Fine vita: profezia e attualità in una riflessione inedita di fratel Arturo Paoli

Per gentile concessione dell’agenzia Adista pubblichiamo questo di Arturo Paoli, esponente di spicco del cattolicesimo conciliare e religioso dei Piccoli fratelli del Vangelo, recentemente scomparso. Ci sembra di grande attualità questa lucida riflessione di Paoli su un tema, il “fine vita” così delicato e importante

(Dino Biggio) Chi non ricorda il calvario di Eluana Englaro e della sua famiglia, con tutte le discussioni e le polemiche che sollevò in campo politico, ma anche ecclesiastico, per lo più dettate da interessi di parte che poco avevano a che vedere con il bene di Eluana? [La ragazza, 21 anni, studentessa universitaria, aveva avuto un gravissimo incidente stradale il 18 gennaio 1992. Dopo 17 anni in stato vegetativo permanente, e dopo quattro giorni di sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione, era morta nel tardo pomeriggio di lunedì 9 febbraio 2009. La richiesta della famiglia di interrompere l’alimentazione forzata, considerata un inutile accanimento terapeutico, aveva scatenato nel nostro Paese un aspro dibattito sui temi legati alle questioni del fine vita. Dopo un lungo e straziante iter giudiziario, l’istanza era stata accolta dalla magistratura per mancanza di possibilità di recupero della coscienza e in base alla volontà della ragazza, che era stata ricostruita tramite testimonianze, ndr].

Fratel Arturo Paoli, che sul caso aveva riflettuto e meditato a lungo, aveva espresso il suo pensiero quattro giorni prima della morte della ragazza, durante la celebrazione della messa comunitaria del giovedì, nel salone della casa Beato Charles de Foucauld di San Martino in Vignale, dov’era ospitato dalla diocesi di Lucca.

Ecco, di quella riflessione sono riuscito ad avere la registrazione, grazie alla sollecitudine di una cara amica. Un pensiero lucido, quello di fratel Arturo, che non ha mai perso l’occasione per levare sempre alta la sua voce in difesa dei più deboli, di coloro che non hanno voce. In questo come in altri casi, la Chiesa cattolica si è dimostrata piuttosto “piccina”, ma al suo interno ci sono sempre state “altre” voci, come quella di fratel Arturo, emerse nonostante i tentativi di metterle a tacere.

Le discussioni vivaci, spesso ipocrite, che si sono riaccese in questi giorni, in seguito alla dolorosa vicenda di Dj Fabo (Fabiano Antoniani), mi hanno convinto dell’opportunità di riproporre quella riflessione di fratel Arturo Paoli, perché sono persuaso che, se dovesse parlare oggi, egli amplierebbe la platea dei destinatari del suo messaggio.

Questo il testo – pubblicato per la prima volta oggi da Adista – che ho estrapolato dall’omelia più ampia proposta da fratel Arturo il 5 febbraio 2009, prendendo lo spunto dal Vangelo di Marco 6,7-13, e che descrive uno dei tanti invii dei discepoli di Gesù agli uomini. Questa riflessione è di un’attualità sconcertante, direi profetica. Sembra pronunciata per i tempi che stiamo vivendo oggi. 

Stasera vorrei soffermarmi con voi a riflettere un po’ sull’argomento così delicato di cui si sta parlando tanto e che sta generando un preoccupante disorientamento. Devo confessare che in quest’ultimo periodo ho seguito poco le notizie di stampa, sia per ragioni di tempo, ma soprattutto perché esse mi deprimono. L’unico modo per difendermi e mantenere la tranquillità è quello di non seguirle. Forse in questo c’è un po’ di viltà, ma è la verità. Ci sono dei fatti di cronaca che vengono assunti dalla stampa – meglio sarebbe dire da chi la governa – con l’obiettivo di distrarre l’attenzione dell’opinione pubblica dai guai veri della nostra società. Vengono così creati ad arte dei fatti sensazionali e scandalistici falsi, che giungono anche a tradire la dottrina della Chiesa proveniente dalla rivelazione di Dio. Pensate un po’ alla confusione che regna sulla problematica della vita e della morte, dell’eutanasia, dell’accanimento terapeutico eccetera.

La prima legge è molto chiara e non dovrebbe creare conflitti: la vita umana è da considerarsi tale quando essa può esprimere liberamente la propria facoltà di pensare, di ragionare, di amare.

La seconda legge è anch’essa altrettanto chiara: nessuna persona è obbligata a mantenersi in vita – o a mantenere in vita altre persone – usando mezzi innaturali, come quello della nutrizione o della respirazione assicurate attraverso strumenti meccanici.

Il disorientamento di oggi nasce proprio dalla grande confusione tra eutanasia e rifiuto di utilizzare questi mezzi straordinari, che sono pur sempre il frutto di conquiste della scienza e della tecnica di cui riconosco la grande valenza.

Il caso della ragazza di cui si parla tanto è davvero emblematico: è ammalata da tantissimi anni; è provato che non sussista alcuna speranza di ritorno ad una vita normale, senza l’utilizzo di mezzi assolutamente innaturali; i suoi genitori si rifiutano di continuare a tenerla in vita in questo modo. Proprio non riesco a capire come si possa parlare di omicidio! Sono profondamente convinto che sia gravemente peccaminoso usare questo linguaggio, perché esso è contro la verità e perché crea forte disorientamento nell’opinione pubblica, condizionandone la libertà. Il desiderio dei genitori va nella direzione di liberare la propria figlia da un inutile martirio. Stabilire in modo appropriato le probabilità di coscienza della ragazza è sicuramente un’indagine difficile, se non impossibile, però ritengo assolutamente colpevole porre sullo stesso piano la rinunzia a mezzi meccanici di mantenimento in vita e l’omicidio. Non si può ragionevolmente sostenere che sia vita quella di mantenere artificialmente il respiro di una persona che ha già perso totalmente i connotati della persona stessa, non potendo più né pensare, né parlare, né amare. Se questa ragazza fosse vissuta trent’anni fa, a quest’ora sarebbe già uscita dal mondo tranquillamente, senza polemiche, semplicemente perché mancavano questi ritrovati della scienza, certamente importanti in molte situazioni, ma che non possono ridarle una benché minima possibilità di vita normale.

Polemiche strumentali

La cosa a me sembra molto chiara. Oggi si fanno tante polemiche che a me appaiono sempre più strumentali e mosse da precisi interessi e finalità da raggiungere. Ma queste polemiche altro non fanno che accrescere la confusione, che divide e impedisce di condurre relazioni pacifiche e, soprattutto, crea profonde crisi di fede. Bisogna stare molto attenti a non perdere la pace, né l’unità, né la fedeltà a Dio, a motivo di queste polemiche esasperate, che ci sono state anche in passato, ma che restavano relegate in ambito domestico, ristretto, mentre oggi, proprio per i mezzi potenti di comunicazione di massa, vengono gridate, amplificate e diffuse in modo molto più estensivo, provocando sconvolgimenti molto gravi.

