Ragionando sul PD. Intervista al senatore Giorgio Tonini

 

Giorgio Tonini è nato a Roma nel 1959. E’ giornalista professionista. E’ stato, negli anni dell’Università, Presidente Nazionale della Fuci (la Federazione universitaria cattolica italiana). Nella Cisl è stato stretto collaboratore di Pierre Carniti e Mario Colombo. E’ Senatore dal 2001. Nel Pd, durante la segreteria di Walter Veltroni, è stato responsabile dell’Ufficio Economico. Attualmente è uno dei leader dell’area veltroniana.  Come si vede è un protagonista del cattolicesimo democratico italiano.

 

 

 

Al di là della contingenza politica siamo davvero alla fine del berlusconismo? Non le pare che la predicazione berlusconiana, unita a quella leghista, sia entrata in profondità, grazie alla potenza mediatica, nella società italiana?
Non c’è dubbio, anche avvalendosi della potenza mediatica di cui dispone, il berlusconismo è stato ed è tuttora una narrazione nella quale si riconosce una larga parte della società italiana. In un certo senso, è anch’esso un’autobiografia della nazione. La novità di questi mesi è che il berlusconismo, proprio per la sua natura populistica, si sta dimostrando incapace di realizzare quelle riforme che sono di vitale importanza per il paese. Se ne stanno rendendo conto strati crescenti non solo della classe dirigente, ma della società italiana nel suo insieme. La stessa rottura con Fini nasce da lì.
Senatore Tonini, il Partito Democratico, ormai, ha più di  due anni di vita. E’ un partito “giovane”, però figlio di antiche tradizioni politiche italiane, eppure sfugge ancora la sua identità. Insomma qual’ è la “grande narrazione”  che propone il PD?
Il PD ha davanti a sé la stessa sfida con la quale devono confrontarsi tulle le forze politiche democratiche, riformiste, progressiste dell’Occidente: dopo trent’anni di egemonia del pensiero neo-conservatore, che ha teorizzato che solo la disuguaglianza è dinamica, è fattore di sviluppo e di progresso, dobbiamo riuscire a dimostrare che è vero esattamente il contrario, che solo politiche di inclusione e di coesione, solo riforme finalizzate alla riduzione della disuguaglianza, possono rimettere in moto la crescita, far uscire le economie occidentali dalla crisi. Ciò sarà possibile se sapremo liberarci dalla sindrome dell’assedio, per la quale compito della sinistra è difendere dalla destra le conquiste degli anni Sessanta e Settanta, e sapremo riconquistare alle nostre ragioni, ai nostri principi e valori, la parola cambiamento. Come recitava uno slogan cislino di trent’anni fa, anche oggi si tratta di “capire il nuovo per guidare il cambiamento”. C’è poco da difendere nell’Italia di oggi, c’è tanto da cambiare.
Nel documento dei 75 (quello della minoranza veltroniana doc) c’è un passaggio interessante riguardo una possibile strategia riformista: “l’alleanza da promuovere è tra chi ha bisogno del cambiamento, ma da solo non può realizzarlo (…)  e chi vuole il cambiamento, perché sa progettarlo, ha interesse a promuoverlo, ha le relazioni necessarie per realizzarlo, ha la forza necessaria per piegare le tante resistenze corporative che vi si oppongono”. Mi sembra questo uno snodo fondamentale, oserei dire una delle ragioni d’essere del PD. In concreto come realizzare questo?
