Siamo al finale del “Caimano”? Intervista ad Enrico Letta

politica italiana vive momenti di altissima tensione. Facciamo il “punto” della situazione con Enrico Letta, Vice segretario nazionale del PD.

Onorevole Letta, stiamo assistendo ad uno scontro istituzionale senza precedenti. Per molti osservatori siamo al finale del film “Il Caimano” di Nanni Moretti. È così?

R. Quando vidi il film pensai che fosse esagerato. Mi scuso con Moretti, perché la realtà supera la fantasia. Continua a leggere

Intervista a Valerio Onida

Valerio Onida è stato eletto giudice costituzionale dal parlamento italiano il 24 gennaio 1996. È eletto presidente il 22 settembre 2004. Cessa dalla carica di presidente della Corte costituzionale il 30 gennaio 2005. E’ docente di giustizia costituzionale presso l’Università degli Studi di Milano e presidente emerito della Corte costituzionale. Attualmente è candidato Sindaco alle Primarie per il Centrosinistra a Milano. Suoi ambiti di ricerca sono, ovviamente, il Diritto Costituzionale e il Diritto Amministrativo. Così mentre ci avviamo, purtroppo con confusione, a celebrare il 150° anniversario dell’Unità d’Italia è bene riflettere sul più prezioso del nostro patrimonio comune: la Carta Costituzionale del 1948.

Professor Onida, la nostra Carta Costituzionale ha più di 60 anni. Sessantadue anni, indubbiamente, portati bene. Eppure fa tristezza constatare la discrepanza tra le macerie della politica attuale e la lungimiranza del testo costituzionale. Giuseppe Dossetti diceva della Costituzione che “essa porta l’impronta di uno spirito universale e in certo modo transtemporale” Quali sono, oggi, i “punti fermi” della nostra cultura costituzionale?

Le Costituzioni non invecchiano, perché esprimono principi e valori tendenzialmente permanenti della comunità. Per questo è esatto quanto diceva Dossetti circa lo “spirito universale e in certo modo transtemporale” di cui la nostra Costituzione reca l’impronta. Eguaglianza degli esseri umani, diritti inviolabili e doveri inderogabili della persona, compiti attivi di giustizia affidati ai poteri pubblici, divisione ed equilibrio dei poteri, garanzie di rispetto della Costituzione e delle leggi, apertura ad un ordine internazionale che limiti le sovranità nazionali per assicurare “la pace e la giustizia fra le Nazioni”, sono i punti fermi della nostra cultura costituzionale.

Nel dibattito sulla riforma costituzionale, di frequente, si dice: “La prima parte è intangibile. La seconda parte si può modernizzare”. Le chiedo, alla luce della storia contemporanea, non vede una necessità di arricchire la prima parte della Carta del 1948 con i nuovi diritti?

Prima parte della Costiuzione, sui diritti e doveri dei cittadini, e seconda parte, sull’ordinamento della Repubblica, non possono essere  separate. Si tengono l’una con l’altra. Così, per esempio, le garanzie di effettività dei diritti e di rispetto della legalità costituzionale stanno nella seconda parte, ma sono essenziali perché la prima parte non si riduca ad un semplice manifesto politico, come talvolta accadeva con le Costituzioni dell’Ottocento. I cosiddetti “nuovi diritti” non  sono per lo più che lo sviluppo di principi già insiti nei diritti civili, politici e sociali affermati nelle Costituzioni del secondo dopoguerra. Per esempio i diritti legati all’uso dei nuovi mezzi di comunicazione non sono che l’evoluzione, alla luce del progresso tecnologico, dei principi in tema di libera espressione, di pluralismo democratico, di ruolo dei mezzi di comunicazione, propri del costituzionalismo; il diritto alla riservatezza o privacy non è che lo sviluppo dei principi costituzionali sui diritti della persona, sulla dignità dell’uomo e sulla trasparenza dei pubblici poteri fondati sul consenso dei governati. Per lo più non c’è bisogno di nuove norme costituzionali: bastano le leggi e l’evoluzione di una giurisprudenza sempre più espressione di indirizzi comuni che si affermano al di là degli stessi confini nazionali.

