“Salvare Assange è salvare la democrazia”. Intervista a Stefania Maurizi

A fine luglio del 2009, Julian Assange e la sua organizzazione contattarono Stefania Maurizi per la prima volta: avevano un documento sullItalia e volevano laiuto di un giornalista per verificarne lautenticità e linteresse pubblico. Da quel momento hanno lavorato fianco a fianco, loro per WikiLeaks, Stefania per il suo giornale – LEspresso e La Repubblica prima, oggi Il Fatto Quotidiano – alla pubblicazione di uninfinità di documenti segreti.
Dopo il terremoto WikiLeaks il prezzo da pagare per il giornalista e hacker è stato altissimo: Assange non ha mai più conosciuto la libertà. Chiuso in una cella di una delle più famigerate prigioni di massima sicurezza del Regno Unito, la Belmarsh Prison di Londra, lotta contro le più potenti istituzioni della Terra che da oltre un decennio lo vogliono fare a pezzi. Per il potere meno visibile e più pervasivo, Julian Assange è tra i peggiori criminali che esistano e, come tale, va punito nella maniera più brutale. Addirittura c’è chi chiede la pena di morte, per aver violato una legge del 1917, lEspionage Act, che vietava la diffusione di notizie riservate durante la Prima guerra mondiale. Il processo attualmente in corso a Londra (e che vede la partecipazione della stessa Maurizi nella veste di testimone) è accompagnato da una grande mobilitazione dellopinione pubblica: in sua difesa si sono pronunciati alcuni dei più importanti giornalisti dinchiesta internazionali, svariate organizzazioni per i diritti umani, lo stesso Consiglio dEuropa e lOnu che hanno espresso preoccupazione e sdegno richiamando il reato di tortura. Tutta la storia di Assange, dallesplosione di WikiLeaks in avanti, è un giallo incredibile che questo libro racconta con lo stile avvincente di un romanzo, uscito per Chiarelettere due settimane prima del ventesimo anniversario dellattentato alle Torri Gemelle di New York, evento a proposito del quale Assange portò alla luce una serie di documenti scottanti tramite Wikileaks.

Una vicenda lunga 10 anni che è un forte atto di denuncia nei confronti del potere segreto che governa le nostre democrazie.  In questa intervista approfondiamo alcuni aspetti del libro.  Stefania Maurizi scrive per Il Fatto Quotidiano è una delle giornaliste più vicine a Julian Assange da sempre: in Italia è stata la persona che ha diffuso i documenti di WikiLeaks. Partecipa come testimone al processo in corso a Londra per lestradizione di Assange negli Stati Uniti. È stata anche lei vittima dellattività di spionaggio presumibilmente per conto dei servizi segreti americani allinterno dellambasciata dellEcuador che ha ospitato per anni Assange accogliendo la sua richiesta di asilo politico. 

Stefania, il tuo libro è davvero un libro forte. È un atto di accusa ben documentato al “potere segreto” (ovvero a quelle entità statuali   che si sottraggono al controllo democratico). Partiamo dalla fondazione di Wikileaks. Come nasce e qual è la sua “filosofia”?

“Il Potere Segreto, che dà il titolo al mio libro e che ricostruisco con i documenti segreti rivelati da Wikileaks, è qualcosa di molto preciso: è il potere dello Stato schermato dal segreto di Stato, usato non per proteggere la sicurezza dei cittadini, ma per nascondere la criminalità di Stato ai più alti livelli e garantire l’impunità agli uomini delle istituzioni che commettono questi crimini. Quando parlo di criminalità di Stato ai più alti livelli intendo reati eccezionalmente gravi, come la falsificazione dell’intelligence che permise all’amministrazione Bush di trascinare gli Stati Uniti in una guerra devastante come quella dell’Iraq, in cui il nostro Paese ha avuto un ruolo sciagurato, perché ha concesso agli Stati Uniti tutto quello che Washington ha chiesto: basi, aeroporti, ferrovie per spostare truppe e armamenti, come rivelano i cablo della diplomazia USA pubblicati da WikiLeaks. E anche crimini tipo l’extraordinary rendition di Abu Omar: un uomo rapito a mezzogiorno a Milano, come fosse nel Cile di Pinochet. I nostri bravissimi magistrati, Armando Spataro e Ferdinando Pomarici, riuscirono a individuare i responsabili, 26 cittadini americani, quasi tutti agenti della Cia, riuscirono a ottenere per loro condanne definitive, eppure nessuno dei 26 ha fatto un solo giorno di galera: impunità assoluta. Mentre nei regimi, questo Potere Segreto è percepito anche dal cittadino comune, che si sente sotto controllo, oppresso da esso, nelle nostre democrazie, questo potere non è percepito dalla gente ordinaria. Nelle democrazie, i cittadini si interessano soprattutto al potere visibile, quello che decide delle loro pensioni, della loro sanità, del loro lavoro, e non pensano che questo Potere Segreto sia rilevante per le loro vite di persone comuni. E invece non è così. E’ un potere che decide eccome le loro vite e su cui loro non hanno alcun controllo, perché non hanno accesso alle informazioni su come opera, in quanto sono blindate dal segreto di Stato. Ma per la prima volta nella Storia, WikiLeaks ha aperto un profondo squarcio in questo Potere Segreto e ha permesso a miliardi di cittadini di tutto il mondo di avere accesso sistematico e senza restrizioni a milioni di documenti coperti da segreto che rivelano come opera. E’ per questo che Julian Assange ha fondato WikiLeaks il 4 ottobre 2006: è una creatura frutto della sua visione, anche se chiaramente non ha fatto tutto da solo, gli altri giornalisti di WikiLeaks hanno grandemente contribuito a renderlo possibile, e così avvocati, tecnici che hanno dato il loro contributo. Ed è per questo lavoro che dal 2010 in poi, quando ha rivelato i documenti segreti del governo americano, che Julian Assange non ha più conosciuto la libertà e rischia di finire per sempre in prigione negli Stati Uniti. La sua vita è appesa a un filo”.

Perché bisogna ritenere credibile Wikileaks? A quali criteri giornalistici risponde?

“E’ credibile perché, come tutte le organizzazioni giornalistiche, prima di pubblicare i documenti li verifica con un processo che, almeno fin dal 2010 e nella maggior parte dei casi, è stato portato avanti con noi media partner, ovvero noi giornalisti di media tradizionali che abbiamo accesso ai file in modo esclusivo per un periodo limitato. Noi facciamo le nostre verifiche sull’autenticità dei documenti, in parallelo a quelle fatte da WikiLeaks, e, una volta stabilito che sono autentici, noi pubblichiamo le nostre inchieste e i nostri articoli sui nostri giornali, mentre WikiLeaks pubblica i documenti originali, in modo che chiunque possa leggerli. Rendendoli accessibili a chiunque, WikiLeaks fa una cruciale opera di democratizzazione dell’informazione e della conoscenza, perché permette a chiunque di usarli per capire la realtà e anche per incidere su di essa. Per esempio, un cittadino tedesco di nome Khaled el-Masri, che è stato una vittima innocente delle extraordinary rendition della Cia ed è stato torturato e stuprato, ha potuto non solo scoprire informazioni cruciali sul suo caso nei cablo della diplomazia Usa rivelati da WikiLeaks – informazioni che non avrebbe potuto ottenere in nessun altro modo, perché coperte da segreto – ma ha anche potuto usare i cablo per cercare giustizia alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo. E anche un gruppo di cittadini che lottano per tornare a vivere nel loro arcipelago, le Chagos Islands –  un paradiso a sud delle isole Maldive, che tra gli anni ’60 e ’70 il Regno Unito ha evacuato, costringendo gli abitanti all’esilio per trasformarle in una base militare degli Stati Uniti – hanno trovato un aiuto cruciale nei cablo per la loro lotta davanti alla giustizia britannica. Infine, rendendo i documenti accessibili a tutti, WikiLeaks contribuisce a dare potere ai lettori, riducendo l’asimmetria tra i giornalisti, che hanno accesso alle fonti primarie delle informazioni, e i lettori che invece non ce l’hanno. Quando un lettore ha accesso alle fonti primarie, può usarle per approfondire e anche per verificare come il giornalista ha lavorato sui materiali: ha nascosto qualcosa? Ha manipolato i documenti oppure ha fatto un buon servizio alla verità?”

Parliamo del suo leader, Julian Assange. Il capitolo in cui ricostruisci la sua personalità lo intitoli “Cypherpunk”. Perché?

