La solitudine del lavoratore

La solitudine del lavoratore

Un testo di Pierre Carniti
(Dal sito : www.eguaglianzaeliberta.it )

Pesante è la situazione del mondo del lavoro in questa epoca di crisi economica.  Pubblichiamo questa intensa riflessione, sulle paure e le ansie di questo periodo,  dell’ex Segretario generale della Cisl Pierre Carniti. Carniti è stato uno storico protagonista della lotta sindacale nel nostro Paese.  L’articolo è uscito sull’ultimo numero della rivista on line “Eguaglianza&Libertà”.

(…) Paure, ansie, afflizioni di quest’epoca non riescono a sommarsi, a cumularsi in una causa comune capace di correggere il corso delle cose. Questo depriva la politica sindacale solidaristica di gran parte della sua capacità di aggregazione e di mobilitazione. Il rischio è che prenda piede un disincanto che va di pari passo con la delusione e la sfiducia sulla possibilità di soluzioni democratiche ai problemi.

È facile capire perché la modernità propria dello sviluppo industriale abbia coinciso con l’epoca dei grandi capitalisti e la nascita del “proletariato industriale”. Ed anche perché essa sia stata costruita sul legame tra capitale e lavoro, fortificato dalla reciprocità della loro dipendenza. In effetti, la sopravvivenza dei lavoratori dipendeva dall’avere un lavoro. A sua volta la accumulazione e riproduzione del capitale dipendeva dalla capacità di impiegare mano d’opera. Per di più, il loro punto di incontro aveva un indirizzo stabile. Anche perché nessuno dei due poteva trasferirsi facilmente altrove. Per questo motivo le massicce mura delle fabbriche stringevano i partner in una sorta di prigione comune. Lo stabilimento era la casa di entrambi ed, al contempo, il campo di battaglia per una guerra di trincea.

Ad obbligare al faccia a faccia capitale e lavoro ed a legarli in qualche modo l’uno all’altro era la necessità di trovare una conciliazione nella compravendita. Una transazione nella quale i proprietari del capitale dovevano essere costantemente in grado di comprare lavoro ed i proprietari del lavoro dovevano  essere disponibili e stare all’erta. Cercare cioè di essere possibilmente sani, forti ed in condizione da non scoraggiare i potenziali acquirenti. Ciascuna parte aveva i propri interessi nel tenere l’altra in buona forma.

Non sorprende quindi che, in quella stagione, la “mercificazione” del capitale e del lavoro sia diventata la principale funzione e preoccupazione della politica e quindi dello Stato. Questi era infatti chiamato a provvedere a che i capitalisti fossero in grado di acquistare il lavoro e pagare il prezzo stabilito e che i lavoratori fossero alfabetizzati ed in relativa forma fisica. Pronti ad essere impiegati tutte le volte che se ne sarebbe manifestata la necessità. Perciò lo Stato assistenziale, vale a dire uno Stato dedito appunto ad assolvere questa funzione, serviva tanto alle aziende che ai lavoratori. Perché si trattava di un sostegno senza il quale né il capitale né il lavoro avrebbero potuto restare vivi e tanto meno crescere.

Naturalmente all’inizio alcuni considerarono lo “Stato Sociale” una misura temporanea. Destinata a sparire una volta che l’assicurazione collettiva contro le disgrazie avesse reso l’assicurato abbastanza audace e dotato di risorse da sviluppare appieno il proprio potenziale. O anche di trovare il coraggio di affrontare i rischi necessari per riuscire a reggere sulle sue gambe. Osservatori più scettici hanno invece visto nello Stato sociale un servizio sanitario finanziato e gestito collettivamente. Una operazione igienico-sanitaria da portare avanti almeno fino a quando l’iniziativa capitalista avesse continuato a generare spreco di risorse umane e sociali. Spreco che però questa non aveva le intenzioni, ed in alcuni casi nemmeno i mezzi, per riciclare. Il che significava per un lungo tempo. Tuttavia tutti (più o meno) concordavano sul fatto che lo Stato assistenziale fosse uno strumento volto a fronteggiare le anomalie. Ad evitare cioè le deviazioni dalla norma. Impegnandosi ad alleviarne le conseguenze qualora queste si fossero verificate. In effetti la concezione mai contestata, se non da minoranze eccentriche ed irrilevanti, era di favorire un funzionale rapporto reciproco tra capitale lavoro. Cercando di risolvere le più importanti e fastidiose questioni sociali che potevano insorgere nell’ambito di tale rapporto.

