“Voglio svegliare l’aurora” è il titolo generale delle manifestazioni organizzate, sotto l’Alto Patronato della Presidenza della Repubblica, dalla “Fondazione per le Scienze Religiose Giovanni XXIII” di Bologna e dal “Comitato nazionale per le celebrazioni del centenario della nascita di Giuseppe Dossetti” per ricordare il grande padre costituente. Il Testo che pubblichiamo, per gentile concessione dell’autore, è l’intervento di Pierluigi Castagnetti (per lunghi anni deputato e segretario del PPI), tenuto nel pomeriggio di oggi, a Torino presso il Circolo dei Lettori. Un testo in cui l’autore, allievo e amico personale di Dossetti, ricorda “l’insopprimibile congiungimento” di profezia religiosa e profezia civile presente nell’opera e nell’azione del monaco emiliano.
Domani, a Roma, presso l’Accademia dei Lincei si svolgerà un convegno sulla ecclesiologia di Giuseppe Dossetti. Saranno presenti teologi e storici della Chiesa. Un convegno interessante anche alla luce degli ultimi straordinari avvenimenti che hanno investito in questi giorni, l’annuncio da parte di Benedetto XVI di dimettersi da Papa, la Chiesa cattolica.
“Da quando è divenuto uomo pubblico, poco meno di settant’anni fa, Dossetti ha sempre suscitato discussioni e passioni . La produzione bibliografica su di lui nei sedici anni successivi alla sua morte è veramente eccezionale, a conferma del fatto che di Dossetti si deve parlare perché è lui che continua a parlare. Parla evidentemente più alla chiesa che alla politica, perché il suo impegno più lungo e il suo interesse maggiore si sono sviluppati attorno ai temi della fede e del rinnovamento della chiesa. Proprio in occasione del centenario della nascita è emersa in modo imprevisto la coda di una diffidenza di cui non varrebbe la pena dare conto – se non nei termini sublimi in cui l’ha fatto Enzo Bianchi su “La Stampa” del 10 febbraio scorso –, ma lo si deve fare solo per osservare che essa si tratta di una polemica ormai datata. Perché Dossetti continua a disturbare ? E’ ancora il tema del comunismo e dell’anticomunismo che – per quanto non sarà mai ammesso – per alcune personalità che hanno vissuto la stagione del dopoguerra segna il giudizio su di lui. Un giudizio assolutamente superficiale e fondamentalmente sbagliato. Sarà lui stesso a parlarne in quella conversazione con il clero della diocesi di Pordenone del 17 marzo 1994 in cui illustrò l’itinerario spirituale della sua vita: “Quante volte sono stato accusato di filocomunismo! Cosa che è diametralmente opposta al mio spirito, e lo è sempre stata: però l’accusa c’è stata”. A cui si potrebbe aggiungere una testimonianza al di sopra di ogni sospetto, quella di Nilde Iotti che ricordandolo il 7 gennaio 1997 nel teatro di Cavriago, parlò di una conversazione che ebbe in Transatlantico qualche tempo prima che rendesse pubblico il suo ritiro dalla politica: “più passa il tempo – disse in quell’occasione Dossetti – e più mi accorgo che su certe questioni dell’organizzazione della vita economica e dello stato, le vostre posizioni hanno profonde radici di verità; ma io penso che se voi riusciste ad imporre le vostre ragioni, i valori ai quali io credo sarebbero mortalmente feriti e siccome sono legato a questi valori – ricordo ancora l’espressione latina che usò usque ad effusionem sanguinis – io mi ritiro”.
E, allora, non è neppure in senso stretto la questione dell’ anticomunismo, ma a fare questione è piuttosto quel suo rigore evangelico, mai esibito, ma ispiratore delle sue posizioni politiche peraltro presentate sempre con argomentazioni laiche in modo da poter essere ascoltate e accolte anche da chi non era credente. Un rigore che sollevava discussioni e reazioni già ai suoi tempi, cioè in quei soli sette anni in cui fu impegnato in politica, caratterizzava lui e pochi altri e che in seguito ha avuto pochi testimoni. Un rigore evangelico che lo costrinse a irrompere sulla scena pubblica quando già era totalmente immerso nell’esperienza monastica, in sole due altre occasioni e sempre con l’intento di aiutare la chiesa a distinguersi e a distanziarsi rispetto a derive politiche che, coinvolgendola anche al di là delle sue intenzioni, l’avrebbero danneggiata: la guerra in Iraq e l’attacco alla Costituzione da parte di una maggioranza politica il cui spirito distruttivo avrebbe potuto concorrere a modificare negativamente il sostrato morale e sinanche antropologico del paese. Dunque Dossetti non preoccupa più per ciò che è stato politicamente, ma perché quel suo modo di porsi di fronte al potere crea ancora disagio e difficoltà, in particolare alle esigenze del realismo politico a cui non di rado anche la chiesa non riesce a sottrarsi.