Per mantenere la calma e la serenità in mezzo a tanto clamore, tutte le mattine mi fermo un bel po’ di tempo ad ascoltare la voce dello Spirito, che per me è come un lavacro che rigenera la mia fede e la mia speranza, preservandole dal turbamento.

Tutti dovremmo trovare un tempo da dedicare a questo ascolto, perché tutti noi che diciamo di professare la fede in Cristo dovremmo sentirci responsabili di questa fede. E riallacciandomi all’inizio della riflessione, dico che siamo responsabili in quanto inviati. È proprio questa responsabilità che ci impone d’essere saldi su questioni così gravi. Io non sono né teologo né moralista, ma queste cose le ho studiate e seguite con molta attenzione, proprio per l’esigenza di non disorientare nessuno.

Ho un ricordo molto vivo, che è riaffiorato alla mia memoria e che risale a molti anni fa: in occasione della morte del cardinal Giovanni Benelli, arcivescovo di Firenze, nacquero delle discussioni polemiche, che rimasero però contenute e silenziate. Il cardinale era stato colpito da un violento attacco cardiaco, che non lo privò della capacità di ragionare, o meglio, la riacquistò in modo abbastanza soddisfacente. Vista la gravità della situazione, il chirurgo che lo aveva in cura gli prospettò la possibilità di praticare un intervento estremamente delicato e rischioso, che lasciava un tenue filo di speranza per la sua sopravvivenza. Gli chiese perciò il consenso per poter procedere. Il cardinale, dopo averci pensato sicuramente con molta attenzione, rifiutò di dare il suo consenso. Si levarono subito i commenti: «Ma questo è un rifiuto della vita!». No, dico io, quello del cardinale è stato un rifiuto a cui aveva pieno diritto e in perfetta sintonia con la dottrina morale cristiana e cattolica, che stabilisce: quando a una persona gravemente malata e in pericolo di vita viene prospettata una possibilità di intervento molto rischioso, con scarsissime probabilità di riuscita, essa può legittimamente rifiutare il ricorso a mezzi straordinari. Ed è proprio ciò che ha fatto il cardinale Benelli, in piena fedeltà alla legge di Dio. Ha accettato di dire il suo amen alla vita in modo pacifico.

Contro la verità

La nostra società è guidata da criteri assurdi, lontani dalla verità politica e anche dottrinale. Viviamo un momento estremamente caotico, confuso, in cui le scelte sono mosse da interessi personali e non dalla ricerca sincera della verità. Si creano così dei polveroni, si intorbidiscono le acque, per impedire che si faccia chiarezza, con l’intento di intralciare la prosecuzione di certi esperimenti scientifici che, di fatto, si vogliono proibire. Si procede quindi per condanne. Si condanna un po’ tutto e si chiude bottega perché non si può andare avanti. Pazienza se non si può fare chiarezza. Questa è la ragione vera all’origine della creazione di certe esagerazioni spaventose che scuotono le coscienze.

La povera Eluana, di fatto, è morta già da diciassette anni. Con quale coraggio si può affermare che essa è una persona ancora viva, quando la sua è sempre stata una condizione vegetativa, che si è potuta mantenere esclusivamente attraverso l’impiego di strumenti meccanici artificiali?

Questo abbaiare, questo gridare da tutte le parti, in effetti nasconde la gravità dei veri problemi della vita, occultando le profonde ingiustizie che colpiscono tanta parte dell’umanità. Basti pensare all’impiego delle enormi risorse finanziarie per la fabbricazione delle armi, per il traffico della droga eccetera. Questi sono i grandi drammi che dovrebbero scuoterci profondamente, mentre invece perdiamo enormi energie in diatribe assolutamente distruttive. Ed è molto grave, anzi gravissimo, che molte autorità religiose le alimentino con le loro prese di posizione, proprio per la responsabilità di guida che esse rivestono. Anche perché dovrebbero sapere benissimo, per via della loro scienza, che la dottrina sostiene proprio il contrario di quello che affermano. Ma arrivare a parlare di omicidio è, ripeto, addirittura peccaminoso, perché è contro la verità.

Da: http://www.adista.it/articolo/57127

“Un centrosinistra plurale può salvarci dal populismo”. Intervista a Franco Monaco

 

Franco Monaco (Camera dei deputati/Wikipedia)

Il congresso del PD si è avviato. Il contesto è reso difficile dall’inchiesta sulla Consip. Le polemiche quotidiane sull’inchiesta rischiano di avvelenare il clima congressuale. In questo Congresso non c’è solo in gioco il destino personale di Matteo Renzi, ma più in generale quello del Centrosinistra italiano.  Quale sarà il suo sviluppo? Ne parliamo con Franco Monaco deputato e giornalista, ulivista della prima ora.  

Onorevole Monaco, lei è un “ulivista” della prima ora. E’ stato, ed è tuttora, molto vicino a Romano Prodi, è stato tra i fondatori del PD. Quindi lei può aiutarci a capire più in profondità la crisi del suo partito. Per molti la crisi del PD è dovuta alla persona di Matteo Renzi. Per alcuni è visto come un “usurpatore” della tradizione, o delle tradizioni, del PD. Non pensa che le colpe siano un pò più larghe? Di trasformismi all’interno del PD ve ne sono stati diversi..
Prima di stabilire le responsabilità, merita fissare la portata del fatto. La scissione segna l’affossamento del progetto del PD nel solco dell’Ulivo, quale partito di centrosinistra a vocazione maggioritaria, inclusivo verso il centro ma anche verso sinistra. E resta agli atti che quel fallimento si è prodotto nel tempo in cui Renzi era alla guida del PD. Quanto alle responsabilità non ho esitazione a sostenere che quelle largamente prevalenti sono in capo a Renzi. Per limitarci alla causa prossima, basterebbe la cruda verità squadernata dal fuori onda di Del Rio: mentre si consumava la rottura, Renzi, irresponsabilmente, non faceva neppure una telefonata e i suoi sodali – parola di Del Rio – ancor più irresponsabilmente si compiacevano perché si sarebbero liberati altri posti per loro. Da non credere. Ma la cosa dice tutto circa mediocre qualità di quel gruppo dirigente. Senza bisogno di scomodare lo spaccato fornito dallo scandalo Consip.

Dove, secondo, lei Matteo Renzi si è dimostrato più lontano dalla cultura ulivista?
Sotto molti profili: una leadership arrogante e divisiva; un posizionamento e politiche fuori asse per un partito di centrosinistra, sino alla suggestione del “partito della nazione”; lo schiacciamento sull’establishment; la teoria e la pratica della disintermediazione anziché la cura per la mediazione e il dialogo con le forze sociali, che è tratto caratteristico di tutti i partiti riformisti e socialisti europei; l’approccio divisivo alla stessa Costituzione, che si pretendeva di riformare a colpi di maggioranza. Nel Manifesto fondativo del PD è scolpito il solenne impegno a non ripetere mai più quel l’errore e le stesse, starcitate a sproposito, tesi dell’Ulivo recitavano così: “le regole si scrivono insieme”. Quelle costituzionali e quelle elettorali. Si è fatto esattamente l’opposto.

