“Lo Stato siamo noi”. L’attualità di Piero Calamandrei

In tempi di transizione, come questi che stiamo vivendo, è bene che ciascuno di noi ritrovi la propria memoria storica e politica. Bene ha fatto, così, la casa editrice Chiarelettere a pubblicare questa raccolta di interventi e scritti di Piero Calamandrei (“Lo Stato siamo noi”, pagg, 137. € 7,00).

Il libretto raccoglie interventi e scritti che coprono un arco temporale che va dal 1946 al 1956. Sono ripresi, nella maggior parte, dalla rivista “Il ponte”.
Il progetto che ha animato la vicenda umana e politica di Calamandrei è stato quello di “defascistizzare gli italiani” per fondare una nuova “religione civile” centrata sulla Costituzione del 1948. Su queste basi nasce la “cittadinanza attiva” dell’Italia repubblicana.
La visione del giurista fiorentino della Costituzione era una visione dinamica, si potrebbe dire progressiva: “Le Costituzioni – scriveva – vivono fino a che le alimenta dal didentro la forza politica”. Senza questo “spirito vitale” le costituzioni muoiono.
Per questo Piero Calamandrei, padre Costituente e tra i fondatori del Partito d’Azione, tra le figure più nobili della nostra storia repubblicana in un discorso ai giovani, giustamente celebre, tenuto a Milano nel 1955, nel salone dell’Umanitaria, affermava: “Quindi, voi giovani alla Costituzione dovete dare il vostro spirito, la vostra gioventù, farla vivere, sentirla cosa vostra, metterci dentro il vostro senso civico, la coscienza civica, rendersi conto – queste è una delle gioie della vita – rendersi conto che ognuno di noi nel mondo non è solo, che siamo in più, che siamo di un tutto, nei limiti dell’Italia e del mondo”.
E’ un appello, quello di Calamandrei, all’agire politico nobile, ad una visione della politica come “scienza della libertà”. Che non è la libertà individualistica, l’individualismo infatti afferma il tragico orgoglio dell’uomo che considera la propria sorte staccata da quella degli altri che il fascismo ha portato ad etica suprema con l’urlo animalesco del “me ne frego!” (in nome di questo poi si schiacciano popoli e nazioni). Quella intesa da Calamandrei,invece, è la libertà intesa come interdipendenza: “libertà come consapevolezza della solidarietà umana che unisce in essa gli individui e i popoli, come coscienza della loro dipendenza scambievole; come condizione di giustizia sociale (…) I popoli saranno veramente liberi quando si sentiranno, anche giuridicamente, “interdipendenti”. Il federalismo, prima che una dottrina politica, è la espressione di questa raggiunta coscienza morale della interdipendenza della sorte umana, che intorno ad unico centro si allarga con cerchi sempre più larghi, dal singolo al comune, dalla regione, dall’unione supernazionale alla intera umanità”.
Siamo agli antipodi della logica leghista dove il primato sta nella separazione, il “federalismo” della Lega è atomismo invece che interdipendenza.
Per concludere queste brevi note: dicevamo, poco sopra, del progetto di Calamandrei per creare una nuova “religione civile” centrata sulla Costituzione. Ebbene questa non può nascere dalla “desistenza”, che è sinonimo di passività, rassegnazione, ignavia, assenza di futuro, ma al contrario nasce dalla “resistenza” che parte, scrive Calamandrei, da un “sussulto morale che è stato la ribellione di ciascuno di noi contro la propria cieca e dissennata assenza”. Per questo “ora e sempre RESISTENZA”.

Le Macerie del berlusconismo. Intervista a Michele Salvati

L’Italia vive giorni pesanti. Si sta consumando una lunga fase storica: quella segnata dal berlusconismo. Il fatto politicamente importante nella giornata di ieri è stata la nomina, da parte del Presidente della Repubblica, del Professor Mario Monti a Senatore a vita. Questa nomina, tra l’altro, porterà, quasi sicuramente, ad un incarico per formare un governo d’emergenza. Per parlare di questo periodo decisivo per il destino del nostro Paese abbiamo intervistato il professor Michele Salvati, economista e Direttore della rivista ”il Mulino ed editorialista del “Corriere della Sera”. E’ autore di numerose pubblicazioni, l’ultima suo libro è uscito da poco per i tipi del Mulino: “Tre pezzi facili sull’Italia. Democrazia, crisi economica, Berlusconi”. Un’analisi chiara di alcune costanti dell’anomalia italiana, di cui la più interessante e significativa è quella di una difficile democrazia dell’alternanza.