Con politiche economiche e sociali che rovescino l’attuale sistema degli incentivi, che premia la rendita di posizione e quindi fotografa le disuguaglianze, con un sistema nuovo che premi il talento, l’impegno, i risultati, in modo da favorire equità e mobilità sociale. Questo rovesciamento va applicato innanzi tutto al sistema pubblico, che oggi gestisce più della metà del prodotto nazionale, ma con risultati assai deludenti sia intermini di efficienza e produttività, sia in termini di riduzione delle disuguaglianze. L’Italia ha bisogno che quella metà della sua ricchezza diventi un volano e non un freno allo sviluppo e, come avviene in tutti i paesi europei tranne il nostro, un fattore di superamento degli ostacoli economici e sociali alla piena cittadinanza, di cui parla l’articolo 3 della Costituzione.
Cercando di scavare in profondità: la politica del Novecento aveva le sue parole chiave (Democrazia, classe, libertà, ecc.) e le forze politiche cercavano di declinare, a loro modo, queste parole. Quali dovrebbero essere, secondo il PD, le nuove parole chiave?
Democrazia e libertà sono parole eterne, come uguaglianza e fraternità. Queste stelle fisse si devono esprimere oggi in politiche di innovazione: dobbiamo sostenere, premiare, incentivare l’innovazione. Resteremo competitivi, non diventeremo una colonia delle potenze emergenti, solo se sapremo innovare: le nostre conoscenze, le nostre produzioni, l’organizzazione stessa della nostra convivenza civile.  E’ una sfida drammatica, una sfida per la sopravvivenza e per la libertà, tanto più impervia se si tiene conto che stiamo rapidamente diventando una società vecchia.
Non le sembra grave la divisione nel movimento sindacale italiano? Non sarebbe ora, pur rispettando l’autonomia del sindacato, di lavorare per l’unità sindacale?
Ogni volta che il sindacato si divide, il PD soffre, entra in fibrillazione. Perché le diverse storie e culture sindacali ci attraversano, il pluralismo sindacale si specchia nel nostro pluralismo, culturale e sociale. Ma anche e soprattutto perché le divisioni sindacali rendono più difficile il cambiamento sociale. C’è quindi un grande bisogno di una nuova stagione di unità sindacale e il PD deve impegnarsi a fondo per favorirla e promuoverla. Naturalmente, non si tratta di dar vita ad una unità qualunque. L’unità possibile e necessaria, a mio modo di vedere, è quella che si realizza sulla base di tre principi fermi: l’autonomia dalla politica di schieramento, di governo come di opposizione; il riformismo, ovvero la cultura del cambiamento e dell’innovazione, contro il massimalismo conservatore; la partecipazione dei lavoratori alle scelte del sindacato e del sindacato nell’impresa.
Un argomento polemico, che spesso si sente ripetere, è quello del disagio dei cattolici dentro il suo partito. E’ reale questo?
Di solito se ne parla a sproposito, come di un rischio di scissione. In realtà, il pericolo che più corre il PD è quello dello scisma sommerso e silenzioso di una parte importante dell’elettorato, quella decisiva per vincere, la parte che non potrebbe riconoscersi in un PD che si rassegnasse a diventare l’ennesima metamorfosi della storia della sinistra tradizionale: mi riferisco agli elettori delle regioni diverse da quelle che un tempo si definivano “rosse”, ai ceti produttivi, ai giovani e certo anche ai cattolici. Un PD che rinunciasse a rendersi abitabile e attraente per queste fasce di frontiera dell’elettorato non solo non sarebbe più il PD, ma regalerebbe al berlusconismo in crisi un immeritato supplemento di sopravvivenza.

