Nel PD, in questi giorni, si discute molto di “Primarie”. Matteo Renzi, sindaco di Firenze, è già in pista da qualche giorno. Con il suo “camper” gira la penisola incontrando amministratori e simpatizzanti. Oltre al Segretario Bersani sono in campo altri esponenti del PD (Laura Puppato e Beppe Civati). Da segnalare la presenza in queste primarie di Bruno Tabacci e, quasi sicuramente (vuole garanzie che non siano un congresso “mascherato”), di Nichi Vendola. Altri, forse, se ne aggiungeranno (Rosi Bindi?). Insomma primarie affollate. Comunque saranno un’occasione di far conoscere la proposta di governo del centro-sinistra. E per il PD anche un modo per far emergere la sua anima riformatrice. Per parlare di questo abbiamo intervistato il Senatore Giorgio Tonini, esponente dell’area liberal del PD, autore- con il collega Enrico Morando – del libro, uscito in questi giorni edito da Marsilio, “L’Italia dei democratici”.
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Una “Road Map” sul lavoro. Intervista al Senatore Tiziano Treu
La settimana politica e sociale, nel nostro Paese, è stata segnata, tra l’altro, dal dibattito sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori . Scatenato dalle dichiarazioni del Ministro Fornero (poi specificate meglio). Su questo, ed altri temi collegati al lavoro, abbiamo intervistato il Senatore del PD Tiziano Treu, ex-Ministro del Lavoro nel primo governo Prodi.
Sull’articolo 18 c’è un dato interessante che il quotidiano “Repubblica”, in questi giorni, ha pubblicato (Si tratta di un sondaggio Unioncamere-Excelsior). Ovvero che il problema più grave per le imprese italiane non è l’articolo 18, di flessibilità in uscita, ma è la mancanza di prospettive a breve termine…
Non c’è dubbio, perché il nostro primo problema è quello di riprendere a crescere poiché se non c’è una economia che riprenda a funzionare non ci sarà lavoro né per quelli attualmente attivi né soprattutto per i giovani, quindi, non è che l’articolo 18 aiuta, in generale, l’articolo 18 può essere visto in un contesto che permetta, da una parte, la crescita, e dall’altra che dia alle persone in caso di crisi e di difficoltà un sistema di ammortizzatori e di sicurezze e che quindi assicurino; questi sono i due problemi principali non certo la riforma dell’articolo 18.
La riforma del mercato del lavoro italiano è un tema troppo importante per il futuro del nostro Paese. Quale potrebbe essere una possibile “road map” di riforme?
Adesso vedremo quando il governo aprirà un tavolo, come ha promesso e come è scritto anche nella Manovra, con le parti sociali perché questa è una materia che va affrontata in questo modo. Credo che ci sia, innanzitutto, da considerare come affrontare le migliaia di persone che sono in difficoltà, molti sono addirittura senza lavoro, senza pensione perché c’è stato questo spostamento dell’età pensionabile: quindi il primo tema è quello di avere un ammortizzatore soprattutto per i giovani precari e per le persone anziane poiché questo mercato del lavoro che tutti gli altri paesi europei hanno e che da noi non è ancora sistemato, potrà permettere anche una maggiore mobilità che è altrettanto essenziale, poi dopo occorreranno delle misure specifiche per superare, soprattutto, quelle che sono le maggiori difficoltà come altri paesi hanno fatto; i giovani che sono usciti dalla scuola prematuramente e che sono quelli che avranno più problemi ad entrare nel mercato del lavoro che richiede più conoscenze del passsato. Questi sono, sicuramente, i temi che andranno affrontati per primi, poi dopo occorrerà, per tutte le professioni, rendere più facile l’accesso ai giovani e aumentare il contenuto di competenze.
Il premier Monti vorrebbe imitare in Italia il modello scandinavo. E’ possibile questo?
