LA SFIDA A SINISTRA NELLA POLITICA ITALIANA . INTERVISTA A FABIO MARTINI

Fabio Martini (AUGUSTO CASASOLI/A3/CONTRASTO)

Come si svilupperà la sfida politica nella sinistra? Quali saranno le possibili novità?   Ne parliamo, in questa intervista, con il cronista politico della Stampa Fabio Martini.

Siamo all’ultimo giro di questa complicata legislatura. Dopo l’approvazione della legge di stabilità inizierà il “rettilineo” che ci porterà, in primavera, alle elezioni. Eppure ci sarebbe ancora lo spazio e il tempo per dare un senso compiuto alla legislatura. Mi riferisco, certamente. allo ius soli e alla legge elettorale . Incominciamo dallo ius soli. Secondo te è possibile che Gentiloni, anche per il pressing della CEI, ponga la fiducia? Insomma nel Pd passerà la linea Boschi o quella di Del Rio?

Per far passare la legge, basterebbe cercare un compromesso, che salvaguardando il principio ispiratore, superi qualche automatismo. Ma quel compromesso ragionevole nessuno lo cerca. E infatti nel Pd dicono: cerchiamo fino all’ultimo i voti, ma nessuno si batte per un punto di incontro. I principali attori della scena hanno tutti interesse allo statu quo, per cui quasi certamente la legge non passerà. Il Pd, che rivendica la riforma ma ne teme l’impopolarità, può dare la colpa ad Alfano e alla destra; i centristi possono fregiarsi di non averla fatta passare. L’unico che vorrebbe farla approvare, raggiungendo un punto di equilibrio, è il presidente del Consiglio, che infatti è l’unico che non ha dato tutto per perso. Ma il decreto legge su questioni così controverse non è immaginabile.

Parliamo della legge elettorale . Anche questo è uno snodo decisivo per il futuro della prossima legislatura . Però, anche qui, non è molto chiara la prospettiva. Ma Renzi ci crede veramente? Eppoi se davvero dovesse andare in porto quali sarebbero le “coalizioni” a sinistra, visto che il centrodestra appare più compatto? Insomma sono più i dubbi che le certezze. Qual è la tua opinione?

Dopo il lancio del “Rosatellum”, i principali partiti hanno iniziato a fare le loro simulazioni, negli ultimi giorni nel Pd qualcuno sussurra che Renzi si sarebbe convinto che il ridotto numero di collegi previsto dal nuovo testo, avvantaggerebbe il Pd. La partita non è ancora conclusa, ma se Forza Italia la ostacolerà, non se ne farà nulla.

Guardiamo all’interno degli schieramenti. Incominciamo dal leader “riluttante”, Pisapia. Quello che appare è che sia un poco infastidito dal pressing dalemiano- bersaniano. E avrà pure un allontanato la sua tenda dal PD. Però, al contrario di D’Alema, non percepisce Renzi come nemico. Insomma cosa si aspetta dal PD?

All’ex sindaco di Milano non piace lo stile della leadership di Renzi, ma per una prospettiva di governo, ritiene indispensabile un futuro accordo di governo col Pd, con Paolo Gentiloni a palazzo Chigi. L’Mdp di Bersani e D’Alema punta alla sconfitta politica di Renzi. Quasi certamente finirà che le due aree a sinistra del Pd si separeranno. E in questa scomposizione non si possono escludere sorprese, con l’apparizione di personaggi destinati a sparigliare tutto.

Parliamo di Mdp. Gli scissionisti del PD, pur tra sfumature diverse, sono ancora alla ricerca di un ubi consistam . Ovvero vogliono creare un nuovo centrosinistra di governo. L’impressione è che si stanno avvitando su se stessi. Per cui per loro il rischio è che che siano sempre più percepiti solo come anti PD. Tu non vedi questo avvitamento?

L’impressione dell’avvitamento su se stessi corrisponde ad un fatto oggettivo. Per gli scissionisti l’imperativo categorico è cancellare la leadership Renzi. Il resto viene dopo. Ogni loro mossa è subordinata a questo obiettivo. Ecco perché paiono ruotare attorno allo stesso perno.

Massimo D’Alema sta vivendo una fase inedita per uno con la sua storia . Una sorta, come qualcuno polemicamente lo ha definito, di “gruppettaro”. Una strana eterogenesi dei fini per l’uomo più di apparato della politica italiana. Verrebbe da ricordargli il monito di Lenin sull’estremismo…Come ti spieghi questa fase dalemiana, una fase assolutamente da non banalizzare solo come anti renzismo. C’è qualcosa di più profondo?

