Le Macerie del berlusconismo. Intervista a Michele Salvati

L’Italia vive giorni pesanti. Si sta consumando una lunga fase storica: quella segnata dal berlusconismo. Il fatto politicamente importante nella giornata di ieri è stata la nomina, da parte del Presidente della Repubblica, del Professor Mario Monti a Senatore a vita. Questa nomina, tra l’altro, porterà, quasi sicuramente, ad un incarico per formare un governo d’emergenza. Per parlare di questo periodo decisivo per il destino del nostro Paese abbiamo intervistato il professor Michele Salvati, economista e Direttore della rivista ”il Mulino ed editorialista del “Corriere della Sera”. E’ autore di numerose pubblicazioni, l’ultima suo libro è uscito da poco per i tipi del Mulino: “Tre pezzi facili sull’Italia. Democrazia, crisi economica, Berlusconi”. Un’analisi chiara di alcune costanti dell’anomalia italiana, di cui la più interessante e significativa è quella di una difficile democrazia dell’alternanza.

Professor Salvati il Paese sta vivendo ore pesanti: lo spread ha toccato ormai un livello pericolosissimo. La fase conclusiva del berlusconismo (Berlusconi si dimetterà dopo l’approvazione della “legge di stabilità”) ci lascia un cumulo di macerie sul fronte economico e sociale. Lui che si è auto proclamato “uomo del fare” ha portato l’Italia ad un punto limite. Nel suo libro, “Tre pezzi facili per l’Italia” appena uscito per il Mulino, analizza la parabola berlusconiana. Le chiedo: qual è la radice della crisi del berlusconismo?

La radice sta nella sua incapacità di tenere fede al programma che con tanta baldanza aveva annunciato quando è “disceso” in politica, cioè un programma liberale, un programma che riflettesse sui bisogni di “riforme strutturali” del nostro Paese. Come si sa Berlusconi ebbe un primo breve termine, come Presidente del Consiglio, nel ’94 e presentò una riforma importante delle pensioni fatta da un eccellente economista, Onorato Castellino. Le reazioni a questa riforma liberale e profondamente giusta furono tali da parte della Lega (molto simili a quelle di adesso che non vuole toccare le pensioni d’anzianità) che il governo Berlusconi cadde, la Lega si staccò e ci fu una serie di governi che conosciamo: il governo Dini, le elezioni e il governo Prodi. In realtà i governi degli anni ’90 avevano cominciato ad affrontare i problemi di fondo del nostro Paese. Quando Berlusconi tornò al potere nel corso degli anni 2000 (2001-2006; 2008 ad oggi) di queste riforme profonde non si parlò più, perché il problema della popolarità, il desiderio di rincorrere la popolarità e quindi di evitare l’impopolarità che riforme così profonde creano, fecero si che Berlusconi non fece più nulla e anzi dicesse che tutto andava bene quando in realtà tutto andava male. Doveva continuare le riforme che avevano iniziato i governi tra il ’92 e il ’98 se devo dare una risposta da economista. Lascio del tutto da parte i problemi di inadeguatezza di Berlusconi sotto altri profili: politico, morale ecc, considero soltanto il profilo economico dove le riforme non le ha fatte, dando un’idea del tutto entusiastica ed erronea della situazione economica italiana.

La “II Repubblica” che doveva segnare il passaggio ad una democrazia “normale”, fatta di alternanza tra le coalizioni, in realtà, come scrive nel libro, si è configurata e polarizzata come uno scontro tra “berlusconiani” e “antiberlusconiani” (che richiama la vecchia divisione tra “comunisti” e “anticomunisti”). E’ sufficiente, secondo lei, l’uscita di Berlusconi per normalizzare la situazione? Oppure, in verità, anche l’attuale centrosinistra deve essere più convincente?

Che l’attuale centrosinistra debba essere più convincente è una domanda apprezzabile che mi sento anch’io di fare. Piuttosto la domanda che dobbiamo farci è la seguente: a parte il fenomeno Berlusconi possiamo considerare che i toni aspri e di scontro che ci sono stati tra Berlusconi e il centrosinistra, durante la II Repubblica, questo tipo di conseguenze che non hanno fatto bene al Paese siano eliminabili con l’eliminazione di Berlusconi? Detto in altre parole: è possibile avere un bipolarismo meno gridato e urlato, e più efficiente di quello che noi abbiamo avuto se al posto di Berlusconi si forma un centrodestra più, diciamo, “normale”? Questa è la domanda, perché molti, innanzitutto Casini che diventerà un “pivot” delle scelte politiche dei prossimi giorni, come vedremo, non la pensano così. Pensano che il nostro Paese sia inadatto a uno scontro frontale fra un centrodestra e un centrosinistra, cioè che anche senza Berlusconi ci saranno delle tensioni fortissime. Questo è un giudizio sul qual bisogna prendere posizione, perché da come si risponde a questa domanda dipende molto l’evoluzione del nostro sistema politico nei prossimi anni.

