“IO, MORTO PER DOVERE”. La vera storia di Roberto Mancini, il poliziotto che ha scoperto la Terra dei fuochi

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IL LIBRO

Il nostro dovere non è arrestare qualcuno e mettergli le manette per fare bella figura con i superiori e magari prendersi un encomio. Noi siamo pagati per garantire i diritti, per migliorare, nel nostro piccolo, il mondo che ci circonda, la vita delle persone.”

Roberto Mancini

Un libro coraggioso questo di Chiarelettere. E’ la storia di un poliziotto coraggioso: Roberto Mancini. Un uomo sapeva già tutto del disastro ambientale nella cosiddetta Terra dei fuochi. Vent’anni fa conosceva nomi e trame di un sistema criminale composto da una cricca affaristica in combutta con la feccia peggiore della malavita organizzata e con le eminenze grigie della massoneria. Aveva scritto un’informativa rimasta per anni chiusa in un cassetto e ritenuta non degna di approfondimenti, ha continuato il suo impegno depositando, nell’ultimo periodo della sua vita, un’altra informativa (pubblicata per la prima volta in questo libro).

Mancini, è morto il 30 aprile 2014, ucciso da un cancro. Sarà riconosciuto dal ministero dell’Interno come “vittima del dovere”. Un giovane poliziotto cresciuto tra le fila della sinistra extraparlamentare negli anni confusi e violenti della contestazione. Manifestazioni, picchetti, scontri di piazza, poi la scelta della divisa, per molti incomprensibile e spiazzante, per Mancini del tutto naturale.

Una grande storia di passione, impegno e coraggio. Questo libro finalmente la racconta tessendo insieme con delicatezza e profondità le testimonianze dei colleghi e della famiglia (la moglie Monika, che ha collaborato alla stesura, la fi glia Alessia, che aveva tredici anni quando il papà è morto), i documenti, oltre dieci anni di lavoro alla Criminalpol e la voce stessa di Mancini, che restituisce la sua verità e tutto il senso della sua battaglia umana e professionale.

Una storia chiusa per anni nel silenzio e oggi riscoperta, oggetto di una fiction con protagonista Giuseppe Fiorello nel ruolo di Mancini e finalmente patrimonio di tutti, da non dimenticare.

GLI AUTORI

Luca Ferrari, giornalista, documentarista e fotografo, è autore dell’inchiesta che per la prima volta ha raccontato la storia di Roberto Mancini, pubblicata su “la Repubblica”. Ha collaborato con la trasmissione Servizio pubblico, condotta da Michele Santoro, e con “la Repubblica”, “l’Espresso”, “The Huffington Post” e “il Fatto Quotidiano”. Con il suo primo film, Pezzi (2012), prodotto da Valerio Mastandrea, ha vinto il Premio Doc It – Prospettive Italia Doc per il miglior documentario italiano al Festival internazionale del film di Roma e ha ottenuto una candidatura nella categoria miglior documentario al David di Donatello 2013. Nel 2015 il suo secondo fi lm documentario, Showbiz, sempre prodotto da Valerio Mastandrea, è stato presentato alla Festa del cinema di Roma.

Nello Trocchia, giornalista e scrittore, precario dell’informazione, collabora con “il Fatto Quotidiano”, “l’Espresso” e con La7 (La gabbia). Ha realizzato inchieste su clan, malaffare politico e crimini ambientali. È autore di Federalismo criminale (Nutrimenti 2009), menzione speciale al premio Giancarlo Siani, primo libro-inchiesta sui comuni sciolti per mafia; La peste (con Tommaso Sodano, Rizzoli 2010), sulla cricca politico-criminale che ha realizzato il sacco ambientale in Campania; Roma come Napoli (con Manuele Bonaccorsi e Ylenia Sina, Castelvecchi 2012). Da agosto del 2015 è sottoposto a vigilanza dei carabinieri per aver subito minacce da un boss di camorra a seguito delle inchieste giornalistiche pubblicate.