Il modello scandinavo non può certamente essere importato tale e quale perché è molto particolare però l’idea comune a tutto il modello sociale europeo, non solo ai paesi scandinavi anche alla Germania, la Francia è proprio questa che ci vuole l’economia più innovativa da una parte, quindi, come dicevo, imprese più innovative e lavoratori con maggiori competenze, dall’altra parte una maggiore mobilità che però si può fare solo se c’è la sicurezza data da servizi sul mercato del lavoro,da ammortizzatori sociali, quindi questa idea della flexsecurity, questa è la base del modello sociale europeo. Nei paesi scandinavi ha un livello di tutele che sono particolarmente alte ma in realtà la base è comune è questa flessibilità ma nella sicurezza.
Ultima domanda: Sulla riforma del mercato del lavoro un ruolo importante lo giocherà il PD. Troverà una sintesi tra le diverse posizioni?
Credo di si, ci stiamo lavorando, poi su molte cose si è già d’accordo, sulla necessità degli ammortizzatori universali, sulla necessità di semplificare i tipi di lavoro, i contratti che sono necessari, sono solo pochi e invece ci occorre renderli fruibili a tutti con costi uguali per evitare che si adoperino contratti precari perché costano meno. Su questi punti siamo largamente d’accordo;ci potrà essere poi qualche differenza nel momento in cui si arriverà a discutere su come gestire le crisi, sul problema dei licenziamenti ma io credo che arriveremo a un punto.
Le Macerie del berlusconismo. Intervista a Michele Salvati
L’Italia vive giorni pesanti. Si sta consumando una lunga fase storica: quella segnata dal berlusconismo. Il fatto politicamente importante nella giornata di ieri è stata la nomina, da parte del Presidente della Repubblica, del Professor Mario Monti a Senatore a vita. Questa nomina, tra l’altro, porterà, quasi sicuramente, ad un incarico per formare un governo d’emergenza. Per parlare di questo periodo decisivo per il destino del nostro Paese abbiamo intervistato il professor Michele Salvati, economista e Direttore della rivista ”il Mulino ed editorialista del “Corriere della Sera”. E’ autore di numerose pubblicazioni, l’ultima suo libro è uscito da poco per i tipi del Mulino: “Tre pezzi facili sull’Italia. Democrazia, crisi economica, Berlusconi”. Un’analisi chiara di alcune costanti dell’anomalia italiana, di cui la più interessante e significativa è quella di una difficile democrazia dell’alternanza.
Professor Salvati il Paese sta vivendo ore pesanti: lo spread ha toccato ormai un livello pericolosissimo. La fase conclusiva del berlusconismo (Berlusconi si dimetterà dopo l’approvazione della “legge di stabilità”) ci lascia un cumulo di macerie sul fronte economico e sociale. Lui che si è auto proclamato “uomo del fare” ha portato l’Italia ad un punto limite. Nel suo libro, “Tre pezzi facili per l’Italia” appena uscito per il Mulino, analizza la parabola berlusconiana. Le chiedo: qual è la radice della crisi del berlusconismo?
La radice sta nella sua incapacità di tenere fede al programma che con tanta baldanza aveva annunciato quando è “disceso” in politica, cioè un programma liberale, un programma che riflettesse sui bisogni di “riforme strutturali” del nostro Paese. Come si sa Berlusconi ebbe un primo breve termine, come Presidente del Consiglio, nel ’94 e presentò una riforma importante delle pensioni fatta da un eccellente economista, Onorato Castellino. Le reazioni a questa riforma liberale e profondamente giusta furono tali da parte della Lega (molto simili a quelle di adesso che non vuole toccare le pensioni d’anzianità) che il governo Berlusconi cadde, la Lega si staccò e ci fu una serie di governi che conosciamo: il governo Dini, le elezioni e il governo Prodi. In realtà i governi degli anni ’90 avevano cominciato ad affrontare i problemi di fondo del nostro Paese. Quando Berlusconi tornò al potere nel corso degli anni 2000 (2001-2006; 2008 ad oggi) di queste riforme profonde non si parlò più, perché il problema della popolarità, il desiderio di rincorrere la popolarità e quindi di evitare l’impopolarità che riforme così profonde creano, fecero si che Berlusconi non fece più nulla e anzi dicesse che tutto andava bene quando in realtà tutto andava male. Doveva continuare le riforme che avevano iniziato i governi tra il ’92 e il ’98 se devo dare una risposta da economista. Lascio del tutto da parte i problemi di inadeguatezza di Berlusconi sotto altri profili: politico, morale ecc, considero soltanto il profilo economico dove le riforme non le ha fatte, dando un’idea del tutto entusiastica ed erronea della situazione economica italiana.
