge non è stato solo un raffinato teologo ma è stato un precursore della “Chiesa in uscita” di Papa Francesco. Ricordiamo, a questo proposito, il grande convegno della Chiesa italiana su “Evangelizzazione e Promozione umana”. Una Chiesa che si fa prossimo all’uomo contemporaneo.
Il Convegno “Evangelizzazione e promozione umana” del 1976 fu presieduto dal card. Antonio Poma, presidente della Cei, affiancato da mons. Luigi Maverna, da padre Bartolomeo Sorge e da Giuseppe Lazzati. Gli interventi fondamentali furono affidati a mons. Giovanni Nervo, Paola Gaiotti, Achille Ardigò, Giuseppe De Rita e mons. Filippo Franceschi. Fu un convegno decisivo per la Chiesa Italiana e Sorge ne fu fattivo protagonista e umile tessitore. L’aspetto del farsi prossimo fu conferma e sprono per tutti quei pastori e fedeli laici che erano impegnati nel mondo, specie nel servizio di carità.
Ma voglio anche ricordare una nota non tanto positiva. Qualche tempo fa, lo stesso padre Bartolomeo lamentava che “i vescovi lasciarono cadere le due principali proposte del Convegno: l’introduzione nella Chiesa italiana dello «stile del con- venire» (come allora si chiamava la «sinodalità») e la nuova concezione di missionarietà, diversa dalla pastorale classica tradizionale” (La Civiltà Cattolica, q.4062). Parole su cui meditare tanto, visto che, i diversi appelli di papa Francesco per un sinodo della Chiesa italiana, sono ancora inascoltati da pastori e fedeli laici!

Come intende, profondamente, la sua ammirazione per l’arcivescovo martire
del Salvador Oscar Romero. Una fede per liberazione. È così? 
È certamente così. Padre Bartolomeo ha saputo cogliere il nucleo profondo della teologia della liberazione, proprio attraverso testimoni autentici quali Romero. Questo ci permette di sottolineare come il patrimonio di altre Chiese, specie relativo alla testimonianza nel mondo, può diventare fecondo anche in Chiese lontane, purché ci sia un lavoro di studio e discernimento profondi, che superando le riduzioni giornalistiche o i protagonismi pacchiani, aiutano le nostre chiese a essere sempre più autentiche, “in uscita” direbbe papa Francesco.

Padre Sorge è un vero maestro di dottrina sociale della chiesa e, quindi, un vero intellettuale politico. In questo senso qual è la sua eredità di pensiero per i cattolici impegnati in politica?
Parlerei di un’eredità pensata e attiva. Vede, la dottrina sociale, o magistero sociale della Chiesa cattolica, è spesso citata in maniera retorica e sterile, cioè la si pensa solo come una raccolta di grandi principi etici. Era proprio padre Sorge a ricordare spesso la Octogesima adveniens di Paolo VI: “Spetta alle comunità cristiane individuare, con l’assistenza dello Spirito santo, – in comunione coi vescovi responsabili, e in dialogo con gli altri fratelli cristiani e con tutti gli uomini di buona volontà – le scelte e gli impegni che conviene prendere per operare le trasformazioni sociali, politiche ed economiche che si palesano urgenti e necessarie in molti casi”. Se i cattolici non si impegnano concretamente per il bene del nostro Paese e del mondo, se le comunità non pongono segni in controtendenza con chiusure, illegalità e mafia, razzismi, corruzione, populismi e liberismo sfrenato… meglio non citarla la dottrina sociale! Anche questo ci ha insegnato padre Bartolomeo.

È stato anche un grande uomo di dialogo. Insomma una vita contro ogni forma di integralismo. È così?
Si lo è. Ed è bello ricordare non la sua “testa” ma anche il suo cuore e i suoi modi: un tratto gentile, pieno di humour, cordiale e affettuoso. Lode a Dio anche per questi suoi doni!

Non si può dimenticare il suo impegno antimafia nella stagione della “Primavera di Palermo” La politica vista come ribellione etica e culturale alla non cultura mafiosa. Anche questa è una preziosa eredità. È così?
Ricordo una volta che andai in aeroporto a prenderlo perché partecipasse a uno degli incontri con le scuole di Cercasi un fine. Mi raccontò di Palermo, del suo impegno li, della collaborazione con padre Pintacuda e soprattutto di lotta alla mafia mafia e impegno alla legalità. In alcuni momenti le parole erano così cariche di emozioni e tensioni da poter palpare il tutto. Ma poi o una battuta o un riferimento “alto” gli facevano riacquistare un sorriso carico di speranza.

