La straordinaria attualità di Gandhi: religione e laicità, contro il terrorismo e ogni guerra. Un testo di Mao Valpiana

Mahatma Gandhi (history.com)

Mahatma Gandhi (history.com)

 

Il 30 gennaio 1948, presso la Birla House a New Delhi, mentre si recava nel giardino per la consueta preghiera viene assassinato con tre colpi di pistola da un fanatico indù, Nathuram Godse, il quale prima di sparare si piega in segno di riverenza di fronte al suo leader. Catturato viene condannato a morte l’8 novembre dello stesso anno. Per ricordare la luminosa figura di Gandhi pubblichiamo, per gentile concessione dell’autore, un testo di Mao Valpiana (Presidente del Movimento Nonviolento italiano).

Non aveva partecipato ai festeggiamenti per l’indipendenza indiana, dopo averla conquistata con il satyagraha (la forza della verità o nonviolenza), perché la separazione tra India e Pakistan era per lui una grande sconfitta. E’ stato assassinato da un giornalista indù, alla testa di un complotto, che non gli aveva perdonato la sua azione per la riconciliazione religiosa e la sua apertura ai musulmani. Gandhi, che era di religione indù, fu considerato dai fondamentalisti di entrambe le parti come un pericolo.  Sono passati 67 anni, da quel 30 gennaio del  1948, e il fondamentalismo è ancora un pesante ostacolo per i processi di pacifica convivenza; il terrorismo internazionale si maschera dietro una religione per raggiungere l’obiettivo politico di destabilizzare e conquistare potere.

Dunque, non si può parlare di Gandhi senza riferirsi alla sua esperienza e alla sua definizione di religione: “E’ l’elemento permanente della natura umana; non ritiene nessun sacrificio troppo grave per trovare piene espressione e lascia l’anima totalmente inquieta fino a che non ha trovato se stessa, conosciuto il suo Creatore e sperimentato la vera corrispondenza fra il creatore e se stessa”. E poi prosegue: “Per me Dio è verità e amore; Dio è etica e morale; Dio è coraggio. Dio è la fonte della luce e della vita e tuttavia è di sopra e di là di tutto questo. Dio è coscienza. E’ perfino l’ateismo dell’ateo. Trascende la parola e la ragione. E’ un Dio personale per coloro che hanno bisogno della sua presenza personale. E’ incarnato per coloro che hanno bisogno del suo contatto. E’ la più pura essenza. E’, semplicemente, per coloro che hanno fede. E’ tutte le cose per tutti gli uomini. E’ in noi e tuttavia al di sopra e aldilà di noi…”.

Siamo in presenza di una religione aperta, libera, accogliente, amorevole, umana. La religione di Gandhi coincide con la ricerca della Verità, perché Dio stesso è Verità, e la Verità è Dio. In questo senso per Gandhi ogni problema che si pone, ogni questione che si deve affrontare, politica, sociale, economica, etica, collettiva o personale, è una sfida religiosa: “per me ciascuna attività, anche la più modesta, è guidata da quella che io considero la mia religione… la mia attività politica, come tutte le altre mie attività, procede dalla religione… perciò anche nella politica dobbiamo stabilire il regno dei cieli”. Tuttavia in Gandhi c’è posto anche per una piena laicità. Ha saputo essere, insieme, un grande religioso e una grande statista: “se fossi un dittatore, religione e Stato sarebbero separati. Credo ciecamente nella mia religione. Voglio morire per essa. Ma è una mia faccenda personale. Lo Stato non c’entra. Lo Stato dovrebbe preoccuparsi  del benessere temporale, dell’igiene, delle comunicazioni, delle relazioni con l’estero, della circolazione monetaria e così via, ma non della vostra o mia religione. Questa è affare personale di ciascuno”.

Forse non è un caso che Gandhi avesse una grande ammirazione proprio per due italiani, San Francesco d’Assisi (riformatore religioso) e Giuseppe Mazzini (riformatore laico).