La “II Repubblica” che doveva segnare il passaggio ad una democrazia “normale”, fatta di alternanza tra le coalizioni, in realtà, come scrive nel libro, si è configurata e polarizzata come uno scontro tra “berlusconiani” e “antiberlusconiani” (che richiama la vecchia divisione tra “comunisti” e “anticomunisti”). E’ sufficiente, secondo lei, l’uscita di Berlusconi per normalizzare la situazione? Oppure, in verità, anche l’attuale centrosinistra deve essere più convincente?
Che l’attuale centrosinistra debba essere più convincente è una domanda apprezzabile che mi sento anch’io di fare. Piuttosto la domanda che dobbiamo farci è la seguente: a parte il fenomeno Berlusconi possiamo considerare che i toni aspri e di scontro che ci sono stati tra Berlusconi e il centrosinistra, durante la II Repubblica, questo tipo di conseguenze che non hanno fatto bene al Paese siano eliminabili con l’eliminazione di Berlusconi? Detto in altre parole: è possibile avere un bipolarismo meno gridato e urlato, e più efficiente di quello che noi abbiamo avuto se al posto di Berlusconi si forma un centrodestra più, diciamo, “normale”? Questa è la domanda, perché molti, innanzitutto Casini che diventerà un “pivot” delle scelte politiche dei prossimi giorni, come vedremo, non la pensano così. Pensano che il nostro Paese sia inadatto a uno scontro frontale fra un centrodestra e un centrosinistra, cioè che anche senza Berlusconi ci saranno delle tensioni fortissime. Questo è un giudizio sul qual bisogna prendere posizione, perché da come si risponde a questa domanda dipende molto l’evoluzione del nostro sistema politico nei prossimi anni.
Ultima domanda: Gli osservatori stranieri imputano la crisi,tra l’altro, alla scarsa credibilità all’attuale governo italiano. Le chiedo lei è ottimista sulla possibilità di un “governo del Presidente”?
Ho l’impressione che due sono le possibili soluzioni. Una più probabile oggi che è quella di un brevissimo governo elettorale, affidato ad una personalità autorevole e riconosciuta o del centrodestra o del centrosinistra, per esempio Giuliano Amato, che prepari semplicemente il Paese alle elezioni e tenga sotto controllo la crisi economica. Deve essere una persona stimata anche a livello internazionale, affidabile per i mercati, con il compito fondamentale di far passare le riforme che i mercati ritengono essenziali e che, sia il Fondo Monetario sia l’UE ci stanno prescrivendo in dettaglio. Poi si va alle elezioni con questa legge elettorale con la possibilità che si formino di nuovo due blocchi, uno di centrodestra uno di centrosinistra, forse con un personaggio intermedio come Casini, che però non trova una facile collocazione né da una parte né dall’altra. Direi che se così avviene, la crisi continua.
L’altra possibilità è più azzardata perché non si trova nel Parlamento una quantità di voti che ne garantisca la solidità. Questo è un governo più ambizioso, un governo Monti, che non starebbe per un breve governo elettorale , ma per fare delle riforme più pesanti e avviare il nostro Paese al risanamento sia economico, sia politico-amminstrativo. A questo punto è fondamentale una nuova legge elettorale, che è molto discussa e controversa sia nel centrodestra che nel centrosinistra.