Eppure qualcosa di sinistra ha fatto, penso all’attenzione agli immigrati, alle unioni civili, alla critica della politica del rigore europeo…. Per alcuni Renzi è colui che ha mutato geneticamente il PD. Pensa che questa mutazione sia irreversibile? Oppure, invece,  si è ancora in tempo per fermare questa mutazione?
Non nego che siano state fatte anche alcune cose buone in tema di immigrazione. Meno nel rapporto con la Ue. Dove anche le nostre buone ragioni sono oscurate dai nostri torti. La vis polemica verso le istituzioni comunitarie più che su una diversa visione di esse e delle loro politiche si è esercitata per il malcelato proposito di avere sconti, di sottrarci agli impegni da noi stessi sottoscritti. Si pensi alla facile polemica retrospettiva sul governo Monti. Quasi che tutti i nostri guai fossero responsabilità sua, che l’emergenza finanziaria del 2011-2012 ce la fossimo inventata. Ora, anche ministri del governo come Calenda, stigmatizzano la politica dei bonus, una politica economica orientata più alla ricerca del consenso che non concentrata su misure strutturali volte alla crescita. Bene le unioni civili, ma ho l’impressione che l’enfasi con la quale le si rivendica come “cosa di sinistra” è l’altra faccia della circostanza che si è invece trascurata la lotta alle disuguaglianze quale vera e decisiva ragione sociale della sinistra.

Parliamo degli “scissionisti”. Renzi ha non poche gravi responsabilità, politiche ed umane, questo è evidente. Però ad uno sguardo obiettivo anche tra gli ex-Pd  non mancano le responsabilità…Penso ad esempio alla loro opposizione talvolta preconcetta. Per lei? Qual è il punto debole della scissione?
La scissione si è prodotta tardi e male. La sua causa prossima è sembrata oscura e politicista: congresso, calendario, primarie, conferenza programmatica…. Ma essa maturava da tempo su ragioni politiche di sostanza. Manifestamente il PD renziano ha lasciato un grande vuoto a sinistra, dove ora fioriscono più iniziative non so quanto suscettibili di amalgama e di sintesi.
Io, un paio di anni fa, quando già si incattivivano a dismisura i rapporti politici e persino personali dentro il partito, sostenevo la tesi di una “separazione consensuale” tra le anime del PD, a congrua distanza dalle elezioni politiche, così da avere tempo e modo di stringere poi un’alleanza di governo tra soggetti distinti, tra il centro renziano e una sinistra di governo. Ora, a ridosso delle elezioni e a valle di una lacerazione, la cosa è più difficile.

Non teme che la scissione renda ancora più difficile il contrasto al populismo?
Si può ancora sperare di farcela. Con una legge elettorale a impianto proporzionale, arricchendo e articolando l’offerta politica su più soggetti nel campo del centrosinistra, si può persino sperare che il consenso complessivo sia superiore. Di sicuro il PD da solo non ce la può fare, è svanita la pretesa dell’autosufficienza del PD di cui era figlio l’Italicum, concepito sull’onda di quel 40% alle europee che ci si è illusi potesse stabilizzarsi. Certo, molto dipenderà dalla legge elettorale, dalle soglie e dall’eventuale premio alle coalizioni.

Chi, secondo lei, riuscirà a rimettere insieme i “cocci” del centrosinistra? Pisapia?
Quella di Pisapia è una iniziativa interessante e da incoraggiare. Si può condensare in cinque dense parole: sinistra, di governo, di impronta civica, plurale e inclusiva, con un profilo di novità. Se e come essa possa interagire con i soggetti che si posizionano a sinistra del PD lo vedremo nei prossimi mesi.

Veniamo alle primarie.  Parteciperà alle primarie? La sua amica e collega Rosi Bindi sosterrà Andrea Orlando. Lei?
No, penso di non partecipare alle primarie. Guardo con più interesse appunto alla novità di Pisapia. Rinvengo in essa, potenzialmente, più spirito dell’Ulivo di quanto non ne residui nel PD centrista renziano. E poi i tre candidati non mi convincono. Del mio dissenso da Renzi ho detto. Emiliano ha un timbro populista e non mi riesce di scorgere una sua cifra politica. Orlando è certo il più composto, si propone come erede della sinistra pre-PD, ma nei tre anni del renzismo ha condiviso organicamente le scelte politiche e di governo.

Torniamo  a parlare, per un attimo, di Matteo Renzi. Gli ultimi avvenimenti , inchiesta Consip, per alcuni osservatori rappresentano gli ultimi giorni del “renzismo”. Per lei?
Al netto dei profili giudiziari, a fare problema è lo spaccato di un sistema di potere provinciale e familistico. Come si è detto con formula efficace, troppo potere in pochi chilometri. Ma separerei rigorosamente la questione giudiziaria da quella politica.

Ultima domanda: Come giudica Paolo Gentiloni?
Conosco e stimo Gentiloni. Piace la sua misura, la sua compostezza, il suo understatement. Anche per differenza, rispetto alla premiership nevrotizzante di Renzi. Gli italiani respirano, si rilassano. Certo, si tratta di un governo di fine legislatura, ricalcato su quello che lo ha preceduto, che di necessità non può avere largo respiro e grandi ambizioni. E tuttavia esso, nato con la scadenza incorporata per l’ossessione di Renzi di precipitare il paese verso elezioni-rivincita, per come si sono messe le cose, potrebbe reggere sino alla scadenza naturale della legislatura, facendo cose buone.

‘Il fragile e il prezioso”. Intervista sulla Bioetica a Luigi Alici

La vicenda straziante del  DJ Fabo, come in passato quelle di Eluana Englaro e Piergiorgio Welby, sta facendo discutere l’opinione pubblica e la politica italiana. Intanto il prossimo 13 marzo, finalmente, il progetto di legge sul “testamento biologico” approderà, per la discussione, alla Camera. Il dibattito sul ‘fine vita” sta facendo, ovviamente, emergere sensibilità e posizioni diverse nell’opinione pubblica.  Fino a che punto può si può spingere l’autodeterminazione di una persona? E’ una domanda cruciale per capire il cuore dei problemi affrontati dalla Bioetica.
Ne parliamo, in questa intervista, con Luigi Alici, già Presidente Nazionale dell’Azione Cattolica Italiana, filosofo e docente all’Università di Macerata. Tra le sue numerose pubblicazioni vogliano ricordare il volume, uscito da poco per la casa editrice Morcelliana, ‘Il fragile e il prezioso. Bioetica in punta di piedi”.

