La politica dei giusti e la convenzione del mercato. Un testo di Beniamino Andreatta

Per gentile concessione della rivista dell’Arel e delle Teche della Rai pubblichiamo questa intervista con Nino Andreatta di Andrea Scazzola. Il testo è presente nel numero 2/12 della rivista.

L’intervista che segue è la versione integrale di quella realizzata per la trasmissione radiofonica “Lo specchio del cielo, autoritratti segreti prima di un altro lunedì”, a cura di Vittoria Alfaro e Andrea Scazzola, e trasmessa in forma un po’ ridotta da RadioDue il 14 giugno 1992. Andreatta, insieme ad altre “vittime illustri” (tra cui Leopoldo Elia e Tina Anselmi) della crisi dei partiti e del mancato sostegno del suo, la Democrazia Cristiana, non era stato rieletto in Parlamento. L’anno dopo, in piena Tangentopoli, la Dc di Mino Martinazzoli, alla ricerca di personalità pulite e al di sopra di ogni sospetto, ebbe bisogno di Andreatta, che tornò ministro nei governi Amato e Ciampi. Poi ci fu il nuovo approdo alla politica attiva, con l’opposizione frontale al primo governo Berlusconi, quando Andreatta guidò il gruppo dei Popolari alla Camera, fino all’invenzione dell’Ulivo con Romano Prodi.

Un’intervista ricca di spunti anche per il nostro complicato presente.

Professor Andreatta, so che nella sua decisione di occuparsi di economia ha avuto un certo peso un episodio dell’infanzia legato all’attività di suo padre, banchiere, a Trento. È così?

Sì, è così. La mia infanzia è legata a epoche difficili, sia sul piano della politica, della pace e della guerra, sia sul piano delle vicende economiche.

L’episodio al quale lei si riferisce è forse la prima immagine vivida nella mia memoria ed è accaduto all’inizio del 1933. In tutto il mondo c’era una crisi bancaria, migliaia di banche fallivano. La banca che dirigeva mio padre si trovava nella piazza centrale della mia città e la mia famiglia abitava nell’ultimo piano del palazzo. Anche quella banca ebbe difficoltà e, esaurita la liquidità, chiuse gli sportelli. Si formò una lunga fila di depositanti che speravano di poter cambiare in contante i loro depositi. Fui mandato a casa dei nonni – sono questi i viaggi dell’infanzia che hanno la capacità di suscitare ricordi indelebili – nel timore che, come era accaduto in altre parti del mondo, la rabbia dei clienti delusi potesse provocare tentativi di invasione, o magari di incendio del palazzo.

L’altro ricordo è di qualche anno più tardi. Eravamo in vacanza a Brunico, c’era stata una meravigliosa serata di sole dopo una giornata di pioggia, crescevano rapidamente i funghi, lraccogliemmo, rimanemmo fuori, tardi nella notte. Tornando, vedemmo dei treni che andavano verso il confine. Era lo schieramento delle divisioni italiane in occasione dell’attentato a Dollfuss, quando ancora l’Italia seguiva una politica internazionale indipendente dalla Germania.

Arrivato a casa, trovai il terrore di mia madre, che aveva avuto con qualche ora di anticipo le notizie: la nostra dispersione verso la frontiera, che era il luogo della nostra passeggiata, le aveva fatto pensare le cose più terribili.

Credo, di fronte alle generazioni attuali, che aver vissuto queste piccole, personali sensazioni, di un’Europa difficile, abbia
condizionato molte percezioni
degli anni successivi, molte
preoccupazioni per una politica
non provinciale, per una politica
che si prendesse le sue
responsabilità di fronte
all’economia e non la lasciasse
andare allo sbando.

In questi ultimi anni,
dall’89 in poi, nelle diplomazie,
nella stampa, sono riemersi gli
interessi nazionali – il nostro
ministro degli esteri ne è un buon rappresentante – e ci si attacca a qualche cosa di sicuro di fronte a un mondo nuovo che richiede capacità di fantasia per il futuro. Invece – lo vediamo nell’episodio jugoslavo – l’Europa rimane incapace di gestire i suoi problemi.

C’è questa specie di ritorno all’antico, quasi che tutta la parentesi di questi quarant’anni di politica più razionale, dominata dalla dura razionalità dell’equazione nucleare, fossero scomparsi dal fondo della mente.

Ecco, il fatto di aver vissuto in un piccolo scorcio della vita, ma con l’intensità dei ricordi di infanzia, in un mondo in cui la politica era così chiusa, così incapace di dominare l’economia, così bloccata negli aspetti tribali degli interessi nazionali, mi dà oggi uno spessore sapienziale per cui sono riconoscente all’epoca in cui mi sono formato.

Da subito l’economia veniva legata a problemi politici, ma la sua scelta per gli studi economici non è stata immediata. Prima c’è stato un passaggio, una laurea in giurisprudenza. Come mai?

Una delle cose che debbo alla mia famiglia è il senso del servizio. Un mio nonno era preside di un liceo, l’altro era un ricco proprietario terriero che tuttavia dedicava il suo tempo gratuitamente a istituzioni economiche e anche alla politica. Quando il Trentino fu liberato e annesso all’Italia, e sorsero i problemi legati al cambio della corona in lire, con l’Austria che vedeva distruggere la sua moneta – in pochi mesi il suo valore si sarebbe ridotto a un milionesimo rispetto alla fine della guerra – mio nonno fu la persona che nel primo viaggio a Trento di Vittorio Emanuele III espose la necessità di una serie di aggiustamenti tecnici che avrebbero permesso il cambio della corona con la lira di 1 a 1, come era nel 1915. Il paese fu poi comunque un po’ sacrificato da un cambio diverso da quello tra le due Germanie, di 1 a 0,60. Fu uno degli aspetti del costo dell’annessione all’Italia.