Viviamo in un mondo globalizzato, Tutto è interdipendente. Si può parlare, oggi di internazionalizzazione del diritto costituzionale? Quali sono le basi di questo sviluppo?

Il diritto costituzionale nasce con una ispirazione universalistica, fondandosi su “verità di per sé evidenti” (come scrivevano i costituenti americani del Settecento) che riguardano l’intera umanità e non solo questo o quel popolo. E’ vero che per decenni il costituzionalismo si è sviluppato in contesti nazionali, mentre il diritto internazionale restava ancorato alla logica delle potenze, delle alleanze e della guerra. Ma a partire dalla seconda guerra mondiale, con la fondazione dell’ONU, l’approvazione della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo (cui hanno fatto seguito le grandi convenzioni internazionali sui diritti umani), la fine dell’era del colonialismo, l’umanità ha preso consapevolezza del fatto che nessuna pace e nessuna giusta convivenza anche internazionale è possibile senza che i diritti umani fondamentali siano affermati e rispettati “ovunque nel mondo”. La realtà fattuale è spesso ancora lontana, ma la strada è tracciata e dobbiamo percorrerla con determinazione.

Qual è la visione della laicità nella nostra Costituzione?

Laicità vuol dire prima di tutto distinzione dell’ordine delle istituzioni civili (lo Stato) da quello delle confessioni religiose (che sono libera e pluralistica espressione organizzata della società). In Occidente la consapevolezza di questa distinzione e della sua necessità è maturata da tempo. Oggi, di fronte a ideologie, a espressioni culturali e  a prassi che sembrano negare il significato profondo di questa distinzione, sembra quasi che la nostra cultura arretri anch’essa e torni a dimenticarsene. La Costituzione sta lì a ricordarci che questo è un principio irrinunciabile, “supremo”, come ha affermato la Corte costituzionale.

Tornando al nostro Paese, si parla spesso, non senza ragione, di rischi profondi per il nostro patrimonio costituzionale. Quali sono, secondo Lei, principalmente questi rischi?

I rischi per il nostro patrimonio costituzionale stanno soprattutto  nell’affievolirsi nella società, specie dopo la fine delle ideologie tradizionali e delle loro traduzioni politiche, della coscienza diffusa circa il valore fondante dei principi del costituzionalismo come “anima” e cemento del nostro stare insieme, nella comunità locale, in quella nazionale, in quelle sovranazionali e in definitiva nella famiglia umana di cui tutti siamo parte e siamo responsabili.

Per come si è sviluppata  la storia civile italiana (ovvero  allo scarso senso della nazione) come vede il federalismo?

Il federalismo nella storia del costituzionalismo è soprattutto una formula di assetto dei poteri che mette insieme diverse comunità minori intorno ad una più ampia e dunque ad una impresa comune: tende perciò ad unire e non a dividere. Da noi la giovane storia nazionale ha a lungo ostacolato un riconoscimento pieno del valore delle autonomie territoriali. Oggi la Costituzione le riconosce e le promuove, e si tratta di adeguare ad esse l’ordinamento legislativo e amministrativo e il sistema fiscale e finanziario. Se dunque federalismo significa questo, dobbiamo  lavorare per realizzarlo e rafforzarlo, responsabilizzando le autonomie territoriali al di là di ogni resistenza paternalistica e di ogni forma di parassitismo. Se invece federalismo significasse spinta alla chiusura egoistica delle comunità locali (“teniamoci i nostri soldi”) rispetto alle esigenze dell’interesse generale e della solidarietà nella Repubblica “una e indivisibile”, allora sarebbe una tendenza negativa, da combattere. Ma è la prima l’interpretazione giusta del sistema costituzionale riformato nel 2001.