Ma la mia testimonianza, in questo centesimo anniversario della sua nascita, non può non soffermarsi proprio sulle cose che Giuseppe Dossetti fece in quel brevissimo periodo, 1945/1952, in cui fu impegnato con ruoli rilevanti nella vita pubblica del paese. Era già vicesegretario della Democrazia cristiana quando si adoperò fortissimamente a favore della scelta per la repubblica nel referendum del 2 giugno 1946, in polemica aperta con De Gasperi che, per non perdere il consenso nel mezzogiorno, aveva preferito la scelta della neutralità per il suo partito. Risultò decisiva per l’esito finale quella sua intensissima campagna elettorale “pro repubblica”, che ha orientato buona parte dell’elettorato democristiano.
Fu ancora decisivo in una battaglia meno nota, tesa ad evitare lo svuotamento della futura Assemblea costituente: “alla fine dell’agosto 1945 in occasione del grande convegno del CLN dell’Alta Italia promosso a Milano e di cui il Partito comunista si sarebbe voluto servire per fare una specie di Costituente anticipata, senza però consultazioni popolari, io credo di poter ricordare come mio merito di allora, quello di essere stato…nella riunione preparatoria che si tenne qualche ora prima nello studio del defunto onorevole Morandi, chi si oppose a che un semplice convegno venisse a gabellare quella specie di Costituente senza elezioni….”, ricorderà lo stesso Dossetti in un discorso della campagna delle elezioni amministrative del 1956 a Bologna.
Fu ancora decisivo quando pretese all’Assemblea costituente che i “principi fondamentali” non fossero declassati a una sorta di preambolo politico, ma facessero parte a tutti gli effetti dell’articolato della Carta, sì da farne il nucleo ispiratore di tutta la sua architettura. E, tra questi principi, ve ne sono alcuni scritti, potremmo dire, con la sua calligrafia a partire dall’articolo 1 e poi il 2, il 7, l’8 e l’11, cioè le architravi che reggono l’intero impianto. Pochi sanno che la stessa scelta della centralità del lavoro da inserire all’articolo 1 venne fatta da Dossetti e Togliatti, con un impegno che Dossetti svilupperà in tutto il dibattito sulle problematiche sociali ed economiche nella Prima Sottocomissione (della Commissione dei 75), come scelta che avrebbe dovuto introdurre e sostanziare l’impronta personalistica di tutta la Carta. Dirà infatti a Togliatti: “so bene che voi convenite su questo punto per ragioni sociali e politiche del tutto evidenti, io invece arrivo a questo approdo per un’altra strada, penso infatti che il lavoro sia la condizione per garantire la dignità, ciò che trasforma cioè l’individuo in persona”. E si definì così quello che potremo definire il “metodo costituzionale” che consentirà di sbloccare l’impasse “ideologica” in cui ben presto venne a trovarsi l’Assemblea costituente, cercando di trovare l’intesa, anche tra le posizioni più distanti, sui punti di approdo, rispettando le reciproche diverse motivazioni che portavano a quel risultato. Un metodo che si rivelò prezioso per l’approvazione di articoli particolarmente “difficili”, come il 29 e il 30 e come, per tornare ai principi fondamentali, l’articolo 7, dove si rischiò veramente la rottura del patto costituzionale. Sarà Giulio Andreotti (in un numero speciale de “Il Popolo” del novembre 2011) a scrivere: “E’ noto che dal suo banco di deputato De Gasperi parlò una sola volta: a sostegno del testo dossettiano sui rapporti Stato-Chiesa. Che fino all’ultimo sembrava destinato alla sconfitta. Qualche ora prima però Togliatti gli aveva fatto pervenire sub segreto la notizia del loro voto favorevole, sconvolgendo i piani della sinistra e dei laicisti più agguerriti. Così il discorso di De Gasperi fu “aggiustato” rispetto allo schema polemico iniziale. Al riguardo sottolineo un aspetto che non è quasi mai considerato. Inserendo nella Costituzione i Patti Lateranensi, si allontanò definitivamente l’ipotesi di una garanzia internazionale alla Santa Sede, per la quale avevano fatto sondaggi in Segreteria di Stato tanto il governo americano che quello irlandese con un esito per loro non incoraggiante da parte di mons. Montini”. Ma, nel frattempo, cosa c’era stato ? Un colloquio lunghissimo e riservato che Dossetti ebbe – su mandato di De Gasperi – con Palmiro Togliatti. A conferma di quanto il rapporto fra i due sia risultato decisivo in più occasioni per difendere valori importanti e irrinunciabili per la nostra democrazia, quale quello della libertà religiosa.