Luigi Alici ha anche un blog di dibattito:
https://luigialici.blogspot.it/

Professore, in questi giorni abbiamo assistito,  con un poco di spettacolarizzazione, a fatti che toccano il senso della vita. Ovvero il morire con dignità. Mi riferisco alla vicenda del DJ Fabo, e di altri malati costretti ad andare in Svizzera per porre fine, attraverso il “suicidio assistito”, alle loro immani sofferenze. Straziante è stato l’appello di Fabo perché lo si liberasse dal suo inferno di dolore. Lei è un filosofo morale, che insegna nella sua università Etica della vita, ed è anche un credente. Qual è il suo giudizio su questa vicenda? 

Il giudizio morale su un’azione – doveroso per chi la compie, possibile ma difficile per un osservatore esterno – non deve mai trasformarsi in un giudizio sulla persona. La persona ‘oltrepassa” sempre le proprie azioni e nessuno può attraversare la soglia della coscienza con la pretesa di leggerla ‘in chiaro”. In nessun caso: né per screditare DJ Fabo come ostaggio e vittima di una congiuntura disgraziata fra menomazione fisica e strumentalizzazione politica; né per celebrarlo come profeta coraggioso e militante dell’autodeterminazione… In presenza di una fragilità ferita abbiamo altre risorse rispetto alla nettezza del giudizio (di cui il circo mediatico ha bisogno, per sceneggiare un conflitto tra opposte tifoserie…): le risorse discrete e silenziose della partecipazione, della memoria, della preghiera, che debbono tradursi in impegno solidale verso chi vive situazioni analoghe di sofferenza…

Sul piano etico, in ogni caso, la questione di fondo non si risolve in un ‘tiro alla fune” fra tradizionalisti e progressisti, e meno ancora stilando una graduatoria fra la sanità pubblica in Italia e la sanità privata in Svizzera. Nel dibattito sull’energia nucleare (produrla o comprarla in Paesi vicini), si argomentò giustamente che ciò che conta è dare un giudizio sulla ‘cosa”, a prescindere da quel che accade intorno a noi, altrimenti saremmo sempre schiavi di circostanze esterne.

Per la teologia “tradizionale”  la vita è dono di Dio.  Per alcuni teologi contemporanei, vedi Hans Kung, la vita è certamente dono di Dio ma allo stesso tempo è un compito dell’uomo. E dunque messa a disposizione perché ne faccia un uso responsabile. Questa “messa a disposizione” vale anche per la fase finale della vita.  E’ su questa base, che ho semplificato forse troppo, che si fonda, a determinate rigorose condizioni, il “suicidio assistito”. Le chiedo questa “autodeterminazione” non è coerente, anche per un credente, con una visione responsabile della vita? 

In tutta la tradizione occidentale – non solo cristiana – si è sempre riconosciuto che la vita è insieme dono e compito. La responsabilità, tuttavia, anche etimologicamente, è sempre una risposta, non un inizio. Noi non siamo ‘autori” della nostra vita per il semplice fatto che non ne possediamo l’origine: possiamo, con la procreazione assistita, intervenire sulle modalità di trasmissione della vita, ma non possiamo ‘fabbricarla”; né possiamo, con un suicidio, ‘riprendercela”. Il termine ‘autodeterminazione” è equivoco se confonde autonomia morale (di cui abbiamo bisogno per esercitare la responsabilità) e autonomia ontologica, che non è invece nelle nostre disponibilità. Il ‘mio” essere non è mai assolutamente mio: dal concepimento fino alla morte. Chi ha vissuto la tragedia del terremoto lo capisce benissimo, ma non per questo deve farsi paralizzare dal fatalismo…

L’autodeterminazione è incoerente con una visione responsabile della vita quando assolutizza l’autonomia individuale e ignora il contesto storico e comunitario delle nostre scelte. La cultura ambientalista, ad esempio, denuncia l’autodeterminazione come un pericoloso eccesso antropocentrico, all’origine dell’aggressione sistematica alla biosfera… D’altro canto, non possiamo immaginare che una scelta soggettiva possa prescindere completamente dall’età (come ritengono i difensori dell’eutanasia infantile) o da condizionamenti psico-sociali, patologie invalidanti, biografia personale… Un’autodeterminazione astratta e ‘allo stato puro” semplicemente non esiste. Per questo, dobbiamo distinguere il malato grave che dichiara, essendo ormai prossimo alla fine della vita, di voler morire (che spesso significa: ‘Non voglio soffrire, non voglio essere solo…”), rispetto a chi invece pronuncia la stessa frase perché non accetta la propria condizione esistenziale (non solo un handicappato, ma forse anche un ergastolano al quale è impedito il suicidio, che considera la perdita della libertà peggio del dolore o dell’invalidità). Non possiamo confondere un’ammissione di impotenza, spesso frutto di una patologia atroce, con una volontà di potenza teorizzata a tavolino. Dobbiamo imparare a fare un elogio della vita che non suoni irrispettoso per chi soffre, mentre incoraggiare l’ammissione di impotenza per legittimare il paradigma individualistico della volontà di potenza è la cosa peggiore, una strumentalizzazione deplorevole.

Una Chiesa che predica il Vangelo della Misericordia potrebbe aprirsi verso chi compie un gesto di autodeterminazione?

La misericordia nella tradizione cristiana – da Agostino a Tommaso – non ha limiti, in quanto attesta che l’amore di Dio è infinitamente ‘più esagerato” di ogni abisso della miseria umana. In questo senso, essa è il nome e il volto di Dio, non un espediente retorico di papa Francesco per riavvicinare la chiesa alla vita della gente! La diffidenza nei confronti di un ‘eccesso di misericordia” tecnicamente è una bestemmia contro Dio e dimentica che il peccato contro l’amore è sempre per difetto, mai per eccesso.

In questo senso la misericordia si apre a chiunque accetti di lasciarsi abbracciare, accogliere e perdonare; essa non incentiva il male e non avalla alcuna forma di complicità con esso, perché è un’alternativa radicale alla miseria, non una sua equivoca compagna. Aprirsi alla misericordia non significa quindi essere confermati nella propria condizione; significa entrare in una relazione che rigenera, responsabilizza e quindi mobilita la risorse positive della gratitudine, aiutando a risolvere ogni rivendicazione individualistica entro un processo aperto – e sofferto – di reciprocità: l’autodeterminazione diventa responsabilità.

Per lei il vero conflitto, sui temi di bioetica, è tra bioetica ideologica e bioetica critica. Un conflitto che va al di là della dicotomia “credenti e non credenti”. E propone una bioetica  dialogica. Cosa vuol dire?