L’ultima sua battaglia politica e culturale è stata contro il sovranismo e il populismo. Dure sono state le sue parole contro la cultura leghista. In questo è stato davvero intransigente. Quale pericolo vedeva per la democrazia italiana?
Un po’ il pericolo che vediamo tutti: sovranismo e populismo, in Italia e nel mondo, minano la democrazia sin nei suoi fondamenti. Le sue parole chiarissime: “In questo tempo si è fatta largo la convinzione che la maggioranza parlamentare si identifichi con il popolo intero, e i leader dei movimenti populisti hanno portato all’imbarbarimento culturale, avvelenando la società italiana con odio, egoismo, discriminazione delle persone immigrate, razzismo e xenofobia”.

Ultima domanda: possiamo definire padre Sorge come il continuatore del popolarissimo sturziano?
Credo proprio di si, tra i pochissimi a farlo. Il popolarismo è una dottrina difficile: per comprenderla bisogna studiare bene sia la vita che il pensiero di Sturzo e per attuarla bisogna lavorare molto su alcuni meccanismi sociali ed economici che sono il cuor e del popolarismo. Padre Bartolomeo l’ha fatto egregiamente.

“Un patto per l’Italia per evitare il disordine sociale”. INTERVISTA A GIUSEPPE SABELLA

 

Entrano in vigore oggi le misure del dpcm che il premier Giuseppe Conte ha presentato ieri in conferenza stampa. Le restrizioni al momento colpiscono in particolare bar, gelaterie e ristoranti oltre che palestre, piscine, cinema e teatri. E, insieme a coprifuoco, didattica a distanza e smart working, puntano a ridurre drasticamente l’incidenza dei flussi di persone sul trasporto pubblico locale. Il governo auspica che l’intervento sia sufficiente per evitare un secondo lockdown da qui a Natale. La situazione in Europa non è migliore, in Francia e Spagna in particolare si registrano trend di crescita dell’epidemia più forti di quello italiano, come del resto nel Regno Unito. Abbiamo parlato delle ricadute sull’economia con Giuseppe Sabella, direttore di Think-industry 4.0.

 

Sabella, il weekend oltre che dall’intervento del Governo è stato caratterizzato da fenomeni di disordine sociale in due città importanti come Napoli e Roma, segno della pericolosità di un altro rallentamento per la nostra economia. Da questo punto di vista, che previsioni possiamo azzardare?

È difficile fare previsioni in questo momento perché non abbiamo idea della possibile evoluzione dell’epidemia. E auguriamoci che abbiano ragione al Governo, ovvero che questa stretta adottata ci permetta di evitare un secondo lockdown. Non concordo con i toni apocalittici sul nostro Paese perché vi è chi in Europa, e non solo, sta peggio di noi. Non credo quindi che, in caso di secondo lockdown, saremo gli unici. Questo per dire che se vi sarà un problema per l’economia sarà esteso. E quindi saranno adottate misure comuni a livello europeo per esempio. Il problema nostro, tuttavia, è da una parte che il nostro tessuto produttivo, in particolare la piccola impresa, è molto fragile, quindi chi chiude oggi – magari per la seconda volta – rischia di non aprire più; dall’altra, con un debito pubblico così alto abbiamo più difficoltà nell’immediato ad attuare misure di sostegno al lavoro e all’impresa; e sono proprio i tempi con cui si interviene a fare la differenza. Napoli e Roma ci dicono, in questo senso, che dobbiamo stare molto attenti, il disordine sociale è il rischio più grande che corriamo. È vero che la salute è la cosa più importante, ma è anche vero che non c’è salute senza economia.

Pare evidente che il Governo non abbia un piano per proteggere e rilanciare la nostra economia. Perché questa politica debole e cosa auspicare adesso?