“Non parlerei di ‘leader’ di WikiLeaks, ma di fondatore e direttore, come per tutte le altre organizzazioni giornalistiche. Oggi il direttore di WikiLeaks è il giornalista investigativo islandese Kristinn Hrafnsson, e Julian Assange rimane il fondatore, ma ovviamente non può dirigere l’organizzazione, essendo in prigione. Julian Assange è un Cypherpunk: da giovanissimo, negli anni ’90, era un assiduo collaboratore di questa mailing list, che erano appunto i Cypherpunk, un formidabile collettivo  di appassionati di privacy e crittografia, le cui idee hanno contribuito enormemente a trasformare la realtà. I Cypherpunk erano visionari e libertari. Includevano matematici come Eric Hughes dell’università della California, Berkeley, che aveva scritto il Manifesto del Cypherpunk e anche il fisico Timothy May, che aveva lavorato per il gigante dei microprocessori Intel e ne aveva tratto profitti così ingenti che, a trentaquattro anni, si era potuto permettere di andare in pensione, dopo aver calcolato che non avrebbe dovuto lavorare mai più nella sua vita. Politicamente avevano idee molto diverse tra loro, ma erano accomunati da un profondissimo interesse: ragionare sull’impatto della sorveglianza e sviluppare strumenti a difesa della privacy e dell’anonimato, e sistemi di pagamento anonimi per difendere l’individuo dal controllo assoluto dello Stato. Erano avanti di decenni, ed è grazie alle loro riflessioni e ossessioni che sono emersi strumenti che hanno cambiato il mondo, come WikiLeaks, nel caso di Julian Assange, o come l’uso di massa della crittografia, in chat come Signal, e anche le criptovalute, come il bitcoin. Senza Bitcoin, difficilmente WikiLeaks sarebbe sopravvissuta al blocco delle donazioni bancarie. Nel 2010, infatti, appena iniziò a pubblicare i cablo della diplomazia, i giganti del credito, da Visa e Mastercard a PayPal e Bank of America, tagliarono dal giorno alla notte la possibilità di donare a WikiLeaks, che vive esclusivamente delle donazioni dei suoi sostenitori. Senza uno straccio di provvedimento giudiziario alla base di questo provvedimento, l’organizzazione si ritrovò con i rubinetti dei soldi completamente chiusi. Immagini se dalla sera alla mattina, i giganti del credito avessero tagliato i conti del New York Times o del Guardian: sarebbe stato uno scandalo internazionale e tutti i media del mondo avrebbero espresso solidarietà. Ma con WikiLeaks questo non è successo”.

Per alcuni, anche per qualche giornalista, Assange è una persona “controversa”. Tu contesti radicalmente questa affermazione. Perché?

“Personalmente, credo che l’osservazione delle persone sul lungo periodo sia uno dei pochissimi criteri per capire con chi si ha a che fare. Come giornalista, ho conosciuto da vicino e per oltre 10 anni il fondatore di WikiLeaks, penso quindi di avere molte informazioni fattuali per capire che tipo di essere umano è. Non dico di aver condiviso qualunque cosa abbia detto o fatto da quando lo conosco e sono la prima a dire che è un individuo complicato, ma è profondamente diverso da come viene dipinto dai media. Julian Assange è una persona di grandissima intelligenza, uno che, come scrisse il settimanale tedesco Der Spiegel, poteva fondare la sua azienda di software nella Silicon Valley e fare i soldi, e invece ha usato il suo talento intellettuale per rivelare i crimini di guerra e le torture in Afghanistan e in Iraq, pagando un prezzo mostruosamente alto a livello personale, perché da quel momento in poi non ha più conosciuto la libertà. Sono 11 anni che non può camminare per la strada da uomo libero, godersi un po’ di sole, correre, sdraiarsi sull’erba di un prato, e rischia di non poterlo fare mai più, perché sul suo capo pende una condanna a 175 anni di galera esclusivamente per aver rivelato quei crimini. E’ anche una persona che sa essere dolce, affettuosa e molto divertente: Julian Assange non è affatto il personaggio truce e con quell’aura di mistero e minaccia, che gli viene spesso attribuita. E’ divertente, ha un umorismo tagliente. Come scrivo nel mio libro, non sono l’unica a descriverlo così. Anche altri colleghi che lo conoscono bene, la pensano come me. Se l’opinione pubblica ne ha un’idea completamente distorta è perché lui ha certamente difficoltà nelle interazioni sociali, molto probabilmente collegate alla sua sindrome di Asperger, come racconto nel libro, ma il fattore che più ha contribuito a deformare la percezione dell’opinione pubblica è stata la lunga campagna di demonizzazione del personaggio. Invece di sottoporre a un minuzioso scrutinio agenzie potentissime, come il Pentagono e la Cia, responsabili di atroci violazioni dei diritti umani, tipo la distruzione dell’Iraq o le torture nelle prigioni segrete e a Guantanamo, tutta la forza critica dei media si è concentrata sulla persona di Julian Assange. Dal 2010 in poi è stato accusato di tutto, in particolare di aver messo a rischio vite umane, quando invece 11 anni dopo la pubblicazione dei documenti, non risulta un solo morto, una sola persona ferita o imprigionata a causa di quelle rivelazioni. Dieci anni di demonizzazione avrebbero alienato la simpatia e il sostegno dell’opinione pubblica anche a un santo. Di fatto hanno completamente alienato l’empatia dell’opinione pubblica verso Julian Assange. E non dimentichiamoci che questa empatia è l’unico scudo che può proteggerlo, visto che non ha alcuna speranza di opporsi alla sua distruzione da parte delle autorità inglesi e americane confidando nelle corti del Regno Unito o degli Stati Uniti”.

Ritorneremo sulla figura di Assange.
Parliamo delle rivelazioni clamorose di Wikileaks. Quali sono state le più importanti?

“Il video Collateral Murder, in cui si vede un elicottero americano Apache sparare su civili inermi a Baghdad, mentre l’equipaggio ride di gran gusto, è uno dei documenti che rimarranno per sempre. Così come i documenti sulle guerre in Afghanistan e in Iraq, che hanno permesso di guardare alla realtà di quelle due guerre, al di là della micidiale macchina della propaganda bellica. I cablo della diplomazia americana rimangono di eccezionale importanza: 11 anni dopo la loro pubblicazione, ci permettono ancora di capire il mondo. In questi ultimi 11 anni, non ho mai smesso di consultarli. Quando è emerso che l’Italia armerà i suoi droni militari, la prima cosa che ho fatto è stata quella di andare a consultare i cablo per avere informazioni fattuali sulla guerra dei droni. E così le schede dei detenuti di Guantanamo. E’ per questi documenti che Julian Assange rischia 175 anni di galera. Ma in aggiunta a questi file segreti del governo americano, ci sono altri documenti di grande importanza. Le email dell’azienda italian Hacking Team, per esempio, ci hanno permesso di entrare nel mondo oscuro delle aziende private del cyberspionaggio e dei loro affari con le dittature e i servizi segreti di regimi famigerati per le loro violazioni dei diritti umani. Quando l’opinionista del Washington Post, Jamal Khashoggi è stato ucciso barbaramente dalle autorità saudite, il Washington Post ha consultato le email della Hacking Team, pubblicate da WikiLeaks anni prima, alla ricerca di informazioni sulle cyberarmi che i sauditi avevano acquistato da varie aziende, tra cui appunto l’italiana Hacking Team, per sorvegliare i dissidenti. Le rivelazioni sullo spionaggio della NSA contro i leader mondiali, tra cui Berlusconi e i suoi più stretti alleati, sono molto importanti, come anche importantissime le rivelazioni sulle cyberarmi della Cia, perché permettono per la prima volta di scoprire l’arsenale di armi fatte di software – da qui il nome ‘cyberarmi’ –  con cui l’agenzia penetra nei computer, nei telefoni, nei dispositivi elettronici, nelle televisioni smart, per sorvegliare un obiettivo e rubare informazioni. Si tratta di armamenti invisibili, proprio perché fatti di software, la cui proliferazione crea rischi immensi, anche perché è molto più difficile da monitorare, in quanto queste armi non si vedono, non vengono caricate su navi o treni nei porti”.

Approfondiamo la vicenda dell’Afghanistan. Cosa hanno svelato i documenti pubblicati da Wikileaks di quella missione occidentale? 

“I documenti sulla guerra in Afghanistan, che WikiLeaks rivelò nel luglio del 2010, furono un grande colpo giornalistico: permettevano di aprire quella che il New York Times chiamò ‘una straordinaria finestra sul conflitto’. Si trattava di 91.910 report segreti, compilati dai soldati americani sul campo tra il gennaio del 2004 e il dicembre del 2009. Per la prima volta dal lontano 1971, quando Daniel Ellsberg aveva rivelato i 7mila documenti top secret sulla guerra in Vietnam, passati alla storia come Pentagon Papers, era possibile avere decine di migliaia di documenti segreti su una guerra, non 30-40 anni dopo la sua fine – quando ormai interessavano giusto agli storici di professione – ma proprio mentre i combattimenti erano in corso. La documentazione permetteva di ricostruire quanto poco avessero ottenuto le truppe americane e quelle della coalizione internazionale dopo 9 anni di guerra. Per esempio, nella regione di Herat, controllata dagli italiani, dopo quasi un decennio di addestramento condotto dai nostri soldati, gli americani scrivevano nei loro report che la polizia afghana abbandonava la divisa per arruolarsi nei talebani, perché gli agenti non venivano pagati e non era chiaro dove andassero a finire i soldi degli stipendi. Addittura arrotondavano con i sequestri di persona, mettendosi d’accordo con i rapitori. I denari stanziati per costruire infrastrutture decisive, come le strade, per lo sviluppo di un paese i cui abitanti, non dimentichiamolo, hanno un’aspettativa di vita media di circa 54 anni, sparivano nel nulla. Anche la guerra segreta, condotta con unità speciali, come la Task Force 373 – di cui non si era mai saputo niente prima delle rivelazioni di WikiLeaks – non era esattamente un successo: a volte, la Task Force non aveva letteralmente idea di chi ammazzava e quindi colpiva civili innocenti o perfino le stesse forze afghane. Queste stragi creavano un forte risentimento nella popolazione locale contro le truppe occidentali. I documenti sulla guerra in Afghanistan fotografavano già il fallimento che 11 anni dopo abbiamo visto tutti: 20 anni di una guerra senza senso, dove alla fine l’esercito più potente del mondo, il più tecnologicamente avanzato, è stato sconfitto da una forza medievale come i talebani”.

