“Terra, casa, lavoro per tutti”.
Il discorso di Papa Francesco ai partecipanti all’incontro mondiale dei Movimenti popolari

 

Papa Francesco

Terra, casa, lavoro. Sono i tre punti fondamentali attorno ai quali è ruotato il lungo discorso di Papa Francesco ai partecipanti all’Incontro mondiale dei Movimenti Popolari, ricevuti ieri nell’Aula Vecchia del Sinodo in Vaticano. Il Papa ha sottolineato che bisogna rivitalizzare le democrazie, sconfiggere la fame e la guerra, garantire a tutti la dignità,  soprattutto ai più poveri e marginalizzati. Questo importante discorso è stato definito, dalla Radio Vaticana, come una “piccola Enciclica Sociale”. Un discorso che ha colpito molto l’opinione pubblica internazionale. Di seguito pubblichiamo il testo integrale.

“Buongiorno di nuovo, sono contento di stare tra voi, inoltre vi faccio una confidenza: è la prima volta che scendo qui, non c’ero mai venuto. Come vi dicevo, provo grande gioia e vi do un caloroso benvenuto.

Grazie per aver accettato questo invito per dibattere i tanti gravi problemi sociali che affliggono il mondo di oggi, voi che vivete sulla vostra pelle la disuguaglianza e l’esclusione. Grazie al Cardinale Turkson per la sua accoglienza, grazie, Eminenza, per il suo lavoro e le sue parole.

Questo incontro dei Movimenti Popolari è un segno, un grande segno: siete venuti a porre alla presenza di Dio, della Chiesa, dei popoli, una realtà molte volte passata sotto silenzio. I poveri non solo subiscono l’ingiustizia ma lottano anche contro di essa!

Non si accontentano di promesse illusorie, scuse o alibi. Non stanno neppure aspettando a braccia conserte l’aiuto di Ong, piani assistenziali o soluzioni che non arrivano mai, o che, se arrivano, lo fanno in modo tale da andare nella direzione o di anestetizzare o di addomesticare, questo è piuttosto pericoloso. Voi sentite che i poveri non aspettano più e vogliono essere protagonisti; si organizzano, studiano, lavorano, esigono e soprattutto praticano quella solidarietà tanto speciale che esiste fra quanti soffrono, tra i poveri, e che la nostra civiltà sembra aver dimenticato, o quantomeno ha molta voglia di dimenticare.

Solidarietà è una parola che non sempre piace; direi che alcune volte l’abbiamo trasformata in una cattiva parola, non si può dire; ma una parola è molto più di alcuni atti di generosità sporadici. È pensare e agire in termini di comunità, di priorità della vita di tutti sull’appropriazione dei beni da parte di alcuni. È anche lottare contro le cause strutturali della povertà, la disuguaglianza, la mancanza di lavoro, la terra e la casa, la negazione dei diritti sociali e lavorativi. È far fronte agli effetti distruttori dell’Impero del denaro: i dislocamenti forzati, le emigrazioni dolorose, la tratta di persone, la droga, la guerra, la violenza e tutte quelle realtà che molti di voi subiscono e che tutti siamo chiamati a trasformare. La solidarietà, intesa nel suo senso più profondo, è un modo di fare la storia ed è questo che fanno i movimenti popolari.

Questo nostro incontro non risponde a un’ideologia. Voi non lavorate con idee, lavorate con realtà come quelle che ho menzionato e molte altre che mi avete raccontato. Avete i piedi nel fango e le mani nella carne. Odorate di quartiere, di popolo, di lotta! Vogliamo che si ascolti la vostra voce che, in generale, si ascolta poco. Forse perché disturba, forse perché il vostro grido infastidisce, forse perché si ha paura del cambiamento che voi esigete, ma senza la vostra presenza, senza andare realmente nelle periferie, le buone proposte e i progetti che spesso ascoltiamo nelle conferenze internazionali restano nel regno dell’idea, è un mio progetto.

Non si può affrontare lo scandalo della povertà promuovendo strategie di contenimento che unicamente tranquillizzano e trasformano i poveri in esseri addomesticati e inoffensivi. Che triste vedere che, dietro a presunte opere altruistiche, si riduce l’altro alla passività, lo si nega o, peggio ancora, si nascondono affari e ambizioni personali: Gesù le definirebbe ipocrite. Che bello invece quando vediamo in movimento popoli e soprattutto i loro membri più poveri e i giovani. Allora sì, si sente il vento di promessa che ravviva la speranza di un mondo migliore. Che questo vento si trasformi in uragano di speranza. Questo è il mio desiderio.

Questo nostro incontro risponde a un anelito molto concreto, qualcosa che qualsiasi padre, qualsiasi madre, vuole per i propri figli; un anelito che dovrebbe essere alla portata di tutti, ma che oggi vediamo con tristezza sempre più lontano dalla maggioranza della gente: terra, casa e lavoro. È strano, ma se parlo di questo per alcuni il Papa è comunista. Non si comprende che l’amore per i poveri è al centro del Vangelo. Terra, casa e lavoro, quello per cui voi lottate, sono diritti sacri. Esigere ciò non è affatto strano, è la dottrina sociale della Chiesa. Mi soffermo un po’ su ognuno di essi perché li avete scelti come parola d’ordine per questo incontro.

Terra. All’inizio della creazione, Dio creò l’uomo custode della sua opera, affidandogli l’incarico di coltivarla e di proteggerla. Vedo che qui ci sono decine di contadini e di contadine e voglio felicitarmi con loro perché custodiscono la terra, la coltivano e lo fanno in comunità. Mi preoccupa lo sradicamento di tanti fratelli contadini che soffrono per questo motivo e non per guerre o disastri naturali. L’accaparramento di terre, la deforestazione, l’appropriazione dell’acqua, i pesticidi inadeguati, sono alcuni dei mali che strappano l’uomo dalla sua terra natale. Questa dolorosa separazione non è solo fisica ma anche esistenziale e spirituale, perché esiste una relazione con la terra che sta mettendo la comunità rurale e il suo peculiare stile di vita in palese decadenza e addirittura a rischio di estinzione.

L’altra dimensione del processo già globale è la fame. Quando la speculazione finanziaria condiziona il prezzo degli alimenti trattandoli come una merce qualsiasi, milioni di persone soffrono e muoiono di fame. Dall’altra parte si scartano tonnellate di alimenti. Ciò costituisce un vero scandalo. La fame è criminale, l’alimentazione è un diritto inalienabile. So che alcuni di voi chiedono una riforma agraria per risolvere alcuni di questi problemi e, lasciatemi dire che in certi paesi, e qui cito il compendio della Dottrina sociale della Chiesa, “la riforma agraria diventa pertanto, oltre che una necessità politica, un obbligo morale” (CDSC, 300).

Non lo dico solo io, ma sta scritto nel compendio della Dottrina sociale della Chiesa. Per favore, continuate a lottare per la dignità della famiglia rurale, per l’acqua, per la vita e affinché tutti possano beneficiare dei frutti della terra.