Professor Salvati il Paese sta vivendo ore pesanti: lo spread ha toccato ormai un livello pericolosissimo. La fase conclusiva del berlusconismo (Berlusconi si dimetterà dopo l’approvazione della “legge di stabilità”) ci lascia un cumulo di macerie sul fronte economico e sociale. Lui che si è auto proclamato “uomo del fare” ha portato l’Italia ad un punto limite. Nel suo libro, “Tre pezzi facili per l’Italia” appena uscito per il Mulino, analizza la parabola berlusconiana. Le chiedo: qual è la radice della crisi del berlusconismo?

La radice sta nella sua incapacità di tenere fede al programma che con tanta baldanza aveva annunciato quando è “disceso” in politica, cioè un programma liberale, un programma che riflettesse sui bisogni di “riforme strutturali” del nostro Paese. Come si sa Berlusconi ebbe un primo breve termine, come Presidente del Consiglio, nel ’94 e presentò una riforma importante delle pensioni fatta da un eccellente economista, Onorato Castellino. Le reazioni a questa riforma liberale e profondamente giusta furono tali da parte della Lega (molto simili a quelle di adesso che non vuole toccare le pensioni d’anzianità) che il governo Berlusconi cadde, la Lega si staccò e ci fu una serie di governi che conosciamo: il governo Dini, le elezioni e il governo Prodi. In realtà i governi degli anni ’90 avevano cominciato ad affrontare i problemi di fondo del nostro Paese. Quando Berlusconi tornò al potere nel corso degli anni 2000 (2001-2006; 2008 ad oggi) di queste riforme profonde non si parlò più, perché il problema della popolarità, il desiderio di rincorrere la popolarità e quindi di evitare l’impopolarità che riforme così profonde creano, fecero si che Berlusconi non fece più nulla e anzi dicesse che tutto andava bene quando in realtà tutto andava male. Doveva continuare le riforme che avevano iniziato i governi tra il ’92 e il ’98 se devo dare una risposta da economista. Lascio del tutto da parte i problemi di inadeguatezza di Berlusconi sotto altri profili: politico, morale ecc, considero soltanto il profilo economico dove le riforme non le ha fatte, dando un’idea del tutto entusiastica ed erronea della situazione economica italiana.

La “II Repubblica” che doveva segnare il passaggio ad una democrazia “normale”, fatta di alternanza tra le coalizioni, in realtà, come scrive nel libro, si è configurata e polarizzata come uno scontro tra “berlusconiani” e “antiberlusconiani” (che richiama la vecchia divisione tra “comunisti” e “anticomunisti”). E’ sufficiente, secondo lei, l’uscita di Berlusconi per normalizzare la situazione? Oppure, in verità, anche l’attuale centrosinistra deve essere più convincente?

Che l’attuale centrosinistra debba essere più convincente è una domanda apprezzabile che mi sento anch’io di fare. Piuttosto la domanda che dobbiamo farci è la seguente: a parte il fenomeno Berlusconi possiamo considerare che i toni aspri e di scontro che ci sono stati tra Berlusconi e il centrosinistra, durante la II Repubblica, questo tipo di conseguenze che non hanno fatto bene al Paese siano eliminabili con l’eliminazione di Berlusconi? Detto in altre parole: è possibile avere un bipolarismo meno gridato e urlato, e più efficiente di quello che noi abbiamo avuto se al posto di Berlusconi si forma un centrodestra più, diciamo, “normale”? Questa è la domanda, perché molti, innanzitutto Casini che diventerà un “pivot” delle scelte politiche dei prossimi giorni, come vedremo, non la pensano così. Pensano che il nostro Paese sia inadatto a uno scontro frontale fra un centrodestra e un centrosinistra, cioè che anche senza Berlusconi ci saranno delle tensioni fortissime. Questo è un giudizio sul qual bisogna prendere posizione, perché da come si risponde a questa domanda dipende molto l’evoluzione del nostro sistema politico nei prossimi anni.