Per gentile concessione dell’Editore, pubblichiamo uno stralcio del libro

Il poliziotto che ha scoperto la Terra dei fuochi

«Mio padre è un eroe. Ha dei nemici? Bene. Questo significa che ha lottato per qualcosa nella sua vita. L’unica sua debolezza è stata la morte: non usatela per affermare la vostra forza.» Il 3 maggio 2014, il giorno del funerale, Alessia ha solo tredici anni. Il papà, Roberto Mancini, sostituto commissario di polizia, ne aveva cinquantatré ed è morto per aver scoperto e denunciato con una determinazione e un coraggio unici un sistema criminale e la rete dei trafficanti di veleni. Nella basilica di San Lorenzo fuori le Mura, a Roma, le istituzioni sono presenti in prima fila insieme con la famiglia per dare l’ultimo saluto a un servitore dello Stato, encomiato perfino dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Quelle stesse istituzioni che a lungo lo avevano ignorato e perfino osteggiato. Mancini è stato il primo poliziotto a investigare sui rifiuti tossici. Le sue indagini hanno anticipato di quasi due decenni la scoperta del disastro ambientale in alcune zone della Campania, la cosiddetta Terra dei fuochi. Quando era nella Criminalpol, a metà degli anni Novanta, Mancini ha smascherato la connivenza tra imprenditoria e camorra; tra politica, massoneria e bassa manovalanza criminale. Il risultato della sua inchiesta è scritto nero su bianco in un’informativa che, per qualche sconosciuto motivo, è rimasta chiusa in un cassetto per più di dieci anni. Mancini ha completato quel documento ormai storico senza mai curarsi dei rischi che correva. «Voglio credere che allora non fossero ancora maturi i tempi e l’opinione pubblica non fosse pronta» ha detto il poliziotto poco prima di morire commentando il fatto che le sue indagini fino a quel momento fossero state ignorate. Mancini è stato uno sbirro controcorrente, sempre con «il manifesto», quotidiano comunista, sotto braccio, insofferente al potere delle gerarchie ma comunque dalla parte della legge e della giustizia sociale. E questo dava fastidio. Negli anni del liceo aveva militato nel collettivo di sinistra, poi la voglia di cambiare il sistema dall’interno lo aveva portato a far domanda per entrare in polizia. Negli anni Ottanta, sorprendendo chiunque lo conoscesse, era diventato il più giovane viceispettore d’Italia. Per molti colleghi, che in questo libro lo ricordano con affetto e stima, è stato un «esempio»; per altri, soprattutto per alcuni suoi superiori ai quali lui non si è mai piegato per ottenere promozioni o simpatie, è stato invece solo un «visionario, un pazzo». Eppure quel «pazzo» si è ammalato perché durante le sue indagini, portate avanti per anni, è andato a scavare nelle aree contaminate dai trafficanti di veleni armato solo di guanti di lattice e mascherina. Lì dove hanno vomitato di tutto: scorie di fonderia, ceneri, ammoniaca, liquami, rifiuti industriali di ogni genere. Nel 1994 Roberto Mancini aveva cominciato a indagare su Cipriano Chianese, secondo la Procura di Napoli l’«inventore» dell’ecomafia, e a produrre una quantità di informazioni molto scomode. Con la commissione parlamentare di inchiesta sul ciclo dei rifiuti, da consulente, tra il 1997 e il 2001, era tornato poi ad attraversare quei territori per rilievi e verifiche. Tra l’Italia e l’estero aveva partecipato a sessanta sopralluoghi su discariche abusive e luoghi contaminati. E il pazzo alla fine ci ha rimesso la pelle. Una biopsia gli ha diagnosticato il linfoma non-Hodgkin. Mancini ha conosciuto la depressione, ha attraversato una stagione di profonda sofferenza ma non ha mai smesso di lavorare. Fino all’ultimo ha cercato di fornire documentazioni al pm Alessandro Milita, colui che rappresenta la pubblica accusa nel processo ancora in corso a carico di Chianese. Nel 2005 Mancini si sottopone a un trapianto e per un momento tutto sembra risolversi per il meglio, l’incubo finito. Ma non c’è lieto fine a questa storia. Nel maggio del 2010, infatti, il morbo si riaffaccia. Una nuova biopsia diagnostica una recidiva. Il poliziotto non risponde più alle chemio, si sottopone al trapianto del midollo osseo, donato dal fratello. Purtroppo non servirà. I nomi dei responsabili dell’avvelenamento di quella terra rimangono a lungo impuniti: è stato questo il più grande rimpianto di Mancini, insieme a quella telefonata di riconoscenza dall’amministrazione della polizia, doverosa e tanto attesa, che però non è mai arrivata durante i terribili e faticosissimi giorni dell’agonia prima della morte.

Mancini resterà sempre il poliziotto comunista, ligio al dovere, ma insofferente al potere. Questo libro racconta per la prima volta la sua storia. Siamo entrati nella sua vita; abbiamo conosciuto i suoi amici di sempre, i colleghi e la sua famiglia, in particolare la moglie Monika che ha contribuito in modo attivo alla stesura di queste pagine. Come giornalisti, abbiamo preso spunto dalle sue indagini per denunciare una mattanza ambientale senza precedenti. Abbiamo recuperato alcune sue carte inedite, appunti scritti a mano, documenti scottanti e compromettenti, frutto di anni di investigazioni sul campo, che pubblichiamo per la prima volta. Ma soprattutto abbiamo raccontato la storia di un poliziotto, di un tifoso, di un amante, di un marito, di un padre e di un investigatore eccelso. Di un uomo che stimiamo profondamente. Questo non è il ritratto di un eroe, tutt’altro. Gli eroi servono a pulire la coscienza di chi non si sporca le mani o di chi le mantiene pulite ficcandole in tasca, di chi non prende mai posizione, di chi nutre le schiere di coloro che si voltano sempre dall’altra parte. Oggi Roberto Mancini è una nobile voce che non fa più paura. Dopo la sua morte è arrivata l’approvazione unanime per il lavoro svolto e nel consenso generale la coscienza collettiva si è liberata del peccato. Mancini rifuggiva l’omologazione, si è sempre rifiutato di essere altro da quello che era solo per compiacere e ottenere favori personali. Forse non avrebbe gradito tutti questi applausi.