Siamo senza un indirizzo politico – e ciò è molto pericoloso – perché il governo è male allestito e frammentato al proprio interno. Intanto, non vi è una presenza capace di una visione economica di crescita e di sviluppo, Gualtieri è uomo più legato a politiche di bilancio e Patuanelli, da questo punto di vista, è giovane e poco esperto. Andrebbe scritto un piano per la resistenza e per la ripartenza, ma è un lavoro che può essere frutto soltanto di un percorso condiviso, dal Governo e dalle rappresentanze di impresa e lavoro. Non tanto per dare il contentino a Confindustria e sindacati che lamentano di non essere coinvolti nei provvedimenti adottati, ma perché, diversamente, la miglior idea rischia di restare lettera morta.

Il Presidente di Confindustria Carlo Bonomi propone un “patto per l’Italia”, qual è il suo pensiero?

Si, questa è la strada. Dico di più: dentro la Confindustria e nel sindacato ci sono le risorse e le intelligenze più preziose per costruire un piano per l’economia. Vi sono centri studi che, a differenza dei partiti, producono ancora studi e ricerche valide. Proprio in questi giorni, Bonomi ha presentato il manifesto programmatico degli industriali dal titolo suggestivo “il coraggio del futuro”. È difficile però costruire il futuro attraverso un Patto per il Paese se, però, la Confindustria continua a litigare con le controparti e a non avere un dialogo col Governo. Intendiamoci: non sto dicendo che questa situazione è colpa della Confindustria, dico che soltanto la Confindustria ha la forza di essere soggetto propulsore per ricomporre questa situazione frammentata.

Gli industriali, in questa fase difficile, sono sembrati invece più attenti al loro interesse particolare. Cosa dovevano fare secondo lei?

Dentro le organizzazioni di rappresentanza è sempre molto difficile mediare e fare emergere una linea. Ed è chiaro che, in assenza di una linea, prevale l’interesse particolare. Per questi motivi, è semplicistico dire cosa la Confindustria doveva fare… mi sarei però aspettato, nel momento in cui il contagio iniziava a diffondersi, che gli Industriali dessero un segnale inequivocabile a tutela della salute e della vita dei lavoratori. È quello che hanno fatto alcune grandi imprese: hanno chiuso subito per rendere i loro luoghi di lavoro più sicuri e predisposti per il tracciamento delle persone. Era sufficiente affermare in modo forte che le persone e il lavoro sono la risorsa più importante che abbiamo, e che quindi va tutelata. In quel momento c’è stato il primo cortocircuito forte col sindacato, ci si è messi a litigare sulle attività essenziali per arrivare a quella misura stupida sui codici ateco senza privilegiare, invece, standard di sicurezza dentro i luoghi di lavoro. È anche vero che in quella fase si era dentro il semestre bianco di Boccia e la designazione di Bonomi: resta il fatto che questo segnale non è arrivato e ne sono seguiti momenti di tensione molto forte con i sindacati.

Anche di recente, in particolare sui contratti, sono emerse tensioni forti tra Confindustria e sindacati…

Ecco, anche in questa fase mi è sembrato che non ci fosse la giusta consapevolezza tra le Parti che in questo momento di debolezza della politica non vi è altra possibilità: sono loro che devono supplire a questa mancanza. Bonomi ha più volte parlato di una rivoluzione dei contratti. Al di là del fatto che da anni, ormai, i contratti li scrivono in modo indipendente le federazioni di categoria – le confederazioni fanno sempre più fatica a scrivere le politiche contrattuali in un momento di forte cambiamento dentro i luoghi di lavoro – a me sembra che l’unica cosa da fare in questo momento sia ciò che viene proposto – ancora una volta – dai metalmeccanici, dalla Uilm in particolare: né aumenti, né licenziamenti. In un momento di contrazione così potente per l’economia, ha senso discutere di distribuzione della ricchezza quando abbiamo il problema della sopravvivenza? Inoltre, questa idea che si crea crescita dai contratti mi sembra vecchia come la macchina a vapore. L’unica leva reale per la crescita sono gli investimenti, ciò che manca in questo Paese da quasi 30 anni. E, guarda caso, sono 30 anni che non crescono i salari. Auguriamoci che il Recovery Fund sia occasione per rilanciare davvero la nostra industria.

In questo senso, come potremmo sfruttare al meglio il Recovery Fund?