L’irrigidimento ideologico è un pericolo che possiamo correre tutti; per una credente potrebbe essere la ‘trave nel proprio occhio” da togliere per prima, per poter vedere la pagliuzza nell’occhio del fratello. Impostare la riflessione intorno alla fragilità della vita umana a partire da una logorante (e sterile) guerra di posizione fra ‘bioetica laica” e bioetica cattolica” significa arrendersi a una deriva ideologica, che alla fine semplifica le questioni, predilige gli slogan, cavalca le intimidazioni mediatiche, riduce il confronto a una questione puramente quantitativa di maggioranze e minoranze. In una società multiculturale, in cui il pluralismo rischia spesso di sfumare nel relativismo, il dialogo non è una strategia per mimetizzare la conquista del consenso: è un atteggiamento etico che prende sul serio la fragilità, cercando di interrogarsi concretamente sul senso profondo dell’etica della cura, attraverso una rigorosa ricognizione dei problemi, resa possibile da un’opera preventiva di ‘ecologia semantica”. Un linguaggio purificato e guarito dalle infiltrazioni dell’approssimazione e del disprezzo non sarà l’ultimo passo, ma dev’essere il primo. Questo vuol dire ‘bioetica in punta di piedi”: inoltrarsi a piedi scalzi, senza elmo né corazza, come Mosè sull’Oreb, nei territori dolenti delle vite malate, senza scambiare l’ascolto con una rinuncia alla verità.

Lei ha scritto un libro molto interessante, “Il fragile e il prezioso” è il titolo del saggio, propone di pensare a queste due categorie, al di là dell’opzione relativista e fondamentalista,  come polarità di un’etica della cura. Come si dovrebbe sviluppare questa etica?

Per liberarci dal mito prometeico della libertà assoluta dobbiamo ripartire dalla fragilità, che è limite insuperabile della vita personale, al quale spesso s’aggiunge anche una ferita. La vita umana non è preziosa nonostante la fragilità, ma proprio grazie alla sua fragilità; è preziosa non soltanto perché è unica, ma anche perché è capace di dare e ricevere cura. Oggi abbiamo perso il senso umano fondamentale dalla cura (elaborato dal pensiero antico, prima ancora che cristiano), e ne abbiamo professionalizzato e settorializzato solo aspetti specifici. C’è infatti una cura come pratica specialistica, che risponde a situazioni di particolare bisogno cui il soggetto non può far fronte da solo (la cura medica, ma anche la cura educativa di soggetti svantaggiati, disabili, devianti…), ma prima ancora la cura è una forma fondamentale di relazione tra persone fragili, in cui tutti dobbiamo sentirci coinvolti.

Nell’eclisse di questa frontiera elementare dell’umano, prevalgono le nicchie specialistiche, cui si ‘appaltano” passaggi particolarmente difficili – e solitari – della nostra esistenza. Invece quando le possibilità del curare (to cure) si riducono, lo spettro delle possibilità del prendersi cura (to care) dovrebbe ampliarsi, attraverso i registri della confidenza, dell’ascolto, dell’empatia, dell’accompagnamento. Esistono persone inguaribili, mai incurabili. Quando la fragilità è offesa e le scelte si fanno difficili, allora ci sarebbe bisogno di ‘cellule del buon consiglio” (P. Ricoeur), in cui l’esercizio della libertà sia frutto di una deliberazione condivisa. Il mito individualistico dell’autodeterminazione rischia invece di ridurre gli altri (i parenti, il personale medico e infermieristico, la società nel suo complesso…) a ‘protesi strumentali” delle mie decisioni. Non c’è solo l’autonomia del malato, c’è anche quella di chi gli sta vicino, che deve ‘giocarsi insieme” alla prima, evitando ricatti affettivi, scorciatoie pericolose e strumentalizzazioni reciproche.

La morte del DJ è stato anche un atto di accusa verso lo Stato italiano incapace di munirsi di una legislazione adeguata. Adesso, grazie al caso Fabo, la proposta di legge, finalmente approderà, alla Camera il prossimo 13 marzo. Uno dei punti di contrasto è quello che inserisce la scelta,  per il paziente , di dire no all’alimentazione e idratazione artificiale. come risolvere questo contrasto?

Alimentazione e idratazione non sono, concettualmente, trattamenti sanitari: sono un altro modo, commisurato alle condizioni del paziente e auspicabilmente non troppo invasivo, di aiutarlo a mangiare e bere, accompagnando le funzioni vitali fino al loro esaurimento. Non sono un trattamento sanitario perché non c’è una risposta terapeutica attesa, alla luce della quale commisurarne la reale utilità. La loro sospensione si può quindi configurare come un atto di eutanasia, quando è decisa non sulla base di una inefficacia terapeutica, ma per altri motivi, come metter fine in modo indiretto a un dolore insopportabile.

La riserva riguarda semmai il carattere ‘artificiale” e di strumentalità invasiva di questi supporti vitali. Ma è sempre pericoloso chiedere alla legge di perimetrare questa zona grigia, che dovrebbe essere rimessa alla saggezza di una ‘cellula del buon consiglio”. Non possiamo reagire a un deficit di etica pubblica con un surplus di legislazione. Stranamente, oggi rifiutiamo la crescente invadenza burocratica nella vita privata e poi vorremmo delegare al legislatore soluzioni che esonerino la nostra responsabilità, dimenticando che la legge spesso riflette contingenti rapporti di forza, traducendoli in convenzioni normative: la legge italiana consente di abortire di norma nei primi 90 giorni, ma sappiamo bene che tra un feto di 89 giorni e uno di 91 biologicamente e ontologicamente non c’è alcuna differenza. La Commissione Warnock (1984) ha coniato la nozione strampalata di ‘pre-embrione”, ponendo al 14° giorno il passaggio alla condizione di ‘individuo biologico”, ma si è trattato di un compromesso che fotografava i rapporti di forza in seno alla Commissione stessa. Ci dovremmo ricordare di Einstein: ‘La natura non è divisa in dipartimenti come le università”.

Medicine e bugie. Un libro-denuncia di Chiarelettere sulle truffe mediche

Più medicine, più salute. Siamo ossessionati dal benessere e abbiamo talmente paura delle malattie (anche quelle inventate) che siamo disposti a ingerire qualsiasi pillola, e a credere a truffatori e guaritori senza scrupoli.

Bombardati da pubblicità ingannevoli, compriamo integratori di ogni specie senza sapere che per la maggior parte non servono a nulla, siamo disposti a sottoporci a esami più volte all’anno con costi elevatissimi anche quando non ce n’è bisogno, ci affidiamo a qualsiasi prodotto che sia naturale e biologico sicuri della sua efficacia, anche quando non provata scientificamente, e siamo in balia della prima novità farmaceutica che ci prometta di farci diventare più belli e più giovani. Poveri ingenui.