Luca Ferrari, Nello Trocchia con Monika Dobrowolska Mancini, Io, morto per dovere. La vera storia di Roberto Mancini, il poliziotto che ha scoperto la Terra dei fuochi. Prefazione di Giuseppe Fiorello, Ed. Chiarelettere, Milano 2016 . Pagg. 168 _ 15 euro

La “Repubblica aggiornata”. Intervista a Stefano Ceccanti

Stefano Ceccani (LaPresse)In questi mesi il lavoro parlamentare si è concentrato molto sulla riforma della seconda parte della Costituzione. Una riforma, come si sa, che è stata molto osteggiata dalle opposizioni (non senza ipocrisia da parte del centrodestra). Ora la riforma del Senato è stata approvata anche a Palazzo Madama: 180 i sì, 112 i no. La trafila, però, non finisce qui, visto che la riforma dovrà, ad Aprile, nuovamente passare dalla Camera, dove non sarà più possibile proporre emendamenti. Vale a dire che si voterà solo con un “sì” o un “no”. Dopo queste ultime due approvazioni, ci sarà, nell’autunno di quest’anno, il referendum confermativo. In quale direzione sta andando, con queste riforme, il nostro Paese? Parafrasando Maurice Duverger, storico francese delle Istituzioni politiche, si dovrebbe passare da una politica dell’impotenza ad una politica della decisione. Questo, secondo i costituzionalisti favorevoli a questa riforma, è l’obiettivo di fondo. Non vi è dubbio, però, che si pongono non pochi interrogativi. Ne parliamo, in questa intervista con un protagonista del dibattito politico costituzionale: Stefano Ceccanti, Ordinario di Diritto Costituzionale Comparato alla Sapienza di Roma. E proprio in questi giorni è uscito un suo libro, per l’Editore Giappichelli, dedicato alla riforma costituzionale che sarà, come già detto, oggetto di referendum confermativo. Il titolo del libro chiarisce l’obiettivo di fondo della Riforma: “La transizione è (quasi) finita. Come risolvere nel 2016 i problemi aperti 70 anni prima” (Ed. Giappichelli, Torino 2016, pagg. XXIV+96, € 11,00):

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Professor Ceccanti, nel suo libro cerca di dare risposte a molti interrogativi, che sono sorti in questi mesi, sulla riforma costituzionale che sarà oggetto di Referendum Confermativo il prossimo autunno. Colpisce l’affermazione che, secondo lei, con la riforma costituzionale e quella della legge elettorale si risolvono i problemi rimasti aperti settanta anni fa con la nascita della Repubblica.  Un’affermazione assai importante. Può spiegarcela? 

Alcune delle soluzioni di allora sulla Seconda Parte furono determinate dalla rottura del governo di grande coalizione antifascista della primavera 1947. Legata alla Guerra Fredda, Nel clima di sfiducia reciproca, di divisione verticale, molti aspetti organizzativi vennero  impostati con una logica ultra-garantistica, come il bicameralismo ripetitivo che non ha senso né rispetto alla forma di governo (non ha senso giocarsi l’esito dell’esecutivo su due Camere diverse esponendosi a maggioranze incoerenti),  né da quello dl rapporto centro-periferia (un regionalismo cooperativo forte non funziona senza l’accordo di una seconda camera). Quelle scelte hanno perso senso da vari decenni ma solo grazie all’impasse dell’inizio di questa legislatura ci si è trovati in condizione di affrontare davvero il lavoro di aggiornamento per dare senso a questo Parlamento.

All’inizio  del libro lei  riporta un lungo pensiero del grande costituzionalista, padre costituente, Costantino Mortati contro il Bicameralismo perfetto. Le Chiedo quali sono state le ragioni che hanno influito su questo enorme ritardo costituzionale?

La divisione verticale tra le forze politiche ha fatto partire le Regioni molto tardi, negli anni ’70 e in modo molto timido. Anche se le proposta di Camera delle autonomie, congelate alla Costituente, aveva ripreso vigore teorico già in quella fase. Dopo l’ 89, sia pure in modo confuso, anche per le ambiguità della Lega, è riemersa una domanda di uscita dall’eccesso di centralismo e di uniformità. Mentre è stata coerente la riforma della forma di governo regionale con la legge costituzionale 1/1999, quella dell’elezione diretta dei Presidenti, vi è stata poi un’incoerenza tra il regionalismo forte della riforma del Titolo Quinto del 2001 (persino troppo generosa sulle competenze) e l’assenza di una Camera delle autonomie che  avrebbe comunque ridotto quantitativamente la classe politica nazionale. Essa si difendeva con proposte improbabili come Senati delle garanzie, fatte per autoperpetuarsi, quando qualsiasi evidenza comparata, pur nella diversità degli esiti, mostra che una seconda Camera ha senso solo per completare il disegno centro-periferia.