Prima di tutto, dobbiamo resistere e superare questo autunno difficilissimo, sia sul piano economico che su quello sociale. Nel frattempo, auspichiamo che rapidamente Commissione e Parlamento europeo mettano a punto il Recovery Fund e che si avvii questo processo di sostegno fondamentale agli stati membri. Ciò va nella direzione, anche, di rilanciare le filiere produttive, sia da un punto di vista della loro innovazione tecnologica sia da un punto di vista della loro maggior sostenibilità ambientale. L’Italia è secondo Paese manifatturiero d’Europa e potentemente integrata con la grande piattaforma produttiva tedesca. Questo ci dice che abbiamo una grande opportunità di rilanciare la nostra economia ma che ognuno deve fare la sua parte: la formazione delle persone, le loro competenze, l’innovazione digitale, i nuovi modelli organizzativi, la produzione sostenibile, i nuovi approvvigionamenti energetici… sono tutte voci che costituiscono il Green New Deal europeo che dobbiamo mettere a sistema – in Italia vi sono numerose pratiche avanzate – e che possono essere le fondamenta per il “Patto per l’Italia” di cui parla Bonomi. Bisogna governare non solo la crisi ma, anche e soprattutto, l’innovazione del nostro sistema produttivo e la transizione ecologica ed energetica. Il Recovery Fund serve a questo e le economie avanzate sono concentrate su questi obiettivi. Se non lo fa anche l’Italia, si ritroverà staccata. Con pesanti conseguenze sul piano sociale. Inutile dire che non ce lo possiamo permettere.

“Un’Enciclica dalla forte carica politica contro il populismo del ‘mondo chiuso’ “. Un testo di Giorgio Tonini

Con la pubblicazione di questo testo di Giorgio Tonini, esponente di spicco del cattolicesimo democratico italiano e membro del Consiglio regionale Trentino ed ex Senatore PD, terminiamo il nostro percorso di approfondimento dell’enciclica “Fratelli tutti” di Papa Francesco.

Papa Bergoglio è un gesuita che ha deciso di chiamarsi Francesco. È come se, nell’accettare l’elezione a successore di Pietro, il papa italo-argentino si fosse posto alla confluenza di due grandi filoni spirituali, che hanno attraversato da protagonisti la storia del cattolicesimo e avesse indicato questa inedita sintesi come via per la Chiesa nel nostro tempo. Molto francescana, ma anche molto gesuita, è l’ultima enciclica di papa Bergoglio. Francescana già nel nome: “Fratelli tutti”, citazione dagli Ammonimenti del Santo di Assisi; e proprio ad Assisi Papa Francesco ha voluto firmare l’enciclica, il 4 ottobre, festa del patrono d’Italia. Ma francescano è soprattutto l’approccio ai complessi temi trattati, che vengono posti a confronto col Vangelo, per così dire, “sine glossa”, senza sofisticate mediazioni intellettuali, o sovrastrutture anche teologiche: come il poverello di Assisi, papa Francesco pone il mondo a confronto con la parola di Gesù nella sua nuda radicalità. Fino a rischiare un esito fondamentalista e integralista. Dal quale lo salva l’altra dimensione dell’enciclica: l’utilizzo del metodo gesuita del “discernimento”, che conferisce al testo una curvatura spirituale che lascia alla coscienza personale la responsabilità di tradurlo in azione sociale e politica.

Come ha scritto Luigi Accattoli, “la predicazione sociale del Papa gesuita si presenta più come una provocazione al “discernimento evangelico” che come una “dottrina sociale”… L’approccio dottrinale poteva essere riassunto nelle domande: che dice la Chiesa dei salari, delle cooperative, dello sciopero, della pace, del rapporto tra paesi poveri e ricchi, dell’ecologia? Quello esperienziale pone questioni di comportamento e di scelte innanzitutto soggettive, e poi ovviamente anche comunitarie: che può fare il cristiano in merito alla tratta, alle migrazioni, al commercio di organi, allo sfruttamento sessuale di bambini e bambine, al lavoro schiavizzato, alla prostituzione, al traffico di droghe e di armi, al terrorismo, al crimine internazionale organizzato, alle tentazioni del sovranismo, alla pena di morte? Mira di più alla conversione degli atteggiamenti che ai programmi d’azione”.