Vengo dunque da questa idea di servizio, di una borghesia di funzioni in cui gli aspetti economici venivano considerati quasi triviali e dati per scontati, mentre c’era l’impegno della funzione e la valutazione che ogni furberia e ogni prevaricazione, specie in campo finanziario, costituisse un’azione contro l’estetica ancor prima che contro la morale. Ecco, questo è il patrimonio genetico che ha dominato poi i miei comportamenti futuri. Per quanto riguarda le mie scelte universitarie, c’era una tradizione di molte generazioni degli studi in giurisprudenza, che era anche il senso, se vuole, della provincia; sia per quanto riguarda il buon liceo classico, che quasi obbligatoriamente aveva i tre sbocchi dell’Ingegneria, della Medicina o di Legge.

Feci bene gli studi legali, ebbi il premio come miglior laureato dell’anno, trovai maestri importanti come Bobbio, che mi fu professore di Filosofia del diritto.

Tuttavia, c’era in me una certa insoddisfazione verso questa specie di “logica minor”
applicata alle leggi. In quel
periodo in Italia cresceva
l’esperienza di «Cronache
sociali», di Dossetti, di Lazzati,
di La Pira. Accadde
casualmente. Avevo avuto un
 professore di economia, Marco Fanno (è stato anche professore di Guido Carli), che mi aveva introdotto a quella rivoluzione della scienza economica che si era prodotta negli anni Trenta, ma quasi non me ne ero accorto. Fu leggendo i “discorsi sulla povera gente di La Pira”, e soprattutto approfittando delle note, molto dettagliate, che davano tutto quel che c’era in italiano (l’autore non conosceva l’inglese) sull’economia keynesiana. Feci in quei mesi, mentre stavo preparando ancora la laurea, una scorpacciata di letture, e in quello stato un poco vago in cui un giovane si trova in cui un giovane si trova dopo la laurea decisi di rimettere tutto in discussione, di cambiare l’oggetto dei miei studi, di abbandonare una carriera universitaria che mi era abbastanza facile, in Giurisprudenza nell’ambiente di Padova, e andai un po’ alla ventura, a cercare questa mia vocazione. Incontrai vari professori di economia, ma soprattutto incontrai Mario Romani, una figura eccezionale, uno storico che si era occupato della viabilità nell’impero romano e poi avrebbe concentrato i suoi studi sulla Lombardia dell’Illuminismo e della prima rivoluzione industriale. Aveva avuto, grazie a una prigionia in America, la possibilità di capire che cosa fossero il sindacalismo, le relazioni industriali in un ambiente evoluto, democratico, fuori dalle tentazioni anarco- sindacaliste che caratterizzano gran parte dei leader sindacali italiani. E in un colloquio un poco strano una domenica a casa sua, mi diede la spinta finale a compiere la mia scelta. Approdai alla Cattolica, senza una posizione ben

definita. Allora l’ambiente della Cattolica era molto moderno nella conoscenza degli sviluppi dell’economia degli anni Trenta e Quaranta, in una sorta di funzione revisionistica rispetto alle teorie della concorrenza, dell’equilibrio generale, che caratterizzavano le tradizioni liberali (Einaudi e i grandi economisti italiani).

Professor Andreatta, dopo l’Università cattolica lei è andato a studiare in Inghilterra, a Cambridge, tempio dell’economia keynesiana. Ma al di là degli studi economici, della formazione ricevuta, qual è la differenza che l’ha maggiormente colpita tra il mondo anglosassone e la società italiana?

Le grandi università inglesi creano un mondo fittizio, un mondo con un forte senso di appartenenza, dove il rituale è importante, dove la concorrenza – data anche la presenza di una facoltà numerosa – è molto forte. Questo meraviglioso isolamento accademico e contemporaneamente questa attenzione, senza troppi rapporti con la politica del paese in senso pratico, ma invece presente nelle discussioni, negli schemi mentali della gente, mi provocarono anche un lancinante senso della rottura della sintesi tra la vita di ogni giorno e l’esperienza religiosa.

Ricordo il senso drammatico che mi suscitò una settimana santa, abituato com’ero alle dimensioni della provincia veneta, dove nella settimana santa tutto si fermava, e il carattere di 
bank holiday, di festa, e quindi questa prima esperienza di una religione che diventa individuale ed è lontana da comportamenti collettivi convissuti. Qualche cosa che poi avrei ritrovato vent’anni dopo nel nostro paese. Una modernizzazione in qualche modo dolorosa, che lasciava dentro un senso di un vetro tagliato.

Un vetro tagliato… quindi in lei c’è in fondo una lontananza da questa modernizzazione, la convinzione che invece sia necessario rimanere attaccati ad alcune radici?

No, c’è il vivere nei suoi aspetti drammatici la condizione della modernità. E quindi il viverla con una fede che non è più un dato che passa attraverso la linfa delle tradizioni, ma che ogni giorno è messa in discussione, perché è legata alla scommessa pascaliana che ciascuno di noi fa.

Tornato in Italia, ha vinto la cattedra universitaria e forse allora non pensava alla politica. Come si è sviluppato negli anni il suo rapporto con la politica?

C’era stato questo forte accostamento giovanile alla politica e poi, di fronte allo sfascio pratico dell’esperienza dossettiana, un rientro, un abbandono.

Ma prima della cattedra ci fu un lungo anno di lavoro in India. Era l’anno in cui mi sposai, andai con mia moglie in India cogliendo l’occasione di un invito che mi aveva fatto Rosenstein-Rodan, un professore del Mit, di partecipare a un gruppo di quattro-cinque studiosi europei e americani che assistevano alla Planning Commission indiana.

È stato un anno importante, che mi ha lasciato nel fondo del cuore il desiderio di ritornare, magari da vecchio, come oggi sono, a trovarsi sulla frontiera dei problemi che contano, dove le decisioni, i consigli, possono avere degli effetti importanti.