Quali sono i punti deboli della Riforma? Quali i punti di forza? Non trova che si sarebbe dovuto lavorare di più sulle garanzie, ovvero il “check and balance”, contro lo sbilanciamento sul potere esecutivo?

E’ vero il contrario. Manca un intervento sugli articoli della Costituzione relativi alla forma di governo (fiducia, sfiducia e scioglimento). A parte l’eliminazione della fiducia col Senato e il premio della legge elettorale, in corso di legislatura non ci sono rimedi istituzionali ai rischi di crisi. Si potrà però intervenire in un secondo momento. Il sistema italiano resta quello con le maggiori garanzie: un Presidente della Repubblica con poteri più forti degli altri Capi di Stato parlamentari, il referendum abrogativo a cui è anche ridotto il quorum, una magistratura indipendente con un Csm in cui i componenti laici non possono essere eletti dalla sola maggioranza, idem per la Corte costituzionale, una revisione costituzionale che diventa più difficile perché il Senato è sganciato dalla maggioranza. A mio avviso si è, anzi, commesso un eccesso di zelo alzando troppo il quorum per il Capo dello Stato che potrebbe bloccane l’elezione.      

Insomma per lei le riforme ci porteranno verso la terza repubblica, ovvero quella democrazia dell’alternanza sognata da Moro e Ruffilli. La democrazia dell’alternanza, però, implica valori repubblicani condivisi. Non mi sembra il caso della politica italiana. Dove forze politiche alternative al PD, vedi il centrodestra a trazione leghista, si pongono in pesante discontinuità con i valori della Carta del 1948 . Non è stato troppo ottimista?

La Repubblica è sempre la stessa perché c’è una continuità di principi. C’è una discontinuità degli strumenti per meglio rispondere a quei principi. Preferirei parlare di nuove regole per inquadrare un terzo sistema dei partiti. Io credo che nel Paese i valori siano condivisi, il problema è l’offerta politica che tende a riflettere  slogan semplificatori, favoriti anche dall’inadeguatezza degli strumenti a disposizione e dalle difficoltà del processo di federalizzazione europea.

Volendo fare una previsione, per quanto è possibile, come andrà a finire il referendum? Un plebiscito per Renzi?

Non saprei fare previsioni. Dubito però che l’opinione pubblica, al di là delle appartenenze politiche e culturali, voglia tenersi un sistema che ci potrebbe far ricadere nell’impasse del 2013 per la formazione del Governo e che in assenza di una Camera delle autonomie scarica i conflitti sulla Corte costituzionale. Il Presidente del Consiglio ci ha messo la faccia perché è la riforma che giustifica la prosecuzione della legislatura, ma il quesito è soprattutto su una indifferibile riforma, giusta nel merito che resterà anche dopo Renzi e che in realtà nella sua elaborazione era stata condivisa, sin dai lavori della Commissione di esperti del Governo Letta, anche dall’intero centro-destra. 

 

 

 

“Il Family day non è il modo migliore per mettersi nella stessa lunghezza d’onda di Papa Francesco”. Intervista a Massimo Faggioli

Massimo Faggioli (Foto da  www.ferraraitalia.it)

Massimo Faggioli (Foto da www.ferraraitalia.it)

Domani a Roma, al Circo Massimo, si svolgerà il “Family Day”. Organizzato dal “Forum delle famiglie” per contrastare il ddl Cirinnà sulle unioni civili. “Il ddl va riscritto, perché – secondo loro – non tiene conto dell’elemento più fragile, il bambino”. Ovviamente tutto questo avrà un suo influsso nel dibattito politico che si aprirà la prossima settimana, al Senato, quando si aprirà la discussione per  l’approvazione del ddl. Questo è il secondo “Family Day”, dopo quello del 2007, da allora sono cambiate molte cose. In modo particolare nel mondo cattolico. Ne parliamo, in questa intervista, con lo storico del cristianesimo Massimo Faggioli. Faggioli è Associate Professor della University of St. Thomas (a St Paul nel Minnesota – Usa).

Professor Faggioli, domani il forum delle famiglie organizza il cosiddetto “Family Day” per riaffermare i valori della famiglia tradizionale contro il ddl sulle Unioni Civili. Nel Paese è in corso una discussione con diverse prese di posizione trasversali. Anche la Chiesa cattolica, attraverso i suoi pastori, ha preso una posizione. Vede novità, rispetto al 2007, nelle gerarchie cattoliche e nel laicato cattolico? 