Secondo, Casa. L’ho già detto e lo ripeto: una casa per ogni famiglia. Non bisogna mai dimenticare che Gesù nacque in una stalla perché negli alloggi non c’era posto, che la sua famiglia dovette abbandonare la propria casa e fuggire in Egitto, perseguitata da Erode. Oggi ci sono tante famiglie senza casa, o perché non l’hanno mai avuta o perché l’hanno persa per diversi motivi. Famiglia e casa vanno di pari passo! Ma un tetto, perché sia una casa, deve anche avere una dimensione comunitaria: il quartiere ed è proprio nel quartiere che s’inizia a costruire questa grande famiglia dell’umanità, a partire da ciò che è più immediato, dalla convivenza col vicinato. Oggi viviamo in immense città che si mostrano moderne, orgogliose e addirittura vanitose. Città che offrono innumerevoli piaceri e benessere per una minoranza felice ma si nega una casa a migliaia di nostri vicini e fratelli, persino bambini, e li si chiama, elegantemente, “persone senza fissa dimora”. È curioso come nel mondo delle ingiustizie abbondino gli eufemismi. Non si dicono le parole con precisione, e la realtà si cerca nell’eufemismo. Una persona, una persona segregata, una persona accantonata, una persona che sta soffrendo per la miseria, per la fame, è una persona senza fissa dimora; espressione elegante, no? Voi cercate sempre; potrei sbagliarmi in qualche caso, ma in generale dietro un eufemismo c’è un delitto.

Viviamo in città che costruiscono torri, centri commerciali, fanno affari immobiliari ma abbandonano una parte di sé ai margini, nelle periferie. Quanto fa male sentire che gli insediamenti poveri sono emarginati o, peggio ancora, che li si vuole sradicare! Sono crudeli le immagini degli sgomberi forzati, delle gru che demoliscono baracche, immagini tanto simili a quelle della guerra. E questo si vede oggi.

Sapete che nei quartieri popolari dove molti di voi vivono sussistono valori ormai dimenticati nei centri arricchiti. Questi insediamenti sono benedetti da una ricca cultura popolare, lì lo spazio pubblico non è un mero luogo di transito ma un’estensione della propria casa, un luogo dove generare vincoli con il vicinato. Quanto sono belle le città che superano la sfiducia malsana e che integrano i diversi e fanno di questa integrazione un nuovo fattore di sviluppo! Quanto sono belle le città che, anche nel loro disegno architettonico, sono piene di spazi che uniscono, relazionano, favoriscono il riconoscimento dell’altro! Perciò né sradicamento né emarginazione: bisogna seguire la linea dell’integrazione urbana! Questa parola deve sostituire completamente la parola sradicamento, ora, ma anche quei progetti che intendono riverniciare i quartieri poveri, abbellire le periferie e “truccare” le ferite sociali invece di curarle promuovendo un’integrazione autentica e rispettosa. È una sorta di architettura di facciata, no? E va in questa direzione. Continuiamo a lavorare affinché tutte le famiglie abbiano una casa e affinché tutti i quartieri abbiano un’infrastruttura adeguata (fognature, luce, gas, asfalto, e continuo: scuole, ospedali, pronto soccorso, circoli sportivi e tutte le cose che creano vincoli e uniscono, accesso alla salute — l’ho già detto — all’educazione e alla sicurezza della proprietà.

Terzo, Lavoro. Non esiste peggiore povertà materiale — mi preme sottolinearlo — di quella che non permette di guadagnarsi il pane e priva della dignità del lavoro. La disoccupazione giovanile, l’informalità e la mancanza di diritti lavorativi non sono inevitabili, sono il risultato di una previa opzione sociale, di un sistema economico che mette i benefici al di sopra dell’uomo, se il beneficio è economico, al di sopra dell’umanità o al di sopra dell’uomo, sono effetti di una cultura dello scarto che considera l’essere umano di per sé come un bene di consumo, che si può usare e poi buttare.

Oggi al fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione si somma una nuova dimensione, una sfumatura grafica e dura dell’ingiustizia sociale; quelli che non si possono integrare, gli esclusi sono scarti, “eccedenze”. Questa è la cultura dello scarto, e su questo punto vorrei aggiungere qualcosa che non ho qui scritto, ma che mi è venuta in mente ora. Questo succede quando al centro di un sistema economico c’è il dio denaro e non l’uomo, la persona umana. Sì, al centro di ogni sistema sociale o economico deve esserci la persona, immagine di Dio, creata perché fosse il denominatore dell’universo. Quando la persona viene spostata e arriva il dio denaro si produce questo sconvolgimento di valori.

E per illustrarlo ricordo qui un insegnamento dell’anno 1200 circa. Un rabbino ebreo spiegava ai suoi fedeli la storia della torre di Babele e allora raccontava come, per costruire quella torre di Babele, bisognava fare un grande sforzo, bisognava fabbricare i mattoni, e per fabbricare i mattoni bisognava fare il fango e portare la paglia, e mescolare il fango con la paglia, poi tagliarlo in quadrati, poi farlo seccare, poi cuocerlo, e quando i mattoni erano cotti e freddi, portarli su per costruire la torre.

Se cadeva un mattone — era costato tanto con tutto quel lavoro —, era quasi una tragedia nazionale. Colui che l’aveva lasciato cadere veniva punito o cacciato, o non so che cosa gli facevano, ma se cadeva un operaio non succedeva nulla. Questo accade quando la persona è al servizio del dio denaro; e lo raccontava un rabbino ebreo nell’anno 1200, spiegando queste cose orribili.

Per quanto riguarda lo scarto dobbiamo anche essere un po’ attenti a quanto accade nella nostra società. Sto ripetendo cose che ho detto e che stanno nella Evangelii gaudium. Oggi si scartano i bambini perché il tasso di natalità in molti paesi della terra è diminuito o si scartano i bambini per mancanza di cibo o perché vengono uccisi prima di nascere; scarto di bambini.

Si scartano gli anziani perché non servono, non producono; né bambini né anziani producono, allora con sistemi più o meno sofisticati li si abbandona lentamente, e ora, poiché in questa crisi occorre recuperare un certo equilibrio, stiamo assistendo a un terzo scarto molto doloroso: lo scarto dei giovani. Milioni di giovani — non dico la cifra perché non la conosco esattamente e quella che ho letto mi sembra un po’ esagerata — milioni di giovani sono scartati dal lavoro, disoccupati.

Nei paesi europei, e queste sì sono statistiche molto chiare, qui in Italia, i giovani disoccupati sono un po’ più del quaranta per cento; sapete cosa significa quaranta per cento di giovani, un’intera generazione, annullare un’intera generazione per mantenere l’equilibrio. In un altro paese europeo sta superando il cinquanta per cento, e in quello stesso paese del cinquanta per cento, nel sud è il sessanta per cento. Sono cifre chiare, ossia dello scarto. Scarto di bambini, scarto di anziani, che non producono, e dobbiamo sacrificare una generazione di giovani, scarto di giovani, per poter mantenere e riequilibrare un sistema nel quale al centro c’è il dio denaro e non la persona umana.

Nonostante questa cultura dello scarto, questa cultura delle eccedenze, molti di voi, lavoratori esclusi, eccedenze per questo sistema, avete inventato il vostro lavoro con tutto ciò che sembrava non poter essere più utilizzato ma voi con la vostra abilità artigianale, che vi ha dato Dio, con la vostra ricerca, con la vostra solidarietà, con il vostro lavoro comunitario, con la vostra economia popolare, ci siete riusciti e ci state riuscendo… E, lasciatemelo dire, questo, oltre che lavoro, è poesia! Grazie.

Già ora, ogni lavoratore, faccia parte o meno del sistema formale del lavoro stipendiato, ha diritto a una remunerazione degna, alla sicurezza sociale e a una copertura pensionistica. Qui ci sono cartoneros, riciclatori, venditori ambulanti, sarti, artigiani, pescatori, contadini, muratori, minatori, operai di imprese recuperate, membri di cooperative di ogni tipo e persone che svolgono mestieri più comuni, che sono esclusi dai diritti dei lavoratori, ai quali viene negata la possibilità di avere un sindacato, che non hanno un’entrata adeguata e stabile. Oggi voglio unire la mia voce alla loro e accompagnarli nella lotta.