Sì, la domanda coglie molto bene la mutazione, quasi genetica, di uno dei leader politici più influenti degli ultimi 25 anni, uno dei 28 italiani che ha fatto il presidente del Consiglio nel secondo dopoguerra. Per tutta una vita D’Alema ha incarnato la concezione leninista-gramsciana-togliattiana per cui prima di tutto viene il Partito. Per cui il noi viene sempre prima dell’io. Per cui è meglio sbagliare col Partito che aver ragione da soli. Incoraggiando la scissione dal “Partito” per ragioni prevalentemente di incompatibilità personale con Renzi, D’Alema ha archiviato la propria storia comunista e appare come uno dei tanti leader, che sembrano mossi più da motivazioni individuali che da spinte “generali”. Magari non è così. Ma l’impressione è quella.

Il PD pare vivere una congiuntura di non tensione. Ma dietro l’angolo ci sono le le elezioni siciliane. E lì il tappo salta. che faranno Franceschini e Orlando?

Vedremo. Ci sono le liste elettorali da fare e i non-renziani del Pd contratteranno una tregua con Renzi, in cambio di qualche seggio in più.  Se avranno coraggio, porranno il problema del leader da indicare per palazzo Chigi, cioè Gentiloni. Altrimenti se ne riparlerà dopo le elezioni. Se il Pd conquisterà più del 25 per cento, Renzi resterà segretario, ma se i democratici alle Politiche prenderanno un voto in meno del Pd di Bersani nel 2013, allora la poltrona di Renzi potrebbe saltare.

Veniamo al centrodestra. Berlusconi dice: Io sono il PPE in Itala. Però ha capito che senza l’alleanza con Salvini non vince . Intanto apre al rosatellum. Insomma anche qui siamo nella precarietà politica. E’ così?

Berlusconi è più avanti di Renzi nella costruzione di una coalizione. Ma fino a quando non si sa come si vota, sono tutte illazioni.

Ultima domanda: Quale sarà il futuro di Gentiloni? Io non credo la   “panchina ” anzi…

Paolo Gentiloni non muoverà una foglia per passare dalla “panchina” al ruolo di centravanti. E’ leale con Renzi che lo ha scelto e sa che, brigando per sé, diventerebbe uno dei tanti trasformisti della storia della Repubblica. Attenderà di essere “chiamato” come salvatore della Patria. La partita si giocherà prima delle elezioni, Renzi non lo indicherà spontaneamente come candidato a palazzo Chigi, ma la “forza delle cose” potrebbe riservare qualche sorpresa.

Piccole patrie e grandi patrie.
Una riflessione di Pierluigi Castagnetti

 


Pubblichiamo una breve riflessione sul referendum in Catalogna di Pierluigi Castagnetti (Ex Segretario Nazionale), uno dei Padri dell’europeismo contemporaneo.

Piazza Catalunya, Barcellona (Gettyimages)

Sulla vicenda catalana si possono, e forse si debbono, fare tante considerazioni. A partire dalla demenziale gestione da parte del governo Rajoy: non si manda la Guardia Civil a Barcellona autorizzandola all’uso della forza per impedire un referendum comunque illegittimo, che poi si svolge ugualmente. Ma, soprattutto, non si arriva a qst limite senza prima aver fatto effettivamente ricorso ai tradizionali mezzi della politica: dialogo, trattative, concessioni, mediazioni. È dai tempi del riconoscimento della nazionalità ai Paesi Baschi che si sapeva che prima o poi si sarebbe dovuti giungere allo stesso risultato con la Catalogna, con la costituzione finale di una Confederazione Spagnola. Operazione che andava pensata e preparata con intelligenza, pazienza e percorsi costituzionali adeguati. Adesso lo si dovrà fare in condizioni politiche e sociali decisamente compromesse.
Ma il punto che mi angoscia è un altro, e riguarda il possibile effetto-contagio nelle altre catalogne presenti in Europa.  
Al netto delle condizioni storiche, geografiche, linguistiche, religiose che a volte, senza giustificarla, possono spiegare una certa tensione indipendentistica, si sta irrobustendo nel dibattito politico europeo una certa propensione antisolidaristica che non può che generare spinte disgregatrici. Quando si dice “noi versiamo più tasse di quanto non ci ritorni in investimenti statali” o, se si tratta dell’Ue, “noi siamo contributori netti, nel senso che versiamo di più di quanto ci rientri” si innesca il virus che prima o poi porta alla disgregazione. È pacifico che all’interno di un paese se le attività produttive sono dislocate prevalentemente in un’area, quell’area verserà più tasse allo Stato il quale le distribuirà in modo proporzionato alle diverse esigenze di ogni territorio, così come chi è più ricco pagherà più tasse anche a vantaggio di chi ha minori disponibilità. È il principio di solidarietà che regge l’unità degli Stati, e anche l’unità dell’Europa politica formata da tanti Stati.
Se la politica guida le pretese antisolidaristiche dei singoli e dei territori contraddice semplicemente la sua funzione. A che serve, a quel punto? Si illude di coltivare in tal modo il massimo del consenso senza capire che invece coltiva la contestazione in radice della sua utilità.