La novità maggiore è che c’è papa Francesco e quindi quella compattezza fittizia sulle parole d’ordine che c’era nel 2007 oggi non esiste più: molti veli sono caduti nella chiesa italiana come in quella globale. I vescovi sono alle prese oggi con una difficile transizione dall’unanimismo del trentennio precedente a una nuova era, quella di Francesco, in cui le questioni di morale sessuale non sono più l’elemento dirimente nel linguaggio del magistero pontificio. Questo provoca delle tensioni interne all’episcopato, che si vedono anche dalle parole caute di Bagnasco circa il “Family Day”, più caute rispetto al 2007. Ma anche tra il laicato cattolico vi sono posizioni molto diverse che sono oggi evidenti: il sostegno da parte dei movimenti cattolici al “Family Day” è minore rispetto al 2007, e a loro volta i movimenti sanno che devono ricostruire il loro rapporto con un papa che è diverso dai due predecessori sulla ecclesiologia. È chiaro che il “Family Day” non è percepito come il modo migliore per mettersi sulla stessa lunghezza d’onda di papa Francesco, che nei discorsi ai movimenti li ha esortati chiaramente a non rinchiudersi in una idea limitata di chiesa e di mondo.

Parliamo di Papa Francesco. Alcuni laici sono rimasti delusi dalle sue affermazioni, fatte durante l’udienza ai giudici della Sacra Rota, sulle unioni diverse dal matrimonio. Per altri come Antonio Socci, critico feroce di Bergoglio, si è trattato quasi di un “miracolo”. Secondo lei queste affermazioni di Papa Francesco devono essere prese come un appoggio alla manifestazione di sabato? Oppure sono parole che sono state strumentalizzate?

Papa Francesco è conscio più di altri del tentativo di manipolare o strumentalizzare le sue parole. Ha parlato di matrimonio con le sfumature giuste, dicendo che gli altri tipi di unioni sono una cosa diversa. Non ha parlato di valori non negoziabili, né della manifestazione di sabato. E se anche avesse parlato del “Family Day”, questo sarebbe stato comunque molto diverso dal fare appello ai parlamentari cattolici a votare secondo le indicazioni del magistero della chiesa – cosa che abbiamo visto nel recente passato in Italia. Francesco non crede nello scontro tra culture. Il problema è che alcuni dirigenti del cattolicesimo italiano (laici e chierici) sembrano credere al ricorso alle piazze e non avere più opzioni alternative allo strumento della piazza – che peraltro non ha servito bene la chiesa nel decennio passato.

Una parola sui cattolici del PD. Vede dei limiti nella loro azione?

La stessa espressione “cattolici del PD” evidenzia che c’è un problema di collocazione politica di una cultura, quella del cattolicesimo politico, che si è impoverita all’interno del PD ma anche nel paese in generale e in tutta Europa – e la crisi del cattolicesimo politico in Europa è parte della crisi dell’Unione Europea. Si tratta di una questione tanto di contenuti (come la questione dei corpi intermedi e della Costituzione) quanto di stile (imbarcare dentro il PD personaggi che non hanno nulla a che fare con le culture che hanno fondato quel partito). Il PD (e il governo) abbondano di cattolici, ma il loro linguaggio, azione, stile, rete di rapporti sociali e culturali è totalmente diverso da quello della generazione precedente – tanto che si fa fatica a vedere delle continuità tra le due generazioni. È un cattolicesimo che pare essere privo di una sua cultura teologica e spirituale, priva di testimoni e di testi di riferimento. Al confronto della nuova generazione giovane di cattolici del PD, un politico cattolico liberal come il vicepresidente americano Joe Biden sembra quasi una specie di De Gasperi.

Siamo in una fase storica del rapporto “Chiesa – politica”, come lei dice, nuova rispetto al 2007. Una fase caratterizzata dalla fine del “ruinismo” e del “prodismo”. Due posizioni che si scontrate in modo duro negli anni passati. Siamo, lei dice, in una fase post-adulta. Può spiegarci meglio? Vuol dire che si aprirà una nuova stagione per il cattolicesimo politico?

Alla fine del ruinismo corrisponde in un certo senso anche la fine del prodismo. Che cosa rimane di quel cattolicesimo politicamente adulto? La nuova generazione del cattolicesimo italiano si è emancipata dai vescovi, ma anche da coloro che si erano emancipati dai vescovi. La nuova generazione da una parte non si fa problema a disobbedire ai vescovi, ma dall’altra parte sembra obbedire allo “spirito del tempo” in modo acritico. Non è chiaro quale sarà la prossima fase del cattolicesimo politico – né se ci sarà un futuro per il cattolicesimo politico. Questa questione va inquadrata da una parte nella crisi del paradigma occidentale del cattolicesimo, che ora è sempre più globale, e dall’altra nella crisi epocale di fede nella politica.

Ultima domanda: sullo sfondo dei diritti civili c’è il grande confronto scontro, come lo definiva lo storico francese Emilé Poulat, chiesa-modernità. Il Concilio Vaticano II ha detto parole definitive, ovvero la scelta del dialogo. Qual è lo sforzo innovatore di Papa Francesco su questa frontiera?