Ma, dopo quei soli sette anni di impegno politico, Dossetti ne visse altri 44 dedicati ininterrottamente all’ascolto della Parola di Dio e alla coltivazione di un abbandono totale alla Sua volontà. Fu in quel periodo che gli capitò di esercitare un ruolo importante a fianco del suo arcivescovo cardinal Giacomo Lercaro nel concilio Vaticano II, così tratteggiato da mons. Luciano Monari, Vescovo di Brescia, all’apertura di questo anno centenario: “del rinnovamento conciliare egli è stato protagonista proprio in quelle dimensioni della vita della chiesa che ci sono più preziose: la liturgia, la Parola di Dio, il mistero di comunione della chiesa…Non posso che benedire Dio di aver messo sulla nostra strada persone che ci hanno fatto desiderare in grande, che hanno promosso linee di rinnovamento saldamente radicate nella grande tradizione della chiesa e nello stesso tempo feconde nella novità dello spirito”.
Potrei citare anche altri riconoscimenti ma, fra i tanti, mi limito a riferire quello del cardinal Carlo Maria Martini che, nel corso di una lunga relazione tenuta il 18 gennaio 1997 presso il collegio San Carlo a Milano incentrata sulla figura di don Giuseppe Dossetti dice: “parlando di lui come profeta del nostro tempo…intendo parlare in particolare della sua capacità di suscitare domande e inquietudini, di far guardare oltre…Potremmo dire anche che Dossetti fu un vigilante, una scolta, una sentinella. Ciò che colpisce nella sua profezia è l’insopprimibile congiungimento di profezia religiosa e di profezia civile”. Sappiamo che il profeta è uno che parla al posto di Qualcuno e non prima che qualcosa accada. La sua funzione essenziale non è quella di anticipare il futuro ma quella di mettere in contatto il cielo con la terra. Il profeta rivela, annuncia, grida. Ma sappiamo anche che nella tradizione teologica cristiana, profeta è colui che predice la venuta del Messia. Questa è la funzione dei profeti antico-testamentari e non solo. Dunque, se l’uso di “profeta” per indicare chi predice il futuro non è pienamente corretto, non è culturalmente immotivato che anche noi possiamo usarlo per indicare una straordinaria capacità di Dossetti. Come ha scritto don Giuseppe jr: “C’è stata in lui una sorprendente, qualche volta conturbante, capacità non tanto di prevedere il futuro, ma di prepararsi ad esso, così da farsi trovare nel centro dei grandi eventi e dello svolte epocali”.
Non deve sorprendere che in don Giuseppe ci fosse questo “insopprimibile congiungimento” di profezia religiosa e profezia civile. In una conversazione con un gruppo di preti di Foggia che erano venuti a Montesole il 21 giugno 1996, probabilmente l’ultimo suo discorso pubblico, riassume con straordinario vigore la sua pedagogia (lo ricorda ancora il nipote don Giuseppe jr nella introduzione a “Il Vangelo nella storia”, edizioni Paoline 2012) : “dico due cose, e una terza l’aggiungo, come dice il libro dei Proverbi. Le due sono queste: il Vangelo e i Salmi….I preti e i laici, quasi senza differenze si immergano nel Vangelo. Lo dico con una particolarissima e specifica insistenza, anche quantitativa: è necessario leggerlo, leggerlo, leggerlo. ….Adesso aggiungo la terza: la storia. Bisogna immergersi nella storia, conoscerla profondamente. ….Leggete libri di solida formazione storica, una pagina al giorno, ma con continuità.” Perciò non deve sorprendere come l’attrazione dell’oriente e l’interesse all’oriente, in particolare al Medio oriente, la Terra santa, ma anche l’oriente più lontano, abbiano rappresentato per Dossetti uno dei temi più importanti della sua vita. “Il motivo della nostra scelta della Terra santa era, ed è ancora, un’estensione logica, territoriale, del nostro vivere della Scrittura; estende la nostra volontà di ascoltare la Parola di Dio nei luoghi in cui le stesse parole sono state pronunziate e realizzate – scrive suor Agnese Magistretti nell’introduzione a “Lettere alla comunità”, ed. Paoline 2006 – Per noi cristiani questa terra rappresenta la testimonianza permanente della venuta di Cristo secondo la carne: il nostro andare e il nostro rapporto con la Terra santa è quindi atto di fede in una forza sacramentale che c’è nel luogo in cui il Signore si è fatto presente e la chiesa ha cominciato a essere. Il passaggio per la Terra è dunque necessario per un contatto non solo con la Scrittura, ma con il mistero, con la Parola fatta carne in Gesù; incontro che è anche uno scandalo molto più forte dello scandalo della divisione delle chiese: lo scandalo dell’infinità di Dio racchiusa nell’umanità di Cristo”.