“IL TARLO DELLA VOCAZIONE POLITICA È LA CORRUZIONE”. Un testo di Papa Francesco

Il testo che pubblichiamo è l’intervento del Papa, tenuto questa mattina a Cesena, durante la sua visita alla città romagnola prima di proseguire poi per Bologna. Parole  forti e significative sull’autentico significato dell’impegno politico.

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Mi piace iniziare la mia visita a Cesena incontrando la cittadinanza, in questo luogo così significativo per la vita civile e sociale della vostra città. Una città ricca di civiltà e carica di storia, che tra i suoi figli illustri ha dato i natali anche a due Papi: Pio VI, di cui ricordiamo il terzo centenario della nascita, e Pio VII.

Da secoli questa Piazza costituisce il punto d’incontro dei cittadini e l’ambito dove si svolge il mercato. Essa merita dunque il suo nome: Piazza del Popolo, o semplicemente “la Piazza”, perché è del popolo, spazio pubblico in cui si prendono decisioni rilevanti per la città nel suo Palazzo Comunale e si avviano iniziative economiche e sociali. La piazza è un luogo emblematico, dove le aspirazioni dei singoli si confrontano con le esigenze, le aspettative e i sogni dell’intera cittadinanza; dove i gruppi particolari prendono coscienza che i loro desideri vanno armonizzati con quelli della collettività. Io direi – permettetemi l’immagine –: in questa piazza si “impasta” il bene comune di tutti, qui si lavora per il bene comune di tutti. Questa armonizzazione dei desideri propri con quelli della comunità fa il bene comune. In questa piazza si apprende che, senza perseguire con costanza, impegno e intelligenza il bene comune, nemmeno i singoli potranno usufruire dei loro diritti e realizzare le loro più nobili aspirazioni, perché verrebbe meno lo spazio ordinato e civile in cui vivere e operare.

La centralità della piazza manda dunque il messaggio che è essenziale lavorare tutti insieme per il bene comune. E’ questa la base del buon governo della città, che la rende bella, sana e accogliente, crocevia di iniziative e motore di uno sviluppo sostenibile e integrale.

Questa piazza, come tutte le altre piazze d’Italia, richiama la necessità, per la vita della comunità, della buona politica; non di quella asservita alle ambizioni individuali o alla prepotenza di fazioni o centri di interessi. Una politica che non sia né serva né padrona, ma amica e collaboratrice; non paurosa o avventata, ma responsabile e quindi coraggiosa e prudente nello stesso tempo; che faccia crescere il coinvolgimento delle persone, la loro progressiva inclusione e partecipazione; che non lasci ai margini alcune categorie, che non saccheggi e inquini le risorse naturali – esse infatti non sono un pozzo senza fondo ma un tesoro donatoci da Dio perché lo usiamo con rispetto e intelligenza. Una politica che sappia armonizzare le legittime aspirazioni dei singoli e dei gruppi tenendo il timone ben saldo sull’interesse dell’intera cittadinanza.

Questo è il volto autentico della politica e la sua ragion d’essere: un servizio inestimabile al bene all’intera collettività. E questo è il motivo per cui la dottrina sociale della Chiesa la considera una nobile forma di carità. Invito perciò giovani e meno giovani a prepararsi adeguatamente e impegnarsi personalmente in questo campo, assumendo fin dall’inizio la prospettiva del bene comune e respingendo ogni anche minima forma di corruzione. La corruzione è il tarlo della vocazione politica. La corruzione non lascia crescere la civiltà. E il buon politico ha anche la propria croce quando vuole essere buono perché deve lasciare tante volte le sue idee personali per prendere le iniziative degli altri e armonizzarle, accomunarle, perché sia proprio il bene comune ad essere portato avanti. In questo senso il buon politico finisce sempre per essere un “martire” al servizio, perché lascia le proprie idee ma non le abbandona, le mette in discussione con tutti per andare verso il bene comune, e questo è molto bello.