Il Vaticano II ha solo iniziato un discorso che 50 anni fa è ancora aperto, anche perché Francesco lo ha riaperto. Bergoglio ha una visione complessa della modernità coi suoi aspetti negativi, come si vede nell’enciclica Laudato si’. La cosa importante di Francesco è che non guarda mai indietro con nostalgia, ma è sempre proiettato nel futuro. Questo atteggiamento è di per sé moderno.

Una certa idea di Roma. Un testo di Raffaele Morese

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Raffaele Morese (Ansa)

Domani mattina a Roma, presso l’Auditorium Antonianum , in via Manzoni 1, si svolgerà un forum, organizzato dall’associazione Koiné, su : “la primavera di Roma”. Sono previsti, tra gli altri, gli interventi di : Raffaele Morese, Fabrizio Barca, Pierre Carniti, Giorgio Benveuto, Innocenzo Cipolletta,  Pietro Barrera, Andrea Riccardi, Giuseppe Roma, Andrea Romano e tanti altri (vedi www. e-koine.com programma e documento di base).

Di seguito pubblichiamo, per gentile concessione, il testo della relazione introduttiva di Raffaele Morese, Presidente di Koiné.

 

UNA CERTA IDEA DI ROMA

Le città non sono cose nostre di cui si possa disporre a piacimento: sono cose altrui, delle generazioni venture, delle quali nessuno può violare il diritto e l’attesa… Sono la casa comune che va usata e migliorata; che non va distrutta mai!…Per questo occorre riscoprire il valore e il destino delle città ed affermare il diritto inalienabile che hanno sopra di esse le generazioni venture: nell’affermare, perciò, che le generazioni presenti non hanno il diritto di dilapidarle o di distruggerle”

Così si espresse uno dei più famosi sindaci d’Italia, Giorgio La Pira il 2 ottobre 1955 nel salone dei Cinquecento, davanti ai sindaci di tutto il mondo. Così mi sento di condividerle e ripeterle. Abbiamo presente, infatti, il pericolo che corre Roma, sottoposta da anni ad un disordine organizzato, spesso a fini ignobilmente privati ed ora esposta ad un preoccupante logorio.

Ma non possiamo lasciare che il rumore assordante della deriva prosegua senza una reazione di quanti ritengono che le generazioni future non meritano questo lascito. Ci saranno le elezioni per il nuovo sindaco e il nuovo consiglio comunale. Evento che, ci auguriamo, rappresenti un’occasione per tutti di un’inversione di tendenza, di una presa di coscienza salda della necessità di affrontare le tante questioni irrisolte di questa città. Non solo chi l’abiterà in futuro, ma anche il contemporaneo ha diritto di vivere bene la città. Si tratta di un’impresa senza precedenti, ma neanche impossibile, specie se si realizzano alcune condizioni basilari.

La prima condizione. Un esplicito, ampio, costruttivo dibattito sulla Roma di domani. Le emergenze sono numerose, quasi tutte incancrenitesi nel corso degli anni. Esse sono state aggravate dal prevalere della logica della toppa e per di più, esasperate dalle insoddisfazioni popolari o dalle resistenze corporative o per la crescita della marginalità sociale. Roma deve ritrovare la sua anima di grande capitale europea, ospitale, solidale, creativa, aperta alle innovazioni, attrattiva di investimenti e intelligenze. Senza questo sforzo, le emergenze la travolgeranno. Ma non illudiamoci. Il miracolismo non è la ricetta giusta. Le questioni sono complesse e non ci sono soluzioni facili. La semplificazione non si addice all’agenda del risanamento morale, economico e civico della città.

Infatti, sarà necessario un duro e paziente lavoro di impostazione programmatica: dalle attività produttive agricole, industriali e turistiche, ai servizi pubblici e privati rivolti alle persone e alle imprese; dall’assetto urbano a partire dalle periferie, alla rigenerazione e riuso in chiave ambientalista del patrimonio immobiliare esistente; dalla valorizzazione dell’immenso giacimento culturale per il quale non basta né la pura conservazione, né il pur necessario supporto di tecnologie, alla ridefinizione di un welfare locale – integrato tra pubblico e privato – attento soprattutto agli anziani, alle donne, alle persone disabili, ed ai bambini. E’ un elenco denso, ma che in controluce fa vedere che c’è tanto lavoro da riqualificare e tanto lavoro da creare.

Soltanto un coinvolgente confronto tra tutti i protagonisti della vita concreta della città potrà favorire una qualità rassicurante alle priorità per le quali vale la pena spendere le molte o poche risorse umane e materiali disponibili. Soltanto in questo modo, i tanti interessi precostituiti, che hanno molte responsabilità per l’andazzo attuale, potranno essere ridimensionati e sopravanzati dal prevalere del bene comune.

Noi, oggi, avviamo un lavoro non facile di partecipazione al ridisegno del futuro della città. Come sollecita Renzo Piano, anche per Roma, c’è bisogno di un laborioso rammendo nelle relazioni umane e nella qualità della vita urbana, come antidoto al degrado, come vaccino per non passare dall’illusione alla delusione.