Qual è stata la ricaduta, in Italia, delle rivelazioni di Wikileaks? Negli Usa lo sappiamo, nel nostro paese?

“Ricordo come fosse ieri quando nell’ottobre del 2010 pubblicai, con quello che era allora il mio caporedattore a l’Espresso, Gianluca Di Feo, le rivelazioni sull’Italia, che emergevano dai 91.910 file segreti di WikiLeaks: gli Afghan War Logs. Mentre la retorica nazionale si fermava alla storia dei ‘nostri ragazzi’ che andavano in Afghanistan per aiutare le popolazioni locali, i file raccontavano un’altra storia: la guerra vera e propria che, dal 2004 al 2009, i soldati italiani combattevano ogni giorno con centinaia di guerriglieri uccisi, raid dal cielo, i micidiali improvised explosive devices (IED), le imboscate, i kamikaze, decine di soldati feriti, chi in modo grave e chi meno, di cui in Italia non si era mai saputo nulla. Con il mio caporedattore facemmo un grande lavoro sui documenti, leggendone migliaia, e pubblicando una lunga inchiesta su quello che era allora il mio giornale, l’Espresso. Come scrivo nel mio libro, con quell’inchiesta avevamo fornito per la prima volta dati e informazioni fattuali alla politica, ai media e all’opinione pubblica italiana, che potevano finalmente guardare a quel conflitto al di là della nebbia della guerra e della propaganda dei ‘ nostri ragazzi’. Ma non ci fu nessun dibattito: il silenzio della politica e l’incapacità o la mancanza di volontà dei media italiani di fare squadra, contribuendo a esercitare pressione sulle istituzioni, furono patetici. Con i documenti successivi, come per esempio i cablo, le reazioni non mancarono, ma tutto è sempre stato gestito all’insegna del troncare e sopire. Per esempio, nel caso delle rivelazioni dello spionaggio della NSA contro Berlusconi e i suoi più stretti collaboratori, che pubblicai in partnership con WikiLeaks nel febbraio 2016, la procura di Roma aprì un’inchiesta, io ero in attesa di essere interrogata come persona informata dei fatti, visto che avevo rivelato quelle intercettazioni insieme a WikiLeaks. Beh, ancora aspetto la procura di Roma: nessuno mi ha mai interrogato e l’indagine non è mai pervenuta… Il nostro Paese è diventato la piattaforma di lancio delle guerre USA – dall’Iraq fino alla guerra segreta dei droni – nella complicità della politica e nel silenzio complice o comunque colpevole dei mezzi di informazione”.

Torniamo ad Assange. Tu lo conosci bene, ti chiedo cosa ti ha insegnato, perdonami il verbo, sul piano giornalistico?

“Mi ha insegnato moltissimo. Mi ha insegnato a usare la crittografia per proteggere le mie fonti giornalistiche. Poi, è grazie a lui e ai giornalisti di WikiLeaks che ho acquisito una solida capacità di verificare l’autenticità di documenti segreti di cui non conoscevo con certezza la provenienza e su cui non potevo andare in giro a fare domande, perché quando un giornalista ha in mano file segreti della Cia o della Nsa o del Pentagono, non può andare a chiedere a questo o a quello se ti dà una mano a scoprire se la documentazione è vera o falsa. Se il giornalista lo fa, si espone a un grave rischio personale ed espone le sue fonti a enormi rischi. Infine, Julian Assange mi ha dato la lezione più importante: la battaglia contro il segreto può essere vinta. Prima di WikiLeaks, per me era inconcepibile pensare di riuscire a esporre sistematicamente i crimini di quello che io chiamo il Potere Segreto. Sì, ero consapevole di quanto aveva fatto Daniel Ellsberg con i Pentagon Papers, ma mi appariva un episodio isolato, di difficile riproducibilità. E invece Julian Assange e WikiLeaks mi hanno fatto capire che l’impossibile era diventato possibile. Se guardo al nostro Paese alla luce di questa lezione, io sono convinta che in Italia le istituzioni sono riuscite a coprire gli stragisti e a nascondere la verità sui cosiddetti ‘misteri italiani’ per quasi 60 anni, ma le cose potrebbero cambiare profondamente in futuro. WikiLeaks ci ha fatto capire che né il Pentagono, né la Cia, né la NSA riescono più ad avere il controllo totale dei loro sporchi segreti, tanto da aver perso il controllo di centinaia di migliaia di file classificati, pubblicati da WikiLeaks e da cui emergono crimini di guerra, torture e gravissime violazioni dei diritti umani. Credo che sarà solo questione di tempo e anche gli apparati dello Stato italiano subiranno la stessa sorte e finalmente potremo scoprire come agiscono quando sono completamente al riparo dagli sguardi dell’opinione pubblica e dei media. Non esiste democrazia se i giornalisti non hanno la libertà di rivelare gli angoli più oscuri del potere e se i cittadini non hanno la possibilità di scoprirli, grazie ai giornalisti e alle loro fonti. E’ esattamente questa la differenza più profonda tra le democrazie e regimi: nelle dittature, i giornalisti non sono liberi di rivelare la criminalità di Stato ai più alti livelli e se lo fanno, finiscono ammazzati o in galera per sempre. Nelle democrazie, invece, deve essere possibile. Ecco perché ho investito così tanto su questo caso. Perché voglio contribuire, con il mio giornalismo, a creare una società in cui un giornalista può rivelare la criminalità di Stato ai più alti livelli e farlo in assoluta sicurezza. Per questo, Julian Assange e i giornalisti e collaboratori di WikiLeaks devono essere salvati e protetti”. 

Il tuo libro è una battaglia contro il potere segreto (di qualsivoglia colore). Per concludere, con un messaggio di speranza, qual è l’arma più potente per sconfiggerlo?  Il giornalismo?

“Il mio libro è il frutto di un lavoro di giornalismo investigativo durato 13 anni sia sui documenti segreti di WikiLeaks sia sul caso Julian Assange e WikiLeaks: 13 anni che ne includono 6 di battaglia legale con il Freedom of Information Act (Foia) in ben 4 giurisdizioni – Inghilterra, Stati Uniti, Australia e Svezia – per ottenere i documenti del caso, visto che nessun giornalista al mondo ha mai provato a richiederli per ricostruire il caso in modo fattuale. Perché ho investito tutti questi anni e questo enorme lavoro su questo caso? Perché se il complesso militare-industriale degli Stati Uniti riesce a estradare e chiudere per sempre in prigione Julian Assange e i giornalisti di WikiLeaks, quello che io chiamo ‘il Potere Segreto’ avrà vinto e nelle nostre democrazie i giornalisti non saranno liberi di rivelare i crimini di guerra e le torture, senza perdere la libertà. E senza la luce di quel giornalismo, la nostra democrazia muore”.

IL LIBRO:

Stefania Maurizi, Il potere segreto. Perché vogliono distruggere Julian Assange e WikiLeaks (Prefazione di Ken Loach ), Ed. Chiarelettere, Milano, 2021, pagg. 400. € 19,00

“Per Freire tutti sono portatori di alcuni saperi e vanno ascoltati”. Intervista di Matías Loja a Leonardo Boff

Nel centenario della nascita del grande pedagogista brasiliano  Paulo Freire, pubblichiamo, in una nostra traduzione dallo spagnolo, questa intervista, apparsa sul sito del quotidiano argentino La Capital *, al teologo brasiliano Leonardo Boff.

Paulo e Leonardo. Uno, maestro; l’altro, uno dei fondatori della Teologia della Liberazione. Uno formatore di maestri, l’altro, teologo e ecologista. Ma entrambi educatori brasiliani che condividono l’opzione preferenziale per i poveri e per la loro liberazione. Essere liberi non per imitare l’oppressore, ma per essere protagonista di un altro tipo di società nella quale non ci siano relazioni di oppressione ma di collaborazione e amore”, dice Leonardo Boff.

La sofferenza della Madre Terra, la povertà e la disuguaglianza sono alcuni dei temi che occupano attualmente la sua agenda, che lo vede molto attivo attraverso discorsi e conferenze dalla sua casa a Jardim Araras, alla periferia di Petrópolis. «L’ecologia integrale e la teologia della liberazione hanno qualcosa in comune: entrambe partono da un grido», ha scritto in un suo libro Reflexões de um velho – Teólogo e pensador (Editora Vozes, 2018).

A cento anni dalla nascita di Paulo Freire, Leonardo Boff ha parlato con il quotidiano La Capitale ha raccontato aneddoti del suo legame con l’educatore, evidenziando l’eredità dei suoi principali libri e la validità di alcune delle frasi più ricordate del pedagogo. Tra queste l’affermazione che “educare è un atto d’amore”.

Come era Paulo Freire? Puoi raccontare un aneddoto con lui?

