Il fenomeno della“scomparsa della borghesia, si è accentuato fino a diventare il nervo scoperto di un paese in affanno, sostanzialmente fermo, barricato a difesa del proprio alto livello di benessere e incapace di proiettarsi verso il futuro. L’eclissi della borghesia è il comune denominatore che ha investito, con eguale intensità, la politica, l’economia e la società. Un virus che ha contagiato tutto e tutti, non risparmiando nessuno dei punti nevralgici del sistema”. Continua a leggere
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Il Pd e la questione morale. Intervista a Pippo Civati
In questi ultimi giorni si sta parlando, nell’opinione pubblica, di questione morale. E’ un fatto trasversale. Sul Partito Democratico si sta concentrando l’attenzione su alcune vicende che riguarderebbero Filippo Penati, ex-Presidente della Provincia di Milano ed ex capo della Segreteria Politica di Pierluigi Bersani. Bersani in questi giorni ha risposto con due lettere, ieri al Corriere e oggi al Fatto quotidiano a Marco Travaglio. Sullo sfondo c’è il disagio della base del PD. Di tutto questo parliamo con Pippo Civati, consigliere regionale della Lombardia esponente di spicco del PD nazionale. Continua a leggere
L’Italia sul filo del rasoio. Intervista a Marc Lazar
La politica italiana vive ormai da mesi sulla frontiera di una conflittualità permanente. Tutto è centrato sui problemi giudiziari di Silvio Berlusconi. Come è dimostrato dall’approvazione della “legge sul processo breve” e le occasioni di conflitto continueranno ancora nei prossimi mesi. Così assistiamo ad un esodo della politica dai problemi dell’Italia. Come ci guardano all’estero? Come è giudicata la politica italiana in Europa? Ne abbiamo parlato con il professor Marc Lazar, docente di Storia nella prestigiosa facoltà di SciencesPo. (Scienze Politiche) a Parigi e ”visiting professor” alla Luiss di Roma. Continua a leggere
L’Italia è un paese per giovani?
“(…) Questo Paese, il tuo Paese, non è più un posto in cui sia possibile stare con orgoglio. (…) Quello che puoi vedere è che tutto ha sempre meno valore in una società divisa, rissosa, fortemente individualista, pronta a svendere i minimi valori di solidarietà e di onestà in cambio di un riconoscimento degli interessi personali, di prebende discutibili, di carriere feroci fatte su meriti inesistenti. (…) Scegli di andare dove ha ancora un valore la lealtà, il rispetto, del merito e dei risultati (…) Dammi retta questo è un Paese che non ti merita”.
Ecco questi sono alcuni passaggi della “lettera aperta” al figlio scritta da Pier Luigi Celli, top manager di lungo corso (già direttore generale della Rai), apparsa su “Repubblica” l’anno scorso, proprio di questi tempi, che ha scatenato poi una vera e propria bufera sui media. Certo quelle parole di Celli sono dure e fanno male, non lasciano scampo agli illusionisti di ogni sorta. Ed a ben guardare anche gli avvenimenti recenti forse, in un certo modo, ne sono la conferma (in primis la fuga dei cervelli, un fenomeno triste per il nostro paese).
Ora, dopo un anno, Celli torna sull’argomento con questo libro, La generazione tradita (pagg. 144), uscito per i tipi della Mondadori. Un libro schietto, come è l’autore, dove non si risparmiamo critiche, ed autocritiche, alla classe dirigente italiana per non essere stata all’altezza delle sfide storiche a cui doveva rispondere. Una “classe” incapace di costruire futuro per esempio ad una domanda di una giovane laureata che cosa dovesse fare per uscire da un futuro di precarietà, L’illusionista per antonomasia (lasciamo indovinare chi è) gli risponde che deve sposare un ricco. Una risposta cinica, crudele, da irresponsabile).
Il libro denuncia, senza mezzi termini, una struttura sociale, quella della società italiana, in cui gli “adulti sono contro i giovani”. I termini della questione sono noti. Non passa anno che gli indicatori economici e sociali non fanno che confermare questo. Ecco alcuni dati: oggi, in Italia, un terzo della popolazione giovanile è senza lavoro, con un aumento del 4,9%. Le assunzioni a tempo indeterminato, in questo periodo, sono calate del 30%, e le assunzioni sono quasi tutte fatte con contratti temporanei: contratti a progetto, finte partite Iva, ecc. E’ la precarietà, scambiata per flessibilità, un lavoro sottopagato e senza garanzie. Con il risultato che il 90% dei posti di lavoro cancellati dalla crisi è lavoro a tempo determinato. Così il 60 % dei disoccupati in Italia ha oggi meno di 34 anni. Peggio. di così…
Questa è la “generazione tradita” cui questo Paese continua a negare un futuro. Ed è quella senza rappresentanza (dai partiti al sindacato passando per le imprese). L’analisi di Celli apre uno squarcio su questa amarissima realtà. All’autore non fa difetto la passione civile, ed anzi con il suo lavoro, è Direttore generale della Luiss, è a stretto contatto quotidiano con il mondo giovanile.