La seconda condizione. Far funzionare la catena di comando istituzionale. La compromissione e la confusione dei ruoli hanno sostituito, passo dopo passo, l’efficacia dell’impianto decisionale proprio di questo grande comune che non ha paragoni, per vastità, in Italia. Né la dimensione metropolitana è stata fatta propria dal sistema politico, al punto di andare con convinzione oltre il Campidoglio e dare corpo ad un inedito centro propulsore di una organizzazione più razionale della comunità.

La compromissione ha giocato un brutto scherzo alla politica. I cittadini se ne sono accorti e si sono allontanati progressivamente da essa o si sono rivolti ad offerte politiche improvvisate e inadeguate. La stessa istituzione comunale ha perso prestigio. Ad essa si è sommata una confusione chiassosa nel government. Specie nell’ambito delle aziende di servizio pubblico locale, si sono accumulati debiti, inefficienze e insoddisfazioni. La lista è lunga, ma per fare soltanto un esempio, nel sistema del trasporto pubblico, la sovrapposizione di centri decisionali, la provvisorietà delle soluzioni, la girandola dei cambiamenti manageriali (7 amministratori delegati negli ultimi 7 anni) hanno lasciato sgomenti e stremati sia chi vi lavora, sia chi lo utilizza.

Un nuovo ordinamento è inevitabile. Superare la dimensione comunale per quella metropolitana, privilegiare la struttura municipale, ripristinare la gerarchia, ciascuno nella propria autonomia, tra chi prende le decisioni strategiche, chi deve guidare la macchina gestionale dei servizi e dell’amministrazione e chi deve esercitare il controllo sui risultati, rendere equo ed efficiente il sistema fiscale e tariffario locale, abbattere sprechi e superfluo a vantaggio dei bisogni dei più deboli rappresentano le ragioni minimali per il buon governo dell’istituzione pubblica.

Soltanto in questo modo, anche l’apparato amministrativo può essere modellato a dimensione delle esigenze della cittadinanza. Non è vero che è tutto marcio; è vero che devono essere ripristinate le condizioni perché ciò che è sano emerga con dignità. Ma anche in questo caso, va detto con franchezza che le responsabilità apicali devono essere le prime ad essere sottoposte a revisioni profonde circa i meriti e i comportamenti. Il bandolo della matassa è da prendere da lì, con tenacia e lungimiranza. Soltanto così si può arrivare alla definizione di un vero e proprio patto tra chi vive nell’amministrazione e cittadini, i primi per assicurare efficienza ed efficacia; i secondi per saper coniugare, in una logica evolutiva di cittadinanza, i bisogni individuali con l’interesse collettivo.

La terza condizione. Far crescere coesione sociale e partecipazione dei cittadini. La società, come dice Zygmunt Bauman, è tendenzialmente liquida. Ma non può essere così scomposta da risultare dispersa. Anzi, occorre operare per non rendere irreversibili le solitudini, per far dialogare le culture diverse e trasformarle in ricchezza esistenziale, per responsabilizzare le persone nella gestione dei beni comuni a partire da quelli più a portata di mano, per avere quartieri a misura dei vecchi e dei bambini, per dare ai giovani occasioni di socialità e di comunicazione.

Per riannodare i fili della coesistenza tollerante, c’è lavoro per tutti. Il dialogo interreligioso e quello interculturale, sarà tanto più fecondo quanto più solleciterà alla convivenza pacifica, alla reciproca comprensione, all’integrazione nel tessuto cittadino. “La fede non genera odio, la fede non sparge sangue, la fede richiama al dialogo”, così si è espressa efficacemente Ruth Dureghello (presidente della comunità ebraica di Roma), salutando alcuni giorni fa, Papa Francesco in visita alla Sinagoga e rivolgendosi a tutte le comunità religiose. La multi etnicità, come condizione normale della vita di una comunità come quella romana, si gioverà grandemente dell’impegno al confronto e all’ascolto che le comunità religiose ed in genere le comunità di ogni cultura sapranno continuare ad alimentare e sviluppare.

L’impegno dei cittadini a farsi carico della buona gestione della città è un altro spaccato della partecipazione. Non basta votare (e sarà fatica questa volta convincere la gente ad andarci), non basta dare una delega. Occorre sentirsi coinvolti nelle grandi scelte della città (la candidatura di Roma alle olimpiadi del 2024 avrebbe meritato un coinvolgimento ben più ampio di un voto consiliare), ma anche nelle piccole, come tener pulito il marciapiede davanti al proprio negozio e non trattarlo da pattumiera che raccoglie la polvere accumulata all’interno. La responsabilità dei cittadini verso la cosa pubblica deve diventare un’eccellenza.

Milano ha dato recentemente un fenomenale segno di civismo. Centinaia di cittadini sono accorsi a ripulire le mura imbrattate dai Black Blocks nel giorno dell’inaugurazione dell’Expo. Ma non è solo merito dei singoli. Ci vuole spontaneismo, ma non è sufficiente. Senza lo “spintaneismo” dell’amministrazione milanese non ci sarebbe stata quell’organizzazione e quell’intensità di impegno a cui abbiamo assistito.