Da questa piazza vi invito a considerare la nobiltà dell’agire politico in nome e a favore del popolo, che si riconosce in una storia e in valori condivisi e chiede tranquillità di vita e sviluppo ordinato. Vi invito ad esigere dai protagonisti della vita pubblica coerenza d’impegno, preparazione, rettitudine morale, capacità d’iniziativa, longanimità, pazienza e forza d’animo nell’affrontare le sfide di oggi, senza tuttavia pretendere un’impossibile perfezione. E quando il politico sbaglia, abbia la grandezza d’animo di dire: “Ho sbagliato, scusatemi, andiamo avanti”. E questo è nobile! Le vicende umane e storiche e la complessità dei problemi non permettono di risolvere tutto e subito. La bacchetta magica non funziona in politica. Un sano realismo sa che anche la migliore classe dirigente non può risolvere in un baleno tutte le questioni. Per rendersene conto basta provare ad agire di persona invece di limitarsi a osservare e criticare dal balcone l’operato degli altri. E questo è un difetto, quando le critiche non sono costruttive. Se il politico sbaglia, vai a dirglielo, ci sono tanti modi di dirlo: “Ma, credo che questo sarebbe meglio così, così…”. Attraverso la stampa, la radio… Ma dirlo costruttivamente. E non guardare dal balcone, osservarla dal balcone aspettando che lui fallisca. No, questo non costruisce la civiltà. Si troverà in tal modo la forza di assumersi le responsabilità che ci competono, comprendendo al tempo stesso che, pur con l’aiuto di Dio e la collaborazione degli uomini, accadrà comunque di commettere degli sbagli. Tutti sbagliamo. “Scusatemi, ho sbagliato. Riprendo la strada giusta e vado avanti”.

Cari fratelli e sorelle, questa città, come tutta la Romagna, è stata tradizionalmente terra di accese passioni politiche. Vorrei dire a voi e a tutti: riscoprite anche per l’oggi il valore di questa dimensione essenziale della convivenza civile e date il vostro contributo, pronti a far prevalere il bene del tutto su quello di una parte; pronti a riconoscere che ogni idea va verificata e rimodellata nel confronto con la realtà; pronti a riconoscere che è fondamentale avviare iniziative suscitando ampie collaborazioni più che puntare all’occupazione dei posti. Siate esigenti con voi stessi e con gli altri, sapendo che l’impegno coscienzioso preceduto da un’idonea preparazione darà il suo frutto e farà crescere il bene e persino la felicità delle persone. Ascoltate tutti, tutti hanno diritto di far sentire la loro voce, ma specialmente ascoltate i giovani e gli anziani. I giovani, perché hanno la forza di portare avanti le cose; e gli anziani, perché hanno la saggezza della vita, e hanno l’autorità di dire ai giovani – anche ai giovani politici –: “Guarda ragazzo, ragazza, su questo sbagli, prendi quell’altra strada, pensaci”. Questo rapporto fra anziani e giovani è un tesoro che noi dobbiamo ripristinare. Oggi è l’ora dei giovani? Sì, a metà: è anche l’ora degli anziani. Oggi è l’ora in politica del dialogo fra i giovani e gli anziani. Per favore, andate su questa strada!

La politica è sembrata in questi anni a volte ritrarsi di fronte all’aggressività e alla pervasività di altre forme di potere, come quella finanziaria e quella mediatica. Occorre rilanciare i diritti della buona politica, la sua indipendenza, la sua idoneità specifica a servire il bene pubblico, ad agire in modo da diminuire le disuguaglianze, a promuovere con misure concrete il bene delle famiglie, a fornire una solida cornice di diritti–doveri – bilanciare tutti e due – e a renderli effettivi per tutti. Il popolo, che si riconosce in un ethos e in una cultura propria, si attende dalla buona politica la difesa e lo sviluppo armonico di questo patrimonio e delle sue migliori potenzialità. Preghiamo il Signore perché susciti buoni politici, che abbiano davvero a cuore la società, il popolo e il bene dei poveri. A Lui, Dio di giustizia e di pace, affido la vita sociale e civile della vostra città. Grazie.

 

Dal sito: http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2017/october/documents/papa-francesco_20171001_visitapastorale-cesena-cittadinanza.html