Ultima domanda: Gli osservatori stranieri imputano la crisi,tra l’altro, alla scarsa credibilità all’attuale governo italiano. Le chiedo lei è ottimista sulla possibilità di un “governo del Presidente”?

Ho l’impressione che due sono le possibili soluzioni. Una più probabile oggi che è quella di un brevissimo governo elettorale, affidato ad una personalità autorevole e riconosciuta o del centrodestra o del centrosinistra, per esempio Giuliano Amato, che prepari semplicemente il Paese alle elezioni e tenga sotto controllo la crisi economica. Deve essere una persona stimata anche a livello internazionale, affidabile per i mercati, con il compito fondamentale di far passare le riforme che i mercati ritengono essenziali e che, sia il Fondo Monetario sia l’UE ci stanno prescrivendo in dettaglio. Poi si va alle elezioni con questa legge elettorale con la possibilità che si formino di nuovo due blocchi, uno di centrodestra uno di centrosinistra, forse con un personaggio intermedio come Casini, che però non trova una facile collocazione né da una parte né dall’altra. Direi che se così avviene, la crisi continua.

L’altra possibilità è più azzardata perché non si trova nel Parlamento una quantità di voti che ne garantisca la solidità. Questo è un governo più ambizioso, un governo Monti, che non starebbe per un breve governo elettorale , ma per fare delle riforme più pesanti e avviare il nostro Paese al risanamento sia economico, sia politico-amminstrativo. A questo punto è fondamentale una nuova legge elettorale, che è molto discussa e controversa sia nel centrodestra che nel centrosinistra.

Queste sono le due possibilità che io vedo, ma certo non escludo che ce ne possano essere altre, come in extremis un rinvio di Berlusconi alle Camere. Io ho una fortissima preferenza per un governo Monti, cioè per un governo che abbia il tempo e lo spazio, non solo di stare e obbedire ai diktat del FMI o dell’ UE, anche se sono diktat ragionevoli date le nostre circostanze, ma anche di interloquire e di negoziare e che abbia lo stile internazionale sufficiente a condurre queste negoziazioni.

Giovani e futuro: il manifesto di Romano Prodi

Assistiamo, in questo periodo, a molte manifestazioni cui protagonista è il variegato mondo giovanile.

Un esempio è la vicenda degli “indignados”. Che nasce in Spagna, si è poi diffuso in Israele, Cile e Stati Uniti. Il loro è un grido forte d’indignazione contro lo sfascio creato dal “turbocapitalismo” finanziario, che distrugge le speranze di una generazione. Anche il complicato mondo arabo è attraversato da grandi tensioni.

Insomma quest’anno, il 2011, sarà ricordato come l’anno della indignazione giovanile. Così il grido di un grande di Francia, il partigiano e diplomatico Stephane Hessel, “Indignez vous!” attraversa i continenti.

Un altro punto che dovrebbe far pensare è che questa generazione di giovani è senza interlocutori. Pochi riescono ad entrare in sintonia con loro. Pochi sanno ascoltare e pochi sanno leggere con esperienza questi fenomeni. E per limitarsi alla nostra Italia occorre riconoscere che sono pochissimi  quelli che hanno queste capacità.

Tra questi spiccano il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex Premier Romano Prodi.

Romano Prodi da quando ha lasciato la politica attiva nel nostro Paese (anche se con le sue  interviste non fa mancare la sua attenzione, con rigore, alle prospettive italiane ed europee) si dedica all’insegnamento dell’Economia nelle università cinesi e americane. Ebbene questa sua attività gli consente di essere a contatto con il mondo giovanile di società in fermento come quella cinese.

Ed è in questo contesto che esce per i tipi di Aliberti questo libretto, che è una intervista, “Futuro Cercasi” (pagg. 64, € 6,00).

Un vero manifesto contro la “cattiva politica” che ha allontanato i giovani dalla politica. Ora la politica è indispensabile ai giovani per la loro affermazione e per la loro ascesa. Ma, attenzione, per Prodi occorre una radicale cesura con il passato: “Quando parlo di giovani e politica io non parlo di età, parlo di autonomia. Perché se un giovane entra in politica semplicemente perché fa il portaborse di uno più anziano non è giovane, è portaborse. Entra come anziano. I nostri giovani in politica sono entrati in politica come anziani. Quante volte ho detto a dei ragazzi: affermati prima nella professione; entra forte con un tuo ruolo, perché se poi ti va male, perché se poi trovi dei momenti duri – perché la politica è dura – tu hai la tua professione, stai fuori dalla politica e puoi andare avanti con la tua vita. Se non hai questo, sarai sempre vecchio, perché sarai sempre nelle mani di qualcuno”.

Il punto strategico sta qui: i giovani devono crearsi un profilo forte. E questo passa solo attraverso lo studio e la formazione. Solo così il futuro torna dei giovani.

E il suo è un atto di accusa contro la logica del “corto periodo” che attraversa la politica italiana ed europea. In cui predomina la logica del “chi è fuori è fuori, chi è dentro è dentro”, una logica senza futuro ed egoista.