Ultima domanda: Gli osservatori stranieri imputano la crisi,tra l’altro, alla scarsa credibilità all’attuale governo italiano. Le chiedo lei è ottimista sulla possibilità di un “governo del Presidente”?

Ho l’impressione che due sono le possibili soluzioni. Una più probabile oggi che è quella di un brevissimo governo elettorale, affidato ad una personalità autorevole e riconosciuta o del centrodestra o del centrosinistra, per esempio Giuliano Amato, che prepari semplicemente il Paese alle elezioni e tenga sotto controllo la crisi economica. Deve essere una persona stimata anche a livello internazionale, affidabile per i mercati, con il compito fondamentale di far passare le riforme che i mercati ritengono essenziali e che, sia il Fondo Monetario sia l’UE ci stanno prescrivendo in dettaglio. Poi si va alle elezioni con questa legge elettorale con la possibilità che si formino di nuovo due blocchi, uno di centrodestra uno di centrosinistra, forse con un personaggio intermedio come Casini, che però non trova una facile collocazione né da una parte né dall’altra. Direi che se così avviene, la crisi continua.

L’altra possibilità è più azzardata perché non si trova nel Parlamento una quantità di voti che ne garantisca la solidità. Questo è un governo più ambizioso, un governo Monti, che non starebbe per un breve governo elettorale , ma per fare delle riforme più pesanti e avviare il nostro Paese al risanamento sia economico, sia politico-amminstrativo. A questo punto è fondamentale una nuova legge elettorale, che è molto discussa e controversa sia nel centrodestra che nel centrosinistra.

Queste sono le due possibilità che io vedo, ma certo non escludo che ce ne possano essere altre, come in extremis un rinvio di Berlusconi alle Camere. Io ho una fortissima preferenza per un governo Monti, cioè per un governo che abbia il tempo e lo spazio, non solo di stare e obbedire ai diktat del FMI o dell’ UE, anche se sono diktat ragionevoli date le nostre circostanze, ma anche di interloquire e di negoziare e che abbia lo stile internazionale sufficiente a condurre queste negoziazioni.