In questo incontro avete parlato anche di Pace ed Ecologia. È logico: non ci può essere terra, non ci può essere casa, non ci può essere lavoro se non abbiamo pace e se distruggiamo il pianeta. Sono temi così importanti che i popoli e le loro organizzazioni di base non possono non affrontare. Non possono restare solo nelle mani dei dirigenti politici. Tutti i popoli della terra, tutti gli uomini e le donne di buona volontà, tutti dobbiamo alzare la voce in difesa di questi due preziosi doni: la pace e la natura. La sorella madre terra, come la chiamava san Francesco d’Assisi.

Poco fa ho detto, e lo ripeto, che stiamo vivendo la terza guerra mondiale, ma a pezzi. Ci sono sistemi economici che per sopravvivere devono fare la guerra. Allora si fabbricano e si vendono armi e così i bilanci delle economie che sacrificano l’uomo ai piedi dell’idolo del denaro ovviamente vengono sanati. E non si pensa ai bambini affamati nei campi profughi, non si pensa ai dislocamenti forzati, non si pensa alle case distrutte, non si pensa neppure a tante vite spezzate. Quanta sofferenza, quanta distruzione, quanto dolore! Oggi, care sorelle e cari fratelli, si leva in ogni parte della terra, in ogni popolo, in ogni cuore e nei movimenti popolari, il grido della pace: Mai più la guerra!

Un sistema economico incentrato sul dio denaro ha anche bisogno di saccheggiare la natura, saccheggiare la natura per sostenere il ritmo frenetico di consumo che gli è proprio. Il cambiamento climatico, la perdita della biodiversità, la deforestazione stanno già mostrando i loro effetti devastanti nelle grandi catastrofi a cui assistiamo, e a soffrire di più siete voi, gli umili, voi che vivete vicino alle coste in abitazioni precarie o che siete tanto vulnerabili economicamente da perdere tutto di fronte a un disastro naturale. Fratelli e sorelle: il creato non è una proprietà di cui possiamo disporre a nostro piacere; e ancor meno è una proprietà solo di alcuni, di pochi. Il creato è un dono, è un regalo, un dono meraviglioso che Dio ci ha dato perché ce ne prendiamo cura e lo utilizziamo a beneficio di tutti, sempre con rispetto e gratitudine. Forse sapete che sto preparando un’enciclica sull’Ecologia: siate certi che le vostre preoccupazioni saranno presenti in essa. Ringrazio, approfitto per ringraziare per la lettera che mi hanno fatto pervenire i membri della Vía Campesina, la Federazione dei Cartoneros e tanti altri fratelli a riguardo.

Parliamo di terra, di lavoro, di casa. Parliamo di lavorare per la pace e di prendersi cura della natura. Ma perché allora ci abituiamo a vedere come si distrugge il lavoro dignitoso, si sfrattano tante famiglie, si cacciano i contadini, si fa la guerra e si abusa della natura? Perché in questo sistema l’uomo, la persona umana è stata tolta dal centro ed è stata sostituita da un’altra cosa. Perché si rende un culto idolatrico al denaro. Perché si è globalizzata l’indifferenza! Si è globalizzata l’indifferenza: cosa importa a me di quello che succede agli altri finché difendo ciò che è mio? Perché il mondo si è dimenticato di Dio, che è Padre; è diventato orfano perché ha accantonato Dio.

Alcuni di voi hanno detto: questo sistema non si sopporta più. Dobbiamo cambiarlo, dobbiamo rimettere la dignità umana al centro e su quel pilastro vanno costruite le strutture sociali alternative di cui abbiamo bisogno. Va fatto con coraggio, ma anche con intelligenza. Con tenacia, ma senza fanatismo. Con passione, ma senza violenza. E tutti insieme, affrontando i conflitti senza rimanervi intrappolati, cercando sempre di risolvere le tensioni per raggiungere un livello superiore di unità, di pace e di giustizia. Noi cristiani abbiamo qualcosa di molto bello, una linea di azione, un programma, potremmo dire, rivoluzionario. Vi raccomando vivamente di leggerlo, di leggere le beatitudini che sono contenute nel capitolo 5 di san Matteo e 6 di san Luca (cfr. Matteo, 5, 3 e Luca, 6, 20), e di leggere il passo di Matteo 25. L’ho detto ai giovani a Rio de Janeiro, in queste due cose hanno il programma di azione.

So che tra di voi ci sono persone di diverse religioni, mestieri, idee, culture, paesi e continenti. Oggi state praticando qui la cultura dell’incontro, così diversa dalla xenofobia, dalla discriminazione e dall’intolleranza che tanto spesso vediamo. Tra gli esclusi si produce questo incontro di culture dove l’insieme non annulla la particolarità, l’insieme non annulla la particolarità. Perciò a me piace l’immagine del poliedro, una figura geometrica con molte facce diverse. Il poliedro riflette la confluenza di tutte le parzialità che in esso conservano l’originalità. Nulla si dissolve, nulla si distrugge, nulla si domina, tutto si integra, tutto si integra. Oggi state anche cercando la sintesi tra il locale e il globale. So che lavorate ogni giorno in cose vicine, concrete, nel vostro territorio, nel vostro quartiere, nel vostro posto di lavoro: vi invito anche a continuare a cercare questa prospettiva più ampia; che i vostri sogni volino alto e abbraccino il tutto!

Perciò mi sembra importante la proposta, di cui alcuni di voi mi hanno parlato, che questi movimenti, queste esperienze di solidarietà che crescono dal basso, dal sottosuolo del pianeta, confluiscano, siano più coordinati, s’incontrino, come avete fatto voi in questi giorni. Attenzione, non è mai un bene racchiudere il movimento in strutture rigide, perciò ho detto incontrarsi, e lo è ancor meno cercare di assorbirlo, di dirigerlo o di dominarlo; i movimenti liberi hanno una propria dinamica, ma sì, dobbiamo cercare di camminare insieme. Siamo in questa sala, che è l’aula del Sinodo vecchio, ora ce n’è una nuova, e sinodo vuol dire proprio “camminare insieme”: che questo sia un simbolo del processo che avete iniziato e che state portando avanti!

I movimenti popolari esprimono la necessità urgente di rivitalizzare le nostre democrazie, tante volte dirottate da innumerevoli fattori. È impossibile immaginare un futuro per la società senza la partecipazione come protagoniste delle grandi maggioranze e questo protagonismo trascende i procedimenti logici della democrazia formale. La prospettiva di un mondo di pace e di giustizia durature ci chiede di superare l’assistenzialismo paternalista, esige da noi che creiamo nuove forme di partecipazione che includano i movimenti popolari e animino le strutture di governo locali, nazionali e internazionali con quel torrente di energia morale che nasce dal coinvolgimento degli esclusi nella costruzione del destino comune. E ciò con animo costruttivo, senza risentimento, con amore.

Vi accompagno di cuore in questo cammino. Diciamo insieme dal cuore: nessuna famiglia senza casa, nessun contadino senza terra, nessun lavoratore senza diritti, nessuna persona senza la dignità che dà il lavoro.

Cari fratelli e sorelle: continuate con la vostra lotta, fate bene a tutti noi. È come una benedizione di umanità. Vi lascio come ricordo, come regalo e con la mia benedizione, alcuni rosari che hanno fabbricato artigiani, cartoneros e lavoratori dell’economia popolare dell’America Latina.