In questo contesto l’aspetto da tenere presente è che l’orizzonte temporale nella fase del capitalismo industriale era quello di lungo periodo. Per i lavoratori tale orizzonte derivava dalla prospettiva di un impiego a vita nella stessa azienda. Azienda che, seppure non considerata immortale, poteva comunque contare su un ciclo vitale stimato in generazioni. Per i capitalisti il “gioiello di famiglia”, destinato a durare oltre l’arco di vita dei suoi stessi fondatori, era incarnato soprattutto dalle fabbriche che venivano costruite e che entravano nell’asse ereditario, insieme al resto del patrimonio personale accumulato. Per farla breve: la mentalità “a lungo termine” nasceva dall’esperienza comune. Cioè dalla constatazione che i destini di chi comprava e di chi vendeva il lavoro fossero strettamente ed inseparabilmente interconnessi. E poiché si riteneva che lo sarebbero rimasti per lunghissimo tempo, diventava realistico ritenere che elaborare un modo di coabitazione sopportabile fosse “nell’interesse di tutti”. Come, in definitiva, lo era la negoziazione di regole di convivenza civile tra gli inquilini di uno stesso stabile. Naturalmente, perché quella esperienza riuscisse a mettere robuste radici è stato necessario un discreto lasso di tempo. Secondo alcuni storici, solo dopo la seconda guerra mondiale l’originario disordine del capitalismo ha potuto essere sostituito (almeno nelle economie più avanzate) da grandi aziende, forti sindacati, serie garanzie dello Stato sociale. Che, messe insieme, hanno costituito un fattore di sufficiente relativa stabilità.

Stabilità che non escludeva certo una continua dialettica e la conseguente conflittualità. Che, a sua volta, era resa possibile e persino “funzionale” dal fatto che, nel bene e nel male, gli antagonisti erano consapevoli di essere legati gli uni agli altri da reciproca dipendenza. In effetti,  gli scontri anche aspri, le prove di forza ed i susseguenti negoziati, in una certa misura, hanno rafforzato le due controparti. Per la semplice ragione che nessuna di esse poteva permettersi di andarsene per la propria strada. Entrambe sapevano infatti che la loro sopravvivenza dipendeva dalla capacità di trovare un compromesso. Cioè soluzioni accettabili per tutti. Questo spiega  perché, fin tanto si è ritenuto che quel reciproco stare insieme era destinato a durare, le regole di integrazione-coabitazione siano state il centro di intensi negoziati. A volte di acrimonia, scontri e rese dei conti. Altre volte di tregue e di compromessi. Questa dinamica, seppure tra alti e bassi, ha comunque consentito ai sindacati di trasformare l’impotenza dei singoli lavoratori in un potere di contrattazione collettivo. E di battersi, con alterni successi, per correggere normative penalizzanti i diritti dei lavoratori e per contrastare la pretesa libertà di manovra dei datori di lavoro nella determinazione delle condizioni di lavoro e dei trattamenti retributivi.

Oggi, questa situazione è radicalmente mutata. Addirittura capovolta. Il principale ingrediente del processo di cambiamento in atto è infatti la nuova mentalità a “breve termine”. Che ha sostituito quella precedente a “lungo termine”. Così sta avvenendo nel campo del lavoro, come in tanti altri aspetti della vita sociale. Persino i matrimoni “finché morte non ci separi” tendono ad andare fuori moda. Tra le nuove generazioni incominciano infatti a risultare una rarità. E’ comunque in diminuzione il numero di coppie impegnate a tenersi compagnia per sempre. Non stupisce quindi che la stessa sorte si sia riflessa anche sul lavoro.