Oggi nel mondo intero Gandhi è considerato il profeta della nonviolenza, ma il rischio è quello di farne un santo, un eroe, un simbolo, un mito. Gandhi, invece, nel corso di tutta la sua azione sociale e politica si è sempre sforzato di far capire che ciò che lui ha fatto poteva farlo chiunque altro, che “la verità e la nonviolenza sono antiche come le montagne”. La novità emersa con Gandhi consiste nell’aver saputo trasformare le nonviolenza da fatto personale a fatto collettivo, da scelta di coscienza a strumento politico: con Gandhi la nonviolenza non è più solo un mezzo per salvarsi l’anima, ma diventa un modo per salvare la società. La nonviolenza è sempre esistita, presente in tutte le culture e in tutte le religioni, in oriente e in occidente, nei sacri testi della Bibbia e del Corano, della Bhagavad Gita e del Buddhismo. Ma è con Gandhi che la nonviolenza diventa un’arma di straordinaria potenza per liberare le masse oppresse.  Il Mahatma ci ha fatto scoprire che la nonviolenza è insieme un fine ed un mezzo, che per abbracciare e farsi abbracciare dal satyagraha ci vuole fede, pazienza, sacrificio, dedizione, addestramento: “Il satyagrahi si allena giorno per giorno, in ogni istante della propria vita, per diventare capace di soffrire con gioia e apprendere la difficile arte del dono della vita. Egli agisce senza recriminazioni, con distacco, senza aspettarsi il risultato immediato delle proprie azioni e senza rivendicarne il merito. Non si stupisce della violenza che puo’ essergli inflitta, non agisce con rabbia e utilizza ogni occasione che gli si presenta per trasformare il male con il bene.”

Gandhi è stato un grande innovatore, è stato l’uomo che ha riscattato il ventesimo secolo che altrimenti sarebbe stato consegnato alla storia come un secolo buio, per gli orrori delle guerre mondiali e per l’olocausto nei campi di sterminio. Gandhi è la preziosa eredità per il nuovo secolo.

La lezione di Gandhi ha suscitato molti proselitismi, in ogni parte del mondo. Dagli Stati Uniti di  Martin Luther King, al Sudafrica di Mandela, dalla Birmania di Aung San Suu Kyi, al Tibet del Dalai Lama, ed in Italia con Maria Montessori, Aldo Capitini, Danilo Dolci; in America Latina e in Europa, ovunque vi sono gruppi o popoli che lottano per i loro diritti ispirandosi alla forza attiva del satyagraha.

“Se posso dirlo senza arroganza e con la dovuta umiltà, il mio messaggio e i miei metodi sono validi, nella loro essenza, per il mondo intero; ed è motivo di viva soddisfazione per me sapere che hanno già suscitato mirabile rispondenza nel cuore di un grande e sempre crescente numero di uomini e donne dell’Occidente”.

Oggi infatti non si può parlare di pacifismo senza fare i conti con la nonviolenza gandhiana.  La mobilitazione contro la guerra e il terrorismo (la guerra è terrorismo su vasta scala, e il terrorismo è una guerra contro la società) è coerente e vincente solo se fatta con i mezzi della nonviolenza. “La guerra è il più grande crimine contro l’umanità”. Gandhi condanna il ricorso alla violenza, senza appello, e ci indica anche il metodo giusto alternativo: “Si dice: i mezzi in fin dei conti sono mezzi. Io dico: i mezzi in fin dei conti sono tutto”. Dunque la nonviolenza di Gandhi è soprattutto prassi, azione, sperimentazione. Tutta la sua vita è spesa in questa ricerca, tanto da intitolare la sua autobiografia “Storia dei miei esperimenti con la verità”.

Il mondo è solo all’inizio dell’esplorazione delle potenzialità della nonviolenza, la sola via che può salvare l’umanità.