E accompagnandovi prego per voi, prego con voi e desidero chiedere a Dio Padre di accompagnarvi e di benedirvi, di colmarvi del suo amore e di accompagnarvi nel cammino, dandovi abbondantemente quella forza che ci mantiene in piedi: questa forza è la speranza, la speranza che non delude. Grazie”.

 

Dal Sito: http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2014/october/documents/papa-francesco_20141028_incontro-mondiale-movimenti-popolari.html

“Io so e ho le prove. Così le banche imbrogliano il correntista”. Confessioni di un ex manager bancario, un libro di Chiarelettere

SeriesBAW08ALTIl Libro

Io so e ho le prove. Non sono la vittima di un sistema ma quel sistema ho contribuito
a costruirlo. Questo libro racconta le tante irregolarità che i funzionari di banca hanno praticato e continuano tutt’oggi a praticare. È una testimonianza dall’interno, affinché non esistano più segreti, alibi o ipocrisie”.

È la prima volta che un ex manager bancario racconta tutto. Vincenzo Imperatore è stato per vent’anni nelle direzioni operative di alcuni tra i più blasonati istituti di credito italiani. Prima e dopo la crisi economica. La sua testimonianza svela i segreti, le strategie e i maneggi delle banche a danno del correntista.

I costi eccessivi caricati sui conti correnti (“almeno il 20 per cento di quello che il correntista paga non dipende dal tasso d’interesse”, scrive Imperatore). La moltiplicazione delle commissioni. Il ricatto psicologico dietro le richieste di rientro. L’anatocismo e l’usura. Le cosiddette manovre massive, aumenti quasi impercettibili dei tassi che più del 90 per cento dei correntisti non vede e che producono incassi d’oro per gli istituti. Le procedure di calmierazione reclami per i clienti che si accorgono di movimenti strani sul conto e minacciano di chiuderlo (“Noi lo chiamavamo sistema 72H”, ricorda Imperatore). Le tecniche per piazzare un diamante, una polizza assicurativa o un derivato (“Ci garantivano una redditività enorme”). E ancora centinaia di irregolarità e leggerezze nella redazione dei contratti. Questo libro rappresenta finalmente uno strumento unico e imprescindibile dalla parte del correntista.

L’autore

Vincenzo Imperatore (Napoli 1963), laureato con il massimo dei voti in Economia e commercio, dopo un master in Business administration a Roma è stato quadro direttivo addetto alla gestione delle risorse umane, poi direttore di filiale, direttore Centro piccole e medie imprese e direttore di area nelle piazze più importanti del Meridione. Nel 2012 sceglie la strada della libera professione e fonda InMind Consulting, società di consulenza aziendale che tra le altre attività assiste i propri clienti nelle ristrutturazioni dei debiti bancari.

Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo un estratto del libro:

Io so e ho le prove. Io so e ho le prove della gigantesca truffa operata dalle banche ai danni dei correntisti. Io so e ho le prove perché sono un fuoriuscito. Sono stato per anni il più allineato tra gli allineati, tra i migliori venditori nazionali di polizze e strumenti finanziari. Io so e ho le prove perché ero uno di loro, consapevole della spazzatura che vendevamo quotidianamente a schiere di cittadini e imprenditori che firmavano fiduciosi e ignari.
Io so e ho le prove perché ero talmente schierato e interno al sistema da ricevere costanti attenzioni da parte delle organizzazioni sindacali. Io so e ho le prove delle decine di irregolarità formali praticate dalle banche. Io so e ho le prove di come con incredibile superficialità e consapevole leggerezza abbiamo generato profitti pazzeschi e ottenuto premi di produzione da capogiro per gli obiettivi raggiunti. Io so e ho le prove perché ho partecipato in prima fila alle riunioni operative per decidere la strategia da adottare dopo lo scandalo Lehman Brothers e la crisi dei subprime. Io so e ho le prove di come si muovono le banche di fronte a quei correntisti e a quelle aziende in crisi che rischiano di non riuscire più a onorare la propria posizione debitoria: propongono una ristrutturazione del debito, una rinegoziazione che nasconde la manleva da ogni responsabilità per irregolarità in contratti precedenti, e la presentano al correntista come un’opportunità dilatoria. Io so e ho le prove di come le banche mettono a posto i conti a ridosso delle chiusure trimestrali di bilancio attraverso «manovre massive sugli interessi», quando i manager devono relazionare ai soci sullo stato di salute dell’istituto. Io so e ho le prove di come le banche hanno piazzato e continuano a piazzare polizze assicurative e strumenti finanziari ad alto rischio, spacciati per strumenti di maggiore tutela per il cliente che riceve un prestito. Io so e ho le prove di come le banche fanno cassa «piazzando» televisori, tapis roulant e biciclette ai clienti che richiedono finanziamenti. Io so e ho le prove di come le banche hanno ideato procedure lampo di calmierazione reclami per accontentare e invitare al silenzio quei correntisti che scoprono qualche trucchetto o maneggio sul conto. Io so e ho le prove di come le banche hanno aggirato l’eliminazione per legge della commissione di massimo scoperto sostituendola con due nuove commissioni ancora più onerose per il correntista. Io so e ho le prove dei «deliri di onnipotenza», dei privilegi e degli sprechi dei top manager, tutti pagati dai clienti. Io so e ho le prove di come le banche utilizzano la filantropia e la solidarietà solo come «strumento» per migliorare la loro reputazione. Io so e ho le prove. Non sono la vittima di un sistema ma quel sistema ho contribuito a costruirlo e alimentarlo. Questo libro racconta la mia storia di manager bancario ai vertici delle direzioni operative di alcuni tra i più importanti istituti italiani. Racconta le tante irregolarità morali e materiali che i funzionari di banca hanno praticato e continuano tutt’oggi a praticare. È un racconto tutto dall’interno, affinché non esistano più segreti, alibi o ipocrisie. Non pareggerà i conti, ma adesso posso finalmente dire di aver fatto qualcosa dalla parte del correntista.”

Vincenzo imperatore, Io so e ho le prove. Così le banche imbrogliano il correntista. Confessioni di un ex manager bancario, Ed. Chiarelettere, Milano 2014, pagg. 160, € 12,00

La Chiesa estroversa di Papa Francesco. Una riflessione post-sinodale. Intervista a Francesco Antonio Grana.

grana
Quali problemi pongono alla Chiesa le conclusioni del Sinodo sulla famiglia? Come si svilupperà il dibattito nella comunità cristiana? Ne parliamo con Francesco Antonio Grana, vaticanista de Il fatto quotidiano

Francesco Grana, facciamo un breve bilancio dell’importante Sinodo sulla “famiglia” definito, giustamente, un “Sinodo-Concilio”. Che tipo di Chiesa ci consegna il Sinodo?

Una Chiesa in cammino, in uscita, aperta per usare tre immagini molto care a Papa Francesco. Un cammino, come ha sottolineato Bergoglio nel monumentale discorso con il quale ha chiuso i lavori del Sinodo, fatto anche di cadute, di incertezze e di tensioni. Questa è la sinodalità. Questa è la parresia, il parlare chiaro senza tabù che il Papa ha chiesto all’inizio dell’assemblea e che purtroppo a volte è stata esercitata fuori dall’aula sinodale con libri e interviste. È stato facile accusare noi giornalisti di aver creato dal nulla un “Sinodo dei media”, mentre invece siamo stati strumentalizzati da alcuni padri sinodali che non hanno avuto il coraggio di esprimere i loro pareri contrari alla presenza di Papa Francesco. Con un gesto molto significativo, al termine dell’assemblea, Bergoglio è venuto a salutare a uno a uno tutti i cronisti presenti fuori dall’aula e li ha ringraziati per il lavoro fatto nelle due settimane di discussioni. È molto significativo anche che il dibattito non finisce ma prosegue, proprio come in un vero concilio, con la terza tappa del Sinodo ordinario dei vescovi del 2015 sempre sul tema della famiglia.