La lotta al militarismo di Don Lorenzo Milani. Intervista a Sergio Tanzarella

Papa Francesco nel visitare,  il 26 giugno scorso nel 50° anniversario della morte, la tomba di Don Lorenzo Milani a Barbiana, paesino della Diocesi di Firenze, ha voluto ricordare la vita esemplare del priore di Barbiana.  Il Pontefice ha spiegato il suo gesto come «risposta a quella richiesta più volte fatta da don Lorenzo al suo Vescovo, e cioè che fosse riconosciuto e compreso nella sua fedeltà al Vangelo e nella rettitudine della sua azione pastorale». Quel gesto, ha detto il Papa, «oggi lo fa il Vescovo di Roma. Ciò non cancella le amarezze che hanno accompagnato la vita di don Milani – ha precisato -, ma dice che la Chiesa riconosce in quella
vita un modo esemplare di servire il Vangelo, i poveri e la Chiesa stessa».Tra questo modo esemplare di vivere il Vangelo c’è stata, certamente, la lotta al militarismo. Una battaglia, quella di Don Milani, ancora attuale. Ne parliamo, in questa intervista, con il professor Sergio Tanzarella.
Sergio Tanzarella è ordinario di Storia della Chiesa nella Pontificia Facoltà teologica dell’Italia Meridionale a Napoli.

Professor Tanzarella, lei, insieme ad altri storici della Chiesa italiani, ha curato la pubblicazione, uscita per i meridiani della MONDADORI, di tutte le OPERE DI DON MILANI. Inoltre ha PUBBLICATO per le edizioni “Il pozzo di Giacobbe” una edizione a due lettere importantissime di don Lorenzo: la lettera ai cappellani militari e ai giudici, con un apparato di note e una articolata post fazione. Partiamo da qui, prendendo spunto, anche, da un episodio grave di questi giorni. Mi riferisco al tentativo messo in atto dall’ordinario militare e dal cardinale Sarah, di “promuovere” San Giovanni XXIII patrono dell’Esercito italiano. Tentativo riuscito.  Questo è un episodio che EVIDENZIA quanto sia dura a morire, in certi ambienti cattolici tradizionalisti, la mentalità di alleanza tra trono e altare, e se si vuole la persistenza di una mentalità militarista. La domanda è: hanno ancora senso i cappellani militari?

La presenza attuale, così come è organizzata con la equiparazione di fatto alla gerarchia degli ufficiali con stellette e stipendi, appare il risultato di una concezione delle relazione Stato-Chiesa ormai inattuale, frutto di un neocostantinismo di inizio XX secolo cui diede ulteriore sviluppo il fascismo. Che dei preti possano fare un servizio di assistenza spirituale a dei soldati potrebbe anche essere accettabile, ma fuori dalla struttura e dalla organizzazione delle forze armate. Ci sono i cappellani ospedalieri e quelli delle carceri ma restano preti, non diventano né dottori né ufficiali della polizia penitenziaria. L’ordinariato militare andrebbe chiuso e le competenze rimesse alle singole diocesi. La presenza dei cappellani militari equiparati agli ufficiali è stata concepita per la I guerra mondiale e per le guerre coloniali. Qualcuno ha le lancette dell’orologio ancora ferme nel ministero della difesa e nella Chiesa. Occorrerebbe che si dicesse che i tempi di Agostino Gemelli e di Reginaldo Giuliani sono finiti, irrimediabilmente finiti. E invece questi cosa fanno? Prendono il povero Giovanni XXIII e lo fanno patrono dell’esercito.

Ritorniamo alle lettere di don Milani. La lettera ai cappellani militari non è solo una lettera a favore dell’obiezione di coscienza, ma anche una critica al militarismo che ha  investito la storia d’Italia dal Risorgimento in poi. Qual è la chiave interpretativa che il priore di Barbiana utilizza per smontare IL MILITARISMO e  quindi per criticare la storia ufficiale d’Italia?

La tesi sostenuta e dimostrata da Milani è che tutte le guerre italiane dall’Unità in poi sono state del tutto ingiustificabili (ad eccezione della Resistenza). Con questo giudizio crolla uno dei miti della storia nazionale insieme a quello dell’italiano buon soldato e pacifico colonizzatore. Gli italiani in guerra e nelle colonie si macchiarono di delitti e di crimini al pari di altri soldati ed eserciti. Furono tutte guerre imposte agli italiani dal potere politico e da quello industriale attraverso una astuta e ossessiva propaganda e con un sistema di coercizione che non lasciava scampo. Quella di Milani fu una denuncia tanto forte che ancora oggi non se ne fa quasi parola. Un processo di demistificazione pericolosissimo per la retorica patriottarda. Pretendere di celebrare don Milani prescindendo da questi e da altri suoi scritti è il massimo della contraddizione. Ma oggi c’è un ministero della Istruzione che mentre vuole che nelle scuole si studi Milani contemporaneamente celebra la I guerra mondiale e deporta per centinaia di ore gli studenti nelle caserme per i percorsi dell’alternanza Scuola-Lavoro.

Vi sono limiti in questa visione di don Milani? oppure, invece, mantiene una      sua validità ?