Con l’utilizzo di vecchi e nuovi strumenti di partecipazione, supportati anche dalle nuove tecnologie e dai nuovi mezzi di comunicazione, l’amministrazione della città deve dialogare con i suoi cittadini. In altre parole, la partecipazione va sollecitata, motivata, organizzata, fiancheggiata supportando l’estensione delle pratiche – spesso volontaristiche – già in atto e che rischiano di essere relegate a marginalità. E quindi, anche a Roma deve diventare un’abitudine, una normalità chiedere ai cittadini pareri, indicazioni, impegni.

Queste tre condizioni possono avere una ragionevole fattibilità se saranno accompagnate da due convincimenti. Il primo è che va archiviata l’idea, che ha avuto una discreta cittadinanza, per cui Roma può essere affidata soltanto a chi è estraneo alla politica e ha in spregio i partiti. Per quanto l’una e gli altri non volino abbastanza alto per essere guardati con ammirazione, una collettività non si governa sensatamente senza stabili organizzazioni di idee e uomini che si contendono la leadership. Queste organizzazioni e questa contesa vanno costruite attorno a una visione del futuro, non per l’accaparramento di posti. Il problema semmai è quello di alimentare tali organizzazioni perché le idee e soprattutto gli uomini siano meritevoli di essere votati, non solo perché sono onesti (ci mancherebbe!) ma perché hanno le capacità per ascoltare e per trasformare le visioni in fatti.

E questo si sposa con un altro convincimento. Che dalla società vi sia una continua sollecitazione verso la politica e i partiti. L’esercizio di questa pressione è tanto più efficace quanto più avviene con costanza, non in ordine sparso, con motivazioni molto forti. C’è stata una solitudine della politica negli ultimi anni, iniziata ben prima dell’ultima consiliatura, che ha avuto come interfaccia il mutismo civico che, benché incolpevole, ha subito passivamente devianze, inimmaginabili fino a qualche anno fa, nella gestione della Roma pubblica.

Sarebbe bene che, proprio dal basso – specie da parte di quelli che hanno da dire qualcosa perché fanno belle esperienze – emergesse un bisogno di protagonismo propositivo. “La politica sarà salvata soltanto dalla partecipazione dei cittadini” (Roberto Saviano, Il boss mascherato, Repubblica, 16/01/2016). Infatti, anche il migliore e più attrezzato personale politico non può gestire una realtà complessa soltanto in maniera illuministica. Il legame con l’opinione dei cittadini rappresenta la chiave per procedere con margini di sicurezza e di consenso.

C’è dunque bisogno che si attivino delle vedette, che si alimentino sensori, si formino antidoti per prevenire errori e per sostenere scelte avvedute. E’ un compito che vale per ciascuno di noi, ma che acquista valenza politica se è espressione di un atteggiamento collettivo. Di una comunità che si fa rete. Non ci si può limitare a denunciare o impedire illegalità, scorrettezze, imbrogli. Si devono indicare e sostenere percorsi virtuosi e scelte volte all’interesse generale.

I lavori di questa giornata vaglieranno la portata ideale e concreta di questa sollecitazione. La narrazione che raccoglieremo non dovrà essere ascritta all’antipolitica, bensì alla volontà di dare un senso robusto all’agire politico. E se lo faremo in modo cooperativo, senza burocratismi e con tanta passione, potremo dire di non aver perso tempo prezioso, ma di aver dato ragione a don Tonino Bello che amava dire che “ siamo angeli con un’ala sola e possiamo volare soltanto se restiamo abbracciati”.

Il nuovo “corso” del servizio civile. Intervista al sottosegretario al Welfare Luigi Bobba

Luigi Bobba (Ansa)

Luigi Bobba (Ansa)

Molte novità, con la riforma del terzo settore, sono previste nell’ambito del “servizio civile”. Ne parliamo in questa intervista con l’onorevole Luigi Bobba (PD) Sottosegretario al Welfare con delega specifica per il “Terzo Settore”.

Onorevole Bobba, partiamo dalla Riforma del Terzo Settore. La legge delega è uscita dal Consiglio dei Ministri nel Luglio 2014, è da più di un anno in discussione in Parlamento. I 5 milioni di volontari stanno aspettando delle risposte chiare a riguardo. A che punto siamo? Quando pensa che potrà arrivare in porto?

La legge delega di “Riforma del terzo settore, della disciplina del servizio civile e dell’impresa sociale” è stata approvata in prima lettura il 9 Aprile 2015 dalla Camera. E’ poi passata al Senato dove ha subito un rallentamento. Ma ora siamo pronti a riprendere il cammino in Commissione Affari Istituzionali dove, presumibilmente nella prossima settimana, si incominceranno a votare gli emendamenti. L’approvazione definitiva della legge – come ha detto di recente il Ministro Maria Elena Boschi –  è prevista per la primavera di quest’anno.

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