Viene alla mente il testo evangelico forse in assoluto più radicale e rivoluzionario: il Magnificat. Maria loda l’Onnipotente perché “ha rovesciato i potenti dai troni e ha innalzato gli umili, ha ricolmato di beni gli affamati e ha rimandato i ricchi a mani vuote”. Ma questa radicale trasformazione sociale e politica è stata resa possibile da un evento spirituale: Dio “ha spiegato la potenza del suo braccio e ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore”. È per l’appunto alle menti e ai cuori delle donne e degli uomini del nostro tempo, ai “pensieri del loro cuore”, che si rivolge Francesco col suo annuncio “sine glossa” del Vangelo di Gesù. Che così non viene ridotto ad un programma politico, ma si propone di indurre una “metànoia”, una conversione nel senso letterale di cambiamento di mentalità, capace di generare nuovo pensiero e nuova azione sul terreno sociale e politico.

La parola di Dio posta alla base dell’enciclica è la parabola del Buon Samaritano (Luca 10, 25-37), che papa Francesco ripropone integralmente e commenta in modo analitico. La famosa parabola serve a papa Bergoglio per fare i conti con la questione a suo avviso cruciale del nostro tempo: potremmo definirla la dialettica tra apertura e chiusura, il contrasto tra una visione solidale, inclusiva, dialogica della globalizzazione e una difensiva, diffidente, intollerante. Il sogno francescano di “una fraternità aperta”, contro l’incubo delle “ombre di un mondo chiuso”. Un uomo è aggredito, derubato e lasciato in terra gravemente ferito da una banda di briganti: il male esiste nel mondo perché alberga nel cuore dell’uomo. Davanti alla vittima passano uomini importanti che si voltano dall’altra parte. Il papa nota che sono uomini di religione, perché anche questo tradimento fa parte della storia umana. Finché non sopraggiunge un samaritano, un nemico, un reietto, comunque un diverso, che soccorre l’uomo caduto, lo porta in una locanda e paga per le sue cure. Un uomo qualunque, capace di un gesto disinteressato, che scavalca steccati e ignora pregiudizi, all’insegna della gratuità e della fraternità aperta e universale. Non potrebbe esserci critica più radicale al manicheismo fazioso che oppone “noi” e “gli altri”, “i nostri” ai “nemici”. Che costruisce muri, blinda confini, emargina chiunque appare diverso. E ad un modello di società materialistico, nel quale il valore delle cose è determinato esclusivamente dal prezzo, dal valore di scambio sul mercato e il senso della vita si risolve nella ricerca dell’utile individuale.

Per quanto correttamente indiretta, appare comunque evidente la forte carica politica dell’enciclica. Alla vigilia di un evento come le elezioni presidenziali negli USA, dal quale può dipendere il verso che prenderanno nei prossimi anni le vicende umane globali. La critica del trumpismo non potrebbe essere più netta e definitiva: per il suo populismo liberista, al quale Bergoglio oppone un approccio popolare e democratico, che esalta il lavoro anche come unica via d’uscita dalla povertà senza cadere in nuove dipendenze assistenzialistiche; per le chiusure in materia di immigrazione, fino agli eccessi xenofobi e razzisti, alle quali l’enciclica oppone una strategia fondata su quattro dimensioni: accogliere, proteggere, promuovere e integrare; per la sistematica delegittimazione delle istituzioni multilaterali, a cominciare dall’Onu, che invece papa Francesco difende in nome della pace e contro la guerra, a partire dal primato kantiano del diritto internazionale sui meri rapporti di forza tra potenze sovrane; per l’esaltazione della pena di morte, che invece l’enciclica condanna senza alcuna attenuante.

Saranno i prossimi mesi e forse anni a dirci se la presa di posizione così netta del papa riuscirà a ricomporre la lacerata comunità cattolica americana (e non solo) o se invece dovrà affrontare il calvario di nuove lacerazioni. Forte è infatti la componente dell’episcopato americano che si sente e si dichiara in sintonia con le posizioni del presidente Trump, che enfatizzano, in chiave neo-conservatrice, la centralità politica delle questioni che riguardano la sessualità e la procreazione, a cominciare dalla questione dell’aborto. Papa Francesco non ha modificato la posizione della Chiesa Cattolica su questi temi, ma li ha riproposti all’interno di una corretta ermeneutica evangelica, ossia alla luce del primato della carità. Non si possono quindi usare gli argomenti che riguardano la vita e la sessualità per relativizzare la cogenza della carità e della fraternità universale. Il percorso da fare è semmai quello opposto: è in forza del primato della carità che i cristiani e tutti gli uomini di buona volontà devono opporsi a quella che Bergoglio chiama “la cultura dello scarto”: una degenerazione che non risparmia nulla e nessuno, nemmeno i bambini non nati o gli anziani abbandonati. Con tenerezza e fermezza insieme, i cristiani cattolici, americani e non, insieme a tutti i credenti e a tutti gli uomini “di buona volontà”, sono chiamati dal papa a ritrovarsi attorno a questo francescano Vangelo “sine glossa”, a farne oggetto di “discernimento spirituale” e motivo di speranza per l’umanità.