Forse in quel periodo non mi sono occupato di cose eccitanti, ho cercato di convincere il governo indiano a non seguire le politiche dei socialisti inglesi, cioè le politiche che non chiedevano alle imprese pubbliche di fare profitti. Feci degli studi molto attenti su come era organizzato il sistema elettrico, le tariffe, eccetera. L’idea era comunque quella che lo sviluppo era accumulazione di capitale e che quindi la esasperazione del socialismo europeo sulla redistribuzione del reddito non si addiceva allo sviluppo indiano. Era il momento in cui entrava in crisi il gruppo di economisti di formazione sovietica che dominava la Planning Commission, e in cui si abbandonava, per la fortuna dell’India, l’idea di uno sviluppo basato sull’industria pesante e si spostavano le priorità sull’agricoltura e sull’industria leggera.

Vorrei dire che tornai da quella esperienza, da un lato, con il senso che le nostre scale di valore sono sbagliate, che le nostre stesse vite
 professionali, assiepate nella
 lotta per esprimere sempre
 meglio, in modo analiticamente 
più chiaro, un’idea qui in
 Occidente, sono la nostra
 maledizione e il nostro compito;
ma che poi ci sono altre
 missioni, in altre parti del
mondo, che per un insieme di fatti pratici nessuno di noi segue, si lascia abbandonate.

Ma dall’altra parte tornai anche con maggiori dubbi sull’insieme delle convinzioni che erano molto interconnesse con la professione dell’economista, e che erano l’espressione di quella sintesi socialdemocratica che allora dominava la politica economica dell’Occidente. Ricordo che dall’India scrissi una lettera chiedendo che non si nazionalizzasse l’energia elettrica, e suggerendo che la nazionalizzazione si limitasse alla rete, per evitare le conseguenze che quella nazionalizzazione provocò sul mercato finanziario, distruggendo per venti anni il funzionamento del mercato di borsa italiano, e in qualche modo legittimando quella politica di grandi aiuti dello Stato alle imprese che è stata una delle ragioni della crisi finanziaria degli anni più prossimi.

Era in fondo l’inizio di una conversione da un’impostazione keynesiana…

Una conversione poi lunga, perché durante il periodo in cui fui vicino a Moro, in quella sua prima incarnazione governativa, nei suoi primi due o tre governi degli anni Sessanta, suggerii politiche di grande cautela rispetto alle impostazioni di Colombo e Carli, che di fronte al rapido aumento dei salari nel ’62-’63, a un peggioramento drammatico della bilancia dei pagamenti, applicarono ricette classiche di restrizione monetaria.

Io usai anche la fiducia di Moro, o abusai della fiducia di Moro, scrivendo discorsi che consegnavo all’ultimo momento, un po’ per pigrizia, un po’ per evitare una revisione, in cui sviluppai una polemica anche non troppo implicita con il ministro del Tesoro, Emilio Colombo, criticandolo da un punto di vista keynesiano, della maggiore importanza che un economista doveva, secondo me allora, sentire per i problemi dell’occupazione rispetto a quelli della stabilità, non accorgendomi che a lungo termine la stabilità condiziona l’occupazione. Ma questi erano gli orizzonti che la politica economica di moda allora aveva e quindi creando una situazione un poco imbarazzante di tensione tra il presidente del Consiglio e il ministro che aveva la responsabilità piena della condotta dell’economia, che era appunto Emilio Colombo. Attraverso questi discorsi della polemica l’uno con l’altro… in realtà ero io che polemizzavo con Colombo e non il presidente del Consiglio.

Ha parlato della sua collaborazione con Moro. Quanto è stata importante la figura di Moro nel suo itinerario politico?

Con Moro i rapporti erano di timidezza tra professionisti in campi diversi e quindi credo che non gli piacessero le mie ricette, anche se condivideva i valori che portavano a quelle ricette. Tuttavia c’era in Moro, nella sua cultura meridionale, un atteggiamento favorevole ai processi spontanei. Nonostante i suoi discorsi sulla programmazione, c’era quel buon senso quasi “contadino” di diffidenza nei confronti di manovre di bilancio troppo azzardate.

Vorrei dire che ho imparato più io da lui di quanto gli abbia insegnato.

Naturalmente, se Moro è stato per me, come in precedenza Saraceno o Dossetti, una delle persone parentali, quasi paterne, che sono state importanti, che hanno dato un punto di riferimento alla mia vita personale, c’era anche questa differenza di cultura, la mia più volta al fare, all’intervenire, la sua più legata ai processi, più pessimista sull’andamento dei processi, e quindi anche una sincera difficoltà nell’amicizia, ad intendersi.

Di fronte alla tragica morte di Moro, lei come reagì?

Ero allora appena entrato direttamente in politica, non per iniziativa di Moro, ma per l’atmosfera che si era creata nel ’76, di grande difficoltà della Democrazia Cristiana, e la richiesta che Zaccagnini aveva fatto ad un gruppo di indipendenti, come io ero, di assumere la candidatura in alcuni collegi senatoriali che si presumeva fossero vincenti. Fummo una quindicina di persone a entrare così in politica. Fondammo la nostra associazione, l’Arel, all’inaugurazione della quale Moro intervenne. Purtroppo non abbiamo il suo discorso, perché egli ci chiese di non registrarlo. E nella prigionia raccontò di aver parlato in un piccolo cenacolo che, rispetto ai luoghi della politica romana, aveva il grande vantaggio di saper tenere la riservatezza. Questa riservatezza ci impedisce oggi di ricostruire appieno il suo pensiero, perché in quell’occasione fu molto più esplicito nel definire i tempi e i limiti della operazione della solidarietà nazionale di quanto lo fosse stato nella riunione dei gruppi parlamentari.

La mattina alle 9-9 e mezza, mentre la camera era affollata per l’inizio della discussione sulla fiducia al secondo governo Andreotti della legislatura – quello che avrebbe dovuto portare il voto di tutto l’arco costituzionale al governo – fui raggiunto da quella notizia.