Giornata della Memoria: una riflessione sulla SHOAH

auschwitz_h_partb27 gennaio 1945 i soldati dell’Armata Rossa sovietica liberarono il campo di concentramento tedesco di Auschwitz, ad ovest di Cracovia, nel sud della Polonia. Mentre si avvicinavano, le SS iniziarono l’evacuazione. Circa 60 mila prigionieri furono costretti a marciare verso ovest, la maggior parte, per lo più ebrei, verso la città di Wodzislaw nella parte occidentale dell’Alta Slesia. Migliaia di persone furono uccise in fretta nei giorni precedenti, il più possibile. Durante la marcia della morte le SS spararono a quelli che, stremati, non potevano continuare a camminare. Gennaio, gelo, fame. Morirono in più di 15 mila. Quando entrò, settant’anni fa, l’esercito sovietico trovò e liberò oltre 7 mila sopravvissuti, malati e moribondi. Si stima che circa 1,3 milioni di persone siano state deportate ad Auschwitz tra il 1940 e il 1945. Di queste, almeno 1,1 milioni sono state assassinate.
Dal 1933, con la creazione del primo campo di concentramento di Dachau, al 1945 6 milioni di ebrei vengono sterminati dall’orrore demoniaco del nazismo (senza dimenticare le altre vittime: omosessuali, disabili, rom, sinti, oppositori politici, testimoni di Geova, clochard, ecc.). La Shoah è il “cuore di Tenebra” dell’occidente, nasce all’interno del brodo di coltura dell’antigiudaismo e antisemitismo che ha attraversato nei secoli l’occidente. Certo la follia criminale nazista aggiungeva il razzismo e la cultura del sangue “ariano”.
L’infernale “macchina” del lager serviva non solo allo sterminio ma anche alla creazione, alla mutazione cioè, dell’essenza della natura umana: ovvero la creazione del sub-uomo (esseri inferiori e tali erano considerati gli ebrei) cui i “superuomini” nazisti potevano esercitare ogni sopruso e umiliazione. Quelli, dunque, che non erano “ariani” erano solo “larve umane”, manichini inermi.
Questo era lo scopo dell’ordine del terrore nazista, centrato sul lager. La shoah quindi svela alla radice di quale crudeltà è capace l’uomo, a che livello di abiezione può spingersi l’uomo: ridurre il suo simile a bestia.
L’”ordine” sociale del lager era un “ordine” gerarchizzato al massimo. Era un “ordine” del tutto rovesciato rispetto alla normalità: in cima alla gerarchia c’erano i più malvagi.
La Shoah, quindi, pone interrogativi enormi sulla natura dell’uomo e della cultura dell’occidente.
Ora “La banalità del Male” di Auschwitz, per dirla con Hanna Arendt, pone interrogativi abissali , in particolar modo, ai credenti nel Dio di Abramo, Isacco, Giacobbe e di Gesù di Nazareth. Tutta la “teodicea” è messa in discussione. Voltaire, nel suo cinismo filosofico contro Leibniz, con sarcasmo poteva affermare che “Lisbona è affondata e a Parigi si balla”. Ma come scrive Theodor Adorno: se Lisbona rappresenta i disastri che la natura compie ai danni dell’uomo, ed oggi sappiamo quanto questi disastri dipendano anche dal comportamento umano, Auschwitz, che “prepara l’inferno reale sulla terra”, pone interrogativi così radicali da sconvolgere sia il teologo che il filosofo: “Dov’era Dio mentre milioni di innocenti ebrei venivano sterminati?”
E’ l’interrogativo che si pone Elie Wiesel, nel suo libro La Notte:
Dietro di me sentii lo stesso uomo chiedere: Dov’è Dio adesso?
E udii una voce dentro di me rispondergli: Egli è qui – Egli è appeso qui su questa forca.
Questo è l’evento centrale del libro: la morte letterale di Dio. Altre domande sorgono in questo libro:
“Sia benedetto il nome di Dio? Perché, ma perché io avrei dovuto benedirlo? Ogni fibra di me si ribellava. Perché Egli aveva condannato migliaia di bambini a bruciare nelle Sue fosse comuni? Perché aveva continuato a far funzionare sei forni crematori giorno e notte, inclusi lo Shabbat e i giorni santi? Perché con la sua forza aveva creato Auschwitz, Birkenau, Buna e tante altre fabbriche di morte? Come potevo dirgli: Benedetto sei tu, onnipotente, Signore dell’Universo, che ci hai scelti fra tutte le nazioni ad essere torturati giorno e notte, per vedere come i nostri padri, le nostre madri, i nostri fratelli finiscono nei forni? […] Ma ora, non ho più supplicato per nulla. Non ero più in grado di emettere un lamento. Al contrario, mi sentivo molto forte. Io ero l’accusatore, Dio l’imputato!”
Sono domande radicali, angoscianti, che pongono al-limite la riflessione umana di un credente.
Tra i più importanti pensatori tedeschi, il teologo Jurgen Moltmann, è stato quello che più ha riflettuto su Auschwitz: La nozione tradizionale di una “motore immobile” impassibile, era morto in quei campi e non era più sostenibile. Moltmann propone invece un “Dio crocifisso”, che è un Dio “sofferente” e anche “protestante“. Vale a dire, Dio non si distacca dalla sofferenza, ma entra volontariamente nella sofferenza umana con compassione.
“Dio in Auschwitz e Auschwitz nel Dio crocifisso” .
Ciò è in contrasto sia con l’iniziativa del teismo che giustifica le azioni di Dio, e sia con l’iniziativa dell’ateismo che accusa Dio. La “teologia trinitaria della croce” di Moltmann afferma invece che Dio è un Dio che protesta e si oppone agli “dei di questo mondo” di potere e di dominio, entrando nel dolore umano e soffrendo sulla croce e sul patibolo di Auschwitz.
Un Dio “sovversivo” che chiede al credente di battersi radicalmente contro gli inferni di quaggiù, in questa opera noi, come ci insegna Etty Hillesum, la giovane donna ebrea che insieme ad Edith Stein, Simone Weil rappresentano le luminose figure della mistica femminile di radice ebraica e cristiana contemporanee, “aiutiamo Dio” ad essere ospitato nel cuore dell’uomo.
Ma Auschwitz, come scrive un altro pensatore tedesco Johnann Baptist Metz (anche lui teologo), pone ancora altre domande: “La domanda teologica dopo Auschwitz non è solamente: dove era Dio ad Auschwitz? Ma è anche: dove era ad Auschwitz l’uomo? Come si potrebbe credere nell’uomo, o perfino nell’umanità, quando si dovette sperimentare ad Auschwitz di che cosa «l’uomo» è capace? Come continuare a vivere tra gli uomini? Che cosa sappiamo noi della minaccia all’umanità dell’uomo, noi che abbiamo vissuto voltando le spalle a questa catastrofe o che siamo nati dopo di essa? Auschwitz ha ridotto profondamente il limite di pudore metafisico tra uomo e uomo. A questo sopravvivono solo coloro che hanno poca memoria o coloro che sono riusciti bene a dimenticare che hanno dimenticato qualcosa. Ma nemmeno questi restano illesi. Non si può peccare quanto si vuole contro il nome dell’uomo. Non solo l’uomo singolo, anche l’idea dell’uomo e dell’umanità è profondamente vulnerabile. Solo pochi collegano ad Auschwitz l’attuale crisi d’umanità: l’insensibilità crescente di fronte a diritti e valori universali e grandi, il declino della solidarietà, la furba sollecitudine nel farsi piccoli pur di adattarsi a ogni situazione, il rifiuto crescente di offrire all’io dell’uomo una prospettiva morale, eccetera. Non sono tutte scelte di sfiducia contro l’uomo? La catastrofe che è stata Auschwitz costituisce forse una ferita inguaribile?“