Dal sito: http://www.nuovi-lavori.it/index.php/sezioni/1874-la-linea-guida-del-discernimento

“L’enciclica ci invita a combattere l’individualismo per realizzare la globalizzazione della fraternità”. Intervista a Padre Bartolomeo Sorge

Proseguiamo il nostro cammino di approfondimento dell’enciclica “Fratelli tutti”. Oggi intervistiamo padre Bartolomeo Sorge, gesuita, ex direttore di “Civiltà Cattolica” e di “Aggiornamenti Sociali”. Due prestigiose riviste della Compagnia di Gesù. Padre Sorge è stato, ed è un protagonista della Chiesa italiana. Grande studioso della Dottrina Sociale della Chiesa, ha pubblicato numerosi libri tra cui un acuto saggio, insieme alla politologa Chiara Tintori, contro il populismo.

«Fratelli tutti», tratta e attualizza il grande tema  francescano, nel senso di Francesco d’Assisi, della fraternità universale. Qual è il rapporto, al di là del nome, tra il poverello d’Assisi e il papa Francesco? Possiamo accennare brevemente  questo rapporto, prima di parlare della Enciclica?

Definirei il rapporto tra il poverello d’Assisi e papa Francesco una sorta di «affinità evangelica». La medesima scelta che entrambi hanno fatto di vivere il Vangelo sine glossa li porta a condividere la stessa mèta della fraternità universale, come l’ha vissuta Gesù. Porta entrambi a seguire e a indicare la via del dialogo per giungervi. Un dialogo, inteso come cammino fatto insieme verso una mèta comune. Quando Papa Francesco parla di «amicizia sociale» o di «ecologia integrale», invitando a ad aprirsi e a dialogare non solo con ogni essere umano, ma anche con il creato, si pone sulla stessa lunghezza d’onda di san Francesco, che chiamava fratelli il sole e il fuoco e sorelle la luna e l’acqua o predicava agli uccelli e rabboniva il lupo di Gubbio. Tra il poverello d’Assisi e Papa Bergoglio c’è una piena sintonia che è espressa non tanto dall’identità del nome Francesco, quanto dall’essere entrambi mossi dalla medesima ispirazione evangelica.

Parliamo dell’Enciclica. Si tratta di una vera e propria Summa del pensiero sociale di Papa Francesco. Quindi c’è una riproposizione, in un quadro più ampio, del suo insegnamento. Però vi sono delle novità. Quali sono secondo lei?

La vera novità è l’enciclica stessa in sé, così com’è strutturata. Essa infatti connette tra loro, quasi tasselli di un unico grande mosaico, i numerosi interventi del Papa sui temi sociali più scottanti, da lui effettuati durante i sette anni di pontificato. Basta vedere, in nota, quante sono le autocitazioni! Perciò, leggendo l’enciclica Fratelli tutti, si ha la sensazione che il Papa abbia voluto comporre e completare una trilogia con altri due interventi precedenti: l’enciclica Laudato si’ e la Dichiarazione sulla fratellanza umana, firmata ad Abu Dhabi. Infatti, tutti e tre i testi mirano insieme allo stesso fine: realizzare la fraternità universale; superare e combattere l’individualismo, per realizzare un’«ecologia integrale» o – come preferisce esprimersi il Papa – per passare dalla «globalizzazione dell’indifferenza» alla «globalizzazione della fraternità».

L’enciclica esce nel tempo di una pandemia devastante. E la interpreta non come un «castigo di Dioۘ» ma la legge come un segnale della natura all’uomo. E’ d’accordo?