Ribellarsi all’indifferenza

In tempi caotici come questi, che sono anche tempi drammatici, leggere parole forti (parole che hanno un significato, che non cadono, quindi, nell’insignificanza) che possono scuotere la nostra mente e la nostra anima ormai assuefatta (o forse cinica) non può che far bene.
Ed è il caso di questo istant book , pubblicato dalla Casa editrice Chiarelettere, che raccoglie alcuni articoli di Antonio Gramsci, usciti sull’Unità tra il 1917 e il 1918 (un periodo, quindi, di alta tensione sociale e politica per l’Italia ormai alla fine dell’era giolittiana).
E’ l’Italia della disfatta di Caporetto, degli scioperi per il pane. L’Europa è segnata dalla fine degli Imperi centrali e dalla rivoluzione russa di Lenin.
Insomma una temperie che segnerà per sempre la storia del novecento italiano ed europeo.
Eppure, nonostante sia passato quasi un secolo, quelle parole di Gramsci mantengono una lucidità, e un’attualità, impressionante.
Che è tipico, per dirla con Italo Calvino, degli autori classici.
“Odio gli indifferenti” (pagg. 112, € 7,00) è il titolo che il curatore, David Bidussa studioso del pensiero politico contemporaneo, ha voluto dare al libretto.
In questi scritti del pensatore sardo c’è il Paese Italia. “Il Paese Italia, non la nazione italiana: le cose minute, i comportamenti, i tic che si usano, le consuetudini con cui si organizza la vita associata. Una realtà che sollecita l’indagine sulla vita reale non la costruzione di proiezioni ideologiche”.
E in questa operazione Gramsci mette in opera lo sguardo dell’intelligenza appassionata (che è poi quella dioturna passione per migliorare la condizione degli uomini e delle donne) per contrastare quella “ideologia” della quotidianità che appiattisce tutto.
Così, in queste pagine, sono affrontati i mali ancora irrisolti della società italiana: l’inconsistenza della classe politica, il trasformismo, la scuola, gli scandali, l’assenza di eticità nella burocrazia, il perbenismo ipocrita, ecc.
Ma alla base del “ragionamento” gramsciano c’è la ribellione nei confronti degli indifferenti: “Odio gli indifferenti. Credo come Federico Hebbel che ‘vivere vuol dire essere partigiani’. Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti”. Questo atto d’accusa durissimo è anche un giudizio su un certo modo di fare politica, di leggere gli avvenimenti della storia, di partecipare all’azione sociale di costruzione della “città futura”: “L’indifferenza è il peso morto della storia. E’ la palla di piombo per il novatore, è la materia inerte in cui si affogano gli entusiasmi più splendenti”. Ancora sono intense le parole di Gramsci.
Per l’indifferente, che è poi la massima manifestazione della irresponsabilità, tutto quello che avviene è fatalità (“che – come scrive ancora l’autore – sembra dominare la storia non è altro appunto che apparenza illusoria di questa indifferenza, di questo assenteismo”). Quanto è attuale questo pensiero! Sì l’indifferente è quello che legge i grandi movimenti della storia come una catastrofe (spreca paroloni come “terremoto sociale”, “tsumani umanitario” e quant’altro). In realtà questo atteggiamento è frutto di una chiara scelta politica: quella che vede solo il proprio interesse, altro che fatalità!
La politica per Gramsci, invece, è il massimo di responsabilità, intelligenza e “fantasia” (ovvero di progettazione e anticipazione del futuro). Profonde queste parole: “Nella vita politica l’attività fantastica deve essere illuminata da una forza morale: la simpatia umana” senza questa profondità spirituale c’è il dilettantismo politico (ovvero l’approssimazione, lo schematismo, l’idiozia nei confronti della storia). “Perché si provveda adeguatamente – afferma Antonio Gramsci – ai bisogni degli uomini di una città, di una regione, di una nazione, è necessario sentire questi bisogni; è necessario potersi rappresentare concretamente questi uomini in quanto vivono, in quanto operano quotidianamente, rappresentarsi le loro sofferenze, i loro dolori, le tristezze della vita che sono costretti a vivere. Se non si possiede questa forza di drammatizzazione della vita, non si possono intuire i provvedimenti generali e particolari che armonizzano le necessità della vita con le disponibilità dello Stato”.
Questi irresponsabili “obbligano a soffrire inutilmente nel tempo stesso che sciolgono inni alati alla virtù, alla forza di sacrificio del cittadino italiano”. Anche qui le cronache contemporanee ci offrono uno spettacolo desolante.
Insomma, per Gramsci, il politico inetto che non sa rappresentarsi il dolore degli uomini è crudele. E prima o poi la Storia gli renderà conto.
Molti altri temi affronta questa raccolta di scritti, ma quello che più conta è l’appello appassionato che viene fuori da queste belle pagine, come ci ricorda il curatore del libro: “scongiurare che la nuova quotidianità possa apparire come l’unico dei mondi possibili”.

Grammatica dell’esistenza

Enzo Bianchi continua, con questo nuovo libro, a proporre una grammatica dell’esistenza profonda e antica.

L’itinerario iniziato con il bellissimo Il Pane di ieri, prosegue, ora, con Ogni cosa alla sua stagione
 (Ed. Einaudi, pagg. 127, € 17,00). Libro profondamente laico, perché profondamente religioso.

Lui, monaco, fondatore della Comunità di Bose ( che si trova in Piemonte, vicino a Biella, ed è uno dei luoghi più preziosi del Cristianesimo contemporaneo), esprime così una profonda fedeltà alla terra, in quanto opera di Dio e del processo di umanizzazione della storia dell’uomo.