«E se anche l’attuale crisi d’umanità – conclude Metz-fosse figlia della ferita inguaribile del lager?» (Vedi: http://www.landino.it/2011/01/johann-baptist-metz-«la-shoah-e-entrata-tardi-nella-teologia»/)

(il pezzo è uscito anche su : www.laspeziaoggi.it)

“Professione” Lolita: un romanzo di Chiarelettere sulla Roma marcia degli ultimi avvenimenti.

 

proscenio_professione lolita

Potere, corruzione, droga, sesso. Questa è Roma. La Roma marcia degli ultimi avvenimenti di cronaca: dalle baby prostitute del Parioli a Mafia Capitale. Scrive Roberto Bonini, giornalista di Repubblica, nella sua introduzione: “Il romanzo di Daniele Autieri ha il coraggio di raccontare non solo una generazione, ma cosa siamo diventati. Jenny e Lalla parlano di noi tutti e di una città, Roma, che è insieme metafora e sintomo dell’abisso italiano.”. Proprio così un romanzo sull’abisso in cui siamo sprofondati.

professione-Lilita-fascettaIL LIBRO

A quattordici anni JENNY e LALLA si prostituiscono in un appartamento dei PARIOLI.

Lo fanno per i soldi e per la coca.

A quindici anni FAIRY vomita per essere più magra e meno sola. Per essere ancora più bella. È così insicura che finisce nella rete di K, il fotografo delle minorenni adescate nei quartieri bene. K le convince a fare sesso tra di loro. E scatta. E vende.

A diciotto anni MALPHAS adora le lame, il Duce e CasaPound. Gestisce lo spaccio e la ricettazione nel cuore della capitale.