Paulo Freire era una persona che viveva concretamente quello che insegnava: profonda umiltà, capacità di ascolto dell’altro con amorevolezza, una parola che gli piaceva usare più del semplice amore. Ho avuto modo di conoscerlo meglio quando lavoravamo insieme, una volta all’anno, la settimana di Pentecoste a Nijmegen (Olanda). Era un gruppo di circa 25 persone, tra teologi, filosofi, sociologi di frontiera come Hans Küng, Rahner, Congar, Metz e altri. Lo scopo era quello di preparare i dieci numeri della rivista internazionale Concilium, che è tuttora pubblicata in sette lingue. Io ero il più giovane e rappresentavo l’America Latina. C’era una commissione di esperti di altre aree che accompagnavano le sessioni. Paulo Freire lavorava presso il Consiglio Mondiale delle Chiese in Svizzera ed era responsabile per la tematica dell’educazione nel mondo. Per diversi anni c’incontravamo lì a Nijmegen e si è sviluppata una grande amicizia, proseguita poi in Brasile quando ha potuto tornare dall’esilio. Ricordo che mi chiedeva sempre di portargli una bottiglia di succo di ciliegia. Era il modo per sentirsi a casa. Abbracciava la bottiglia e piangeva di saudade.

Quale pensi sia la sua migliore eredità?

La migliore eredità è il suo metodo apprezzato in tutto il mondo e che è stato assunto dalla Teologia della Liberazione. Per lui, tutta l’educazione è una costruzione collettiva, tra tutti, simultaneamente insegnanti e studenti. Tutti sono portatori di alcuni saperi e devono essere ascoltati. Quindi la prima cosa è ascoltare il mondo e l’altro. È ascoltando il mondo che apprendiamo. Leggere prima il mondo, poi leggere le lettere. Ignorante è colui che pensa che il povero sia ignorante. Il povero sa e deve essere ascoltato. Nasce così il dialogo che consente la costruzione collettiva della conoscenza. Partire sempre dal basso, dal livello di coscienza delle persone e attraverso il dialogo crescere insieme. L’educazione non cambia il mondo, cambia le persone che cambieranno il mondo. Educare è un atto d’amore e senza amore non c’è conoscenza che umanizzi i rapporti umani.

Cè un legame tra la pedagogia della liberazione e la pedagogia della cura della Madre Terra?

Paulo Freire affrontò la questione ecologica solo alla fine della sua vita, perché all’epoca in cui elaborò la Pedagogia degli oppressi e l’Educazione come pratica della libertà, le sue due opere classiche, non era ancora rilevante. Alla fine, include nell’educazione la cura della Madre Terra, rendendosi conto delle minacce a cui è sottoposta. Ha creato il verbo “esperanzar“, l’azione che suscita la speranza operativa e la “possibilità praticabile”  (la sua espressione frequente) per raggiungere “una società meno malvagia che non renda così difficile l’amore“. All’interno di questo amore dobbiamo includere la Madre Terra senza la quale non c’è futuro per l’umanità.

Cosa significa pensare oggi nella liberazione in una regione come quella latinoamericana tanto disuguale e con tanta povertà?

Tutto il processo educativo di Paulo Freire parte da questa domanda sulla situazione di povertà e di disprezzo generalizzato verso i poveri. Il suo libro Pedagogia degli oppressi è l’espressione di questa preoccupazione. Non è una pedagogia per gli oppressi, ma il contrario: è come gli oppressi prendono coscienza della loro oppressione, come hanno dentro di loro l’oppressore e come tirarlo fuori per essere liberi. Essere liberi non per imitare l’oppressore, ma per essere protagonisti di un altro tipo di società in cui non esistano rapporti di oppressione, ma di collaborazione e amorevolezza. Se i poveri non prendono coscienza della causa della loro oppressione e insieme ad altri non lottano per liberarsi, non usciranno mai dalla situazione di povertà. Da ciò Paulo Freire ha coniato l’espressione “coscientizzazione“, che è molto più di essere consapevoli. È l’azione di creare coscienza della loro oppressione in funzione della loro liberazione.

Qual è il migliore omaggio che si possa fare a Freire in questo centenario?

Per il centenario della sua nascita, su internet (online) si svolgono dibattiti e incontri in tutto il mondo, soprattutto in Brasile. Data la degradata situazione mondiale in cui cresce il numero dei poveri, è importante il metodo di Paulo Freire: a partire dagli stessi oppressi, affinché loro stessi scoprano le cause della loro oppressione, sognino un altro tipo di società e si organizzino finalmente per realizzarla. Questo compito è urgente specialmente ora sotto il Covid-19, che attacca soprattutto i poveri. Loro devono organizzarsi in solidarietà per sopravvivere.

*(Dal sito: https://www.lacapital.com.ar/educacion/leonardo-boff-para-freire-todos-son-portadores-algun-saber-y-deben-ser-escuchados-n2688518.html

  • (Traduzione dallo Spagnolo di Gianni Alioti)

RIFLESSIONI SULL’AFGHANISTAN. INTERVISTA A PASQUALE PUGLIESE

A poco più di un mese dalla presa di Kabul da parte dei talebani, facciamo, in questa intervista, con Pasquale Pugliese, attivista del Movimento Nonviolento, e studioso delle questioni legate alla non violenza, una riflessione su quello che significa per l’Occidente l’esito di questi venti anni di guerra.

Pasquale Pugliese, tu sei un attivista del Movimento Nonviolento e studioso di questioni legate alla Nonviolenza (ricordiamo il tuo ultimo libro ha un titolo significativo “Disarmare il virus della violenza”), in questa intervista, per quanto è possibile, cercheremo di proporre una lettura complessa degli avvenimenti di questi ultimi giorni che riguardano l’Afghanistan e cosa significano per l’occidente . In questa ottica ti chiedo: Venti anni dopo la guerra sono tornati di nuovo al potere i Talebani, cosa abbiamo fatto o non abbiamo fatto in tutto questo tempo?

Abbiamo fatto l’unica cosa che non dovevamo e non potevamo fare: la guerra. Dopo l’attacco terroristico a New York dell’11 settembre 2001, invece di capire le ragioni di quanto successo e rispondere in maniera intelligente e complessa, cioè all’altezza della situazione, come invitavano a fare le voci più lucide dell’Occidente, dalla newyorkese  Susan Sontag negli USA – “Dov’è chi riconosce che non si è trattato di un «vile» attacco alla «civiltà», o alla «libertà», o all’«umanità», o al «mondo libero», ma di un attacco all’autoproclamata superpotenza del mondo, sferrato in conseguenza di specifiche azioni e alleanze americane? Quanti americani sanno che l’America continua ancora a bombardare l’Iraq?” (The New Yorker, 24 settembre 2001) – a agli italiani Tiziano Terzani  – “Se alla violenza del loro attacco alle Torri Gemelle noi risponderemo con una ancor più terribile violenza, ora in Afghanistan, poi in Iraq, poi chi sa dove, alla nostra ne seguirà necessariamente una loro ancora più orribile e poi un’altra nostra e così via. Perché non fermarsi prima? Abbiamo perso la misura di chi siamo, il senso di quanto fragile ed interconnesso sia il mondo in cui viviamo, e ci illudiamo di poter usare una dose, magari «intelligente», di violenza per mettere fine alla terribile violenza altrui” (Corriere della Sera, 4 ottobre 2001) – e Gino Strada- “Senta, è da quando siamo piccoli che ce la menano col si vis pacem para bellum dei lati ni. Non è vero, è vero l’esatto contrario. Se vuoi la pace prepara la pace. Con la guerra si prepara solo la prossima guerra” (intervista a la Repubblica, 7 ottobre 2001, da Kabul sotto le bombe che iniziavano a cadere) – ecco, invece di scoltare i consigli più saggi, abbiamo seguito pedissequamente il presidente Gerorge Bush jr che già la sera dell’11 settembre, prima ancora di capire chi fossero gli attentatori e quale fosse il movente ti tale attacco aveva già deciso, rispondendo così a chi gli faceva notare che il Diritto internazionale non prevede la guerra come strumento di vendetta: “non mi frega niente degli avvocati internazionali, andremo lì a prenderli a calci nel culo” (riportato da Richard Clarke, coordinatore delle operazioni  contro il terrorismo della Casa Bianca nel libro Against all enemies). Impelagandoci così in vent’anni di “guerra infinita”, prima in Afghanistan, poi in Iraq, poi in Libia, che ci riconsegna – centinaia di migliaia di morti dopo – un mondo complessivamente ancora più instabile e violento di prima. Lo ha scritto lucidamente il centenario Edgar Morin pochi giorni fa: “la guerra testimonia dell’incapacità di risolvere i problemi fondamentali in modalità complessa”.
È evidente, Nell’opinione pubblica, il fallimento della strategia bellica dell’occidente. Alcuni dicono: “la democrazia non si esporta con la guerra”. E guardando i devastanti risultati delle guerre in Iraq, Afghanistan, e Libia sicuramente è vero. Ma altrettanto vero che, nella storia, ci sono stati momenti cui la forza ha consentito, vedi la nostra lotta di liberazione, la vittoria della democrazia. Insomma la vicenda è complessa. Come ti poni di fronte a questa complessità?