Sì, è proprio così! Il volto di Dio, che Cristo rivela nel Vangelo, non è certo quello di un vendicatore o di un giustiziere, ma è quello di un padre infinitamente buono e misericordioso! La pandemia è solo un segnale – molto importante, però – che la natura invia all’uomo. Sarebbe perciò un errore imperdonabile sciupare l’occasione, che la dura prova sofferta oggi ci offre, di rivedere il nostro stile di vita personale e sociale, in modo da superare le disuguaglianze sociali e culturali che la pandemia ha messo maggiormente in luce e che pesano soprattutto sui più poveri. Non possiamo far finta di non vederlo, né voltare il capo da un’altra parte. E’ una sfida che interpella tutti indistintamente, senza eccezioni.

La pandemia, scrive il Papa, ci ha fatto sentire la comune appartenenza alla famiglia umana. «Siamo tutti nella stessa barca», afferma Francesco. Da qui appunto la proposta di un’etica della fraternità universale. Insomma tutti dovremmo sentirci dei «samaritani». È bellissima la riproposizione della figura del «buon samaritano». Quali sono le caratteristiche di questo «samaritano globale»?

Il rifarsi all’esempio del «buon samaritano» è tipico dello stile di Papa Francesco, che rifugge dal fare discorsi teorici astratti, ma preferisce la concretezza della testimonianza. Così, per dimostrare che cosa è e come si realizza la fraternità universale, sceglie di farlo ricordando la lezione che viene dalla parabola del buon samaritano.

Il Papa ne spiega le caratteristiche, soprattutto quando parla della necessità di una «migliore politica», per passare dalla ideologia dell’individualismo, oggi regnante, alla fraternità universale. Affinché la politica sia «migliore», dice in sostanza, ci vogliono «migliori politici», che si comportino come buoni samaritani. Operino, in altre parole, al servizio disinteressato del bene del popolo, con competenza e professionalità, come il samaritano del Vangelo, che versò olio e vino sulle piaghe del malcapitato e gliele fasciò. Di questi politici «buoni samaritani» abbiamo estremo bisogno.

Liberté, egalité, fraternité. È il motto della rivoluzione francese. Per alcuni filosofi laici il Papa, con questa enciclica, ha «sposato l’illuminismo».  E’ d’accordo?

Per altri «filosofi laici», invece, il Papa avrebbe «sposato il marxismo», perché ha fatto la scelta preferenziale dei poveri e continua a difenderla.

In realtà, Papa Francesco non ha sposato né l’illuminismo né il marxismo, ma solo Cristo e il suo Vangelo! Senza per questo negare che talvolta la cultura laica abbia preso coscienza di alcuni valori e di alcuni diritti umani prima della Chiesa, nonostante questa godesse della luce del Vangelo! Penso, per esempio, alla libertà di coscienza, alla libertà di stampa, all’accettazione della democrazia o alla tardiva condanna della mafia, della guerra giusta, della pena di morte… Anche se – è giusto ricordarlo – non sono mai mancate, nel popolo di Dio, voci profetiche (spesso messe a tacere) che hanno anticipato sia la cultura laica, sia il riconoscimento ufficiale della Chiesa.

Nell’enciclica c’è un duro attacco al populismo e al sovranismo (il papa si schiera radicalmente contro chi erige i muri) di ogni latitudine. Ma rimprovera anche la sinistra. Qual è il grande messaggio politico della Enciclica?

Il magistero sociale della Chiesa non si pone nell’ottica della politica politicante, della destra o della sinistra (politica con la p minuscola), ma nell’ottica della «migliore politica», presa in senso universale, culturale ed etico (Politica con la P maiuscola). Ciò spiega come mai nel capitolo V dell’enciclica, dedicato interamente alla politica, il Papa non si rivolga ai cattolici, ma ai politici in generale, di ogni tendenza e ideologia. A essi (cattolici e laici) si rivolge non in quanto appartenenti all’uno o all’altro partito (di destra o di sinistra), ma semplicemente in quanto politici. Tutti ugualmente li esorta ad aprirsi al dialogo e alla collaborazione, a ricercare la «migliore politica». Infatti, per passare dalla globalizzazione dell’indifferenza alla globalizzazione della fraternità, occorre sconfiggere l’individualismo, da cui nascono il populismo e il sovranismo. Questa non è un’utopia irrealizzabile. Che sia possibile l’abbiamo sperimentato durante la terribile pandemia. Ne hanno dato prova i numerosi cittadini che si sono offerti a soccorrere i contagiati dal Covid-19, anche esponendo la propria vita. Ne ha dato prova perfino l’Europa, in occasione del Consiglio Europeo straordinario del luglio scorso, quando, nonostante l’opposizione dei cosiddetti «Paesi frugali» e dei «Paesi di Visegrad», la solidarietà fraterna della stragrande maggioranza dei 27 Stati dell’Unione ha sconfitto il populismo e il sovranismo, varando un programma generoso di aiuti, con un’attenzione speciale verso i Paesi più provati dal Coronavirus.