I monaci della Piccola Famiglia dell’Annunziata si insediarono sin dai primi anni settanta a Gerusalemme (le sorelle, per più di 10 anni), a Gerico (i fratelli, anch’essi per i primi 10 anni) e poi a Main in Giordania, e Ain Arik in Palestina, di qua e di là dal Giordano. Che per Dossetti non è solo una linea di divisione, ma l’ “asse unificante…non solo della Terra Santa, è anche l’asse dell’Asia…è il vero fiume del lavacro, al quale si subordinano tutti gli altri – Gange compreso – perché in esso è disceso per il battesimo il corpo del Cristo…” (G. Dossetti, “Lettere alle sorelle di Monte Sole”, 4 aprile 1973). Dunque, il Giordano “bocca per l’Oriente”, per l’Asia intera. Cioè per quella che sta diventando oggi, dopo quarant’anni da quegli inizi, il nuovo baricentro del mondo globalizzato. E, in un’altra “lettera alle sorelle” aggiungerà, “quell’Asia che – oggi ancor più certamente di ieri – ha su di noi, sulla nostra vita e, credo, sulla nostra morte un’ipoteca indelebile”.
La scelta di andare ad abitare quei Luoghi non poteva non accrescere il coinvolgimento di Dossetti nella condizione di vita dei popoli della Terrasanta, oltreché nella inderogabile necessità per tutto il mondo di affrontare il problema drammatico della convivenza fra i popoli delle tre religioni monoteiste, emblematicamente rappresentato in quella striscia di terra in cui si congiungono i tre continenti: Europa, Asia e Africa. Un’occasione per studiare e cercare di conoscere la psicologia soggettiva e collettiva del mondo arabo in particolare.
E per approfondire e valorizzare il mistero e il significato più intimo e profondo dell’ “elezione” di Israele.
È in questo contesto geografico e storico che Dossetti cerca di porsi la questione del rapporto con l’occidente in termini non superficialmente politici, ma di ricerca profonda di possibili soluzioni, auspicabilmente durature. E soffre come errori storici grossolani e irrimediabili alcune scelte politiche e militari che sfoceranno nella prima guerra del Golfo (e dopo la sua morte, in una seconda guerra del Golfo) e nell’esplosione di processi di instabilità che da quell’area possono dilatarsi al mondo intero. Anche alla luce dei processi di crescente instabilità che proprio in queste ore sembrano coinvolgere tutta l’area del Mediterraneo, risultano particolarmente sapienti e profetiche le parole che scrisse, in modo anonimo, nell’ottobre del 1990, sulla rivista “Il Regno” alla vigilia dell’operazione Desert Storm: “Unico risvolto positivo della vicenda: questi fatti entreranno sempre più nella consapevolezza politica dei popoli. Di questi popoli anzitutto, ma anche di molti altri popoli asiatici e africani, con la conseguenza pressoché inevitabile di portare tumultuose reazioni in un vasto ambito di stati, più o meno direttamente coinvolti; reazioni che nessuno sarà più in grado di dominare. E questo non solo in tutti i paesi arabi, dalla Palestina allo Yemen, ma anche in Turchia la cui situazione diventa sempre più difficile, in Egitto dove le ripercussioni sono inevitabili, e negli altri paesi del Maghreb, aggravando crisi già in atto come quella del Sudan e di altri paesi africani. Tutto questo difficilmente non si estenderà al Pakistan e alla Repubbliche sovietiche mussulmane…l’islamismo radicale ne trarrà vantaggio. Anche se Saddam Hussein fosse eliminato, l’occidente si troverà di fronte ad un islamismo radicale più difficile da combattere e ideologicamente più inestirpabile, sia nei paesi mussulmani che nell’Europa stessa. Vi saranno conseguenze evidentissime per la chiesa. C’è letteralmente pericolo dell’estinzione della chiesa nei territori palestinesi e giordani e in quel pochissimo di chiesa che poteva esserci negli altri territori di Arabia; una chiesa, cioè, ridotta a vivere all’interno degli edifici di culto. Il fatto che la prepotenza americana abbia costretto tutti i paesi, ormai vassalli, ad associarsi all’impresa, ha dato alla medesima un marchio di universalità che rievoca per tutto il mondo orientale la qualifica e il ricordo delle crociate, con tutto quello che ne segue: il ricordo degli eccidi e dell’intolleranza. Ma questo ricordo suscita anche nei mussulmani la bellissima ed eccitante speranza che il trionfo degli occidentali sia effimero, come è stato effimero quello dei crociati. Costantinopoli, saccheggiata e bruciata nella quarta crociata del 1204, sarà come un’ombra sinistra costantemente evocata a tutta la Siria, all’Egitto stesso e poi a tutto il resto dell’Africa. Tutto questo riaccenderà l’intolleranza già presente contro i cristiani nell’alto Egitto…”.