E dei giovani troppo spesso si parla a sproposito, con grande banalità. E il tanto sbandierato merito è diventato una ideologia stucchevole. “La logica del merito – scrive Celli – gode di un consenso persino imbarazzante, talmente generalizzato da divenire una sorta di giaculatoria stucchevole. Ne parlano i politici, che si guardano bene dall’applicarlo nella scelta di collaboratori e di futuri colleghi. Ne fa uso abbondante la logica parlata della pratica manageriale, salvo poi convenire che è forse più utile sulla base delle fedeltà esibite di quanto non serva puntare su competenza e affidabilità”.
Certo queste pagine sono amare. Lasciano un poco di sfiducia. Ma forse una delle vie da percorrere è certamente quella della ripresa del dialogo tra le generazioni.
Il compito per una società davvero “aperta” è quello di riannodare i fili del rapporto tra le generazioni. In particolare questo è il compito principale per gli adulti. “Tornare a parlare avendo ripreso l’abitudine ad ascoltare; fermarsi, guardare con occhi finalmente caldi e complici . Rianimare uno ‘spirito di simpatia, di finezza, di discernimento’ che rimetta in circolo una sensibilità generosa. Forse è questo l’unico modo per riconciliarsi con quanti non capiamo e non ci capiscono più”.
Ragionando sul PD. Intervista al senatore Giorgio Tonini
Giorgio Tonini è nato a Roma nel 1959. E’ giornalista professionista. E’ stato, negli anni dell’Università, Presidente Nazionale della Fuci (la Federazione universitaria cattolica italiana). Nella Cisl è stato stretto collaboratore di Pierre Carniti e Mario Colombo. E’ Senatore dal 2001. Nel Pd, durante la segreteria di Walter Veltroni, è stato responsabile dell’Ufficio Economico. Attualmente è uno dei leader dell’area veltroniana. Come si vede è un protagonista del cattolicesimo democratico italiano.
Al di là della contingenza politica siamo davvero alla fine del berlusconismo? Non le pare che la predicazione berlusconiana, unita a quella leghista, sia entrata in profondità, grazie alla potenza mediatica, nella società italiana?
Non c’è dubbio, anche avvalendosi della potenza mediatica di cui dispone, il berlusconismo è stato ed è tuttora una narrazione nella quale si riconosce una larga parte della società italiana. In un certo senso, è anch’esso un’autobiografia della nazione. La novità di questi mesi è che il berlusconismo, proprio per la sua natura populistica, si sta dimostrando incapace di realizzare quelle riforme che sono di vitale importanza per il paese. Se ne stanno rendendo conto strati crescenti non solo della classe dirigente, ma della società italiana nel suo insieme. La stessa rottura con Fini nasce da lì.
Senatore Tonini, il Partito Democratico, ormai, ha più di due anni di vita. E’ un partito “giovane”, però figlio di antiche tradizioni politiche italiane, eppure sfugge ancora la sua identità. Insomma qual’ è la “grande narrazione” che propone il PD?
Il PD ha davanti a sé la stessa sfida con la quale devono confrontarsi tulle le forze politiche democratiche, riformiste, progressiste dell’Occidente: dopo trent’anni di egemonia del pensiero neo-conservatore, che ha teorizzato che solo la disuguaglianza è dinamica, è fattore di sviluppo e di progresso, dobbiamo riuscire a dimostrare che è vero esattamente il contrario, che solo politiche di inclusione e di coesione, solo riforme finalizzate alla riduzione della disuguaglianza, possono rimettere in moto la crescita, far uscire le economie occidentali dalla crisi. Ciò sarà possibile se sapremo liberarci dalla sindrome dell’assedio, per la quale compito della sinistra è difendere dalla destra le conquiste degli anni Sessanta e Settanta, e sapremo riconquistare alle nostre ragioni, ai nostri principi e valori, la parola cambiamento. Come recitava uno slogan cislino di trent’anni fa, anche oggi si tratta di “capire il nuovo per guidare il cambiamento”. C’è poco da difendere nell’Italia di oggi, c’è tanto da cambiare.