Ecco un libro che ci può aiutare. Di Grazia, medico di professione, combatte da anni contro truffe e ciarlatani. Riporta casi di farmaci inutili o addirittura dannosi spacciati per miracolosi, dal nuovo prodotto contro l’Alzheimer allo scandalo dell’Oscillococcinum, o di certi psicofarmaci o antidolorifici causa di morte e disturbi gravissimi. Tutto provato e documentato.

Essere informati è l’unica cura che può salvarci da facili illusioni e aiutarci a essere cittadini e pazienti più sani e consapevoli.

L’AUTORE
Salvo Di Grazia è un chirurgo specialista in Ginecologia e Ostetricia, medico ospedaliero e divulgatore scientifico. Appassionato di musica e internet. Scrive per diverse testate e siti, collabora con “Le Scienze” e “il Fatto Quotidiano”. Ha fondato nel 2008 e gestisce il blog MedBunker che è diventato con il tempo punto di riferimento sulla medicina e contro i ciarlatani della salute. Nel 2014 ha pubblicato il libro SALUTE E BUGIE (Chiarelettere) sulle terapie truffaldine.
http://medbunker.blogspot.it

Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo un estratto del libro.

La truffa degli integratori alimentari
Fin da piccoli ci hanno convinto che, per stare meglio (ma se si sta già bene, perché dovremmo stare meglio?), è necessario (quasi obbligatorio) assumere vitamine, pillole e bustine. Un integratore, per legge, non può vantare effetti terapeutici (ovvero non può sostenere di «curare» o «guarire» da una malattia) e per questo ha una procedura di approvazione molto più semplice rispetto a quella dei farmaci standard. Questi ultimi, per essere venduti, devono superare molti test e autorizzazioni. Devono dimostrare di essere sicuri ed efficaci, bisogna presentare degli studi che ne attestino gli effetti e che vengono passati al vaglio degli enti preposti (in Italia l’Aifa, Agenzia italiana del farmaco, in Europa l’Ema, European Medicines Agency, negli Stati Uniti la Fda, Food and Drug Administration) e solo dopo diverso tempo possono essere messi in commercio. Gli integratori non sono sottoposti a un iter così rigoroso: basta dimostrare che siano innocui. Quando li compriamo, quindi, sappiamo semplicemente che non fanno male, ma non abbiamo alcuna certezza della loro efficacia: la maggioranza degli integratori in vendita non serve a niente. Ma allora perché hanno tanto successo? Per il solito motivo: siamo alla continua ricerca di un rimedio per i nostri problemi, veri o ipotetici che siano. Prendiamo per esempio gli antiossidanti. Non mi dite di non aver mai sentito parlare dei loro benefici, ne discutono ovunque in maniera quasi martellante. Esperti e medici sono d’accordo: per sconfiggere i radicali liberi (che tra le altre cose ci fanno invecchiare e ammalare) gli antiossidanti sono un’autentica panacea. Sono contenuti in molti alimenti (economici, come la frutta e la verdura) ma possiamo anche assumerli in pratiche capsule (acquistandole a caro prezzo, s’intende). Ma i prodotti della terra non esercitano sui consumatori lo stesso fascino di una pillola colorata, sono troppo semplici, ordinari, neanche ci sembra credibile che possano contenere sostanze capaci di contrastare l’invecchiamento e la malattia. Meglio assumere una piccola compressa che si manda giù con un sorso d’acqua, che magari contiene ingredienti dai nomi altisonanti e che evocano effetti portentosi. Noi non vogliamo stare meglio, vogliamo il miracolo. Non si spiegherebbe altrimenti il successo immotivato degli innumerevoli prodotti inutili venduti come fondamentali per la salute, e che troviamo sia in farmacia sia al supermercato. Si stima che il mercato statunitense degli integratori ammonti a oltre 30 milioni di dollari, in Italia è ovviamente più contenuto ma solo perché la nostra popolazione è numericamente molto inferiore a quella americana. Il dato è sorprendente, visto che in assenza di malattie o carenze specifiche un integratore non serve a nulla: né a stare meglio né tantomeno a guarire da qualcosa che non abbiamo. Vitamine, sali minerali, sostanze e derivati vegetali rappresentano un mercato enorme che ormai anche le grandi aziende farmaceutiche si vogliono accaparrare, e non a caso le due classi di integratori più vendute sono quelle relative ai dietetici e agli stimolanti sessuali, seguite dai prodotti per palestre. In molti di questi sono addirittura contenute sostanze tossiche e proibite, come i derivati delle anfetamine. Il pericolo si scopre solo quando si effettuano controlli mirati sul prodotto, cosa che, come abbiamo detto, non avviene prima del rilascio sul mercato. Una recente indagine giornalistica del «New York Times» ha dimostrato che molti integratori presenti sul mercato americano contenevano componenti non permesse, e peraltro non elencate tra gli ingredienti, che hanno causato gravi effetti collaterali, e che in tre quarti degli integratori a base di olio di pesce (venduti per i loro presunti, ma per niente accertati, effetti positivi sul sistema nervoso e sull’intelligenza) non era contenuto il quantitativo di omega-3 (la molecola che avrebbe l’effetto positivo) dichiarato in etichetta. Il boom dell’olio di pesce è legato anche alla prevenzione delle malattie cardiache ma, ancora una volta, non sembra esserci alcuna evidenza dei suoi effetti benefici. Non è così scontato che l’assunzione o l’integrazione (non necessaria) di una vitamina possa essere utile alla salute, anzi. Si è visto, per esempio, che l’assunzione di calcio, alla quale spesso si ricorre per prevenire i problemi ossei, non è soltanto inutile perché meno efficace di altre terapie, ma può essere anche dannosa, visto che sembra aumentare di circa il 20 per cento il rischio di problemi cardiovascolari (ictus, infarti). Lo stesso discorso si può fare per gli antiossidanti. Quelli contenuti negli alimenti sono utili, contrastano la degenerazione delle cellule e riescono persino a prevenire alcune malattie, ma quelli assunti come «medicina» non sembrano avere gli stessi effetti, anzi, alcuni studi hanno evidenziato pericolose controindicazioni: nelle cavie, per esempio, l’assunzione di antiossidanti ha causato il peggioramento del melanoma, un tumore cutaneo. Alcuni medici prescrivono integratori a base di glucosamina e condroitina, due sostanze ritenute benefiche per certe malattie osteoarticolari come l’artrite o per dolori alle ossa e altri disturbi delle articolazioni. Nonostante qualche evidenza positiva, non mancano certo prove della loro assoluta inutilità, come quelle notate nei confronti dei dolori dell’artrite: mentre un antinfiammatorio li riduceva, gli integratori di glucosamina o condroitina sortivano quasi lo stesso effetto di un placebo (ovvero una sostanza neutra, priva di qualsiasi effetto). Altri studi hanno rilevato un miglioramento lieve o moderato. Persino i noti fermenti lattici, se presi a sproposito, possono essere inutili, quando non dannosi. Si tratta infatti di batteri di vario tipo (si chiamano «probiotici») che vivono nel nostro intestino aiutandone le funzioni e che possono avere un ruolo positivo anche dal punto di vista immunitario. Sono contenuti in molti alimenti (come lo yogurt o i formaggi) e spesso sono prescritti per prevenire o curare la diarrea (come quella causata dall’uso di antibiotici). Alcuni studiosi hanno fatto notare che i benefici vantati dai probiotici presenti in alcuni alimenti sono annullati dall’eccessivo contenuto in zucchero degli stessi, che anzi finirebbe per renderli nocivi. Inoltre uno studio pubblicato sul «Lancet» ha constatato che la diarrea da antibiotici ha avuto gli stessi identici (piccoli) benefici sia dai probiotici sia da un placebo (un flaconcino di acqua zuccherata), negli individui oltre i sessantacinque anni. Questi esempi possono farci capire che se alcune vitamine o sostanze possono avere un’utilità in certe condizioni, in altre (e nella maggioranza dei casi) non servono a nulla. Pensate poi al business degli integratori in gravidanza. Alle donne in attesa viene consigliata l’integrazione con acido folico perché in grado di prevenire un grave problema alla colonna vertebrale del feto, anzi, dovrebbe essere assunto già prima del concepimento e fino all’undicesima settimana di gestazione, dopodiché la sua efficacia è trascurabile, anche perché lo assumiamo già normalmente con la nostra alimentazione. Utile può essere anche l’integrazione di vitamina D. Tutte le altre vitamine e sostanze che servono in gravidanza sono assunte con la normale dieta quotidiana che, ovviamente, deve essere ben bilanciata e varia. Eppure sono prescritti alle donne incinte svariati multivitaminici, prodotti che integrano decine di vitamine e sali minerali, componenti essenziali per la vita ma che, in una donna in salute e che si alimenta bene, non hanno necessità di integrazione o maggiore consumo. Da non sottovalutare il costo di questi prodotti, in genere elevato. Un affare per chi li produce. Eppure gli integratori rappresentano un richiamo irresistibile per il consumatore e per procurarseli non serve neanche una prescrizione, esattamente come se acquistassimo un gioco, un panino o un frutto: semplice e veloce. E sono spinti da un marketing aggressivo proprio perché prevedono un investimento molto basso a fronte di un guadagno (per il produttore) sicuramente interessante che punta sull’illusione del benessere di tutti noi. Tra i prodotti che hanno un inspiegabile successo di mercato ci sono anche le acque oligominerali (che contengono pochi sali minerali, come il magnesio, il sodio, il potassio e altre componenti normalmente presenti nelle acque potabili e fondamentali per la nostra salute). Ora, oltre al fatto che i sali minerali sono utili e non dannosi (e quindi non c’è alcun motivo per preferire un’acqua con pochi sali minerali rispetto a quella normale di rubinetto), spesso chi assume gli integratori lo fa con l’acqua oligominerale, sciogliendovi le bustine solubili o bevendone un sorso per mandar giù una pillola. Avviene dunque un fenomeno curioso: compriamo un integratore che ci fornisca sali minerali, evidentemente considerandoli utili, e lo assumiamo con un’acqua povera di sali minerali. Non siamo proprio strani noi consumatori?