La via esigente dell’economia giusta

L’ultimo libro, scritto durante la sua malattia che l’avrebbe ucciso nell’aprile di quest’anno, di Edmondo Berselli. Il titolo è impegnativo, “L’economia giusta” (uscito per i tipi dell’Einaudi), e vuole essere un atto d’accusa lucido, essenziale all’imbroglio, così lo definisce l’autore, liberista.

Questo saggio, scrive il politologo Ilvo Diamanti, “non va considerato una “eredità”. Un lascito postumo. Ma un contributo “vivo” e attuale al dibattito sul nostro futuro”.
Continua a leggere

Pensiero sociale cristiano e crisi economica

La grande crisi economica degli ultimi tre anni ha rimesso in moto, come scrive Michele Nicoletti nell’introduzione a questo bellissimo e denso libretto, il pensiero. “Ha costretto il pensiero a uscire dal ‘sonno dogmatico’ cui si era accomodato e a riprendere il suo cammino inquieto  di ricerca di comprensione del reale, di interpretazione della storia, di individuazione di mete, di orientamenti dell’azione”.
Il “sonno dogmatico” è, ovviamente, il mercatismo. Cui le rovinose conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. L’ideologia mercatista aveva ubriacato le società occidentali propagandando l’autonomia del mercato rispetto agli altri “enti”.
Prezioso, quindi, questo volume dal titolo “Chiesa e capitalismo”, uscito per i tipi della Morcelliana di Brescia.
Autori sono due personaggi di spicco della cultura cattolica europea, entrambi di formazione giuridica : Ernst-Wolfang Bockenforde e Giovanni Bazoli. Il primo è un grande giurista tedesco, che è stato giudice costituzionale in Germania, il secondo è un importante protagonista della vita pubblica italiana e sicuramente l’uomo che ha giocato un ruolo determinante nel rinnovamento bancario del nostro Paese (infatti è Presidente del Comitato di Sorveglianza di Banca Intesa).
Da prospettive diverse l’analisi si fa “radicale”, in quanto si va alla radice della logica del sistema capitalistico. Per entrambi, infatti, rimane centrale la questione antropologica. Ed è dalla comune antropologia, che fa perno sulla Dottrina Sociale della Chiesa, che partono le critiche al “turbocapitalismo”.
Per Bockenforde l’economia capitalista è animata dall’individualismo proprietario, ovvero da quella visione del singolo come un essere guidato, esclusivamente, dal proprio interesse attraverso lo strumento della razionalità strumentale. Per questo, afferma Bockenforde, “la malattia non si può debellare con rimedi palliativi, ma solo attraverso il rovesciamento del suo punto di partenza”.
Ebbene per il pensatore tedesco deve tornare al centro della riflessione dei beni il principio di solidarietà e quello della destinazione universale  che necessitano di una nuova “statualità”, che per essere efficace non può essere nazionale ma deve essere di livello europeo. Per cui Bockenforde attribuisce all’Europa il compito e la responsabilità di trovare un nuovo equilibrio etico nello sviluppo economico.
L’analisi di Bazoli si concentra sulla globalizzazione. Bazoli riconosce alla globalizzazione alcuni meriti certamente positivi ma non si può tacere sulle enormi disuguaglianze sociali e ed economiche presenti nell’umanità contemporanea. E allora per il giurista italiano la revisione profonda del modello di sviluppo del capitalismo moderno passa attraverso il recupero di quell’umanesimo integrale, che nel recupero di tutto l’umano sappia raccogliere tutti gli esseri umani attraverso una nuova sintesi di diritti e doveri di solidarietà.
Proprio come scrive Nicoletti, a conclusione della sua introduzione : “A ben vedere, forse oggi è in discussione non solo un modo di produrre e di distribuire, ma le stesse forme delle obbligazioni reciproche tra gli esseri umani e le stesse forme del possedere e disporre le cose. E non è un caso che questi giuristi provengano dalla tradizione tedesca ed italiana, tradizioni in cui più forte è il senso  di una costituzione materiale e formale centrata sulla giustizia e sulla solidarietà, in cui più forte è l’idea e l’aspirazione ad un governo umano dell’economia”.