Secondo stime recenti, un giovane americano, con un livello di istruzione medio, si aspetta di cambiare lavoro almeno 11 volte nel corso della sua vita lavorativa. Con ogni probabilità questa frequenza è destinata a crescere prima che il ciclo lavorativo dell’attuale generazione sia terminato. Non a caso, “flessibilità” è diventata la parola d’ordine più gettonata. E quando essa viene applicata al mercato del lavoro preannuncia la fine del lavoro come è stato inteso e vissuto dalle generazioni precedenti. In concreto essa annuncia l’avvento del lavoro intermittente, con contratti a termine, falsamente autonomo, privo di qualsiasi sicurezza, regolato fondamentalmente dalla clausola “fino ad ulteriori comunicazioni”. La vita lavorativa è perciò sempre più caratterizzata dall’insicurezza.

Si può ovviamente cercare di minimizzare questo stato di cose osservando che la storia dell’umanità è stata largamente costruita sull’incertezza. Non ci sarebbe quindi nulla di radicalmente nuovo. In una certa misura questo può essere vero. Tuttavia non si può non rendersi conto che l’incertezza odierna è di tipo completamente nuovo. I costi umani, i tipi di disastri che possono rovinare la vita di una persona, non sono della specie che si può contrastare, respingere, alleandosi con altri che si trovavo nella medesima condizione. Cioè cercando di unire le forze e di adottare misure  concordate ed appropriate, con il proposito di neutralizzare le conseguenze più insopportabili. Anche perché oggi i peggiori disastri colpiscono per lo più alla cieca. Tant’è vero che le loro vittime sono spesso il frutto di una logica incomprensibile. Non a caso non sembra esistere alcun modo concreto per prevedere chi sarà condannato e chi invece si salverà. Questo spiega perché l’odierna insicurezza spinge in modo irrefrenabile all’individualizzazione. La ragione è semplice: essa divide, anziché unire. E proprio perché non è possibile sapere chi domani si sveglierà in una situazione insopportabile, l’idea di “interessi comuni” diventa sempre più nebulosa. Tende a perdere significati concreti, percettibili. La periodica esplosione di proteste e ribellioni da parte di questa o quella categoria, di questa o quella corporazione (in difesa di interessi particolari) non cambia assolutamente i termini della situazione del lavoro dipendente.

Perciò, per il lavoro paure, ansie, afflizioni di quest’epoca sono diventate situazioni che si vivono sempre di più in solitudine. Esse non riescono infatti a sommarsi, a cumularsi in una causa comune capace di correggere il corso delle cose. Questo depriva la politica sindacale solidaristica, che tanto ha contribuito al miglioramento delle condizioni dei lavoratori, di gran parte della sua capacità di aggregazione e di mobilitazione. Ma, con il venire meno del pilastro della solidarietà fondato sulla convinzione di un  destino condiviso, il rischio è quello che prenda piede un disincanto che va di pari passo con la delusione e persino la sfiducia circa l’esistenza e la possibilità di soluzioni democratiche ai problemi.

In ogni caso, il dato con cui ci si deve confrontare è che la società industriale, quale l’avevamo conosciuta nel secolo scorso, ha  ormai concluso la sua parabola. Con la sua estinzione anche lo stesso concetto di lavoro oggi assume un significato profondamente diverso dal passato. Le ragioni di questa trasmutazione sono molteplici e chiamano in causa diversi fattori. Compresa l’antropologia culturale. Ma, volendo rimanere ai semplici elementi di fatto, uno dei motivi di fondo del cambiamento in atto é che siamo passati dalla “società dei produttori” (nella quale i profitti derivavano in primo luogo dalla quantità di lavoro dipendente impiegato), alla società dei “consumatori” (nella quale i profitti vengono invece soprattutto dallo sfruttamento dei desideri dei consumatori). In sostanza è intervenuto un mutamento radicale nel modo di essere della maggior parte delle imprese. La cui funzione è sempre meno quella di rispondere a domande reali, quanto piuttosto quella di suscitare desideri.