Dossetti vedeva lucidamente quello che purtroppo vent’anni dopo è sotto gli occhi di tutti, ma vedeva soprattutto il rischio letale per la chiesa di essere definitivamente identificata agli occhi di quelle popolazioni con l’occidente aggressore, e capiva che l’Italia, proprio perché vicinissima alla Santa Sede, culturalmente, politicamente oltreché territorialmente, avrebbe potuto contribuire a evitare questo rischio, avrebbe potuto cioè aiutare l’intero occidente a comprendere l’errore di quella guerra, avrebbe potuto ritagliare per sé un ruolo – che pure aveva esercitato nei decenni precedenti – di dialogo e di mediazione con i popoli arabi, avrebbe potuto preservare per la Santa Sede uno spazio “politico” di distinzione e di autonomia rispetto all’iniziativa americana, se solo avesse deciso di non associarsi a quell’impresa. Ma ormai era tardi. Provò ugualmente, cercando di parlare con alcuni dei vecchi colleghi della Dc, ma Moro non c’era più, La Pira non c’era più, era rimasto Fanfani che però non si sentiva di ostacolare una decisione che, con il probabile voto dell’ONU che in effetti avverrà a ridosso dell’intervento, era “nei fatti”. La Direzione nazionale della Dc si riunì il giorno prima del voto del parlamento italiano (che in una tesissima seduta ininterrotta arriverà a concludersi solo nelle prime ore del mattino subito dopo il voto della Nazioni Unite). Nella riunione della Direzione della Dc non era presente Fanfani, mentre erano presenti, oltre il segretario Forlani e il Presidente del consiglio Andreotti, tutti i maggiori dirigenti del partito. Quando intervenni per illustrare le ragioni del mio dissenso che si sarebbe manifestato anche nel voto in parlamento, ricordo l’atmosfera di tensione e grande attenzione, come se dietro le mie parole si scorgesse il pensiero di Dossetti, che non poteva non essere ascoltato con attenzione e considerazione. Nell’imbarazzo generale ricordo solo l’intervento di due altri colleghi, l’uno vicino ad Andreotti e l’altro a Fanfani, che cercarono timidamente di interloquire con le posizioni da me esposte. In seguito, durante la sospensione della sessione notturna della seduta parlamentare mi telefonò don Giuseppe, erano ormai le tre del mattino, desiderava conoscere le argomentazioni dei vari intervenuti al dibattito nella Direzione della Dc . Tra i singhiozzi che rivelavano un grande dolore, mi disse che trovava “scandaloso” che un partito che osava definirsi cristiano non avvertisse la responsabilità in quel momento di una valutazione coerente con l’impegno che derivava da quell’appellativo: “Sappiate che i popoli arabi vivono tutto questo come un’ingiustizia profonda. Sono popoli che hanno la memoria lunga. Sanno conservare ed elaborare a lungo i rancori. Non so se fra cinque, dieci, o quindici anni ci sarà la loro risposta. Almeno questa considerazione dovrebbe indurre voi Dc e il parlamento italiano a ben altre responsabilità e decisioni”.
Sono passati più di vent’anni e il mondo è ancora lì. Ci ha provato Barack Obama con l’intervento all’università de Il Cairo del 2009 a rompere il muro del “non dialogo” tra l’occidente e il mondo islamico, senza però riuscire a dare un seguito a quel primo passo.
Occorre inevitabilmente riprovarci, rinunciando alla convinzione che non ci sia più nulla da fare.
Ho l’impressione che una delle ragioni che rendono ancora oggi Dossetti “imbarazzante” consista proprio nella sua perdurante rappresentazione di un punto di contraddizione o se vogliamo, di paragone “altro”, rispetto a una politica che anziché darsi disegni e obiettivi di senso, continua ad essere, come scriveva Robert Musil, “il luogo in cui si decide ciò che accade”.
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