PD, la follia delIa scissione. INTERVISTA A GIORGIO TONINI

La scissione del PD si è compiuta, dopo giorni di follia politica. Sconcertante, agli occhi dell’opinione pubblica, il comportamento dei protagonisti di questa vicenda. Adesso sorgeranno i gruppi parlamentari degli scissionisti. “Movimento Democratico e Progressista”, questo il nome del nuovo gruppo. Cerchiamo di capire, in questa intervista, con Giorgio Tonini (PD), Presidente della Commissione Bilancio al Senato, quali saranno le conseguenze della scissione.

Senatore Tonini, come sta vivendo, personalmente, questa scissione?

 Diciamo che abbiamo conosciuto momenti migliori. Un gruppo di dirigenti storici della sinistra italiana, pur di abbattere il segretario in carica, peraltro alla prova di un congresso tutt’altro che scontato, non esita a dare un colpo al partito con l’obiettivo dichiarato di fargli perdere il primato elettorale nel paese. Un obiettivo folle e irresponsabile, non solo nei riguardi del Pd, ma anche nei confronti del paese, che non mi pare disponga di un’alternativa di governo pronta. E tutto questo in uno scenario europeo e internazionale da brivido, alla vigilia di elezioni francesi che potrebbero segnare la fine dell’Unione europea, o viceversa aprire una fase di nuovo sviluppo della costruzione politica dell’Europa, dalla quale un’Italia resa nuovamente instabile dall’esito infausto del referendum costituzionale, rischia di essere esclusa.

Nel suo territorio, il Trentino, che tipo di reazioni ha registrato?

Sconcertate. Praticamente nessuno ha seguito i fuoriusciti. Semmai c’è chi, contro la scissione politica, invoca la secessione territoriale. È un altro, piccolo sintomo dei rischi di disgregazione del paese.

A rivedere il film di questi ultimi due mesi, in cui il suo partito ha dato il peggio di sé, si fa ancora fatica a comprendere le motivazioni profonde di una scissione che assomiglia sempre più ad uno psicodramma collettivo. Insomma possono le differenze programmatiche, e ve ne sono diverse, giustificare una scissione? Questo è quello che si domanda l’opinione pubblica….

Differenze programmatiche ce ne sono, come è evidente, ma anche fisiologico, in un grande partito popolare e plurale. Ma non si fa una scissione, tanto meno in un momento drammatico come quello che stiamo vivendo, per qualche divergenza programmatica. Semmai ci si presenta al congresso con una piattaforma alternativa a quella del segretario uscente e si prova a metterlo in minoranza.

Parliamo di Matteo Renzi. Dica la verità Senatore Tonini, il comportamento dell’ex-segretario non è stato proprio di uno che fosse dispiaciuto della scissione. Anzi! Il comportamento ha continuato ad essere improntato sulla supponenza, menefreghismo delle ragioni degli altri, ingordigia di rivincita…. A parte quella piccola autocritica fatta in quella intervista ad Ezio Mauro su Repubblica, non c’è stata una vera autocritica sul suo operato. Eppure ragioni per farla ve ne sono. Insomma come può una persona così essere percepita come un segretario di tutti?