Detto altrimenti, una delle novità con le quali siamo alle prese, consiste nel fatto che mentre la società industriale funzionava sulla base del presupposto che l’offerta doveva corrispondere ad una domanda reale, ora si ritiene invece che sia compito dell’offerta suscitare la domanda. E questo rovesciamento, questa filosofia di business, viene applicata a qualsiasi cosa venga prodotta. Dai beni di consumo, come da quelli finanziari. I prestiti perciò non fanno eccezione. Al punto che la società dei “consumatori”, nel giro di pochissimi decenni, si è trasformata nella società dei “debitori”. Infatti, fino alla esplosione della crisi finanziaria, l’offerta di credito serviva anche a creare ulteriore bisogno (e domanda) di credito. Poco importa se per fare speculazioni, od acquisti a rate di beni anche oltre le proprie disponibilità di reddito. Il risultato comunque è stato che la formazione prima e lo scoppio della “bolla” finanziaria poi sono state il prodotto di questa dinamica.

Agli aspetti derivanti dai cambiamenti intervenuti sul piano economico e sociale, si è aggiunto lo sconquasso provocato dalle scelte scriteriate della politica. Che, per quasi un trentennio, è stata ottenebrata da una sbornia ideologica fondata sul “liberismo” e sulla “deregolazione economica e finanziaria”. Quelle scelte dissennate ed avventuriste hanno pesantemente influito, tra l’altro, sul conto salato che siamo ora chiamati a pagare. Conto che include le conseguenze sia del “lavoro che cambia” che del “lavoro che manca”. Ci ritroviamo quindi nella situazione che Hannah Arendt aveva previsto già mezzo secolo fa. Con la formula profetica: “Alla società del lavoro viene a mancare il lavoro”. Nel senso tanto del significato, che della quantità del lavoro disponibile. Per altro, la Arendt interpretava giustamente questo sviluppo come una sorta di ironia della storia. Ironia riconducibile al fatto che nel più lontano passato nella società occidentale al lavoro era riconosciuto un valore minimo, in quanto gli si preferivano un mucchio di altre attività considerate più utili e sensate. Come: l’agire politico, la creazione artistica o la produzione artigianale. Con le quali, oltre tutto, potevano essere creati valori ed oggetti destinati a durare. Mentre, dopo che il lavoro dipendente ha incominciato ad assumere un significato preminente di appartenenza di identità, esso ha anche iniziato a diventare più rarefatto. Sia in termini di significato che di possibilità concrete di accedervi. Per di più con il passaggio dalla società “solida” a quella “liquida” (secondo la definizione di  Zygmunt Bauman), con la cultura dell’ “usa e getta”, il lavoro ha cominciato a cancellare immediatamente sé stesso nel consumo del proprio prodotto. E, poiché il lavoro dipendente ha pure iniziato a diradarsi (basti pensare ai tanti che vorrebbero lavorare, ma non riescono a farlo), la “società del lavoro” non ha più saputo che fare di sé stessa. Questo spiega perché la “società del lavoro stabile e retribuito”, predicata e promessa nel secolo scorso, sia diventata sempre meno credibile. E’ diventata meno verosimile per la decisiva ragione che il lavoro “stabile e retribuito” è da tempo in continua ed  inesorabile decrescita.

Dal sito : www.eguaglianzaeliberta.it

Una “Road Map” sul lavoro. Intervista al Senatore Tiziano Treu

La settimana politica e sociale, nel nostro Paese, è stata segnata, tra l’altro, dal dibattito sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori . Scatenato dalle dichiarazioni del Ministro Fornero (poi specificate meglio). Su questo, ed altri temi collegati al lavoro, abbiamo intervistato il Senatore del PD Tiziano Treu, ex-Ministro del Lavoro nel primo governo Prodi.

Sull’articolo 18 c’è un dato interessante che il quotidiano “Repubblica”, in questi giorni, ha pubblicato (Si tratta di un sondaggio Unioncamere-Excelsior). Ovvero che il problema più grave per le imprese italiane non è l’articolo 18, di flessibilità in uscita, ma è la mancanza di prospettive a breve termine…
Non c’è dubbio, perché il nostro primo problema è quello di riprendere a crescere poiché se non c’è una economia che riprenda a funzionare non ci sarà lavoro né per quelli attualmente attivi né soprattutto per i giovani, quindi, non è che l’articolo 18 aiuta, in generale, l’articolo 18 può essere visto in un contesto che permetta, da una parte, la crescita, e dall’altra che dia alle persone in caso di crisi e di difficoltà un sistema di ammortizzatori e di sicurezze e che quindi assicurino; questi sono i due problemi principali non certo la riforma dell’articolo 18.