Ragionando sul PD. Intervista al senatore Giorgio Tonini

 

Giorgio Tonini è nato a Roma nel 1959. E’ giornalista professionista. E’ stato, negli anni dell’Università, Presidente Nazionale della Fuci (la Federazione universitaria cattolica italiana). Nella Cisl è stato stretto collaboratore di Pierre Carniti e Mario Colombo. E’ Senatore dal 2001. Nel Pd, durante la segreteria di Walter Veltroni, è stato responsabile dell’Ufficio Economico. Attualmente è uno dei leader dell’area veltroniana.  Come si vede è un protagonista del cattolicesimo democratico italiano.

 

 

 

Al di là della contingenza politica siamo davvero alla fine del berlusconismo? Non le pare che la predicazione berlusconiana, unita a quella leghista, sia entrata in profondità, grazie alla potenza mediatica, nella società italiana?
Non c’è dubbio, anche avvalendosi della potenza mediatica di cui dispone, il berlusconismo è stato ed è tuttora una narrazione nella quale si riconosce una larga parte della società italiana. In un certo senso, è anch’esso un’autobiografia della nazione. La novità di questi mesi è che il berlusconismo, proprio per la sua natura populistica, si sta dimostrando incapace di realizzare quelle riforme che sono di vitale importanza per il paese. Se ne stanno rendendo conto strati crescenti non solo della classe dirigente, ma della società italiana nel suo insieme. La stessa rottura con Fini nasce da lì.
Senatore Tonini, il Partito Democratico, ormai, ha più di  due anni di vita. E’ un partito “giovane”, però figlio di antiche tradizioni politiche italiane, eppure sfugge ancora la sua identità. Insomma qual’ è la “grande narrazione”  che propone il PD?
Il PD ha davanti a sé la stessa sfida con la quale devono confrontarsi tulle le forze politiche democratiche, riformiste, progressiste dell’Occidente: dopo trent’anni di egemonia del pensiero neo-conservatore, che ha teorizzato che solo la disuguaglianza è dinamica, è fattore di sviluppo e di progresso, dobbiamo riuscire a dimostrare che è vero esattamente il contrario, che solo politiche di inclusione e di coesione, solo riforme finalizzate alla riduzione della disuguaglianza, possono rimettere in moto la crescita, far uscire le economie occidentali dalla crisi. Ciò sarà possibile se sapremo liberarci dalla sindrome dell’assedio, per la quale compito della sinistra è difendere dalla destra le conquiste degli anni Sessanta e Settanta, e sapremo riconquistare alle nostre ragioni, ai nostri principi e valori, la parola cambiamento. Come recitava uno slogan cislino di trent’anni fa, anche oggi si tratta di “capire il nuovo per guidare il cambiamento”. C’è poco da difendere nell’Italia di oggi, c’è tanto da cambiare.
Nel documento dei 75 (quello della minoranza veltroniana doc) c’è un passaggio interessante riguardo una possibile strategia riformista: “l’alleanza da promuovere è tra chi ha bisogno del cambiamento, ma da solo non può realizzarlo (…)  e chi vuole il cambiamento, perché sa progettarlo, ha interesse a promuoverlo, ha le relazioni necessarie per realizzarlo, ha la forza necessaria per piegare le tante resistenze corporative che vi si oppongono”. Mi sembra questo uno snodo fondamentale, oserei dire una delle ragioni d’essere del PD. In concreto come realizzare questo?
Con politiche economiche e sociali che rovescino l’attuale sistema degli incentivi, che premia la rendita di posizione e quindi fotografa le disuguaglianze, con un sistema nuovo che premi il talento, l’impegno, i risultati, in modo da favorire equità e mobilità sociale. Questo rovesciamento va applicato innanzi tutto al sistema pubblico, che oggi gestisce più della metà del prodotto nazionale, ma con risultati assai deludenti sia intermini di efficienza e produttività, sia in termini di riduzione delle disuguaglianze. L’Italia ha bisogno che quella metà della sua ricchezza diventi un volano e non un freno allo sviluppo e, come avviene in tutti i paesi europei tranne il nostro, un fattore di superamento degli ostacoli economici e sociali alla piena cittadinanza, di cui parla l’articolo 3 della Costituzione.