Ebbi in quel momento la sensazione che Moro non poteva più essere salvato. Guardai sempre con pena i tentativi, qualcuno innocente, qualche altro che mi appariva strumentale, di immaginare che ci fossero delle alternative.

Per questo, organizzammo all’Arel innocenti tentativi scientifici di ottenere qualche maggiore informazione. Prendemmo la mappa della città di Roma e mandammo il nostro direttore a fare duemila fotografie con la Polaroid che furono poi inserite in un calcolatore dell’Enea, per cercare di stabilire, attraverso questa analisi spettrale, se era possibile identificare la quantità di ogni elemento presente in ciascun campione. La nostra idea era quella di sottoporre allo stesso trattamento la foto scattata con la Polaroid e mandata ai giornali, la cui versione originale era in possesso di coloro che conducevano le indagini. Il tentativo era quello di vedere se in questo modo fosse possibile ottenere maggiori informazioni sul luogo dove Moro era tenuto prigioniero. Di fatto non riuscimmo ad avere dalla Procura quell’elemento che ci mancava per poter completare l’esercizio. Allora, nell’impossibilità di mantenere questa linea di ricerca facemmo, con l’assistenza dell’Ibm, dei lavori di analisi dei testi, delle caratteristiche linguistiche dei vari messaggi che uscivano, per cercare di identificare la figura, la cultura di colui che li aveva scritti. Era solo un modo per fare qualcosa, per ingannare un’attesa atroce, e contemporaneamente per cercare di sostituire, con questo attivismo, la lucida considerazione che Moro non poteva essere salvato e che non c’era alcuna possibilità che le Br non lo uccidessero.

Di qui la rabbia, una rabbia profonda che poi ha dominato in qualche modo i miei comportamenti verso i socialisti, per il voltafaccia che fecero al congresso di Torino, allineati prima sulla posizione di tutto il fronte politico italiano in un giudizio analogo al mio e poi invece autori di quella rottura in nome delle “colombe”, in nome di una soluzione umanitaria. Quel cambio di posizione lasciò, almeno in chi aveva vissuto questa esperienza, un senso di rancore per qualcosa che appariva quasi una frivolezza in un dramma, l’impressione che non fossero capite le ragioni profonde e che quindi venissero offese le ragioni di chi, essendo amico di Moro, aveva tratto una conclusione diversa. Conclusione che mi sembra peraltro confermata nella sua esattezza da tutto quello che sappiamo oggi in più.

Professor Andreatta, quello fu un periodo difficilissimo, tremendo per l’Italia. So che c’è stato un piano delle Brigate Rosse per sequestrare anche lei. Che possibilità aveva il terrorismo? Che cosa ha significato per il paese e per lei?

Probabilmente è stato da noi drammatizzato, le forze del terrorismo erano assai meno importanti di quello che immaginavamo allora. Per me quella morte, l’aver vissuto quel periodo, mi portò ad avere una assoluta incapacità ad accettare le eccezioni in politica. La regola era stata quella che di politica si muore. Le eccezioni significavano comportamenti per trarre profitto dalla politica, viltà, incapacità di dire alla gente quale fosse la situazione reale del paese, quali sacrifici comportasse.

Insomma, mi ero illuso che quello fosse stato un bagno purificatore della politica italiana.

Le corruzioni, le amicizie pericolose, le scelte partigiane, mi sembravano episodi del passato e debbo dire che ho vissuto male tutti questi anni Ottanta, in cui il connubio tra affari ed economia, in cui la perdita di quella distinzione tra l’uomo economico, che legittimamente pensa al profitto, e l’uomo politico, che dovrebbe pensare all’onore e al servizio, si è andata perdendo.

La mia prima reazione, divenuto ministro, fu quella di chiudere i telefoni rispetto alle richieste dei partiti quando mi trovai a decidere per il rinnovo delle cariche di 120 posizioni di presidenti e vicepresidenti delle banche italiane grandi e piccole. E credevo che con questo si fosse iniziata un’esperienza.

Poi, i personaggi nuovi che sono emersi hanno parlato di un’epoca dei professori e hanno inventato una strana teoria sui partiti come azionisti dello Stato banchiere o dello Stato industriale, quasi confondendo i partiti con lo Stato. Se lo Stato è azionista, ci si comporta come si comporta il funzionario, pena l’annullamento dell’atto per eccesso di potere. Ma riunioni di gruppi privati che decidono su come debba essere usato il potere di nomina dello Stato mi sembrano situazioni abnormi, al limite del codice penale. Non parlo poi di scegliere il personale per ottenere da esso non solo l’aiuto di una scelta, di un’assunzione, ma magari anche aiuti finanziari.

Ecco, la vicenda di Moro, per come personalmente l’avevo vissuta, forse per quella cotê puritana che esisteva nella mia infanzia, aveva rinnovato in me questi ardori quasi alla Cromwell, di una politica dei giusti, di una politica che, avendo

corso il rischio di mettere a repentaglio anche la vita, si fosse purificata. Attorno all’epoca di Zaccagnini e a quella immediatamente successiva, per effetto dell’intenso richiamo morale che egli aveva fatto, si aveva l’impressione di una possibile ripresa del paese.

Era l’epoca in cui anche altri viaggiavano su binari simili: penso alle nomine compiute da Prodi come ministro dell’Industria, o alla nomina successiva dello stesso Prodi come presidente dell’Iri, o a quella di Giuliano Graziosi… Insomma, in un gruppo di persone si era formata la convinzione che il paese era cresciuto, non aveva più bisogno di assistenza sociale, i partiti non erano più i luoghi che programmavano le carriere alla gente.

La politica era quindi il punto infuocato del potere, il punto infuocato della parola, della decisione presa per il popolo. E non poteva essere la occupazione orizzontale, con la perdita di ogni dimensione di capacità di guida del paese; non si poteva permettere l’occupazione delle istituzioni per risolvere i problemi di una classe politica troppo estesa e rissosa. Insomma, c’era, in quella esperienza, un’idea cavalleresca della politica, un’idea intensa e concentrata.