Quali sono i punti fermi e quali quelli ancora da definire?

Il cammino è solo all’inizio e i punti fermi credo che siano molto pochi. Sicuramente c’è l’indissolubilità del matrimonio tra un uomo e una donna, il fine procreativo della coppia quindi il divieto dei metodi contraccettivi, la ferma opposizione all’equiparazione delle unioni gay al matrimonio. Da definire ci sono però due aspetti importantissimi che in questo Sinodo sono stati i temi più roventi del dibattito tra i vescovi: l’accesso ai sacramenti per i divorziati risposati e una reale e maggiore accoglienza degli omosessuali nella Chiesa.

Nel Sinodo abbiamo assistito a una dialettica tra “conservatori” (quelli che Papa Francesco definisce “coloro che vogliono chiudere Dio nella lettera della legge”) e “riformatori”. Il risultato è stata la mediazione “alta” della “relatio” conclusiva. Resta in realtà che Papa Francesco è riuscito a vincere sugli isterismi “conservatori”. È così?

La mediazione del documento finale del Sinodo, la Relatio Synodi, è certamente al ribasso se prendiamo come punto di confronto la Relatio post disceptationem preparata dal relatore generale, il cardinale di Budapest Péter Erdö, sulla base della prima settimana di dibattito. Anche il messaggio finale è deludente da questo punto di vista: i toni sono molto freddi e duri e non compare mai la parola omosessuali. I “conservatori” hanno ostacolato un cammino che sembrava già abbastanza avanti e invece il dietrofront è molto evidente se si leggono i documenti sinodali senza nessuna miopia o pregiudiziale ideologica. I critici della linea Bergoglio si sono espressi con chiarezza nelle dieci relazioni dei circoli minori che hanno dato un forte stop alla relazione così “progressista” di Erdö. Papa Francesco, con il suo discorso conclusivo, ha segnato una tappa importante soprattutto quando ha sottolineato che il Pontefice e tutti i vescovi “hanno il compito e il dovere di custodire e di servire la Chiesa di Cristo non come padroni ma come servitori”. E in un altro passaggio altamente significativo Bergoglio ha affermato che il Papa “non è il signore supremo ma piuttosto il supremo servitore”, e che bisogna mettere da parte ogni “arbitrio personale, pur essendo, per volontà di Cristo stesso, il pastore e dottore supremo di tutti i fedeli e pur godendo della potestà ordinaria che è suprema, piena, immediata e universale nella Chiesa”. Tradotto vuol dire che alla fine decide il Papa perché il Sinodo, come lo ha voluto mezzo secolo fa il beato Paolo VI, è solo consultivo.

Quali sono stati i momenti di maggior tensione? È vero quello che riporta “Repubblica” che il fronte conservatore ha tentato di coinvolgere il Papa emerito contro Francesco?

Non amo rispondere degli scritti di altri colleghi. Posso solo dire che in ambienti vaticani non esiste riscontro di questa manovra. Certamente se ciò fosse avvenuto sarebbe molto grave per i cardinali e i vescovi che sono andati da Benedetto XVI con questo intento, ma Ratzinger è il primo “tifoso” di Papa Francesco. Certo i “sedevacantisti” o coloro che affermano che l’elezione di Bergoglio è “invalida e nulla” traggono molto ossigeno da queste ricostruzioni. Il rapporto affettuoso e leale tra Francesco e il “nonno saggio” Ratzinger è sotto gli occhi di tutti. La tensione si è respirata nell’aula del Sinodo soprattutto nella seconda e ultima settimana dopo la relazione del cardinale Erdö. Evidentemente a molti padri sinodali è mancato quel coraggio di fare un grande passo in avanti verso divorziati risposati e gay.

Come si svilupperà la dialettica “post-sinodale”?

Speriamo non in libreria come è avvenuto alla vigilia di questo Sinodo con una lotta a colpi di volumi scritti da autorevoli cardinali. Il documento finale, la Relatio Synodi, ora passerà al vaglio delle conferenze episcopali del mondo e poi, sempre a questo livello, sarà inviato dalla segreteria generale del Sinodo un nuovo questionario. A Roma il Papa vuole davvero capire cosa pensano i fedeli di tutto il mondo, vuole ascoltare le loro voci, le loro esperienze quotidiane, i loro problemi e le loro sofferenze per offrire risposte concrete e credibili nel tempo che stiamo vivendo, non in astratto.

Ultima domanda: in che misura l’opinione pubblica ha influenzato la maturazione del Sinodo?

Se il tema del Sinodo fosse stato diverso sicuramente non ci sarebbe stata l’immensa attenzione dell’opinione pubblica su temi che le stanno molto a cuore: unioni civili, divorziati risposati, omosessualità e contraccezione. Sono tematiche attuali e roventi che coinvolgono tutti gli uomini nella loro vita quotidiana ed è normale che le attese siano enormi. Ciò ha reso ancora più vivo e interessante il dibattito dei padri sinodali. Non è possibile parlare della sofferenza che vive una famiglia con un figlio disabile senza ascoltare direttamente i protagonisti. Non si possono creare teorie in laboratorio e poi pensare di farle applicare nella vita reale. Parliamo della vita, dei legami affettivi e del sesso. È fondamentale che l’opinione pubblica faccia sentire la propria voce e proprio per questo, con una decisione inedita, Papa Francesco ha voluto che prima del Sinodo fosse somministrato ai fedeli e non di tutto il mondo un questionario su questi temi. Bergoglio lo ha detto con estrema chiarezza: non bisogna cedere alla tentazione di trasformare il pane in pietra per scagliarla contro i peccatori, i deboli e i malati come un fardello insopportabile. “La Chiesa non ha paura di mangiare e di bere con le prostitute e i pubblicani. La Chiesa ha le porte spalancate per ricevere i bisognosi, i pentiti e non solo i giusti o coloro che credono di essere perfetti”.

Paolo VI e la democrazia italiana. Un testo di Marco Damilano.

images-2
Pubblichiamo per gentile concessione dell’autore e degli organizzatori, la relazione di Marco Damilano (giornalista del settimanale l’Espresso) al Convegno “Paolo VI , Il Concilio Vaticano II e la Terza ondata democratica” , che si è tenuto mercoledì scorso, all’Università “La Sapienza” di Roma.
Lo studio di Marco Damilano mette in evidenza l’analisi di Pietro Scoppola, grande storico cattolico democratico, sul ruolo di Montini nella costruzione della democrazia italiana. Un contributo alla conoscenza della figura di Papa Montini che domenica, a San Pietro, sarà proclamato Beato.

Per rendere più agevole la lettura, il redattore sotto sua responsabilità, ha diviso il testo in 3 paragrafi).