Cercando di scavare in profondità: la politica del Novecento aveva le sue parole chiave (Democrazia, classe, libertà, ecc.) e le forze politiche cercavano di declinare, a loro modo, queste parole. Quali dovrebbero essere, secondo il PD, le nuove parole chiave?
Democrazia e libertà sono parole eterne, come uguaglianza e fraternità. Queste stelle fisse si devono esprimere oggi in politiche di innovazione: dobbiamo sostenere, premiare, incentivare l’innovazione. Resteremo competitivi, non diventeremo una colonia delle potenze emergenti, solo se sapremo innovare: le nostre conoscenze, le nostre produzioni, l’organizzazione stessa della nostra convivenza civile.  E’ una sfida drammatica, una sfida per la sopravvivenza e per la libertà, tanto più impervia se si tiene conto che stiamo rapidamente diventando una società vecchia.
Non le sembra grave la divisione nel movimento sindacale italiano? Non sarebbe ora, pur rispettando l’autonomia del sindacato, di lavorare per l’unità sindacale?
Ogni volta che il sindacato si divide, il PD soffre, entra in fibrillazione. Perché le diverse storie e culture sindacali ci attraversano, il pluralismo sindacale si specchia nel nostro pluralismo, culturale e sociale. Ma anche e soprattutto perché le divisioni sindacali rendono più difficile il cambiamento sociale. C’è quindi un grande bisogno di una nuova stagione di unità sindacale e il PD deve impegnarsi a fondo per favorirla e promuoverla. Naturalmente, non si tratta di dar vita ad una unità qualunque. L’unità possibile e necessaria, a mio modo di vedere, è quella che si realizza sulla base di tre principi fermi: l’autonomia dalla politica di schieramento, di governo come di opposizione; il riformismo, ovvero la cultura del cambiamento e dell’innovazione, contro il massimalismo conservatore; la partecipazione dei lavoratori alle scelte del sindacato e del sindacato nell’impresa.
Un argomento polemico, che spesso si sente ripetere, è quello del disagio dei cattolici dentro il suo partito. E’ reale questo?
Di solito se ne parla a sproposito, come di un rischio di scissione. In realtà, il pericolo che più corre il PD è quello dello scisma sommerso e silenzioso di una parte importante dell’elettorato, quella decisiva per vincere, la parte che non potrebbe riconoscersi in un PD che si rassegnasse a diventare l’ennesima metamorfosi della storia della sinistra tradizionale: mi riferisco agli elettori delle regioni diverse da quelle che un tempo si definivano “rosse”, ai ceti produttivi, ai giovani e certo anche ai cattolici. Un PD che rinunciasse a rendersi abitabile e attraente per queste fasce di frontiera dell’elettorato non solo non sarebbe più il PD, ma regalerebbe al berlusconismo in crisi un immeritato supplemento di sopravvivenza.

Dove va la Chiesa Valdese?

Si è concluso recentemente a Torre Pellice, nelle Valli Valdesi, l’annuale Sinodo della Chiesa Valdese. Un Sinodo che ha suscitato, nella opinione pubblica italiana, una grande discussione. Questo per alcune decisioni prese dal Sinodo, tra l’altro, sulle coppie gay e sul testamento biologico.
Su queste questioni abbiamo intervistato il Professor Paolo Ricca.
Paolo Ricca è nato a Torre Pellice (To) il 19 gennaio 1936.
Licenza in teologia ottenuta presso la Facoltà Valdese di Teologia in Roma. Dottorato in Teologia presso l’Università di Basilea, con una tesi intitolata Die Eschatologie des vierten Evangeliums diretta dal prof. Oscar Cullmann.
Consacrato pastore nella Chiesa Valdese nel 1962. Ha esercitato il ministero pastorale nelle comunità valdesi di Forano (Rieti) e Torino.
Dal 1976 al 2002 ha insegnato Storia della Chiesa ed Ecumenismo presso la Facoltà Valdese di Teologia in Roma.
Insegna regolarmente, come professore ospite, presso il Pontificio Ateneo Sant’Anselmo di Roma. Continua a leggere