Poi, questa necessaria convivenza tra democristiani e socialisti ha determinato le scelte degli accomodamenti ai punti più bassi. E se penso a solo dieci-dodici anni fa e li
confronto con la miseria degli
ultimi quattro-cinque anni della
vita politica, mi accorgo del
modo in cui senza pudore si è
usato dello Stato e delle sue
istituzioni per risolvere i
rapporti difficili tra due partiti
che sono competitivi tra loro e
che quindi collaborano solo in
una situazione transitoria,
prendendo le distanze l’uno dall’altro, quasi a immaginare quale sarà il match finale, lo scontro ovvio tra socialisti democratici e cristiano-sociali che caratterizza tutta la politica europea… Ecco, tutto questo mi sembra così terribilmente lontano da quell’epoca che mi fa sentire vecchio, mi fa sentire che la mia esperienza è legata ad altre coordinate, anche se esiste sempre il desiderio che queste cose ritornino.

Professor Andreatta, affrontiamo il discorso su un piano più generale. L’economia, quindi il mercato, il capitalismo, e l’etica. Ci sono di frequente atteggiamenti, anche da parte cattolica, che mettono in discussione il valore del mercato, anche da un punto di vista sociale. Secondo lei, c’è, se c’è, una relazione tra etica ed economia di mercato?

Il mercato è uno strumento, il migliore strumento che sia stato inventato dall’esperienza collettiva degli uomini per produrre e distribuire le risorse. È uno strumento che non piace agli operatori economici, anche se, ipocritamente, essi lo esaltano. Il mercato ha bisogno di polizia. La mia esperienza, una delle più importanti che feci da ministro, quella relativa al Banco Ambrosiano, è la dimostrazione che c’è la necessità di un’azione di polizia, che non guardi alle associazioni e ai rapporti tra l’imprenditore disonesto e magari ambienti vicini a chi deve prendere le decisioni di polizia. Si consideri soltanto il fatto che se quell’imprenditore disonesto viene salvato, se non gli si contrappone tutta la capacità dell’apparato pubblico di controllo e di analisi, sono falsate le regole del mercato e si introducono precedenti estremamente gravi.

Forse i critici del mercato 
guardano al mercato così com’è,
al mercato che funziona con la
 connessione della complicità dei
politici, per creare nel mercato 
un luogo che è piuttosto l’idea
 di Hobbes dello stato di natura,
dell’uomo nemico all’uomo,
dell’uomo che è lupo rispetto all’uomo. No, il mercato è un luogo fortemente condizionato dagli obblighi legali di contrattare secondo regole di trasparenza. È interessante che molte di queste critiche derivino proprio da coloro che praticano quotidianamente continue interferenze politiche sul mercato, a favore di Tizio o di Caio.

L’azione di polizia sul mercato deve invece essere esercitata in nome della legge, in nome della garanzia della concorrenza, in nome della parità di coloro che si presentano sul mercato. Chiaramente, gli appalti truccati, le turbative d’asta, tutto quello che oggi emerge in sede giudiziaria, ma che tutti noi conoscevamo, è il modo esattamente opposto, non ha nulla a che vedere con il mercato.

A proposito del mercato, è interessante la differenza che esiste tra le altre città italiane e Roma. In questi mesi avverto la noia di questa città, dei suoi ceti economici di fronte all’idea di doversi confrontare secondo regole di mercato. Qui il potere viene sempre usato per superare queste regole e si immagina che lo si possa fare sempre in futuro, e si dà dell’ipocrita a quei paesi in cui certo ci sono fenomeni di sviamento, ma dove nella generalità dei casi i comportamenti sono secondo le regole. No, sono convinto che la macchina per crescere è quella del mercato, e che le continue interferenze in nome della giustizia sul

mercato abbiano come conseguenza il destino argentino. L’Argentina era uno dei dieci paesi più industriali del mondo nel 1930, oggi è il sessantesimo, il settantesimo, a livello dei paesi più poveri che non hanno conosciuto uno sviluppo industriale.

C’è, talvolta, nella mentalità cattolica, il rifiuto di ciò che non è essenziale, cioè di quelle regole del gioco, di quelle regole sportive, che rendono tollerabile la vita su questo pianeta. Non si può chiedere che in una società modernizzata, quindi rotta sul piano religioso, le regole siano quelle della morale o quelle dell’insegnamento di Cristo. Occorre stabilire dei patti che hanno una natura come quella delle convenzioni sportive.

Il mercato è una di queste convenzioni. Bisogna avere la mentalità dello sportivo, che sa di non poter violare una regola perché quello sport si pratica in quel certo modo. Insomma, è la contrapposizione tra una corsa alle Capannelle e il Palio di Siena. Al Palio di Siena si fa di tutto. C’è, nella nostra tradizione medioevale, questo gusto, che ha anche degli aspetti positivi, dell’italiano che non rispetta le regole e che vuole arrivare: c’è in Boccaccio, in Sacchetti, c’è nella nostra novellistica…

Invece il mondo moderno è fondato su delle regole che non hanno un fondamento etico specifico, hanno come fondamento etico il rispetto dell’altro, della libertà che finisce dove comincia la libertà dell’altro, e quindi hanno nature largamente convenzionali.

Ma se uno non rispetta queste regole convenzionali diventa un cattivo socio, di una società complessa nella quale ci si deve fidare di persone che non si conoscono, in cui non c’è l’integrazione della società di villaggio, ma in cui i rapporti economici debbono avvenire sulla base di scarse informazioni, e sulla base del presupposto che anche gli altri si comportino nella stessa maniera, cioè lealmente.

Di qui la necessità che la pena sia molto forte per chi viola le regole del gioco, per chi, tradendo la fede pubblica, rende impossibile quella economia globale, quella economia planetaria su cui poggia il nostro benessere.