Il fallimento di questo ciclo di guerre è rappresentato anche dalla loro contro-produttività, non solo rispetto alla retorica della “esportazione della democrazia”, come abbiamo visto a Kabul – che, in verità, come ha ribadito il presidente John Biden il 17 agosto, “non è mai stato l’obiettivo della nostra missione nel Paese, che era centrata su attività di anti-terrorismo e non sulla creazione di una democrazia” –  ma anche rispetto agli obiettivi dichiarati. Se voleva essere un’azione di “vendetta” (i “calci in culo” di Bush), a fronte di quasi 3.000 vittime delle Torrri gemelle queste guerre hanno prodotto invece altre 30.000 e passa vittime statunitensi ed occidentali tra soldati e contractors ed altrettanti veterani suicidi, vittime della sindrome post traumatica. Ossia le vittime dell’11 settembre sono state moltiplicate per 20 tra i soli occidentali. Che si sommano alle 360.000 vittime civili afghane e irakene. Se, inoltre, voleva essere un’azione di contrasto del terrorismo, la violenza bellica, che si è fatta a sua volta terrorismo (pensa ai tantissimi civili sterminati con i droni – cioè giocando con un joystick a migliaia di chilometri di distanza – come i bambini in risposta all’attentato all’areoporto di Kabul nei giorni della fuga) non ha fermato ma ha generato ed alimentato la violenza fondamentalista, che in questi vent’anni si è moltiplicata, radicalizzata ed ha colpito ovunque, come registra anno dopo anno il Global Terrorism Index. La guerra è dunque una disfatta su tutti i piani, per (quasi) tutti, sempre.

Questo era perfettamente chiaro anche ai nostri Costituenti, i quali – uscendo dalla tragedia immane della seconda guerra mondiale e dalla lotta di Liberazione – sapevano che la guerra è il peggiore degli strumenti, da “ripudiare” (verbo non casuale) non solo come “strumento di offesa alla libertà degli altri popoli”, ma anche “come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Cioè chiedevano alle generazioni successive di cercare altri mezzi per affrontare e risolvere anche i conflitti internazionali, per eliminare la guerra dalla storia: ma i nostri governi hanno ripudiato la Costituzione, invece della guerra. Per costruire una difesa civile non armata e nonviolenta avremmo potuto attingere, per esempio, agli straordinari esempi di resistenza non armata e nonviolenta avvenuti in tutta Europa contro il nazifascismo – raccontati da storici come Jaques Semelin (Senz’armi di fronte ad Hitler), Anna Bravo (La conta dei salvati), Ercole Ongaro (Resistenza nonviolenta 1943-45) – eppure non sufficientemente conosciuti e studiati, al contrario di quanto scriveva Hannah Arendt in La banalità del male a proposito della resistenza danese: “su questa storia si dovrebbero tenere lezioni obbligatorie in tutte le università per dare un’idea della potenza enorme della non violenza, anche se l’avversario è violento e dispone di mezzi infinitamente superiori.” E’ questa forza complessa che dovremmo finalmente studiare, promuovere, organizzare, finanziare, diffondere, non il mezzo banale, antiquato e devastante della guerra, che risucchia immani risorse per preparare strumenti di morte, sottratte alla promozione della vita.
Un’altra sfida che ci viene è che la minaccia del terrorismo, di matrice jihadista, è ancora vivo. La risposta bellica non è sufficiente, dal tuo punto di vista, quale via è efficace?

Il punto è che quella bellica non è stata solo la risposta sbagliata a questa minaccia, ma ne è stata anche la causa – come ricordavano Susan Sontang e molti altri dopo l’11 settembre 2001 – in un rispecchiamento reciproco in cui il terrorismo della guerra non solo non ha fermato ma ha potenziato la guerra del terrorismo. Questo vale tanto per la componente talebana, che è stata considerata “resistenza” quando si batteva contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan negli anni ‘80, finanziata e sostenuta militarmente dagli USA, ed è diventata “terrorismo” quando si è battuta contro l’invasione occidentale. Così come il cosidetto “Stato islamico” che nasce come reazione radicalizzata all’invasione pretestuosa dell’Iraq – fondata sulle prove inventate delle “armi di distruzione di massa” di Saddam Hussein – ed ha rappresentato un richiamo alla lotta santa per la liberazione contro i nuovi “crociati” occidentali. Quindi il primo passo da fare è il disarmo militare, la fine della logica imperialistica che ha portato ad una nuova corsa agli armamenti, l’uscita da quella che Edgar Morin ha chiamato “l’età del ferro planetaria, nella quale siamo ancora” (Terra Patria) e la ricerca del dialogo e dell’alleanza con il più grande islam nonviolento, che è vittima sia del terrorismo che della guerra. Esistente, per esempio, proprio tra il Pakistan e l’Afganistan fin dai tempi di Badshah Kan detto “il Gandhi musulmano”. Invece, tenere viva la paura della minaccia del fondamentalismo musulmano, alimentandola con le guerre di religione, significa consentire al complesso militare-industriale – sul quale metteva in guardia già il presidente USA Eisenhower nel discorso di addio alla nazione (che in quanto ex comandante in capo delle forze Alleate nel Mediterraneo ed in Europa durante la seconda guerra mondiale era uno che di eserciti ed armamenti se ne intendeva)  –  di sviluppare la propria potenza fondata su armi sempre più costose. Distraendo, in questo modo, enormi risorse dalla difesa dalle vere minacce: il disastro ambientale, il cambiamento climatico, le nuove pandemie (che ne sono anche effetti), le stesse guerre e le armi nucleari che, invece, proliferano e si ammodernano. Insomma, come provo a spiegare nel mio libro, bisogna ridefinire dalle fondamenta il rapporto tra minacce e difese, cambiandone il paradigma e la relativa allocazione delle risorse.

Tu hai scritto che il vero vincitore, in Afghanistan, è stato il “complesso militare industriale”. L’occupazione militare, agli USA, è costata 2300 miliardi. La cifra è una follia. Anche qui si pongono interrogativi non da poco per l’occidente e il resto del mondo che stanno vivendo una pandemia terribile. Anche questa follia dovrebbe portare l’occidente ad una svolta, cioè ad un radicale cambio di passo. Quale potrebbe essere? La intravedi?

Se c’è una cosa che ci ha  insegnato questa pandemia è che non serve erigere muri, alzare barriere, tracciare confini, chiudere i porti, perché il pianeta è naturalmente e strutturalmente interconnesso. Irriducibilmente aperto, nonostante le nostre chiusure mentali. Che siamo tutti sulla stessa barca e nessuno può salvarsi da solo, indipendentemente dalla ricchezza, dalla religione, dalla nazionalità e dal potere personali. La vita di ciascuno dipende anche dal comportamento responsabile degli altri. Che abitiamo un sistema fragile, delicato, in equilibrio instabile e precario ed è più saggio investire le risorse di tutti per la difesa della vita, dell’umanità e dell’ecosistema, anziché per la preparazione delle guerre. Che la società esiste – non solo l’individuo – e resiste e con essa la solidarietà, l’empatia, il prendersi cura reciproco, la responsabilità nei confronti degli altri, nonostante decenni in cui ci viene stoltamente insegnato il contrario. E invece anche la risposta alla pandemia non ha trovato altra rappresentazione che una metafora bellica, che poi ha generato l’affidamento ai militari della stessa gestione dell’emergenza. Senza nessuna autocritica sul fatto che, per esempio, nel nostro Paese la continua crescita della spesa pubblica militare negli ultimi dieci anni, ha corrisposto al progressivo taglio degli investimenti pubblici sul Servizio sanitario nazionale, che è stato decurtato di oltre 37 miliardi di euro, mentre la spesa militare nei bilanci dei governi è schizzata ad oltre 26 miliardi annui con un aumento, nello stesso periodo, di oltre il 20%. Anche per coprire la ventennale presenza armata italiana in Afghanistan. Il nostro è un paese che ha circa trecento aziende che producono armi – di cui quelle “legalmente detenute” da privati cittadini, come ricorda spesso Giorgio Beretta, fanno ormai più vittime delle mafie – ed una sola che produce ventilatori polmonari… Ossia siamo armati fino ai denti, ma disarmati di fronte alle minacce reali.

Ciò che è necessario dunque non è solo un “cambio di passo”, ma un vero e proprio salto di civiltà, che rimetta in ordine le priorità. Ma questo non è solo un problema politico, riguarda anche la cultura e l’informazione, necessita di un processo di “coscientizzazione”, come avrebbe detto il pedagogista Paulo Freire. Per questo credo che ormai solo l’educazione ci possa davvero salvare

L’opinione pubblica è rimasta colpita dalle donne di Kabul. Che sono scese in piazza per i loro diritti. La reazione dei Talebani è stata violenta. Come difenderle con quale strategia efficace?