Nel documento dei 75 (quello della minoranza veltroniana doc) c’è un passaggio interessante riguardo una possibile strategia riformista: “l’alleanza da promuovere è tra chi ha bisogno del cambiamento, ma da solo non può realizzarlo (…) e chi vuole il cambiamento, perché sa progettarlo, ha interesse a promuoverlo, ha le relazioni necessarie per realizzarlo, ha la forza necessaria per piegare le tante resistenze corporative che vi si oppongono”. Mi sembra questo uno snodo fondamentale, oserei dire una delle ragioni d’essere del PD. In concreto come realizzare questo?
Con politiche economiche e sociali che rovescino l’attuale sistema degli incentivi, che premia la rendita di posizione e quindi fotografa le disuguaglianze, con un sistema nuovo che premi il talento, l’impegno, i risultati, in modo da favorire equità e mobilità sociale. Questo rovesciamento va applicato innanzi tutto al sistema pubblico, che oggi gestisce più della metà del prodotto nazionale, ma con risultati assai deludenti sia intermini di efficienza e produttività, sia in termini di riduzione delle disuguaglianze. L’Italia ha bisogno che quella metà della sua ricchezza diventi un volano e non un freno allo sviluppo e, come avviene in tutti i paesi europei tranne il nostro, un fattore di superamento degli ostacoli economici e sociali alla piena cittadinanza, di cui parla l’articolo 3 della Costituzione.
Cercando di scavare in profondità: la politica del Novecento aveva le sue parole chiave (Democrazia, classe, libertà, ecc.) e le forze politiche cercavano di declinare, a loro modo, queste parole. Quali dovrebbero essere, secondo il PD, le nuove parole chiave?
Democrazia e libertà sono parole eterne, come uguaglianza e fraternità. Queste stelle fisse si devono esprimere oggi in politiche di innovazione: dobbiamo sostenere, premiare, incentivare l’innovazione. Resteremo competitivi, non diventeremo una colonia delle potenze emergenti, solo se sapremo innovare: le nostre conoscenze, le nostre produzioni, l’organizzazione stessa della nostra convivenza civile. E’ una sfida drammatica, una sfida per la sopravvivenza e per la libertà, tanto più impervia se si tiene conto che stiamo rapidamente diventando una società vecchia.
Non le sembra grave la divisione nel movimento sindacale italiano? Non sarebbe ora, pur rispettando l’autonomia del sindacato, di lavorare per l’unità sindacale?
Ogni volta che il sindacato si divide, il PD soffre, entra in fibrillazione. Perché le diverse storie e culture sindacali ci attraversano, il pluralismo sindacale si specchia nel nostro pluralismo, culturale e sociale. Ma anche e soprattutto perché le divisioni sindacali rendono più difficile il cambiamento sociale. C’è quindi un grande bisogno di una nuova stagione di unità sindacale e il PD deve impegnarsi a fondo per favorirla e promuoverla. Naturalmente, non si tratta di dar vita ad una unità qualunque. L’unità possibile e necessaria, a mio modo di vedere, è quella che si realizza sulla base di tre principi fermi: l’autonomia dalla politica di schieramento, di governo come di opposizione; il riformismo, ovvero la cultura del cambiamento e dell’innovazione, contro il massimalismo conservatore; la partecipazione dei lavoratori alle scelte del sindacato e del sindacato nell’impresa.
Un argomento polemico, che spesso si sente ripetere, è quello del disagio dei cattolici dentro il suo partito. E’ reale questo?
Di solito se ne parla a sproposito, come di un rischio di scissione. In realtà, il pericolo che più corre il PD è quello dello scisma sommerso e silenzioso di una parte importante dell’elettorato, quella decisiva per vincere, la parte che non potrebbe riconoscersi in un PD che si rassegnasse a diventare l’ennesima metamorfosi della storia della sinistra tradizionale: mi riferisco agli elettori delle regioni diverse da quelle che un tempo si definivano “rosse”, ai ceti produttivi, ai giovani e certo anche ai cattolici. Un PD che rinunciasse a rendersi abitabile e attraente per queste fasce di frontiera dell’elettorato non solo non sarebbe più il PD, ma regalerebbe al berlusconismo in crisi un immeritato supplemento di sopravvivenza.