 

Nella logica della fraternità, l’enciclica si schiera contro il liberismo. E propone una economia diversa. Su questo punto, il papa, non rischia di cadere nell’Utopia?

Nell’insegnamento di papa Francesco centrale è la categoria del «sogno», che è molto diverso dall’utopia. Se ricordo bene, fu Hélder Camara ad affermare che il sogno di uno solo rimane sogno, ma se sono tanti a farlo, esso diventa realtà. E’ quello che fa l’enciclica. Induce a sognare tutti insieme una economia diversa, nella quale non ci si illuda più che i meccanismi di mercato possano risolvere, da soli, ogni problema. Il mercato, certo, è indispensabile, ma non basta. Neppure basta che, insieme al mercato, intervenga lo Stato. Un tavolo con due sole gambe – mercato e Stato – non sta in piedi! Occorre la terza gamba, quella che siamo soliti chiamare «Terzo settore», cioè la partecipazione responsabile e volontaria della comunità, della società civile. Non è un’utopia, ma un sogno che l’enciclica contribuisce a rendere una realtà.

 

Con la Rerum Novarum Leone XIII indusse i cattolici ad impegnarsi per risolvere la questione sociale, quell’enciclica fu un «colpo di tuono» (metafora usata da Bernanos). Attualizzando la metafora: oggi, Fratelli tutti, può ispirare per i cattolici un nuovo programma politico? O almeno, nel pluralismo politico dei cattolici, può essere una fonte di discernimento politico?

Fratelli tutti viene a confermare la svolta che Papa Francesco ha impresso alla dottrina sociale della Chiesa. Leone XIII, con la Rerum Novarum, intendeva salvaguardare dall’insidia di pericolose ideologie, la dignità della persona e i suoi diritti inalienabili. Pio XI e Pio XII si confrontarono con le forme contrapposte di società diverse (socialismo reale e capitalismo), proponendo la «terza via» di una società cristiana. Giovanni XXIII, il Concilio e Paolo VI, ampliarono gli orizzonti della Dottrina Sociale ai confini del mondo intero, denunciando le disuguaglianze tra il Nord ricco e il Sud povero. Con Giovanni Paolo II e papa Ratzinger la questione sociale divenne soprattutto questione antropologica, perché furono messi in discussione temi etici fondamentali, quali l’inizio e la fine della vita, l’indissolubilità del matrimonio, la contraccezione, l’«utero in affitto»,… Con papa Francesco, la dottrina sociale della Chiesa amplia ulteriormente l’orizzonte: guarda non solo ai gravi problemi indotti dai processi di globalizzazione economica, giuridica e politica, ma si apre alla questione ecologica e alla tutela della «casa comune».L’enciclica Fratelli tutti lo conferma.

Ultima domanda: Una battuta su una recente intervista del Cardinale Ruini: per Ruini la Chiesa italiana è in declino. Qual è il suo pensiero?

Stimo il cardinale Ruini, al quale Giovanni Paolo II aveva praticamente affidata la Chiesa italiana, mentre lui – papa gigante! – era tutto occupato a portare il Vangelo in ogni angolo del mondo.

Ho letto l’intervista di Ruini al Corriere della Sera. Come ho già detto in altra occasione, nelle parole e nei giudizi del Cardinale, sento l’eco di una stagione della Chiesa italiana, ormai lontana e che anch’io ho vissuto, ma che oggi non esiste più, sia perché è profondamente cambiato il Paese, sia perché le acquisizioni dottrinali e pastorali del Concilio hanno profondamente cambiato il volto della Chiesa.