Queste sono le due possibilità che io vedo, ma certo non escludo che ce ne possano essere altre, come in extremis un rinvio di Berlusconi alle Camere. Io ho una fortissima preferenza per un governo Monti, cioè per un governo che abbia il tempo e lo spazio, non solo di stare e obbedire ai diktat del FMI o dell’ UE, anche se sono diktat ragionevoli date le nostre circostanze, ma anche di interloquire e di negoziare e che abbia lo stile internazionale sufficiente a condurre queste negoziazioni.
Ragionando sul PD. Intervista al senatore Giorgio Tonini
Giorgio Tonini è nato a Roma nel 1959. E’ giornalista professionista. E’ stato, negli anni dell’Università, Presidente Nazionale della Fuci (la Federazione universitaria cattolica italiana). Nella Cisl è stato stretto collaboratore di Pierre Carniti e Mario Colombo. E’ Senatore dal 2001. Nel Pd, durante la segreteria di Walter Veltroni, è stato responsabile dell’Ufficio Economico. Attualmente è uno dei leader dell’area veltroniana. Come si vede è un protagonista del cattolicesimo democratico italiano.
Al di là della contingenza politica siamo davvero alla fine del berlusconismo? Non le pare che la predicazione berlusconiana, unita a quella leghista, sia entrata in profondità, grazie alla potenza mediatica, nella società italiana?
Non c’è dubbio, anche avvalendosi della potenza mediatica di cui dispone, il berlusconismo è stato ed è tuttora una narrazione nella quale si riconosce una larga parte della società italiana. In un certo senso, è anch’esso un’autobiografia della nazione. La novità di questi mesi è che il berlusconismo, proprio per la sua natura populistica, si sta dimostrando incapace di realizzare quelle riforme che sono di vitale importanza per il paese. Se ne stanno rendendo conto strati crescenti non solo della classe dirigente, ma della società italiana nel suo insieme. La stessa rottura con Fini nasce da lì.
Senatore Tonini, il Partito Democratico, ormai, ha più di due anni di vita. E’ un partito “giovane”, però figlio di antiche tradizioni politiche italiane, eppure sfugge ancora la sua identità. Insomma qual’ è la “grande narrazione” che propone il PD?
Il PD ha davanti a sé la stessa sfida con la quale devono confrontarsi tulle le forze politiche democratiche, riformiste, progressiste dell’Occidente: dopo trent’anni di egemonia del pensiero neo-conservatore, che ha teorizzato che solo la disuguaglianza è dinamica, è fattore di sviluppo e di progresso, dobbiamo riuscire a dimostrare che è vero esattamente il contrario, che solo politiche di inclusione e di coesione, solo riforme finalizzate alla riduzione della disuguaglianza, possono rimettere in moto la crescita, far uscire le economie occidentali dalla crisi. Ciò sarà possibile se sapremo liberarci dalla sindrome dell’assedio, per la quale compito della sinistra è difendere dalla destra le conquiste degli anni Sessanta e Settanta, e sapremo riconquistare alle nostre ragioni, ai nostri principi e valori, la parola cambiamento. Come recitava uno slogan cislino di trent’anni fa, anche oggi si tratta di “capire il nuovo per guidare il cambiamento”. C’è poco da difendere nell’Italia di oggi, c’è tanto da cambiare.
Nel documento dei 75 (quello della minoranza veltroniana doc) c’è un passaggio interessante riguardo una possibile strategia riformista: “l’alleanza da promuovere è tra chi ha bisogno del cambiamento, ma da solo non può realizzarlo (…) e chi vuole il cambiamento, perché sa progettarlo, ha interesse a promuoverlo, ha le relazioni necessarie per realizzarlo, ha la forza necessaria per piegare le tante resistenze corporative che vi si oppongono”. Mi sembra questo uno snodo fondamentale, oserei dire una delle ragioni d’essere del PD. In concreto come realizzare questo?