Si trattò di una analisi storica acutissima che mantiene tutta la sua validità quanto ancora oggi sconosciuta. Tanto più valida se la si confronta con le logiche del ministero dell’Istruzione impegnato oggi nelle celebrazioni della I guerra mondiale ancora presentata come IV guerra di Indipendenza, decisiva per il completamento dell’unità nazionale e momento felice di coesione tra italiani. Ancora non si ha il coraggio di dire la verità, la verità oggettiva su una guerra inutile che gli italiani, soprattutto un popolo di contadini e di pastori analfabeti furono costretti a combattere, e nella quale morirono in 700.000. Una catastrofe nazionale che continua a fare paura e per questo deve essere mistificata e raccontata come atto di eroismo. Milani ebbe il coraggio di dimostrare le menzogne di questa propaganda, menzogne che circolano indisturbate ancora oggi.

Allarghiamo l’orizzonte e guardiamo all’intera opera di don Milani. Egli è stato un giudice severo sull’impegno politico dei cattolici italiani. Quali erano i criteri fondamentali per un buon impegno politico?

Certo né neutralità né moderazione. Per Milani le leggi devono servire a difendere coloro che sono svantaggiati ed esclusi nella società non i garantiti. Ma in parlamento siedono quasi tutti i rappresentanti di quest’ultimo gruppo. Per lui non si possono amare i poveri e non volere leggi migliori. Il collateralismo dei suoi anni presentava una situazione esattamente opposta a questa idea: La Pira e Dossetti erano delle eccezioni emarginate e perseguitate. Per Milani i cattolici dovevano spezzare la giustificazione del privilegio e restituire ai poveri le possibilità di cui erano privati. Non c’era però la sostituzione di una classe sociale con un’altra quanto il superamento della divisione in classi.

Milani si definisce “maestro” dei suoi ragazzi. Ma è un “maestro” che  si fa compagno di cammino nel percorso di “coscientizzazione” dei ragazzi di Barbiana. C’è qualcosa che rimane ancora valido dell’esperienza di Milani? Cosa ha dire agli insegnanti di oggiAggiungi un appuntamento per oggi?

L’esempio della scrittura collettiva resta esemplare. Contro il modello della scuola e della società competitiva, della giustificazione della concorrenza, Milani applica un metodo cooperativo cui corrisponde un modello di società della condivisione. È evidente che è difficilissimo per un insegnante rifarsi a Milani anche perché la linea ministeriale, dalle prove Invalsi ai finanziamenti concessi a chi ottiene migliori risultati, è proprio quella della premialità concessa a chi è già privilegiato. Gli insegnati soffocati da circolari, funzioni dai nomi di fantasia più inverosimili, ottusità della dirigenza scolastica, classi di 30-35 studenti, inutili aggiornamenti e riunioni sono di fatto impediti. Tuttavia resta ancora spazio per organizzare una resistenza intellettuale che possa contribuire ad aiutare a formare coscienze nella autonomia e nella libertà. Il conformismo può essere combattuto: mantenendo alto il senso critico di fronte al potere che pretende genuflessioni e inchini e accrescendo il livello culturale di un popolo.

La “categoria” del povero in Milani non è solo una categoria sociologica. E’ sociologica e teologica insieme. E’ così?

Ha fatto bene a usare le virgolette. Per Milani i poveri diventano la ragione della propria vita, coloro che gli sono stati affidati e per la cui liberazione ha orientato tutta la sua pastorale. Chiariamo bene, non una azione benefica, ma un preciso impegno di giustizia sociale. Un impegno che non ha nessun altro fine che restituire ai poveri ciò di cui sono stati derubati: i diritti, la lingua, la vita. Ma essi non sono una categoria ma persone, ognuno con il proprio nome e la propria storia. Di fronte alle generalizzazioni per gruppi sociali, per ideologie, per professioni Milani ribadisce più volte il primato assoluto della persona.

 Don Milani ha avuto rapporti con intellettuali del suo tempo. Come era visto dalla cultura italiana dell’epoca?

Domanda complessa. Difficile rispondere in poche battute. I suoi corrispondenti, i suoi recensori o coloro che pubblicamente ne hanno affermato l’importanza parlano da soli e offrono una idea di che genere di intellettuali potesse apprezzare Milani: Luciano Bianciardi, Ignazio Silone, Gaetano Arfè, Pier Paolo Pasolini, Tommaso Fiore, Mario Lodi, Giuseppe Gozzini e poi giornalisti come Giorgio Pecorini, Mario Cartoni, Enzo Forcella. Uomini tra loro certo diversi, ma che ebbero la capacità di cogliere in Milani la grandezza di una testimonianza liberante e senza doppi fini e la capacità di penetrare la grave crisi della società italiana oltre l’illusione dei miti delle mode, del consumismo, del benessere e del boom economico. Per cosiddetti uomini di cultura del presente mi limito a ricordare che un certo Cacciari ebbe recentemente la sfrontatezza di sostenere che Milani poteva essere paragonato al prete plurinquisito Luigi Verzè.