Quindi c’è comunque un’etica in questo tipo di comportamento…

Sì, ma la prima etica è quella di rispettare le regole del gioco. Poi ci sono altri problemi. È chiaro che si può rinunciare ad ottenere il massimo vantaggio se ci sono di mezzo problemi relativi ai consumatori, ai lavoratori, alla salute di terzi, eccetera. Lì dove non ci sono delle leggi e quindi c’è la possibilità che altri tragga profitto avendo meno scrupoli, nascono drammatici problemi tra la lealtà alla propria impresa, ai propri azionisti, alla necessità di evitare la bancarotta e questi altri valori. Ma il primo valore che credo debba essere rispettato è quello delle regole del gioco del mercato.

Professor Andreatta, lei è stato ministro del Tesoro agli inizi degli anni Ottanta, nei governi presieduti da Forlani prima e Spadolini poi. L’inflazione era altissima, sembrava che l’Italia andasse davvero verso una situazione sudamericana. Lei, da economista, come affrontò quella situazione e perché, se si è usciti dall’inflazione a due cifre, invece non si è assolutamente riusciti a risanare il debito pubblico?

Innanzitutto vorrei ricordare l’epoca in cui ebbi responsabilità. Credo che il maggior sacrificio che ho fatto per la Repubblica sia stato quello di dimenticare le mie convinzioni di economista in modo completo. L’esperienza mi aveva portato a mettere molta acqua nel vino keynesiano, in una certa irrilevanza data ai problemi dell’inflazione rispetto a quelli del sostegno all’attività produttiva, che derivava anche dalle scarse conoscenze che gli economisti avevano delle attività finanziarie, e quindi a una sottovalutazione degli effetti che situazioni finanziarie non corrette avrebbero avuto sulla crescita e sulla occupazione. In fondo l’economia keynesiana si era sviluppata in un mondo dove, al fondo della mente, esistevano le idee di pareggio dei bilanci, le idee di una finanza controllata. Poi, invece, negli anni Settanta, sotto la spinta di difficili situazioni politiche e sociali, quelle ricette furono applicate in maniera dissennata.

Arrivando al ministero, il mio primo calare nella funzione fu quello – con fatica, con difficoltà, se vuole anche con rimorsi – di tagliare tutte le mie preoccupazioni di tipo keynesiano e di concentrarmi sui problemi del risanamento. Mi sentivo come Thaon de Revel, ministro delle Finanze dell’ultimo Mussolini dopo El Alamein. L’Italia era riuscita a finanziare lo sforzo di guerra senza inflazione, spendendo in deficit, e poi ritirando la liquidità che si era così creata attraverso i prestiti di guerra. Dopo El Alamein la gente non ci credeva più, quindi non sottoscriveva più i titoli pubblici. Nel corso di poche settimane, l’inflazione, che era nell’ordine del 10-12% all’anno, balzò al 100-150%. Nell’81 accadde qualcosa di simile. Su tutti i beni patrimoniali, case, terreni, azioni, l’inflazione correva al 10-12% al mese. Non si era ancora trasmessa ai prodotti, ai beni di consumo. Ma c’era la convinzione che la lira non tenesse. In un solo giorno aumentai di 3 punti il saggio di sconto, di 6 punti in pochi mesi.

Per fissare, in maniera definitiva, quindi con un cambiamento istituzionale, questa nuova politica, introdussi ciò che è chiamato “il divorzio” della Banca d’Italia. Liberai, cioè, la Banca d’Italia dall’obbligo di sostenere le emissioni del Tesoro. Il Tesoro doveva cercare di collocare i suoi titoli a qualunque tasso di interesse fosse richiesto dal mercato, presso le famiglie, presso i risparmiatori, presso le banche. Senza reti di sicurezza. In questa maniera ci fu un balzo, i tassi arrivarono al 23-24%, e l’inflazione cominciò a flettersi. Qualcuno pensa che l’inflazione sia stata eliminata perché due-tre anni dopo Craxi riuscì a ridurre di un punto la scala mobile, in modo molto drammatico, quindi sottolineando sul piano delle pubbliche relazioni il cambiamento di politica. Certo, questo non sarebbe stato possibile se a monte non avessimo cambiato la politica monetaria e non avessimo rotto il rapporto tra l’uso delle tipografie della Banca d’Italia per stampare moneta e la domanda del Tesoro.

Alcuni aspetti traumatici,
come la fine del mio compito ministeriale (le famose controversie “delle comari”, come la stampa le definì) si inscrivono in questa politica. Era per me necessario, nel momento in cui si pagava così caro il debito pubblico, che le altre partite della spesa e delle entrate rapidamente convergessero verso una situazione di equilibrio.

Costava una volta e mezza, poi due, poi tre volte di più il finanziamento del debito pubblico; non era possibile – come era stato possibile fino a quando il debito pubblico costava meno dell’inflazione, quindi in termini reali meno di zero – mantenere una spesa così espansa con entrate relativamente modeste.

In questa situazione di grande difficoltà, perché era difficile convincere i colleghi a cambiare la linea di finanziamento di ciascun ministero, il ministro delle Finanze uscì con un’intervista in cui accennò alla possibilità di far quadrare il problema attraverso un concordato con i portatori di debito pubblico, cioè restituendo loro non le 100 lire che erano scritte sui certificati, ma 40-50 lire, come avviene per un imprenditore in bancarotta. E fece questo mentre io ero sul mercato con una difficilissima emissione di 30 mila miliardi che, a quei tassi di interesse, già molto alti, il mercato era riluttante ad assorbire. Il presidente del Consiglio di allora, che non era estremamente attento ai problemi economici, vide di quella controversia gli aspetti più esteriori, quelli che avevano visto i giornali, e non capì che era un momento di verità.