Deve tutto alla camorra e al patto con i bori di Tor Bella Monaca. Il prezzo che dovrà pagare sarà altissimo. Poi ci sono loro. POLITICI, IMPRENDITORI, GIUDICI.

Affamati di carne giovane e di potere. Pronti a sborsare centinaia di euro per una notte con una minorenne. Disposti a tutto per arrivare ancora più in alto. Poi c’è lui. Il CAMALEONTE. Il re di Roma. L’uomo a capo dell’associazione a delinquere che ha messo le mani sugli appalti pubblici assegnati dal comune e dalle sue società controllate. L’uomo responsabile di estorsioni ai danni di commercianti e imprenditori. L’uomo che vuole arricchirsi anche con il business della prostituzione minorile.

Un sistema criminale sul quale indaga il capitano del Nucleo investigativo dei carabinieri EUGENIO MARCHESI. Cresciuto in borgata e in borgata noto a tutti come Markio, oggi il capitano vuole salvare i ragazzini come un tempo è stato salvato lui.

Di notte perlustra le strade della capitale a bordo della sua Cbr 1000, nelle orecchie il Notturno di Chopin, sulle spalle un passato ingombrante che non vuole dimenticare. Le sue indagini lo portano sulle tracce di Lalla, Jenny e Malphas. Lui è l’unico che può salvarli e incastrare i burattinai che giocano con le loro vite.

 

 L’AUTORE

Daniele Autieri (Roma, 1977) è scrittore e giornalista de “la Repubblica”. Sua l’inchiesta che ha rivelato i retroscena della vicenda delle baby squillo dei Parioli: le sue indagini giornalistiche hanno condotto all’arresto di Furio Fusco, il cosiddetto fotografo delle minorenni, e hanno permesso ai carabinieri del Nucleo investigativo di smascherare un giro internazionale di produzione di materiale pedopornografico, legato al mondo delle minorenni della capitale. Ha già pubblicato Alemagno (Aliberti 2011) e Il saccheggio (Castelvecchi 2013).

Di seguito i personaggi del libro:

I violenti

Jenny
Quindici anni, una vita di coca, soldi, sesso. Una madre di cui non si fida, che gli ha nascosto perfino la morte del padre. A Jenny non resta altro che la ribellione. Non le resta che fuggire da chi le ha dato la vita e ha provato a rinchiuderla in una scuola di monache. Lei vuole il mondo ai suoi piedi. Il prezzo non conta.

Lalla
«Mamma» è una parola brutta da pronunciare. Perché richiama ricatto e urla che graffiano la pelle. Perché a casa i soldi non bastano mai. Ha quattordici anni, Lalla, e una sola amica, Jenny. Vuole fare come lei: vendersi e ricominciare a vivere. Vendersi e dire addio ai suoi dolori.

Chicca
Sedici anni, ricca e bellissima. Scambia il suo corpo con chi le promette droga, trasgressione e magari, nelle distrazioni della notte, una carezza. Non chiede soldi. Vuole solo vivere e superare i limiti. Ma alla solitudine non esiste antidoto.

I ribelli

Fairy
A quindici anni la solitudine è la sua condanna. Ignorata dai genitori, Fairy: troppo impegnato nel lavoro, lui; troppo frivola e indifferente, lei. La ragazza si chiude in bagno e vomita. Ma nessuno bussa a quella porta. Ha solo i suoi fantasmi, Fairy, i suoi aguzzini che le riempiono la vita di sogni e illusioni.
Meglio cercare quello che manca altrove. Fino a Dubai. E oltre.

La Guardia
Eugenio Marchesi è una guardia, ma l’Arma lo sa che il suo è un passato ingombrante. Di giorno indossa la divisa. Di notte torna nella periferia dove è cresciuto. Alla ricerca di una verità che nessuno vuole ascoltare.

Trilly
Sabrina vuole diventare showgirl. Cambia nome, dice addio alla provincia e al suo passato. Ma il compromesso è un patto di sangue con il carnefice.
E le vittime sono bambine, proprio come lo era lei.

I demoni

Il Boss

Pistola nei pantaloni e guardie del corpo alle spalle. A Roma chi vuole fare affari con la camorra deve parlare con lui. Altrimenti la pantera scatta, afferra la preda, affonda i denti nella carne. «Ce verimm’ ampress’, nenne’» esclama di fronte alla carcassa. «All’inferno» risponde lei.