La riforma del mercato del lavoro italiano è un tema troppo importante per il futuro del nostro Paese. Quale potrebbe essere una possibile “road map” di riforme?
Adesso vedremo quando il governo aprirà un tavolo, come ha promesso e come è scritto anche nella Manovra, con le parti sociali perché questa è una materia che va affrontata in questo modo. Credo che ci sia, innanzitutto, da considerare come affrontare le migliaia di persone che sono in difficoltà, molti sono addirittura senza lavoro, senza pensione perché c’è stato questo spostamento dell’età pensionabile: quindi il primo tema è quello di avere un ammortizzatore soprattutto per i giovani precari e per le persone anziane poiché questo mercato del lavoro che tutti gli altri paesi europei hanno e che da noi non è ancora sistemato, potrà permettere anche una maggiore mobilità che è altrettanto essenziale, poi dopo occorreranno delle misure specifiche per superare, soprattutto, quelle che sono le maggiori difficoltà come altri paesi hanno fatto; i giovani che sono usciti dalla scuola prematuramente e che sono quelli che avranno più problemi ad entrare nel mercato del lavoro che richiede più conoscenze del passsato. Questi sono, sicuramente, i temi che andranno affrontati per primi, poi dopo occorrerà, per tutte le professioni, rendere più facile l’accesso ai giovani e aumentare il contenuto di competenze.

Il premier Monti vorrebbe imitare in Italia il modello scandinavo. E’ possibile questo?
Il modello scandinavo non può certamente essere importato tale e quale perché è molto particolare però l’idea comune a tutto il modello sociale europeo, non solo ai paesi scandinavi anche alla Germania, la Francia è proprio questa che ci vuole l’economia più innovativa da una parte, quindi, come dicevo, imprese più innovative e lavoratori con maggiori competenze, dall’altra parte una maggiore mobilità che però si può fare solo se c’è la sicurezza data da servizi sul mercato del lavoro,da ammortizzatori sociali, quindi questa idea della flexsecurity, questa è la base del modello sociale europeo. Nei paesi scandinavi ha un livello di tutele che sono particolarmente alte ma in realtà la base è comune è questa flessibilità ma nella sicurezza.

Ultima domanda: Sulla riforma del mercato del lavoro un ruolo importante lo giocherà il PD. Troverà una sintesi tra le diverse posizioni?

Credo di si, ci stiamo lavorando, poi su molte cose si è già d’accordo, sulla necessità degli ammortizzatori universali, sulla necessità di semplificare i tipi di lavoro, i contratti che sono necessari, sono solo pochi e invece ci occorre renderli fruibili a tutti con costi uguali per evitare che si adoperino contratti precari perché costano meno. Su questi punti siamo largamente d’accordo;ci potrà essere poi qualche differenza nel momento in cui si arriverà a discutere su come gestire le crisi, sul problema dei licenziamenti ma io credo che arriveremo a un punto.

Giovani e futuro: il manifesto di Romano Prodi

Assistiamo, in questo periodo, a molte manifestazioni cui protagonista è il variegato mondo giovanile.

Un esempio è la vicenda degli “indignados”. Che nasce in Spagna, si è poi diffuso in Israele, Cile e Stati Uniti. Il loro è un grido forte d’indignazione contro lo sfascio creato dal “turbocapitalismo” finanziario, che distrugge le speranze di una generazione. Anche il complicato mondo arabo è attraversato da grandi tensioni.

Insomma quest’anno, il 2011, sarà ricordato come l’anno della indignazione giovanile. Così il grido di un grande di Francia, il partigiano e diplomatico Stephane Hessel, “Indignez vous!” attraversa i continenti.

Un altro punto che dovrebbe far pensare è che questa generazione di giovani è senza interlocutori. Pochi riescono ad entrare in sintonia con loro. Pochi sanno ascoltare e pochi sanno leggere con esperienza questi fenomeni. E per limitarsi alla nostra Italia occorre riconoscere che sono pochissimi  quelli che hanno queste capacità.

Tra questi spiccano il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex Premier Romano Prodi.