Con politiche economiche e sociali che rovescino l’attuale sistema degli incentivi, che premia la rendita di posizione e quindi fotografa le disuguaglianze, con un sistema nuovo che premi il talento, l’impegno, i risultati, in modo da favorire equità e mobilità sociale. Questo rovesciamento va applicato innanzi tutto al sistema pubblico, che oggi gestisce più della metà del prodotto nazionale, ma con risultati assai deludenti sia intermini di efficienza e produttività, sia in termini di riduzione delle disuguaglianze. L’Italia ha bisogno che quella metà della sua ricchezza diventi un volano e non un freno allo sviluppo e, come avviene in tutti i paesi europei tranne il nostro, un fattore di superamento degli ostacoli economici e sociali alla piena cittadinanza, di cui parla l’articolo 3 della Costituzione.
Cercando di scavare in profondità: la politica del Novecento aveva le sue parole chiave (Democrazia, classe, libertà, ecc.) e le forze politiche cercavano di declinare, a loro modo, queste parole. Quali dovrebbero essere, secondo il PD, le nuove parole chiave?
Democrazia e libertà sono parole eterne, come uguaglianza e fraternità. Queste stelle fisse si devono esprimere oggi in politiche di innovazione: dobbiamo sostenere, premiare, incentivare l’innovazione. Resteremo competitivi, non diventeremo una colonia delle potenze emergenti, solo se sapremo innovare: le nostre conoscenze, le nostre produzioni, l’organizzazione stessa della nostra convivenza civile. E’ una sfida drammatica, una sfida per la sopravvivenza e per la libertà, tanto più impervia se si tiene conto che stiamo rapidamente diventando una società vecchia.
Non le sembra grave la divisione nel movimento sindacale italiano? Non sarebbe ora, pur rispettando l’autonomia del sindacato, di lavorare per l’unità sindacale?
Ogni volta che il sindacato si divide, il PD soffre, entra in fibrillazione. Perché le diverse storie e culture sindacali ci attraversano, il pluralismo sindacale si specchia nel nostro pluralismo, culturale e sociale. Ma anche e soprattutto perché le divisioni sindacali rendono più difficile il cambiamento sociale. C’è quindi un grande bisogno di una nuova stagione di unità sindacale e il PD deve impegnarsi a fondo per favorirla e promuoverla. Naturalmente, non si tratta di dar vita ad una unità qualunque. L’unità possibile e necessaria, a mio modo di vedere, è quella che si realizza sulla base di tre principi fermi: l’autonomia dalla politica di schieramento, di governo come di opposizione; il riformismo, ovvero la cultura del cambiamento e dell’innovazione, contro il massimalismo conservatore; la partecipazione dei lavoratori alle scelte del sindacato e del sindacato nell’impresa.
Un argomento polemico, che spesso si sente ripetere, è quello del disagio dei cattolici dentro il suo partito. E’ reale questo?
Di solito se ne parla a sproposito, come di un rischio di scissione. In realtà, il pericolo che più corre il PD è quello dello scisma sommerso e silenzioso di una parte importante dell’elettorato, quella decisiva per vincere, la parte che non potrebbe riconoscersi in un PD che si rassegnasse a diventare l’ennesima metamorfosi della storia della sinistra tradizionale: mi riferisco agli elettori delle regioni diverse da quelle che un tempo si definivano “rosse”, ai ceti produttivi, ai giovani e certo anche ai cattolici. Un PD che rinunciasse a rendersi abitabile e attraente per queste fasce di frontiera dell’elettorato non solo non sarebbe più il PD, ma regalerebbe al berlusconismo in crisi un immeritato supplemento di sopravvivenza.