Prima di rispondere è necessario fare un paio di premesse. L’opinione pubblica rimane colpita da ciò che l’informazione decide di mettere sotto l’obiettivo: in questo momento c’è sotto la lente – giustamente – la situazione delle donne afghane, ma non c’è altrettanta attenzione, per esempio, la situazione delle donne della monarchia assoluta dell’Arabia Saudita, i cui diritti sono ugualmente calpestati da sempre, oppure su quella delle donne turche, il cui governo ha ritirato perfino la propria adesione anche dalla Convenzione di Istambul contro la violenza sulle donne. Eppure non solo non abbiamo fatto nessuna guerra contro questi paese, ma anzi sono partner politici e commerciali di primo piano, nostri e degli USA, anche sul piano militare. La seconda premessa è di carattere storico: quando negli anni ’80 del secolo scorso il presidente Ronald Reagan incontrava ripetutamente allo “studio ovale” e finanziava abbondantemente i mujaheddin (i guerrieri santi) – compreso un certo Bin Laden, allora alleato – perché facessero la jihād (la guerra santa) contro la Repubblica Democratica dell’Afganistan, in funzione anti sovietica, della fine dell’emancipazione delle donne afghane, conquistata in quegli anni di governi filo-socialisti, che ne sarebbe direttamente conseguita, non importava assolutamente a nessuno. Quel che accade oggi è frutto, anche, di quelle scelte scellerate: tutte le guerre passano sempre sui corpi delle donne.

Oggi non rimane che fare l’unica cosa sensata che si dovrebbe fare ovunque nel mondo: sostenere economicamente e dare visibilità alle organizzazioni delle donne locali che lottano per i propri diritti. Su questo la stampa internazionale ha un grande potere e, dunque, una grande responsabilità. In Afghanistan, per esempio, segnalo l’Associazione rivoluzionaria delle donne afghane RAWA, attiva tanto contro il fondamentalismo religioso e politico dei talebani che contro l’aggressione militare occidentale. Qui il loro ultimo comunicato: http://www.rawa.org/rawa/2021/08/21/rawa-responds-to-the-taliban-takeover.html

I Talebani non sono cambiati, il governo ha ministri che sono dei terroristi. Come comportarsi? Quale condizionamento esercitare?

Credo che, a questo punto, si tratti finalmente di far tacere le armi e far scendere in campo la diplomazia, che debbano tornare in primo piano le Nazioni Unite – da troppo tempo esautorate e ignorate – che bisogna fare attenzione al rispetto dei diritti umani, in Afghanistan e ovunque nel mondo, perché non ci sono dittature buone e oscurantismi amici (o addirittura “rinascimentali”). Che bisogna sostenere le azioni della società civile afghana, come per le organizzazioni delle donne, con la quale avviare percorsi di cooperazione internazionale. Bisogna inoltre fare attenzione ai traffici di armi ed a quelli di oppio, perché non solo la fuga statunitense ha lasciato sul terreno ingenti quantitativi di armamenti destinate al liquefatto esercito afghano, ma ha lasciato un paese che, in questo ventennio, è anche diventato il principale produttore di oppio al mondo. Insomma, bisogna prendere atto che la strategia bellica è fallita e cambiare decisamente pagina. Imparando qualcosa da questa lezione.

Tocchiamo il tema della “non víolenza” Ed allarghiamo l’orizzonte. Alla luce degli avvenimenti ultimi, compresa la pandemia, come sviluppare in modo complesso e nuovo questa via? Vedi segnali di speranza? 

Questo è il tema di fondo del libro Disarmare il virus della violenza, nel quale riprendo l’analisi di Johan Galtung in relazione al sistema che definisce “triangolo della violenza”, composto dalla violenza diretta, dalla violenza strutturale e dalla violenza culturale, dove la prima e più evidente violenza diretta è quella che si manifesta nelle guerre, nei terrorismi, negli omicidi, nei comportamenti violenti ai quali viene dato socialmente e mediaticamente ampio risalto, soprattutto se avvengono nel nostro Paese o nella parte occidentale del pianeta. La seconda e più indiretta e nascosta violenza strutturale si manifesta nel modello di sviluppo economico fondato sullo sfruttamento del lavoro, sulla rapina delle risorse naturali, sullo stupro dell’ecosistema; ma anche nella politica che sceglie, per esempio, di spendere per le armi anziché per scuole e ospedali o nelle leggi che sanciscono “decreti sicurezza” che trasformano il Mediterraneo in un cimitero di disperati. Violenza strutturale è, per esempio, il potere acquisito dal complesso militare-industriale anche nel nostro Paese che spiega la crescita costante della spesa militare italiana, indipendentemente dal colore dei governi e anche dalle intenzioni dei partiti prima di andare al governo, come il folle programma di acquisto pluriennale dei cacciabombardieri F35, che procede imperterrito governo dopo governo. Senza e con la pandemia. Tuttavia, la violenza strutturale e gran parte della violenza diretta non sarebbero possibili senza la violenza culturale che legittima e rende un implicito culturale – da non mettere in discussione, appunto “ovvio per tutti”, come scrive Hannah Arendt (Sulla violenza) – l’uso della violenza, la costruzione dei mezzi a essa necessari e lo spreco di risorse pubbliche a questo scopo.

Per questo la nonviolenza – al di là del mero “pacifismo” – non può che occuparsi di de-costruire l’intero sistema di violenza, perché non è sufficiente opporsi alle espressioni più superficiali se non si aggrediscono (dal latino ad-gredior, andare verso) quelle più profonde che sostengono, preparano e danno legittimità alle prime. E, a mio avviso, non c’è che un mezzo per disarmare il virus della violenza sistemica in tutte le sue dimensioni – diretta, strutturale e culturale – e non è quello direttamente politico, perché la politica, almeno nel suo momento culminante, cioè quello elettorale, non apre più futuri di cambiamento, ma raccoglie quanto già disseminato dal passato nelle pieghe della società e della cultura esistenti. È piuttosto il mezzo educativo che ha una vision politica, una prospettiva di cambiamento che passa dalla costruzione di nuova cultura. La necessità di intervenire radicalmente per decostruire gli impliciti culturali che legittimano la violenza, prima che la violenza decostruisca l’umanità, costruendone le alternative nonviolente, ci consegna il mezzo educativo nel quale si realizza il fine di costruire la “realtà nuova”, come diceva Aldo Capitini – il filosofo fondatore del Movimento Nonviolento ed ideatore della Marcia della pace da Perugia ad Assisi, di cui proprio in questi giorni ricorre il sessantesimo anniversario – che si libera, man mano, dalla violenza sempre ritornante sotto una forma o un altra. Ma per aprire davvero questo capitolo, forse, dovremmo fare prima o poi un’altra intervista…

“LA PROSPERITÀ COMUNE” DI XI JINPING E LA POSSIBILE SOLUZIONE ALLA CRISI DELLE MATERIE PRIME. INTERVISTA A GIUSEPPE SABELLA

Nonostante nelle ultime settimane si siano consolidate le stime di crescita che riguardano l’Europa e, in particolare, il nostro Paese, la carenza di materie prime si sta facendo sempre più serio. Tutto naturalmente coincide con la forte ripartenza dell’industria e delle filiere produttive ma, come ci dice il direttore di Think-industry 4.0 Giuseppe Sabella in questa intervista, “si tratta di un problema che parte da lontano e che oggi è esploso”. A Sabella abbiamo chiesto di fare luce su questa situazione anche nell’ottica di provare a capirne le possibili vie d’uscita.

 

Sabella, la carenza delle materie prime e il loro seguente rincaro è un fenomeno che dura da qualche mese e che oggi rivela la sua intrinseca problematicità. Come si spiega questa situazione?

Il problema delle materie prime è molto serio, il loro costo sta schizzando in modo imprevedibile, facendo salire i prezzi delle produzioni. Secondo Eurostat vi è una crescita su base annua del 12,1%. Vi sono incrementi notevolissimi che vanno dal prezzo del tondo di acciaio per cemento armato (+243%), a quello del pvc (+73%), a quello del rame (+38%) etc. Da una parte la decisa ripartenza della produzione industriale incide sulla richiesta di materie prime in modo importante. Ma il punto vero è che si sta qui giocando una grande guerra commerciale Europa-Cina. In questo momento, Pechino ha il coltello dalla parte del manico ma credo assisteremo a qualche sviluppo: non è questa una situazione che può durare a lungo, per più ragioni. A ogni modo, lo scorso anno – in pieno lockdown – i prezzi delle materie prime crollavano in tutto il mondo e la Cina ne ha fatto incetta. Hanno comprato tutto ciò che potevano comprare a basso costo e oggi detengono quasi l’intero stock delle materie prime. E con loro bisogna fare i conti. Va detto che a Pechino sono stati molto bravi, ma queste sono cose che possono avvenire soltanto in un mondo così verticistico come quello cinese. A ogni modo, i fattori di questa crisi – che allo stato attuale pare imprevedibile – sono anche altri.

 

A cosa allude?

In questi 30 anni l’Europa si è mossa secondo una politica di offshoring scriteriata e imprudente, delocalizzando anche ciò che le faceva perdere autonomia. La crisi dei semiconduttori, che è un’altra criticità notevole per la produzione industriale, ne è la prova. La Sevel si sta per fermare una seconda volta. Del resto, anche sul piano sanitario, ricordiamoci che all’inizio della pandemia eravamo senza mascherine perché l’intera produzione era delocalizzata. Non solo, l’Europa è l’unico grande Paese che non ha un proprio vaccino ma lo importa: gli USA ne hanno 3 (Pfizer, Moderna e Johnson & Johnson), la Cina ha Sinopharm, la Russia ha Sputnik, la Gran Bretagna ha AstraZeneca. Solo dando attuazione al programma Green Deal si può uscire da questa situazione di dipendenza, sebbene resti l’incognita delle materie prime.