1. Il “montinismo”politico
Cattolico a modo suo, Pietro Scoppola, così si intitola il suo ultimo libro uscito postumo e concluso nelle ultime settimane di vita, il suo scritto più personale e intenso. Cattolico a modo suo, come lo aveva definito Giovanni Battista Montini, papa Paolo VI, difendendo lo storico da chi voleva le sue dimissioni dal comitato preparatorio del convegno ecclesiale del 1976. «È un cattolico a modo suo, ma è bene che rimanga», aveva detto il papa a monsignor Bartoletti. Tra il papa bresciano e l’intellettuale cattolico c’è un rapporto a distanza profondissimo. Tutta l’opera di Pietro Scoppola, l’impegno culturale, civile, politico, religioso, il modo di argomentare e di affinare le analisi, è condizionato dalla figura di Montini. Il grande papa tormentato che era stato prima di tutto il maestro di una o due generazioni. «La mente fine, il maestro sottile di metodica pazienza, esempio vero di essa anche spiritualmente» di cui parla Mario Luzi a proposito di Aldo Moro. E in cui è possibile rintracciare l’impronta di Montini. «Se anche Montini non fosse mai diventato Paolo VI, egli avrebbe rappresentato qualche cosa come una istanza morale nella Democrazia cristiana, il fondamento di una ispirazione politica che sapeva recepire le diversità senza perdere le identità», scrisse Gianni Baget Bozzo su “Repubblica” l’11 agosto 1978, cinque giorni dopo la morte del papa. «Con lui è venuto meno un punto di riferimento per la Democrazia cristiana e per la politica italiana che ha coperto tutto il trentennio repubblicano. A Montini non si deve tutta la Dc, ma si deve il modus operandi che l’ha governata, la maggior qualità della Dc, quello stile che le ha consentito di risolvere i contrasti in convergenze, di distendere le ostilità in “confronto”».
Lo scrive don Gianni Baget Bozzo, ma è stato Scoppola a intuire e raccontare questo Montini un anno prima della sua scomparsa, nel 1977, quando esce La Proposta politica di De Gasperi. È in corso in quel momento il tentativo di rilanciare il dialogo tra i grandi partiti di massa, la Dc e il Pci, come ai tempi della Costituente, con i governi della solidarietà nazionale. L’ultimo ambizioso tentativo di riscrivere le regole del gioco a partire dalla centralità della politica, dei partiti e della loro rappresentanza sociale. Ma al tempo stesso sta entrando in crisi di legittimità il sistema politico italiano uscito da dopoguerra, come ha intuito in solitudine Moro nel 1975: «il futuro non è più, almeno in parte, nelle nostre mani». La delegittimazione della politica è stata preceduta dalla crisi interna della Chiesa, la delegittimazione ecclesiastica cui assiste Montini negli anni immediati del dopo-Concilio. Le due costruzioni in fondo si tengono, hanno un unico architetto e stratega. Forse anche per questo, proprio perché sente che la costruzione  vacilla, Scoppola va a cercare le radici profonde della vicenda storica della Dc e della conversione dei cattolici italiani alla democrazia. Montini è l’eroe di questa vicenda. Sappiamo bene che gli studi storici a partire da quelli di Scoppola ci hanno consegnato uno scontro nel dopoguerra nella Curia tra due ipotesi sul futuro del rapporto tra il Vaticano e la politica italiana. L’ipotesi di monsignor Domenico Tardini, abbracciata anche dal cardinale Ottaviani, in apparenza pluralista, al punto da favorire lo sviluppo dei cattolici comunisti, in realtà di stampo reazionario e conservatore perché dà per scontato che la maggioranza dei cattolici confluirà in un partito di destra nazionale e franchista. E ‘ipotesi che alla fine uscirà vincente, quella di monsignor Montini, la costruzione dell’unità politica dei cattolici come premessa possibile di una confluenza dei credenti nella democrazia, l’appoggio alla leadership degasperiana come possibile strategia per evitare lo scivolamento a destra, nell’autoritarismo, di gran parte del popolo cattolico. È qui, in questo passaggio non facile e non sempre compreso, che nasce il montinismo politico, inteso come un’avanguardia illuminata che guida il corpaccione, sia esso la massa informe della Dc sia esso il popolo dei fedeli senza pastore, l’impaurito e solitamente conformista establishment clericale.
Di questo primo Montini Scoppola descrive e racconta l’evoluzione, gli scontri, l’isolamento. L’estromissione di Montini dalla Fuci nel 1933, provocata dalla crescente tentazione egemonica e di massa nel mondo cattolico. A questo progetto, neo-tomista e piramidale, con grande attenzione ai mezzi di comunicazione, poi ricompreso sotto la categoria del geddismo, da Luigi Gedda, che già nell’estate ’43 ha la lucidità di chiedere a Badoglio per i cattolici la gestione della radio, la potenza dei numeri, della mobilitazione e dell’organizzazione che resterà in eredità in una certa mentalità non solo del mondo cattolico, Montini contrappone il progetto maritainiano-montiniano, l’ideale concreto della nuova cristianità: una visione del mondo, non una ideologia, il «passaggio dei valori morali all’azione concreta in una situazione storica data che implica un appello alla libertà della persona», scrive Scoppola (nella Nuova cristianità perduta , p.22). È su questo terreno che avviene l’incontro con Montini. «Montini», lo ritrae Scoppola nella Repubblica dei partiti (p.104-105), «è il figlio di una borghesia produttiva che ha la consapevolezza del suo ruolo sociale e del contributo recato allo sviluppo e alla modernizzazione del Paese». Notazione interessante. Montini è il curiale borghese. Non conosce l’immobilismo, il relativismo etico, il cinismo immutabile, eterno, degli Ottaviani e del partito romano.
E diventerà, eletto nel 1963, il primo papa del Novecento, il primo a portare al vertice della Chiesa la nevrosi, il ritmo della modernità. Se Jorge Mario Bergoglio è il primo papa ad arrivare da una megalopoli come Buenos Aires, pastore metropolitano, Montini è il primo a conoscere ansie, dubbi, occasioni della modernità. Ha interiorizzato la lezione di Mounier: «L’avvenimento sarà il tuo maestro interiore». Il borghese Scoppola riconosce il tratto comune del borghese Montini, le letture, le inquietudini.
Proprio perché calato nella storia il progetto conosce flussi e riflussi, laddove l’integralismo è portato a suonare sempre la stessa nota, indifferente al mutare delle situazioni. Un filo spirituale, prima ancora che politico, lega Montini a De Gasperi, anche nei momenti di massima tensione, fotografata dall’appunto di De Gasperi datato 12 novembre 1946,  il retroscena di un incontro con M. in cui la Santa Sede chiede alla Dc di abbandonare la collaborazione non solo con le sinistre ma con i partiti laici. «La Dc non avrebbe più il nostro appoggio né la nostra simpatia», minaccia M., cioè Montini, per conto di Pio XII. «Sono 207», scrive De Gasperi a proposito dell’alleanza Dc-Uomo Qualunque. «Costituente?», chiede all’ambasciatore del papa. Che si fa della Costituente? «Alla fine», scrive De Gasperi, «M. aveva notevolmente cambiato» (in La proposta politica di De Gasperi, p.293). È a Montini che Emilio Bonomelli (nella sua casa a Castel Gandolfo il Sostituto vede De Gasperi) chiede nel 1952 se in Vaticano hanno idea delle conseguenze che potrebbe provocare l’operazione Sturzo e l’isolamento di De Gasperi. «È proprio quello che vogliono», risponde Montini.
«Quello di Montini è un atteggiamento di sapiente apertura al nuovo, sul piano spirituale, e accorto uso degli strumenti diplomatici», commenta Scoppola. C’è la presenza di una destra sotterranea, irresponsabile, revanchista, a preoccupare Montini, a farlo muovere in dissenso da papa Pio XII. Uno scontro che finisce in apparenza con la sconfitta di Montini, allontanato da Roma e esiliato a Milano e da allora in poi circondato da una sostanziale diffidenza da parte dell’ambiente curiale e della conservazione ecclesiale. E invece quello scontro anticipa l’egemonia dei cattolici democratici nella politica italiana. Gli anni del boom economico sono anche gli anni della massima presenza cattolica nelle istituzioni, anche se è spesso una presenza non compresa. E al termine di un lungo periodo di benessere, come un’eterogenesi dei fini arriva la secolarizzazione, «il salto nel vuoto etico», lo definisce Scoppola. Fenomeno globale e europeo, certo, ma con una preoccupante velocità nella Francia culla della cultura di riferimento di Montini (e di Scoppola) e con una lacerazione senza precedenti nella comunità ecclesiale in Italia.
Il secondo Montini analizzato da Pietro Scoppola non è più l’audace diplomatico che forza fin dove si può, ma il papa solo e tormentato.
Paolo VI vive nella crisi, come un pastore tra le sue pecore. Oscilla tra l’ascolto e l’esigenza di rimettere ordine, in modo drammatico. Chiede all’amico Jean Guitton: «C’è un grande turbamento in questo momento nel mondo e nella Chiesa, e ciò che è in questione è la fede. Capita ora che mi ripeta la frase oscura di Gesù nel Vangelo di san Luca: ‘Quando il Figlio Dell’Uomo ritornerà, troverà ancora la fede sulla terra?’ […] Ciò che mi colpisce, quando considero il mondo cattolico, è che All’interno del cattolicesimo sembra talvolta predominare un pensiero di tipo non cattolico…». Scoppola a questo proposito parla di un dramma, «una spaccatura» fra i montiniani e Montini che è il papa. «Una parte cattolica si sente tradita da Montini», scrive Scoppola nella Nuova cristianità perduta. Dall’altra parte c’è lo «stupore» di Montini per il tradimento di intellettuali come La Valle, Brezzi, Pratesi, Gozzini che «abbiamo portato nel nostro cuore» e che si candidano nelle liste del Pci. «Talvolta», dice il papa nell’udienza del 12 maggio 1976, a poco più di un mese dal voto politico, «sono gli amici più cari, i colleghi più fidati, i confratelli della medesima mensa sono proprio quelli che si sono ritorti contro di noi. La contestazione è divenuta abitudine, l’infedeltà quasi affermazione di libertà». La sofferenza del papa che monsignor Benelli comunica a Scoppola in una cena a casa dello storico, lasciandolo «preoccupato e spaventato e addolorato», testimonia l’ambasciatore Gian Franco Pompei.