“Ora che avverto quotidianamente – scrive Enzo Bianchi – l’incedere della vecchiaia, la memoria mi riporta sovente a luoghi in cui ho vissuto o dove sono passato nei miei numerosi viaggi e che hanno
suscitato affetti o sentimenti diversi”.

Allora ecco il “mondo” dell’autore: il Monferrato, luogo dell’infanzia e dell’adolescenza (i bric, il paese situato sulle colline, con il suo dialetto, le sue usanze, i suoi “riti” laici (come il falò), con la vita dura della campagna – fatta di fatiche, di stenti ma anche di solidarietà (belle le pagine dedicate all’ospitalità dei viandanti). Il Monferrato, quindi, è il luogo della educazione ai valori essenziali della terra). Poi c’è Torino, la città degli studi universitari, Gerusalemme (dove ha studiato l’ebraico per comprendere in profondità la Parola), Santorini, con la sua luce forte, luogo del Mediterraneo. Tutti luoghi importanti per l’autore che ne hanno arricchito la sua umanità.

Ma il luogo “principe” è la cella: “è da lì che osservo il mondo, gli eventi, le persone che me lo rendono familiare e amato; ed è lì che assumo consapevolezza delle gioie e delle sofferenze che attraversano i miei giorni, ed è lì che prendono forma con cui tento di narrare qualcosa della mia vita e della mia fede nella compagnia degli uomini”. Enzo Bianchi è un uomo saggio e realista. Non c’è nulla di sdolcinato nelle sue parole sulla cella. “Tra quelle quattro mura la verità dell’uomo è messa alla prova nel rapporto nel rapporto
con il proprio corpo, con il cibo, con la propria sessualità, con il tempo, con gli altri, con l’avere, il fare, con Dio stesso, con tutte quelle presenze quotidiane che, paradossalmente, fanno percepire il proprio peso attraverso l’assenza”. Così la cella diventa luogo di “combattimento” e di benedizione, il crogiolo che libera dalle scorie dell’inessenziale per forgiare il monaco nella sua verità più profonda.

Così da quella cella passa in rassegna la sua vita, e il racconto si fa intenso.

Ecco, allora, che nel libro scorrono i personaggi che hanno reso uomo, nel senso più alto del termine, il nostro autore. Così si imbattiamo nel ritratto del padre, Pinèn, un socialista burbero, ateo, dotato di un forte senso della giustizia capace di leggere gli uomini con uno sguardo e con ironia, oppure in quello di una donna umile e povera, Teresina del Muchet, che produceva robiole,” un’icona della gratuità e della bontà dell’essere umano anche nella sua dimensione più selvatica”. Ma le parole più dolci sono quelle per Etta e Cocco, la coltissima maestra e la postina del paese, che sono state per l’autore più che due madri adottive. Grazie ai loro risparmi Enzo Bianchi poté studiare. Un’altra tappa fondamentale nella vita dell’autore. Senza dimenticare gli amici dell’infanzia e di gioventù con i quali “ha imparato a vivere”.

Il libro, poi, è un inno alla gratitudine e all’essenzialità della vita. In questo senso i piaceri della vita possono essere gustati in profondità (splendide, al riguardo, le pagine dedicate al vino).

Per vivere, dunque, bisogna imparare a vivere. “Si, imparare è una attività che ci accompagna per tutta la vita, non tanto perché ‘gli esami non finiscono mai’, ma piuttosto perché ogni giorno, anche a sessanta, a settant’anni e oltre, apprendiamo a vivere fino a imparare a morire. Si, per amare l’autunno della vita occorre
imparare l’ars moriendi, l’arte del congedo”. Così la vecchiaia non è una “dimunutio”, un diminuire, ma al contrario una intensità interiore con cui lo sguardo sul mondo fugge dal cinismo. Proprio
come scrive San Paolo : “Se il mio uomo esteriore si va disfacendo, c’è il mio essere interiore che può rinnovarsi ogni giorno”. Così, con questa saggezza umana e cristiana, si fa bella la terra.