 

Perché, come dice, dando attuazione al programma Green Deal si esce da questa situazione?
Il programma Green Deal (2019) intende ridisegnare e riorganizzare le filiere produttive in Europa per rispondere alla riorganizzazione della globalizzazione: dal 2017 il commercio mondiale è rallentato in modo consistente fino a rendere i grandi mercati sempre più organizzati attorno alle grandi piattaforme produttive che, naturalmente, sono USA, Cina e Europa. Mentre, come sappiamo i mercati americano e cinese sono molto coesi e di non facile penetrazione, quello europeo – anche in ragione degli interessi contrapposti tra Germania, Francia e Italia in particolare – è sempre stato facile preda del capitalismo americano e cinese. La pandemia da questo punto di vista è un tornaround molto importante perché consolida la tendenza del mercato globale organizzato secondo logiche di regionalismo aggregato – come lo chiama Alberto Quadrio Curzio – a cui si sta adeguando anche l’Unione Europea. Anche perché dopo l’ingente investimento del Next Generation EU, o il mercato europeo premia le produzioni locali o la nostra finanza pubblica avrà seri problemi. Questo è dunque il primo dei tre grandi obiettivi del Green Deal, gli altri due sono innovazione tecnologica e carbon neutrality. Speriamo di riuscire a colmare questo gap che abbiamo nei confronti delle superpotenze americana e cinese, altrimenti – ancora una volta – rischiamo di rincorrerle. Al netto del problema delle materie prime che, tuttavia, credo troverà soluzioni.

 

In che senso, secondo lei, si risolverà il nodo delle materie prime?

Ovviamente nessuno di noi vede nel futuro, mi permetto però di porre un problema di natura politica: dopo aver messo in ginocchio il mondo con il covid, la Cina si può permettere di infierire nuovamente tirando la corda sulla questione delle materie prime? Credo che a tutto ci sia ragionevolmente un limite. Inoltre, continuiamo a dare per scontato che la Cina viaggi al ritmo di questi 20 anni che ci siamo lasciati alle spalle con la pandemia. Ho seri dubbi a riguardo e mi pare ne abbia qualcuno anche George Soros che in questi giorni ha molto criticato i programmi cinesi di Blackrock – la più grande società di investimenti al mondo – che ha lanciato una serie di fondi
comuni e altri prodotti per i consumatori cinesi. Il gruppo di New York è la prima società di proprietà straniera autorizzata a farlo. Siamo evidentemente in presenza di un fatto inedito. Intanto, è di queste ore il caso del colosso immobiliare cinese Evergrande: è insolvente per oltre 100 miliardi di dollari e ha incassato il downgrade di Moody’s. Ricordiamo anche che ad aprile di quest’anno, la Banca Centrale Cinese ha chiesto agli istituti di credito di rallentare con l’offerta del credito, poiché l’espansione finanziaria che ha sostenuto la ripresa post coronavirus – alimentata da una manovra a debito della Banca Centrale – ha rinnovato le preoccupazioni per le bolle degli asset e la stabilità economico-finanziaria. Già questa primavera, quindi, a Pechino si temeva che quest’iniezione copiosa di liquidità rischiasse di spingere all’indebitamento imprese e famiglie senza la ragionevole certezza che quel debito potesse essere successivamente ripagato. In sintesi, si aggira il fantasma del fallimento che fa molta paura perché ricorda quello della bolla americana del 2008. E l’effetto contagio sulle altre aziende del settore è già cominciato. A questo quadro, si aggiunga poi quella che è la grande novità annunciata da Xi Jinping in questi giorni.

 

Si riferisce al manifesto della “prosperità comune” ?
Si, è questo l’inizio di un cambiamento per la Cina ma che aggiunge fattori di cambiamento per il mondo intero. La Cina sceglie di rivedere le sue politiche di distribuzione della ricchezza e rilancia il mercato interno. Finisce la fase dell’ “arricchirsi è glorioso” lanciata da Deng e inizia l’era della “prosperità comune” di Xi Jinping. Va tuttavia detto che a Pechino si era giunti a un punto di non ritorno: la ricchezza in Cina è soltanto nella macro-regione della capitale, il resto del Paese – che è la maggioranza – è ancora civiltà millenaria. Del resto, lo sviluppo del Dragone è stato acceleratissimo: in 20 anni, sono cresciuti come in Europa siamo cresciuti nell’arco di due secoli. È chiaro che tutto questo si porta dietro diverse fragilità. E per questo a Pechino hanno scelto di risolvere i problemi che hanno al loro interno: dalla crisi del debito, dai noti aspetti demografici oggi sempre più seri – ricambio generazionale debole, città che si spopolano, carenza di forza- lavoro – alla crescente siccità nella Cina settentrionale. È una buona notizia, anche per l’Europa, perché credo che preluda a un atteggiamento della Cina meno aggressivo nei confronti del mondo. Da qui la mia sensazione che anche la questione delle materie prime troverà soluzione.

 

A ogni modo, anche USA e UE sono alle prese con politiche di inclusione sociale e di ridistribuzione della ricchezza. Cosa possiamo prevedere per l’Europa e per il nostro Paese in particolare nei prossimi anni?

L’Europa, col suo Green Deal, è in questo momento il più grande interprete dell’Agenda Onu 2030 e del percorso verso la carbon neutrality. Io credo che questa cosa sarà determinante per due fattori: primo perché va di pari passo con l’innovazione tecnologica, ovvero soltanto attraverso l’innovazione – digitale ed energia pulita – si è più sostenibili. Ma è proprio l’innovazione che genera produttività e competitività. Quindi, sostenibilità fa rima con competitività. L’industria europea sta quindi investendo per colmare il gap tecnologico che ha con quella americana e con quella cinese. In secondo luogo, tutti sappiamo che lo sforzo per la lotta al climate change comporta investimenti ingenti: la UE è finalmente uscita dall’austerity e non credo ci tornerà facilmente. La politica espansiva de UE e BCE potrà essere rivista ma è l’unica strada per lo sviluppo sostenibile. Per quanto riguarda il nostro Paese, Il riepilogo sull’andamento economico del secondo semestre 2021 diffuso la scorsa settimana da Istat ha confermato le indicazioni che da qualche mese arrivano da Bankitalia e dagli organismi internazionali. Al di là di questo +17,3% rispetto al secondo semestre 2020 – che si riferisce a un periodo di lockdown totale e di fermo delle attività produttive salvo quelle essenziali – il +2,7% di aprile-giugno 2021 su gennaio-marzo è il numero che ci interessa e che conferma le previsioni anche in ragione d’anno (+6%). Il trend positivo dell’economia è in gran parte legato alla crescita del consumo (+3,4%): è certamente la domanda interna che, più di ogni altro fattore, concorre a determinare la stimata e auspicata crescita del pil. Prima ancora che di effetto Draghi, qui c’è dunque un sistema che ha saputo reagire all’emergenza pandemica che è anche economica naturalmente: consideriamo che la nostra manifattura è quasi tornata ai livelli pre-covid del 2019 mentre i nostri cugini tedeschi e francesi, rispetto allo stesso periodo, sono sotto ci circa 5 punti percentuali. Una capacità di resilienza precede dunque i benefici che sicuramente avremo col Pnrr. Sono naturalmente indicazioni che ci autorizzano a guardare con speranza al futuro, in attesa di sciogliere il nodo delle materie prime.

 

“Cossiga interprete drammatico di Aldo Moro. A modo suo”. Intervista a Giampiero Guadagni

Quirinale, il Presidente Emerito della Repubblica Francesco Cossiga

Su Francesco Cossiga, come si sa, ci sono luci e ombre (per qualcuno, forse, sono di più le ombre). Eppure la figura di Cossiga, come afferma, in questa intervista, il giornalista Giampiero Guadagni, “è un motore di ricerca ineludibile e inesauribile per capire la storia repubblicana italiana. Una figura politica unica, non solo per le cariche che ha ricoperto – tutte le più importanti- ma per come le ha ricoperte”. Questo libro, dal titolo curioso, cerca di offrire una possibile chiave di lettura della vicenda politica di Francesco Cossiga. Il Libro ha suscitato, tra i cronisti politici, molto interesse. Con l’autore, in questa intervista, approfondiamo alcuni punti del libro. Giampiero Guadagni è caporedattore di “Conquiste del Lavoro”.

 

Intanto, perché un libro su Cossiga?

Perché Francesco Cossiga è un motore di ricerca ineludibile e inesauribile per capire la storia repubblicana italiana. Una figura politica unica, non solo per le cariche che ha ricoperto – tutte le più importanti- ma per come le ha ricoperte. È stato il più giovane ministro dell’Interno, il più giovane Presidente del Consiglio, il più giovane Presidente del Senato, il più giovane Presidente della Repubblica. Un uomo di vastissima cultura, capace al tempo stesso di altissimi confronti e di polemiche molto ruvide con personalità di Stato così come con personaggi dello spettacolo. Senso delle istituzioni e istinto per la trasgressione: aspetti diversi della propria personalità tenuti assieme sempre con grande fatica. Anche in questo senso la sua non è solo la storia di un uomo ma la biografia di un Paese che non ha mai del tutto chiuso i conti col proprio passato. Peraltro, sia da vivo sia da morto Cossiga è stato trasversalmente ammirato e detestato. E proprio questo a mio giudizio ci permette di valutare la sua vicenda e tutta una stagione politica senza il filtro dell’ideologia: un esercizio di libertà che ci obbliga a nuove domande più di quante risposte siamo in grado di dare.