2. La sfida della secolarizzazione: fine della “nuova cristianità”
Entra in crisi la cultura della mediazione che è stata il tratto del montinismo politico, entra in crisi il centro inteso come sintesi, non come immobilismo o come spazio geometrico. «Oggi il centro è l’area in cui si manifestano le maggiori tensioni, l’area stessa della crisi», scrive lucidamente Scoppola in La Nuova Cristianità perduta; già a metà degli anni Ottanta. «I partiti che dovrebbero promuovere le riforme sono condizionati dall’autoconservazione delle classi dirigenti. Non c’è un De Gaulle italiano: o il sistema si autoriforma o si apre una stagione in cui tutte le avventure sono possibili». E non basta invocare per il cattolicesimo italiano del modello polacco che segnerebbe «una ghettizzazione della presenza cattolica». Trent’anni dopo si può dire che tutte queste previsioni erano esatte. La riproposizione dell’ipotesi Tardini, dopo la fine della Dc, la speranza di guidare lo schieramento della destra con uomini provenienti dall’associazionismo cattolico, l’egemonia tentata dal cardinale Ruini con il progetto culturale si è dimostrata fallimentare. Ma anche gli eredi del montinismo sono rimasti prigionieri di un gergo antico ormai privo di contenuti e del culto della mediazione esasperata, fine a se stessa. La nuova cristianità si è dissolta, insieme alla nozione stessa di progetto storico: non solo per i cattolici impegnati in politica, ma anche per i filoni della sinistra che negli anni Settanta-Ottanta sembravano invincibili. Il bipolarismo politico si è risolto, in Italia, in un bipolarismo religioso. Che ha provocato alla fine il deserto della presenza cattolica.

3. La nuova via: la “cultura” dei comportamenti
Resiste, rilanciata dalla figura di papa Francesco, la lezione della cultura dei comportamenti (Nuova cristianità perduta, pp.200-201) che Scoppola aveva intuito come alternativa alla cultura del progetto «come una purificazione e un superamento più che come una rottura». Non c’è una nuova cristianità da ricercare, non nella sfera della politica e non con le armi del potere, c’è da vivere questa realtà e questo tempo «con il massimo di distacco interiore e di libertà» La lezione di Montini nel suo testamento da papa: «Ora che la giornata tramonta, e tutto finisce e si scioglie di questa stupenda e drammatica scena temporale e terrena…». E quella di Scoppola, racchiusa in un commento scritto per Repubblica il giorno dei funerali di papa Wojtyla  e pubblicato il giorno dopo, il 9 aprile 2005. In cui lo storico racconta «dopo l´ossessione mediatica dei giorni della malattia» di sentire «un inconfessabile desiderio alternativo», «una celebrazione non concentrata tutta fisicamente in San Pietro, quasi a sottolineare che la Chiesa è realtà complessa, unita, sì, nel Papa ma non è il Papa». Scoppola realizza il suo disegno alternativo nella sua parrocchia dove in una chiesa quasi deserta un giovane prete legge il Vangelo di Giovanni sulla moltiplicazione dei pani e dei pesci per sfamare la folla che aveva seguito Gesù. L´episodio che si conclude così: «Allora la gente visto il segno che egli aveva compiuto, cominciò a dire: ‘Questi è davvero il profeta che deve venire nel mondo’. Ma Gesù, sapendo che stavano per venire a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo nella montagna tutto solo». «Mi pare», commenta Scoppola, «che quel “tutto solo” sia lo spazio della coscienza, del rapporto interiore con il mistero di Dio, sia ´antidoto alla tentazione di trasformare una manifestazione di fede, spontanea, bella e vissuta, di popolo, in un segno di potenza. Paradossalmente, la condizione di questo prestigio, di questa capacità di presa della Chiesa sul popolo è proprio negli spazi di quel “tutto solo” nei quali Gesù si rifugiava. Forza e debolezza nella Chiesa sono strettamente intrecciate: la Chiesa è una forza debole… La manifestazione trionfale in San Pietro è anche una grande sfida per la Chiesa di domani». La sfida oggi raccolta da papa Francesco, lanciata nel cuore del Novecento da Giovanni Battista Montini.

L’attualità di Papa Paolo VI. Intervista a Fulvio De Giorgi

UnknownIl 19 Ottobre,  a Roma, ci sarà la Beatificazione di Papa Paolo VI.  Il grande Papa    del Concilio, e del protagonismo dei laici nella Chiesa e nella Società. Per comprendere l’attualità della sua figura abbiamo intervistato il professor Fulvio De Giorgi, storico del Movimento Cattolico italiano, autore di un’opera su Paolo VI in uscita nel prossimo mese di Novembre.

Libro in uscita: F. De Giorgi, Paolo VI, Brescia, Morcelliana, 2014.

Professore, domenica prossima, in San Pietro, Papa Bergoglio proclamerà Beato Paolo VI. Qual’è  la lezione “perenne” , per tutta la Chiesa, del magistero di Papa Paolo VI?