Pochi mesi dopo, la stessa cosa accadde a Jacques Delors. Uno scontro, se la Francia dovesse rimanere all’interno dello Sme o uscirne, e anche lì c’erano dei ministri (cinque), che sostenevano che lo sforzo di risanamento era troppo pesante, che era meglio che la Francia abbandonasse la politica di difesa del cambio e la sua presenza nello Sme. Mitterrand decise di cacciare i cinque ministri. E Delors cominciò quella politica che ha portato la Francia ad essere il paese più solido finanziariamente e oggi, da qualche tempo, anche il più vivace in termini di economia reale del continente, superando, almeno in questi anni di difficoltà della Germania, il record dei tedeschi.

Da noi, invece, la cosa fu buttata su questioni di stile, subii da parte degli elzeviristi dei giornali italiani una serie di rimbrotti e così finì l’esperienza di quel governo e anche la mia esperienza ministeriale.

Negli anni successivi, vidi emergere, da parte dei miei colleghi accademici, i consigli di gradualismo, il timore che affrontando per le corna il problema del nostro bilancio, della nostra finanza pubblica, potesse verificarsi una crisi di stabilizzazione, e quindi di disoccupazione, fallimenti, eccetera.

E allora si consigliò ai politici di non fare troppo. Era un consiglio che i politici si attendevano, non avevano certo voglia di fare troppo; forse, il loro desiderio era quello di non fare nulla. E così ci impantanammo in questa millimetrica azione di contenimento del bilancio, ogni anno con grandi proclami che la battaglia si stava per vincere, e ottenendo un miglioramento di uno, due, decimi di punto all’anno. Così l’Italia rimase un paese problema, mentre uno dopo l’altro paesi che avevano subito, per effetto appunto della reazione della politica alle difficoltà degli anni Settanta, situazioni finanziarie simili alle nostre, nel corso di accelerati risanamenti della finanza pubblica, in due, tre anni sistemarono partite pari al 6-7% del reddito nazionale. Così fecero l’Irlanda, il Belgio, la Danimarca, magari con governi minoritari, che avevano il 45%
dei voti nei Parlamenti, e noi 
invece, con questa idea del
gradualismo, siamo rimasti alle 
posizioni di partenza.

Qualche volta ricordo come nel paese delle meraviglie si parli di un araldo che,quanto più cercava affannosamente di portare il suo messaggio, tanto più rimaneva inchiodato al suolo. In qualche misura questo mi pare, emblematicamente, il risultato della politica economica degli anni Ottanta.

Professor Andreatta, lei è sempre stato considerato una persona particolarmente polemica, a volte si è detto persino presuntuosa. Si riconosce in questa immagine che si è data di lei?

Ho scarsa attenzione all’etichetta della politica, agli odi profondi e all’ipocrisia dei buoni rapporti. Sono convinto della razionalità degli altri. La polemica e anche quel fondo di presunzione nascono dal fatto delle mie convinzioni e anche dall’idea che ci sia qualche ragione pratica nell’incapacità degli altri di capire ciò che io vado cercando di spiegare. Se vuole, sono le caratteristiche del mio mestiere accademico, di quel particolare piccolo universo del mestiere accademico, quello degli economisti. Per un insieme di tradizioni legate probabilmente alla cultura anglosassone, l’ironia, il paradosso sono strumenti dell’arte di persuasione dell’economista. Tutta la professione accademica è legata a un modello che nasce nelle controversie teologiche nelle università tardo medievali, ma più che lo sdegno, che caratterizza appunto quel tipo di polemica teologica, nel caso della professione degli economisti il gusto è quello della ironia e del paradosso.
Sono anche le difese della mia timidezza, ma sono anche un modo di ritualizzare quello che potrebbe diventare un attacco più diretto. In fondo, so di ridurre la posizione dell’avversario, più difficilmente la persona fisica, alle corde della caricatura. E questo forse non piace in un mondo in cui la lotta politica ha avuto un certo imprinting iniziale, quello di sei partiti che si riconoscono l’uno con l’altro.

Personalmente, credo che la fonte di legittimità della politica sia nella rappresentanza
 della gente, nello scontro, nel
 fornire punti di vista diversi, e quindi tutta quella ipocrita cortesia che caratterizza i rapporti tra i leader politici italiani mi fa un poco venire il latte alle ginocchia. E credo che, per poter dare alla pubblica opinione la possibilità di una scelta, questo metodo fatto, appunto, di riduzione al paradosso delle posizioni dell’avversario, di ironia, di scontro, sia necessario, faccia parte dell’accettazione della parzialità della politica.

Quando la politica tende a diventare l’Anonima partiti, quando si distrugge il rapporto di fiducia perché ci sono dei livelli sotterranei in cui la politica stabilisce di non scontrarsi troppo, ecco, mi sembra che la democrazia sia malata. Quindi, da un problema di stile, di comportamento personale, io leggo un diverso modo forse di vivere l’esperienza del politico.

Però la polemica spesso fomenta scontri e allontana dal realizzare praticamente, tenendo conto delle forze in campo, alcuni progetti. E spesso infatti lei si è scontrato con situazioni del genere.

Sì, però dopo qualche anno ho visto che è stato utile mettere i semi germinali di una situazione. Può darsi che questo mi abbia condannato a una certa sterilità. Ma… è polemica sulle cose che sono importanti per il paese. Io detesto la polemica fatta di interpretazione dei testi, dell’uno rispetto all’altro, quasi la polemica letteraria. Credo che sulle questioni, soprattutto su quelle della politica economica, usare elementi del paradosso e della polemica serva al chiarimento, sia il linguaggio necessario a definire i problemi nella mente dell’opinione pubblica.

Non essere stato rieletto, in questa ultima legislatura, che reazioni le ha provocato? Come l’ha presa?