Per la verità, Renzi ha fatto molto di più che sottoporsi al rito un po’ comunista dell’autocritica: si è dimesso da presidente del Consiglio e poi da segretario del partito. Detto questo, è indubbio che la dote più spiccata di Renzi non sia l’inclinazione alla mediazione e al compromesso. Ma neppure questa è una ragione sufficiente per andarsene da un partito. Del resto, il principale regista della scissione, Massimo D’Alema, può dare poche lezioni al riguardo, diciamo… Siamo seri. La ragione della decisione di uscire sta in un radicale dissenso sulla natura del Pd. Per D’Alema e Bersani doveva essere l’ennesima metamorfosi del Pci, a cominciare dalla forma-partito, basata sulla mediazione al centro piuttosto che sulla competizione tra proposte alternative, e su un gruppo dirigente sostanzialmente inamovibile, che si rinnova lentamente e quasi solo per cooptazione. Renzi, pur con tutti i suoi limiti, ha avuto il merito storico di prendere sul serio il modello nuovo di partito pensato e voluto da Veltroni e di metterlo in atto, di farlo vivere non solo negli statuti, ma nella prassi quotidiana. Un modello aperto e competitivo, fondato sui due principi della vocazione maggioritaria e della contendibilità di tutte le cariche. Questo modello si è rivelato insopportabile per D’Alema e soci, al punto di tentare, con la scissione, di farlo saltare. Per fortuna non sembra che le dimensioni della rottura siano letali per il Pd. Anche se certamente sarebbe stato meglio poterne fare a meno.

E poi questa voglia smisurata, da parte di Renzi, di andare presto alle elezioni: non la vede come un suicidio per il PD? E la decisione dalla Direzione di concludere l’iter congressuale il 30 aprile non suona come una sconfitta del segretario dimissionario e la vittoria del partito della conclusione della legislatura a scadenza naturale?

Trovo la disputa sulla data delle elezioni, sei mesi prima o sei mesi dopo, malinconicamente comica. Renzi avrebbe avuto torto a pretendere di andare alle elezioni saltando il passaggio della sua rilegittimazione democratica attraverso il congresso. Ma ora il congresso c’è e si terrà prima del voto. A questo punto è la fuoriuscita dei dalemiani (e non le presunte smanie di rivincita di Renzi), che potrebbe portarci alle elezioni subito. A prescindere dai tempi del congresso del Pd. Da presidente della commissione Bilancio del Senato, mi sentirei di sconsigliare al governo di entrare nella sessione di bilancio con la sola certezza che i fuoriusciti dovranno utilizzarla per distinguersi tutti i giorni dal Pd, pena la loro irrilevanza politica e la loro scomparsa dai media. Ho già visto questo film: tra il 2006 e il 2008, protagonisti i gruppi e gruppetti che assediavano il Pd e il governo Prodi da sinistra e dal centro. Il finale obbligato furono le elezioni anticipate.

Parliamo dell’ex minoranza PD. Anche qui errori ve ne sono stati, dove, secondo lei, hanno sbagliato?

In particolare, direi, nel comportamento parlamentare. Non si contano infatti le occasioni nelle quali la minoranza non si è limitata a criticare le scelte della maggioranza del partito e del governo, come è suo diritto indiscutibile in un partito democratico. Ma si è dissociata nel voto, talvolta perfino in quello di fiducia, nelle aule parlamentari. Questo comportamento, tanto più se ripetuto, è strutturalmente incompatibile con l’appartenenza ad un partito. È già, di per sé, un comportamento scissionistico. Questo la minoranza lo sa e sa anche che la politica ha le sue leggi, diverse da quelle della fisica o della chimica, ma non meno stringenti. Una di queste leggi è la complementarietà, in un partito complesso e composito, del pluralismo della rappresentanza e della disciplina nel voto. Se si viola sistematicamente la disciplina, si mette a repentaglio la sostenibilità del pluralismo e si pongono quindi le basi della scissione. Questa regola non conosce eccezioni, nella storia dei partiti politici, e averla sottovalutata, da parte della minoranza, è stato un grave errore di superficialità.

Loro dicono: noi, con la nostra scissione, salviamo il centrosinistra. E’ così?

Il magnifico paradosso delle frequenti scissioni a sinistra è che vengono consumate sempre in nome dell’unità: un mito tanto celebrato sul piano retorico, quanto smentito su quello pratico. Ma la vera o presunta, diciamo tentata, scissione del Pd, in nome dell’Ulivo è una novità fantastica. L’Ulivo è sempre stato una coalizione che tendeva a farsi partito, frenata dall’istinto di conservazione dei partiti che avevano dato vita alla coalizione. In questo senso, pur con tutti i suoi limiti, il Pd è l’Ulivo realizzato: scindere il Pd in nome dell’Ulivo è quindi un nonsenso. Sarebbe come divorziare per tornare fidanzati.

Si potrà ricomporre la scissione? Su che basi potrà rinascere il centrosinistra?

Per me la domanda non ha senso. Il Pd è il centrosinistra che si fa partito. Un partito a vocazione maggioritaria, cioè un partito aperto e inclusivo e che non si limita a presidiare una nicchia più o meno grande di consenso, ma cerca di conquistare il “mainstream” del paese. Anche per questo la coincidenza nella stessa persona della funzione di segretario del partito con quella di candidato premier è un principio costitutivo del Pd. Volerlo rimuovere, come ora dice di voler fare Orlando, è proporsi di snaturare il Pd, per tornare all’idea di partito che era propria della Prima Repubblica. Questo non significa che il Pd non possa o non debba fare alleanze con formazioni minori alla sua sinistra o alla sua destra. Ma queste scelte tattiche, spesso imposte dal realismo dei numeri, non hanno nulla a che vedere con la natura del Pd, se non in quanto esprimono la sua vocazione a conquistare nuovi consensi al riformismo.

Ora inizierà il percorso congressuale. Ho la sensazione che non sarà facile coinvolgere il “popolo delle primarie”… Lei che ne pensa?

La partenza è certamente in salita: dopo una sconfitta strategica e una (per quanto ridotta) scissione, con alle viste un confronto elettorale che con assoluta probabilità non produrrà alcun vincitore, non è facile suscitare entusiasmo. Molto dipenderà dalla capacità di Renzi di rilanciare un progetto riformista per il paese: un progetto che prenda le mosse dalla batosta referendaria, assumendo fino in fondo il carico di inquietudine, di insoddisfazione, di sofferenza e di rabbia che quel voto ci consegna, ma non per cavalcarlo retoricamente, come fanno le molte famiglie populiste, ma per corrispondere ad esso con un di più di intelligenza, di immaginazione, di progettualità e di coraggio riformisti. La scelta di Renzi di ripartire dal Lingotto e di affidare il coordinamento del programma a un riformista a tutto tondo come Tommaso Nannicini è la partenza migliore di questa difficile impresa.

Infine una parola sul governo Gentiloni. L’Europa vuole la manovra correttiva presto, Renzi non ne vuol sapere di privatizzazioni, tasse sulla benzina, ecc. Non vedo messo bene il governo…

Nemmeno io. Ma non tanto per i presunti dissensi di Renzi, quanto per gli effetti della scissione. Ho sempre pensato e detto più volte che l’unico modo per accelerare la fine del governo Gentiloni è dunque quella della legislatura era la scissione, anche piccola, del Pd. Si chiama eterogenesi dei fini: un altro classico nella storia della sinistra.