Il folklore della politica

C’è un sostantivo che si sta usando, in questi giorni tragicomici, nel linguaggio della politica in maniera abusiva e “ideologica” (nel senso che viene utilizzata come “falsa coscienza del reale” ovvero , detto in altri termini,  per nascondere  e giustificare la realtà): la parola è folklore.
Come si sa folklore richiama, cito da Wikipedia, le “tradizioni arcaiche provenienti dal popolo, tramandate oralmente e riguardanti usi, costumi, leggende e proverbi, musica al canto alla danza, riferiti ad una determinata area geografica o ad una determinata popolazione”. Folklore sono le sagre popolari di diverso tipo. Insomma una parola “innocente” (anche se per il grande filosofo napoletano Giambattista Vico il termine richiama i “rottami del passato”) ed anche, per certi versi, interessante (esistono corsi universitari ). E fin qui, ci mancherebbe, niente di male.
Vi sono stati alcuni episodi nei quali la parola è stata usata in maniera fuorviante: incomincia il Premier, Silvio Berlusconi, quando, a proposito della visita di Gheddafi,  ha definito il comportamento umiliante del Rais libico nei confronti delle ragazze, “invitate” alle sue “lezioni” sull’Islam, e dell’Italia come “folklore”. In realtà quel tipo di comportamento era una arrogante  pagliacciata di un dittatore venuto per fare affari. Così tanto attento all’amicizia con l’Italia che pochi  giorni dopo un peschereccio di Mazara del Vallo,  Ariete, veniva mitragliato da una motovedetta libica, donata dall’Italia alla Libia per respingere i disperati profughi provenienti dall’Africa. Il ministro leghista Maroni ha commentato così: “Io immagino che abbiano scambiato il peschereccio per una nave con clandestini, ma con l’inchiesta verificheremo ciò che è accaduto” . Però che “folklore” ministro!
Altra scena, qui i leghisti sono i protagonisti indiscussi, altro giro. Questa volta ci troviamo in Lombardia ad Adro, in provincia di Brescia. Qui il sindaco leghista, Oscar Lancini, ha inaugurato il nuovo Polo scolastico costruito ed arredato con il simbolo del “sole delle Alpi” (icona della Lega Nord). Il sindaco ha giustificato, questa scelta grave, affermando che quel simbolo fa parte dell’iconografia del Comune. Una autentica balla! Il simbolo del comune è un altro.
A conferma, poi, della scelta ideologica dedica il polo scolastico a Gianfranco Miglio (ideologo della Lega). Il Ministro Gelmini dapprima si congratula (un «progetto encomiabile che crea benessere ed entusiasmo», un vero e proprio “modello di riferimento”) poi , a cose fatte, smentisce («Francamente il sindaco di Adro ci ha abituato ad un certo folklore, ad un certo estremismo, che ovviamente io come ministro dell’Istruzione non condivido»).
Ancora una volta ecco la parola “magica” che mette a posto le cose: “folklore”. Questo non è “folklore” è ideologia! E’ folklore il “battesimo” con l’acqua del Po officiato da Bossi durante un raduno leghista? No, non è folklore è idolatria (come la mettiamo con la difesa del Crocefisso nelle aule? Le due cose sono antitetiche). E’ l’estremismo localistico che si esprime con queste manifestazioni inventandosi tradizioni che non sono mai esistite a scapito così della tradizione nazionale.
Allora c’è da essere preoccupati per il potenziale dirompente che questa “ideologia” porta con sé. Se questa è la base del “federalismo”….

A cosa serve il sindacato nell’era della globalizzazione

Pietro Ichino è professore ordinario di Diritto del Lavoro all’Università di Milano. Attualmente è senatore del Partito Democratico. E’ tra i massimi studiosi italiani del Diritto del Lavoro. La sua impostazione riformista lo rende aperto alle sfide della globalizzazione.