Una valutazione storica complessiva del pontificato di Paolo VI e della sua lezione storica “perenne”, come Lei efficacemente la definisce, si lega indissolubilmente al Concilio Vaticano II. Il Concilio infatti, deciso e avviato profeticamente da Giovanni XXIII, rischiava di arenarsi e di fallire, anche per l’emergere di divisioni e contrasti. Fu dunque merito di Paolo VI avere condotto il Concilio alla sua meta, aver realizzato così un ‘corpus’ imponente (per qualità, ma anche per quantità) di documenti innovatori e aver ottenuto su questi documenti praticamente l’unanimità dei vescovi. Il Concilio Vaticano II fu veramente e in molti sensi il Concilio di Paolo VI. Pertanto il giudizio storico sul pontificato di Paolo VI si lega al giudizio storico che si dà del Concilio: se si pensa (come anch’io penso) che il Concilio abbia avuto un’importanza storica straordinaria, realizzando una svolta epocale (che non vuol dire una ‘rottura’) nella storia della Chiesa cattolica, allora pure il pontificato di Paolo VI  ha avuto un’importanza storica straordinaria. I fuochi principali furono, a mio avviso, due: la Chiesa dismise l’atteggiamento anti-moderno che aveva assunto da secoli e abbracciò un sereno dialogo con il Moderno; nel contempo la Chiesa smise di essere etnocentrica, eurocentrica, romanocentrica e divenne veramente una Chiesa mondiale, in cui le chiese locali di periferia non erano più terminali passivi, ma membra attive.

Per gli storici della Chiesa il pontificato di Papa Montini è stato il “pontificato del dialogo”, vedi l’Enciclica “Ecclesiam Suam”, ovvero l’apertura, confermata dal Concilio Vaticano II,della Chiesa al Mondo. Le chiedo: cosa lega l’attuale pontificato di Papa Francesco a quello di Paolo VI?

Sono molti i ‘fili storici’ che legano Bergoglio a Montini e fanno di papa Francesco un vero montiniano. Avrei bisogno di molto spazio e molto tempo per ripercorrere tutti questi fili (legami di Paolo VI con l’America latina e con l’Argentina; il card. Pironio; la conferenza di Medellin; il teologo Gera; e insieme i rapporti di Paolo VI con i Gesuiti, con Arrupe, con la XXXII Congregazione generale della Compagnia, che portò al decreto n. 4, così ‘montiniano’ e così decisivo per capire Bergoglio) e per indicare i documenti di Paolo VI che sono necessari per comprendere Francesco (sicuramente, come Lei osserva, “Ecclesiam Suam”; ma anche “Gaudete in domino” e “Evangelii Nuntiandi”: che sono quasi sintetizzate nella bergogliana “Evangelli Gaudium”). Ma mi devo limitare ad indicare il grande discorso di chiusura di Paolo VI al Concilio Vaticano II, più volte richiamato – esplicitamente e implicitamente – da Francesco. Allora Montini fece vedere come nei piccoli (poveri, sofferenti, bambini) il cristiano vede il volto di Gesù, ma chi ha visto Gesù ha visto il Padre: dunque dall’amore del povero e solo dall’amore del povero si giunge veramente a Dio.

Giovanbattista Montini, prima di diventare Papa, è stato un protagonista assoluto del cattolicesimo italiano. Infatti, la maggior parte della classe dirigente cattolica italiana della Prima Repubblica veniva dalla Fuci di Montini (es. Aldo  Moro).  Le chiedo: si può considerare Papa Paolo VI maestro di laicità?

Indulgendo per un momento alla ‘storia controfattuale’, immaginiamo che Giovanni Batista Montini fosse morto nel 1954 (prima di diventare arcivescovo di Milano e poi papa), ebbene sarebbe stato comunque uno dei grandi personaggi della storia della Chiesa contemporanea! Tra i suoi meriti vi fu pure, non piccolo, quello di aver formato la ‘classe dirigente cattolica’: non quella, come volevano alcuni, che doveva raccogliere l’eredità di Mussolini realizzando un fascismo cattolico, con un’ideologia nazional-confessionale; ma quella (formata nella Fuci e nei Laureati cattolici) di sentimenti antifascisti, ispirata al pensiero di Maritain, che avrebbe costruito la democrazia italiana, con uno spirito di vera laicità. La gran parte dei maggiori Costituenti e uomini politici italiani del secondo dopoguerra era legatissima a Montini: faccio solo i nomi di De Gasperi, La Pira e Moro. Tuttavia vorrei aggiungere che, davanti ad un uomo-mondo quale fu Montini-Paolo VI, non dobbiamo rimanere nell’orizzonte solo italiano. Se dovessi dire quali furono i politici che più si avvicinarono agli ideali montiniani direi, senz’altro, John e Robert Kennedy, che egli incontrò personalmente e stimò.

Anche nel magistero sociale della Chiesa Paolo VI è  stato un innovatore (vedi la Populorum Progessio e l’Octogesima Adveniens). Cosa resta di quel Magistero sociale?

I due grandi documenti, che Lei ha giustamente richiamato, ricollegandosi strettamente alla Costituzione conciliare “Gaudium et Spes” (da Paolo VI fortemente voluta) realizzarono una  ‘svolta’ di portata gigantesca: milioni di cattolici nel mondo che fino allora avevano prevalentemente coltivato ideali sociali e politico-civili di conservazione e di ordine si spostarono su posizioni democratiche avanzate, tendenti alla riforma, alla giustizia sociale e alla pace. Certo nel periodo che va dalla fine del XX secolo all’inizio del XXI, con l’egemonia mondiale del neo-liberalismo (e l’attacco alle politiche di Welfare) tutto questo è stato oscurato. Anche nella Chiesa sono emersi movimenti conservatori e neotradizionalisti che hanno o dimenticato Paolo VI o hanno cercato di dare una lettura conservatrice di quel pontificato: come se fosse stato una sorta di Pio XIII. Letture storiograficamente sbagliate e false. Ma con un chiaro intento ecclesiale: archiviare il Concilio. E con un altrettanto chiaro intento politico: archiviare il cattolicesimo democratico-sociale. Ma la drammatica crisi finanziario-economico-sociale, che ci angustia dal 2007, fa vedere i disastri del neo-liberalismo. E fin dal pontificato di Benedetto XVI si è visto che ciò ha portato ad uno ‘tsunami’ distruttivo anche nella stessa vita della Chiesa e della fede. Come rispondere alla desertificazione neo-liberale dei cuori? Non c’è dubbio: con il Concilio e con Paolo VI. Non parlo perciò del montinismo del passato, che è alle nostre spalle, ma di un necessario montinismo del futuro. È quello che papa Francesco sta cercando di fare. Spero che ci riesca.

Quella di Papa Montini è stata una spiritualità altissima. Che tipo di Spiritualità alimentava la sua fede?

La spiritualità di Paolo VI è insieme semplice – un cristocentrismo evangelico – ma anche complessa a volerne indagare in profondità le fonti bibliche, patristiche, intellettuali e spirituali (Pascal, Teilhard de Chardin, Charles de Foucauld, per esempio). Ma se devo limitarmi a poche battute, preferisco cedere la parola a lui stesso. Visitando, primo papa nella storia, la Terra santa, Montini così pregò:

Beati noi se, poveri nello spirito, sappiamo liberarci dalla fallace fiducia nei beni economici e collocare i nostri primi desideri nei beni spirituali e religiosi; e abbiamo per i poveri riverenza ed amore, come fratelli e immagini viventi del Cristo.

Beati noi se, formati alla dolcezza dei forti, sappiamo rinunciare alla potenza funesta dell’odio e della vendetta e abbiamo la sapienza di preferire al timore che incutono le armi la generosità del perdono, l’accordo nella libertà e nel lavoro, la conquista della bontà e della pace.

Beati noi se non facciamo dell’egoismo il criterio direttivo della vita, e del piacere il suo scopo, ma sappiamo invece scoprire nella temperanza una fonte di energia, nel dolore uno strumento di redenzione, e nel sacrificio la più alta grandezza.