Per molti giovani della nostra generazione (la mia e la sua professore) è stato un punto importante nella formazione. Le chiedo: OGGIAggiungi un appuntamento per oggi cosa può dare don Milani ad un giovane?

Innanzitutto l’impegno per la ricerca della verità e poi il coraggio che ci vuole per questa ricerca. E’ il riconoscimento di una sovranità che non ha bisogno di deleghe ma di responsabilità personale. Infine la consapevolezza che occorre andare sempre controcorrente anche se facendo così occorre mettere in conto di dover pagare un prezzo altissimo per propria carriera.

Ultima domanda: tra i giovani preti è viva la memoria di don Milani?

In giro per l’Italia in questi anni ho trovato numerosi preti anziani o di mezza età che avevano letto tutto quello che potevano su Milani e di Milani. Alcuni confessavano che la sua testimonianza era stata decisiva per la propria vocazione, per la pastorale e per la vita. Il contributo di Milani per una parte del clero italiano è sorprendente, forse quasi non immaginabile, ma enorme.

La conoscenza si abbassa notevolmente per i giovani preti. Dei suoi scritti resta qualche vaghissima citazione, a volte anche imprecisa o sbagliata. Gli studi di Storia della Chiesa e di Teologia Pastorale non lo prendono nemmeno in considerazione. Ci sono ovviamente rare eccezioni tra cui i miei studenti della Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale che, ormai da molti anni, Milani cominciano a leggerlo dal primo giorno del corso di Storia della Chiesa contemporanea. E diversi di questi la lettura di Milani non la lasciano più.

 

 

Dove va la nuova Germania? Intervista ad Angelo Bolaffi

Tutta l’opinione pubblica europea si sta interrogando sulle conseguenze del voto tedesco di domenica scorsa. Un voto che ha visto il crollo di consensi elettorali dei due partiti storici: CDU e SPD. Angela Merkel,Cancelliera riconfermata dal voto, ora  inizierà una lunga trattativa per dare un governo alla Germania. Cerchiamo di capire, in questa intervista, con il filosofo della politica e grande studioso della cultura germanica, come si evolverà la situazione politica tedesca.

Professore, vorrei cominciare questa nostra Intervista citando una frase del suo libro, fatto insieme all’economista Pierluigi Ciocca, sulla Germania: “Il vero segreto dell’odierna leadership tedesca, quello che potremmo chiamare il fondamento della sua capacità egemonica, non è di natura economica, (…) ma è in primo luogo di natura spirituale e culturale (…) una sorta di miracolo etico-politico, un “miracolo democratico””. Le chiedo: dopo queste elezioni con tutto il loro portato di novità pesanti, la Germania avrà ancora questa leadership? Insomma che immagine di Germania esce fuori da queste elezioni?

La domanda è molto importante e interessante. Io penso che, proprio dopo queste elezioni, si vedrà se questo miracolo etico-politico è avvenuto e quindi la Germania sarà capace di affrontare questa nuova sfida oppure se, come certi critici sostengono, una sorta di “eterna” Germania riappare. Io sono convinto che la Germania occidentale, dopo la seconda guerra mondiale, ha fatto un vero e proprio rinnovamento spirituale, che l’ha portata ad essere una nazione assolutamente fondata sui valori occidentali e sui valori della democrazia liberale. Come tutti i paesi dell’occidente anche in Germania oggi assistiamo ad un ritorno a posizioni autarchiche ed identitarie, fondamentalmente reazionarie. Da questo punto di vista il voto di domenica indica che la Germania è diventata anch’essa un paese “normale” come tutti gli altri e anche lì c’è una destra, che secondo me non avrà futuro, ma certo è una grande sfida alla Germania democratica.

Parliamo delle elezioni. Come tutti, ormai, sappiamo che le elezioni hanno segnato sì la vittoria di Angela Merkel, ma con una perdita pesante di consenso, la sconfitta bruciante della SPD, l’avanzata paurosa del partito di estrema destra AFD, il buon risultato dei liberali, dei verdi e della Linke. Le chiedo qual è la causa “radicale” della perdita di consenso della Signora Merkel? Tutti gli analisti erano concordi che avrebbe avuto un gran risultato, frutto del buon governo. Invece qualcosa è andato storto. Cosa?