L’appello del Professore alla politica ed ai suoi protagonisti è cambiate paradigma: occorre dare consapevolezza e strumenti al mondo giovanile del loro futuro, deciso è far sentire ai ragazzi che hanno “gambe per correre”. E queste “gambe” può darle solo una istruzione elevata. Il futuro passa per l’eccellenza dello studio.

Di molto altro parla questo libretto, dove non si danno “ricette magiche” ma si da una lezione di metodo: ogni cosa va pensata al futuro.

L’opacità etica del capitalismo finanziario

Mai come in questi tempi di crisi si è fatto i conti con l’opacità etica del capitalismo contemporaneo.
Per questo sembra davvero azzeccata la scelta della casa editrice il Mulino di affidare il commento al settimo comandamento, Non rubare, ad uno storico dell’età moderna (Paolo Prodi) ed a un giurista d’impresa (Guido Rossi), che è stato anche presidente della Consob.   Azzeccata perché gli autori ci offrono una visione diacronica e sincronica del furto nella società umana.
Il libro, Paolo Prodi-Guido Rossi, Non rubare, Ed. Il Mulino. Bologna 2010, pagg.169. € 12,00. Collana i Comandamenti, vuole essere anche un esperimento.
E l’esperimento, quello cioè di parlare in maniera aggiornata del settimo comandamento sembra ben riuscito.
A Paolo Prodi tocca l’intero arco dell’elaborazione cristiana sul furto. Centrali, al riguardo, le pagine sul Medioevo.
Ora il punto di sintesi della riflessione cristiana sull’argomento è rappresentato dal Nuovo Catechismo della Chiesa Cattolica. Qui quando si espone, nel Decalogo, il settimo comandamento si ripropone l’insegnamento tradizionale ma in un quadro di una nuova sensibilità che tiene conto della società globale e dell’attenzione all’ambiente (si veda i numeri 2042 – 2417 del Catechismo).
A Guido Rossi, invece, tocca l’analisi della contemporaneità.
A questo proposito le parole di Guido Rossi sono emblematiche: “Il settimo comandamento, Non rubare, è quello destinato a superare per importanza tutti gli altri non solo nel mondo contemporaneo, ma forse anche nel futuro più o meno immediato (…) è diventato quasi connaturato e intrinseco – nelle sue palesi od occulte attuazioni – alle principali attività e comportamenti delle società moderne. Da qui la sua attuale centralità”.
Proprio con la dirompente “quarta rivoluzione”, quella finanziaria (che è avvenuta in questi ultimi vent’anni)si è così infiltrato in attività e istituzioni insospettate, tanto da snaturarne la natura. “Infatti si era comunemente ritenuto che lo si potesse far coincidere con la tendenza ad impadronirsi dei beni altrui per mezzo del mercato ‘infrangendo e deformando’ le sue regole, mentre ora sono le stesse regole che tendono a legittimarlo”. Così si amplia la definizione di furto che non tocca più che non tocca più la dimensione individuale dell’appropriazione bene altrui, bensì “quella relativa alla violazione e sottrazione di beni, interessi o diritti collettivi e delle comunità anche nazionali e persino internazionali”.
Nella quarta rivoluzione tutto viene mutato dalla sua particolarità finanziaria: così oggi il “maggiore strumento di creazione di ricchezza è diventato il debito”. Così le ricchezze si sono si autoalimentate in un vortice impressionante, da apparire dettato, scrive l’ autore, da una pulsione di morte. Questo ha fatto si, come afferma l’autore, che si sia sviluppata “l’illusione che i debiti si possano non pagare e (questo) ha cambiato il concetto e le dimensioni del furto e il senso profondo del settimo comandamento”.
La stessa volatilità tocca le società per azioni. Altri furti del moderno capitalismo finanziario si compiono attraverso la speculazione finanziaria e il denaro illecito (corruzione, furto, crimine organizzato, manipolazione finanziarie). In questa opacità si compie il furto. “Nel capitalismo finanziario il ricco sottrae ricchezze comuni al povero”.
Non esiste nemmeno più nemmeno più la “Lex Mercatoria” per cui si può affermare che “il capitalismo ha distrutto il mercato seppellendolo nell’opacità di un ‘contromercato’”.
Così “l’aver posto il denaro a sostituire ogni altro valore, persino quello estetico nel giudizio sull’arte contemporanea, ha fatto sparire ogni criterio e, per il crimine economico, anche la sanzione reputazionale. Il denaro, comunque acquisito, è così il nuovo generale criterio di valutazione della civiltà finanziaria”.
La conclusione che il giurista trae è molto amara: quello che “oggi possiamo trarre è che con l’abbondare dei ‘codici etici’ a giustificare denaro e mercati, con le loro molteplici degenerazioni, eccessive anche rispetto all’oggetto ormai espanso e globalizzato del settimo comandamento, ha nell’insostenibile pluralismo della morale toccato l’ultima deriva in un inquietante ossimoro: l’etica del furto”.