Romano Prodi da quando ha lasciato la politica attiva nel nostro Paese (anche se con le sue  interviste non fa mancare la sua attenzione, con rigore, alle prospettive italiane ed europee) si dedica all’insegnamento dell’Economia nelle università cinesi e americane. Ebbene questa sua attività gli consente di essere a contatto con il mondo giovanile di società in fermento come quella cinese.

Ed è in questo contesto che esce per i tipi di Aliberti questo libretto, che è una intervista, “Futuro Cercasi” (pagg. 64, € 6,00).

Un vero manifesto contro la “cattiva politica” che ha allontanato i giovani dalla politica. Ora la politica è indispensabile ai giovani per la loro affermazione e per la loro ascesa. Ma, attenzione, per Prodi occorre una radicale cesura con il passato: “Quando parlo di giovani e politica io non parlo di età, parlo di autonomia. Perché se un giovane entra in politica semplicemente perché fa il portaborse di uno più anziano non è giovane, è portaborse. Entra come anziano. I nostri giovani in politica sono entrati in politica come anziani. Quante volte ho detto a dei ragazzi: affermati prima nella professione; entra forte con un tuo ruolo, perché se poi ti va male, perché se poi trovi dei momenti duri – perché la politica è dura – tu hai la tua professione, stai fuori dalla politica e puoi andare avanti con la tua vita. Se non hai questo, sarai sempre vecchio, perché sarai sempre nelle mani di qualcuno”.

Il punto strategico sta qui: i giovani devono crearsi un profilo forte. E questo passa solo attraverso lo studio e la formazione. Solo così il futuro torna dei giovani.

E il suo è un atto di accusa contro la logica del “corto periodo” che attraversa la politica italiana ed europea. In cui predomina la logica del “chi è fuori è fuori, chi è dentro è dentro”, una logica senza futuro ed egoista.

L’appello del Professore alla politica ed ai suoi protagonisti è cambiate paradigma: occorre dare consapevolezza e strumenti al mondo giovanile del loro futuro, deciso è far sentire ai ragazzi che hanno “gambe per correre”. E queste “gambe” può darle solo una istruzione elevata. Il futuro passa per l’eccellenza dello studio.

Di molto altro parla questo libretto, dove non si danno “ricette magiche” ma si da una lezione di metodo: ogni cosa va pensata al futuro.

“Uomini di Dio” on line. Un sito per ricordare la storia dei monaci di Tibhirine

E’ di questi giorni la notizia che è on-line il sito del monastero di Tibhirine (http://www.monastere-tibhirine.org),  in Algeria nella zona dell’Atlas.
Come si sa questo è il luogo del martirio, avvenuto nel 1996 durante la guerra civile, dei monaci cistercensi francesi che vivevano in quel monastero. I loro nomi sono diventati famosi dopo il film del regista francese Xavier Beauvois, vincitore a Cannes l’anno scorso del “Gran Premio della giuria, “Uomini di Dio” (titolo originale “Des Hommes et des diieux”). Un vero capolavoro.
Continua a leggere

Il dramma della Fincantieri. Intervista ad Alberto Monticco.

Sono giorni di grande tensione per gli operai della Fincantieri. “La forza della rivolta al sud è stata accompagnata da una violenza che è il simbolo di una rabbia che c’è nel cuore della gente e che non è più contenibile, Quanto sta avvenendo è come la mano di Dio che ci avverte: prepariamoci alla collera dei poveri”. Così monsignor Bregantini, presidente della Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro e arcivescovo di Campobasso, commenta con parole forti, riprendendo le parole di Paolo VI, la vicenda Fincantieri e la protesta degli operai. La CEI ha voluto così testimoniare la “grande preoccupazione” dei vescovi per quanto sta avvenendo sul piano sociale e il loro “rammarico per la decisione” dei vertici di Fincantieri “‘di licenziare un numero così alto di lavoratori”( sono 2551, secondo il piano dell’azienda). Una preoccupazione condivisa da tutta la società italiana. Della vicenda parliamo con Alberto Monticco, Segretario Nazionale della Fim-Cisl. Triestino, 46 anni, è stato anche lui un tecnico di Fincantieri. Segue per la sua organizzazione tutta la delicatissima partita della cantieristica. Continua a leggere