Intanto il risultato dimostra che quello che normalmente si dice, cioè che un buon governo (inteso come economia funzionante, disoccupazione al minimo, pochi scandali…) viene apprezzato dagli elettori, non è vero. Quello che gli elettori probabilmente hanno voluto esprimere (ovviamente non gli elettori di estrema destra, ma gli elettori che hanno protestato) è che in fondo il loro voto non contasse niente, che ormai la Merkel aveva vinto, che comunque non c’era alternativa. Questo ha provocato una “stizza” in una parte dell’elettorato, che oltretutto non ne poteva più della “grossa coalizione”, che normalmente tende a rafforzare le spinte alle ali estreme, tanto è vero che la Linke non ha perso e l’AFD all’Est ha avuto un successo oltre ogni previsione.

Veniamo alla SPD. I Socialdemocratici adesso andranno, salvo sorprese, all’opposizione. Questo anche per non lasciare all’AFD lo spazio dell’opposizione. Però quali sono le ragioni del crollo? Perché ha perso il suo radicamento?

A mio parere il vero fatto epocale di queste elezioni è la crisi della SPD. Tutti sono focalizzati sulla AFD, che non durerà, mentre il declino della SPD è un declino storico, epocale e rientra nel declino di tutta la sinistra socialdemocratica europea (in Francia, Spagna, abbiamo visto come è andata). Secondo me ci sono due motivi. Un primo motivo, che unisce tutte queste realtà, è che si sta avverando la profezia di Dahrendorf, che tanti anni fa aveva detto che è finito il secolo socialdemocratico, In più l’SPD aggiunge che si è dissanguata nella grossa coalizione, nel senso che ha portato acqua al mulino della Merkel senza sapersi differenziare, tanto è vero che appena Schultz è sceso in campo per un momento ci fu un aumento dei consensi, dalle indagini demoscopiche, immenso, e questo vuol dire che gli elettori stavano cercando qualcuno che desse vita alla democrazia tedesca.

Per rinascere alla socialdemocrazia basterà l’opposizione oppure dovrà passare anche attraverso un processo di rifondazione culturale?

Dovrà andare all’opposizione, “leccarsi le ferite”, ricostruire il suo personale politico, perché Schultz non ha nessun carisma come leader e dovrà fare una svolta simile a quella che fece nel lontano 1959 a Bad Godesberg, cioè dovrà reinventare una strategia socialdemocratica, altrimenti il declino è inevitabile.

 Parliamo dell’AFD. Partito di estrema destra razzista, neonazista, che ha raccolto il disagio della parte orientale della Germania. Pensa che possa costituire un pericolo per la democrazia tedesca?

Un pericolo no, un brutto segnale sì. È uno “sfregio” all’immagine della Germania. Non è bello per motivi storici e politici. D’altra parte la situazione è questa e anche la Germania subisce i contraccolpi culturali, economici e politici della globalizzazione.

Dicevamo, poc’anzi, del disagio socio-economico in Germania; disagio che si è rivelato pesante. Eppure dall’esterno, nell’opinione pubblica europea, lo si percepisce poco. Quali sono i fattori di crisi di un sistema che ha garantito, comunque, un certo benessere?

 Penso che sia meno legato a fattori economici – che sicuramente ci sono -, ma c’è una preponderanza di fattori culturali. Non è un caso che nelle regioni dell’est che sono sicuramente, dal punto di vista economico, sottosviluppate, ma dal punto di vista culturale e politico arretrate (vengono da una mancanza di esperienza democratica di cinquant’anni) vediamo che vanno bene la Linke e l’AFD.

Tra i fattori della perdita di consenso sicuramente c’è anche il fattore immigrazione. Lei pensa che il sistema tedesco ha avuto dei limiti?

Integrare un milione di persone di religione musulmana è molto complicato. A mio parere si è sottovalutato l’impatto psicologico di questo fattore su cui hanno giocato anche elementi eccezionali (attentati terroristici), e certamente questo ha giocato. D’altra parte il declino demografico della Germania non lascia alternative: ha bisogno degli immigrati. E di quelli che vengono in Europa sono per la maggior parte musulmani e questo è un problema.

Germania ed Europa. Come pensa che si svilupperà il rapporto?

Sicuramente avremo adesso un semestre bianco, perché bisogna aspettare le elezioni della Bassa Sassonia in Germania, poi la formazione del governo, poi ci sono le elezioni in Italia. Avremo un momento di riflessione. Sicuramente qui la vecchia metafora della bicicletta torna d’attualità: l’Europa non può fermarsi perché o va avanti o cade. Quindi la Germania non può essere che una Germania più europeista.