La cosa mi è rincresciuta, perché ritenevo di aver trovato in quel particolare modo che avevo dato al mio lavoro parlamentare la maniera, forse non particolarmente eccitante, di svolgere il mio servizio pubblico. Era un qualcosa che assomigliava a una sorta di consigliere della Corte dei conti. Avevo trasformato la commissione che presiedevo, la Bilancio del Senato, in un organo quasi apolitico, di garanzia dell’Assemblea che le leggi che venivano presentate fossero finanziariamente corrette. Questo non è stato più possibile, e quindi debbo inventare altri modi. Ogni cambiamento, specie per una persona della mia età, comporta una fatica, ma comporta anche, in qualche misura, un sentirsi giovani.

Una persona della sua età e sentirsi giovani… Il peso degli anni che passano è qualcosa
che sente?

Sì, è difficile adattarsi al ciclo della vita, la nostra non è né una cultura né una civiltà che offra uno schema per le persone anziane. In qualche modo le obbliga ad essere giovani. Altre civiltà hanno creato schemi diversi per le varie fasi della vita, e tuttavia c’è la fatica di adattamento a questo, ma c’è anche il senso del ritmo naturale. E quindi il superamento di quello che di artificioso a volte c’è nella vita matura, quando comincia la vecchiaia, quando ci si prospetta problemi sul proprio destino personale, quando si viene quasi alle mani con il senso del termine della propria vita; c’è un’acquisizione di sapienza, che è un arricchimento. E dunque, se da un lato c’è ancora il gusto di non sentire il peso del tempo, perché questo non divenga quasi ridicolo dall’altro c’è l’accettazione, e poi il piacere di scoprire che si hanno reazioni immediate, la capacità di evocare allo scatto di ricordi e di percezione di fronte a fatti nuovi, ai quali si reagisce con la stessa immediatezza del passato, come
si reagiva un tempo. Questo
 costituisce un elemento di 
novità, anche perché diventa più
raro e quindi prezioso.

Lei personalmente non ne ha nessuna paura?

Detta così, mi sembra quasi una esagerazione letteraria. No, sono sereno, tranquillo, e con il senso che ci sono i tempi per le varie fasi della vita. Ci sono i tempi per crescere, i tempi per agire, i tempi per meditare e i tempi per morire.

Ecco, da una certa frequentazione dei libri sapienziali della Bibbia, che viene attualizzata dai ricordi di una – per tornare all’inizio di questa nostra conversazione – gratitudine per le generazioni passate, mi è venuta questa tranquilla, faticosa, conquista, anche nei rapporti con il proprio destino personale.

Ha parlato del termine
della vita. Lei pensa
s pesso alla morte? Ne ha paura, è qualcosa per cui prova angoscia oppure la sua fede religiosa la mette al sicuro?

Quando si è inseriti in una famiglia, quando si è visto morire le generazioni passate, in qualche misura la morte entra in questo ritmo. È quando si subisce la storia dell’individuo, quando si rompono i legami, quando in una società secolarizzata si perde il senso delle connessioni che allora la morte diventa la fine.

Ecco, nel ritmo tradizionale delle generazioni, di questo susseguirsi di generazioni, la morte diventa un fatto più naturale e quindi un fatto già vissuto, nell’esperienza delle morti di cui è costruita la nostra vita.

La fede religiosa quanto l’ha aiutata in questo suo percorso? Ci sono stati momenti di dubbio, di perplessità o sempre conquiste di certezza?

No, non ho goduto di una fede fatta di certezze. Ho avuto l’esperienza dell’uomo di questo secolo, di una fede fatta di combattimento, di infedeltà e di disponibilità. Credo che l’atteggiamento dell’uomo religioso di oggi sia quello della disponibilità, di un’azione che viene dall’Altro, con la A maiuscola.

Per lei, i sentimenti familiari, sua moglie… Quanto è stata importante nella sua vita?
Si racconta a volte, scherzosamente, che l’ha dimenticata, una volta in un albergo a Roma, ma poi credo che questa cosa sia stata smentita. La famiglia, quanto è stata importante?

Ho avuto la fortuna di una famiglia simpatica, di quattro figli che, con i loro problemi, le loro difficoltà, hanno conservato il senso di appartenenza. E ho costruito con mia moglie – anche se non è vero che la mia dimenticanza abbia toccato anche lei – un rapporto molto maturo in cui ciascuno ha lavorato per costruire una propria personalità – lei fa la psicoanalista – in cui la famiglia è stato non l’incontro per curarsi le ferite, ma per un mondo immaginario diverso da quello quotidiano, anche se poi investito dalla quotidianità, dagli impegni, dalle speranze, dalle utopie che ciascuno nella nostra vita incontra, in cui è coinvolto, ma un luogo che aveva sue regole, suoi linguaggi, un senso di libertà.

E quindi una zona che conserva della infanzia non solo il lessico familiare, ma anche un nucleo di piccola società che oppone queste regole di un aristocratico senso di perfezione alle vicende più lise della vita professionale in cui poi ciascuno di noi si trova ad essere coinvolto, ad avere vittorie e sconfitte. Ecco, la famiglia è rimasta in qualche modo questo luogo magico, in cui ci siamo ricaricati a vicenda.

Quindi le soddisfazioni provengono quasi più dall’affetto, dall’apporto familiare?

Dal grande gioco della famiglia. Sei persone stabiliscono un grande gioco tra di loro.

No, non c’è assolutamente questa idea di una famiglia come rifugio. Ciascuno è consapevole che ha la sua battaglia quotidiana, la famiglia è una specie di interruttore che permette di porsi in un altro problema, di giocare un altro gioco.

In sostanza, lei si sente ottimista, sia nel suo agire personale e sia, più in generale, di fronte al cammino dell’uomo? Secondo lei, è orientato verso il bene, ha un senso o no?

Non lo so. Sento che viviamo in periodi interessanti e sento, con Tommaso Moro, il bisogno della preghiera di non farci vivere in periodi troppo interessanti.

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  1. Pingback: La politica dei giusti e la convenzione del mercato. Un testo di … – RaiNews24 | Economia e Finanza

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