 

Perché questo titolo?

Tre minuti 31 secondi è il tempo della durata dell’ultimo messaggio di fine anno di Cossiga Presidente della Repubblica. Il più breve nella storia di questi messaggi.

Siamo nel 1991, anno molto aspro per lui. A giugno manda un messaggio alle Camere sulla necessità delle riforme istituzionale, messaggio che rimane inascoltato. Il 6 dicembre viene presentata in Parlamento la richiesta di impeachment con addirittura 29 capi di accusa: che riguardano ad esempio lo scontro con la magistratura e la legittimità della struttura Gladio; e più in generale toni e contenuti delle sue picconate. Ecco quel 31 dicembre 1991 Cossiga parla agli italiani e sostanzialmente non dice nulla. Spera che quel suo silenzio faccia più rumore ottenendo più risultati delle sue esternazioni. Non sarà così. Riprenderà a picconare. E si dimetterà con qualche settimana di anticipo rispetto alla scadenza del Settennato.

 

 

 

Il libro parte da un tuo articolo su Conquiste del Lavoro per gli 80 anni di Cossiga in cui esponi una tesi che lo stesso Cossiga, nella sua breve risposta, definisce “oggettiva”: una rielaborazione del rapporto politico e umano con Aldo Moro. Ci riassumi questa tesi?

Io mi sono fatto l’idea che le picconate sono state il tributo dell’allievo al Maestro. Cossiga ha cioè detto con forza, spesso in modo esasperato, quello che secondo lui avrebbe detto Aldo Moro se fosse uscito vivo dalla prigione delle Brigate Rosse. Cossiga ha vissuto con tormento interiore e anche fisico quella vicenda, quei 55 giorni tra marzo e maggio del 1978, spartiacque della storia italiana. Nel tempo, forse anche per metabolizzare il dolore, ha reso esplicita una sorta di sentimento di correità, arrivando a dire: io sono responsabile almeno quanto le Brigate rosse della morte di Moro. “Tra Moro e lo Stato io scelsi lo Stato”, scriverà Cossiga su Repubblica nel ventennale della morte del Presidente Dc. Secondo la mia ricostruzione – sulla quale nel libro mi confronto con autorevoli giornalisti e politici – in qualche modo e in più momenti Cossiga interpreta Moro per restituirgli la vita che da ministro dell’Interno non era stato in grado di salvare. “Io ci sarò ancora come un punto irriducibile di contestazione e di alternativa”, scrive Moro prigioniero delle Br nella lettera a Zaccagnini del 24 aprile, quella nella quale chiede che ai suoi funerali non partecipino né autorità dello Stato né uomini di partito. “Io ci sarò ancora” sembra essere la frase bandiera che Cossiga ha voluto raccogliere.

 

In particolare, quando e in che modo Cossiga ha “interpretato” Moro?

Penso, intanto, al Messaggio alle Camere sulla necessità per i partiti politici di riformare sé stessi e le regole istituzionali. Ma quel Messaggio arriva troppo tardi, quando ormai i rapporti con il Parlamento erano deteriorati. E comunque è un messaggio dal contenuto importante. Per Cossiga bisognava andare oltre il bipolarismo imperfetto che assegnava alla Dc la cura del governo e al Pci il monopolio dell’opposizione Cossiga si riallaccia al pensiero di Moro, che sempre dalla prigione delle Br aveva scritto: “Un partito che non si rinnovi con le cose che cambiano, che non sappia collocare ed amalgamare nella sua esperienza il nuovo che si annuncia, il compito ogni giorno diverso, viene prima o poi travolto dagli avvenimenti, viene tagliato fuori dal ritmo veloce delle cose che non ha saputo capire ed alle quali non ha saputo corrispondere”. Parole rivolte alla Dc ma che evidentemente valevano per tutti.

 

I fatti che citi riguardano l’ultimo scorcio del Settennato. Cossiga ha dunque maturato nel tempo questa “rielaborazione” del rapporto con Moro?

Certamente le picconate sono diventate il marchio di fabbrica di Cossiga una volta finita la stagione politica legata ai blocchi contrapposti e alla logica di Yalta. Però io mi sono fatto l’idea che Cossiga abbia iniziato ad interpretare Moro anche prima della caduta del Muro di Berlino. Emblematico quanto accade nel marzo 1986. Sono i primi mesi di Cossiga al Quirinale. In quei giorni gli Usa hanno affondato una nave libica in reazione a un lancio di missili verso aerei statunitensi sul Golfo della Sirte. Cossiga, critico rispetto alla pretesa dei libici di estendere la propria sovranità su una zona di acque internazionali, sostiene però anche che il dittatore libico Gheddafi non va “vittimizzato”, obbligando gli arabi moderati a difenderlo; e che la Marina americana non deve mostrare i muscoli verso Tripoli su navi partite da basi in Italia. Il 28 marzo Cossiga riceve al Quirinale il Segretario di Stato americano George Schulz. Un incontro descritto dal capo ufficio stampa di Cossiga Presidente, Ludovico Ortona nel suo “Diario del Settennato”. Cossiga “giunge volutamente tardi al colloquio, già irritando Schulz”.  Spiega per tre quarti d’ora le sue ragioni a Schulz senza dare spazio a repliche
in un clima che Ortona definisce “assolutamente agghiacciante”.
E attenzione: Cossiga era un politico molto accreditato a Washington, soprattutto perché nel 1979 da Presidente del Consiglio aveva autorizzato gli euromissili. Al contrario, è nota la diffidenza americana nei confronti di Aldo Moro a causa delle sue posizioni giudicate troppo filoarabe. È nelle cronache politiche l’incontro del 25 settembre 1974 a Washington con il Segretario di Stato di allora, Henry Kissinger, che con toni diciamo perentori chiede allo statista italiano di cambiare linea. Ecco: in quel marzo 1986, Moro avrebbe con tutta probabilità rivendicato uno spazio d’azione autonoma nella gestione dei rapporti con la Libia.

 

Abbiamo parlato delle picconate di Cossiga. Nel sottotitolo, accanto al fragore metti i silenzi: perché al plurale?

Silenzi al plurale, perché c’è il Cossiga degli omissis legati alla ragione di Stato. Per molti ha detto solo alcune cose di quello che sapeva, lui ha sempre assicurato che nella tomba non si sarebbe portato segreti. C’è un silenzio dove l’aspetto politico si intreccia alla sofferenza personale: in tutti i 55 giorni del sequestro Moro, come ricorda nel
libro Marco Damilano, Cossiga non rilascia un’intervista televisiva, nemmeno semplici dichiarazioni. Una cosa inimmaginabile pensando ai politici di oggi; ma pensando anche
allo stesso Cossiga, insaziabile comunicatore a tutto campo, radioamatore e fruitore dei social. Poi però ci sono anche i silenzi dell’allontanamento volontario dalla vita pubblica, quelli legati alla riflessione, agli spazi interiori della preghiera, agli spazi verdi d’Irlanda, suo luogo dell’anima. Dove Cossiga, uomo di fede salda, ha tempo per dedicarsi ai
“suoi” santi: Newman, Rosmini e Thomas More. Figure che hanno in comune il concetto del primato della coscienza. Tema molto sentito e sofferto dal laico cristiano Cossiga, che da Presidente della Repubblica aveva condiviso la decisione del governo italiano di partecipare alla coalizione che intervenne contro l’Iraq, conoscendo la ferma contrarietà di Papa Giovanni Paolo II.

 

Tra i tanti aneddoti che racconti, quale ritieni quello più
significativo?

Ce n’è uno in particolare che rende l’idea del senso anche esasperato di Cossiga per lo Stato. Me lo ha raccontato Francesco Bongarrà, giornalista dell’Ansa, che ha seguito da vicino gli ultimi anni del Picconatore. Cossiga nel marzo 2006 restituisce il ‘Collare della Giarrettiera’ alla Regina Elisabetta per una questione di principio”. Due elementi per intendere la portata del fatto. Il primo: il Collare della Giarrettiera è la massima onorificenza che il regno concede, rende cugini della Regina. Il secondo: Cossiga era un malato di onorificenze. Cosa accade allora? Cossiga vuole andare in Inghilterra per partecipare al Consiglio mondiale della Società per il dialogo tra cristiani e musulmani, e notifica che partirà con la scorta armata come ex Presidente della Repubblica. Le competenti autorità britanniche, diplomatiche e di polizia, oppongono un rifiuto. In Inghilterra la scorta non ce l’ha nessuno, tranne la Regina, il primo ministro, il ministro dell’interno, forse ai tempi lo scrittore Salman Rushdie. Cossiga annulla la partecipazione all’evento. Prende una scatola in cui mette il Collare e la affida al capo scorta perché restituisca il regale contenuto. “La scorta non era per la mia persona, ma era per il rispetto che si deve allo Stato italiano”.

Il libro: Giampiero Guadagni, Tre minuti trentuno secondi.
Francesco Cossiga: il silenzio e il fragore, Marcianum Press,
2020, pagg. 176. € 17,20.