Professor Ichino, quali conseguenze produrrà la decisione di Federmeccanica di recedere dal contratto nazionale quadriennale del 2008?Sul piano pratico, questo atto di Federmeccanica non produce alcun effetto immediato: al di là delle disquisizioni giuridiche, i rapporti di lavoro nel settore metalmeccanico restano comunque regolati dal contratto triennale stipulato nel 2009, anche se su questo manca la firma della Cgil. È evidente, però, che questo atto di Federmeccanica segna ufficialmente l’apertura della crisi del nostro sistema di relazioni industriali centrato su di un contratto nazionale rigidamente inderogabile.
In questo modo non si rischia una “balcanizzazione”, come dice la Cgil, delle relazioni industriali?
Parlerei piuttosto di differenziazione delle discipline applicabili: questo sì. Ma, quando gli standard fissati dalle direttive europee e dalla legge nazionale siano rispettati, la possibilità di una maggiore differenziazione, contrattata da chi rappresenti la maggioranza dei lavoratori interessati, costituisce un fatto positivo.
Perché?
Perché solo in questo modo ci si apre all’innovazione nell’organizzazione del lavoro, nella struttura della retribuzione, nella distribuzione dei tempi di lavoro. Certo, non tutte le innovazioni sono buone. Ma non possiamo precluderci le innovazioni buone per paura di quelle cattive. E a giudicare può essere soltanto, caso per caso, la coalizione sindacale più rappresentativa.
Vede un nuovo “autunno caldo” alle porte?
Non mi preoccupa tanto un aumento della conflittualità sindacale, quanto l’inerzia del Governo.
Nonostante i proclami della politica “del fare”, oggi è il tempo della “politica debole”. Altri attori, esempio Marchionne, si “fanno”, a volte in modo spregiudicato, e si “danno” le risposte alla globalizzazione. La politica invece sembra assente.
Spesso la politica si occupa di quello di cui non dovrebbe, invadendo il campo di competenza esclusiva delle relazioni sindacali. E non fa invece quello che deve, nei campi di competenza propria.
Quali campi?
Innanzitutto quello fiscale: è urgente dare sostegno alla parte più debole dei lavoratori, quelli che guadagnano mille euro al mese e che soffrono sempre di più la concorrenza dei lavoratori dei Paesi in via di sviluppo: occorre ridurre drasticamente l’Irpef sulle loro buste paga. Che su quei mille euro lo Stato se ne prenda 110 di imposta, come accade oggi, è davvero scandaloso.
La politica non deve occuparsi delle relazioni industriali?
Oggi mi sembra che debba occuparsi anche di queste: se il sistema delle relazioni industriali non è in grado di darsi da solo le regole indispensabili, deve essere il legislatore a farlo, sia pure soltanto in via sussidiaria e provvisoria. Su questo terreno, invece, il Governo è totalmente assente.
Quale dovrebbe essere secondo lei il nuovo assetto della contrattazione collettiva?
Il disegno di legge n. 1872, che ho presentato nel novembre scorso con altri 54 senatori dell’opposizione, attribuisce al contratto collettivo la funzione di dettare lo standard applicabile dovunque manchi un contratto più vicino al luogo di lavoro, stipulato dalla coalizione sindacale che rappresenti la maggioranza dei lavoratori interessati.
In questo modo il contratto nazionale conserverebbe la sua funzione di “copertura” dell’intero settore?
Sì, ma come disciplina di default: dove ce ne sono i presupposti, si lascia al sindacato in azienda la possibilità di valutare i piani industriali innovativi e, se la valutazione è positiva, la possibilità di guidare e assistere i lavoratori nella scommessa comune con l’imprenditore.
Stiamo assistendo a una stagione non brillante del movimento sindacale italiano: divisioni strategiche, una competizione che a volte sfocia in sterili personalismi, insomma un sindacato che fa fatica a essere protagonista del cambiamento sociale. Quali sono, per lei, i punti di forza, se vi sono, e i punti di debolezza da superare per tornare ad essere attore fondamentale del processo sociale?
La rissosità del confronto dipende in larga parte dall’assenza di regole chiare su chi sia abilitato a contrattare scostandosi dagli standard o dai modelli contrattati in precedenza. Il nostro progetto mira invece a consentire che visioni e prassi sindacali diverse possano confrontarsi e competere tra di loro, in un quadro di regole di democrazia sindacale, che consenta di stabilire con chiarezza chi ha titolo per contrattare con efficacia per tutti.
Dunque è tramontato, secondo lei, il sogno di un’unità sindacale?
La nostra Costituzione garantisce il pluralismo sindacale. Questo significa che non dobbiamo considerare come un’anomalia il fatto che nel movimento sindacale ci siano dei dissensi, delle fratture anche insanabili. Quello che è grave è che non ci siano le regole necessarie per dirimere il contrasto. Di queste c’è urgente bisogno: la vicenda Fiat-Federmeccanica lo mostra con evidenza. E, ripeto, se sindacati e imprenditori non sono in grado di darsele da soli, spetta al legislatore colmare provvisoriamente la lacuna.