Il Camaleonte
È lui il re del mondo di mezzo. Impartisce ordini, minaccia e ricatta. Quando serve uccide. Vive nascosto perché uscire allo scoperto sarebbe inutile: le anime nere non sbiadiscono al sole.

Malphas
Il demone è ragazzo. La vita lo vuole violento, la famiglia lo crede borghese. Il padre ha militato, ha conosciuto la strada ma il tempo gli ha fatto un regalo che si chiama politica.
Sotto la camicia bianca, i tatuaggi marchiano l’anima nera di Malphas. Roma Nord lo riconosce come il suo capo branco eppure la periferia ha regole diverse. L’abito inganna. Il volto truffa. Ma il sangue resta sulla lama.

Franca
La slot machine è la sua droga. Un’ultima scommessa e sarai ricca. Franca chiude gli occhi e tira la leva. Stavolta la posta è alta, perché sul banco della vita ha puntato Lalla, sua figlia.

I perversi

Il Giudice
Il corpo sudato e l’anima derelitta. Lo spirito corrotto e il piacere forsennato.
La legge non conta. L’onore non conta. Conta solo godere.

L’Onorevole
La politica è una puttana generosa. Va succhiata fino all’osso, fino al segreto del potere.
Per scoprire in quel momento che l’avidità non ha limiti. Ed è pronta ad azzannare la coscienza.

Il Presidente
La superbia veste un abito comodo. Un mantello che nasconde il volto del peccato. Alla sua età, il Presidente guida la grande azienda dello Stato con la tenacia del leone.
Ma sotto l’abito pubblico, l’animale scalpita. E il desiderio ha un nome che fa paura.

Gli infami

K
La mano del fotografo davanti al corpo della bambina. Ogni scatto è un’anima rubata. Il fotografo le vuole tutte giovanissime. Perché la carne giovane va forte al mercato degli insospettabili. E la lussuria è una signora senza età.

Tilde
Amava un uomo troppo vecchio. Matilde ora lo ha perso e con lui ha perso la rotta. Le resta solo la figlia, Jenny, e la sua rabbia.
Meglio chiudere gli occhi e non vedere quello che sta succedendo. Illudersi ed evitare di soffrire.

Toni
La iena ha fame ma non fa vittime. Sfrutta le ragazzine perché loro portano i soldi. Le fa battere e vive dei loro avanzi. Si lancia sulle carcasse e strappa quello che serve. Il resto marcisce sotto un sole infuocato.

Daniele Autieri, Professione lolita, Ed. Chiarelettere, Milano 2015, Pagg. 330. € 15,00

Il «Proscenio», che pubblichiamo per gentile concessione dell’editore, è di Vincenzo Bizzarri (Foggia, 1987). Autore di fumetti e illustratore, dopo sei anni di autoproduzione esordisce nel 2012 come disegnatore nel libro a fumetti Dal Risorgimento alla Resistenza edito dalla Regione Toscana. Collabora e pubblica con la casa editrice Double Shot, Kleiner Flug, la rivista «Lo Spazio bianco» e il Goethe Institut. Nel 2013 vince la Comics Jam indetta dalla Fondazione Ferragamo. Attualmente frequenta il biennio specialistico in Linguaggi del Fumetto all’Accademia di Belle Arti di Bologna.

Riforma del “Terzo Settore”: a che punto siamo? Intervista a Luigi Bobba

Luigi Bobba (www.vita.it)

Luigi Bobba (www.vita.it)

Un’importante Riforma sta per essere varata dal Parlamento: si tratta della Legge di riforma del “Terzo Settore”. Ne parliamo con l’on. Luigi Bobba (PD), Sottosegretario al Welfare con specifica delega nei confronti del “Non Profit”

Sottosegretario Bobba, diamo qualche numero: quanto è grande la realtà del “Terzo Settore” in Italia?

L’ultimo censimento dell’Istat – maggio 2014 – ci restituisce un’immagine sufficientemente precisa e affidabile: sono più di 301.000 le organizzazioni non profit che l’Istituto di statistica è riuscito a raggiungere, attingendo ai molti registri in cui tali soggetti sono classificati.
Si tratta prevalentemente di associazioni non riconosciute di dimensioni medio-piccole; che operano nel campo sportivo, culturale e turistico (60%) o in quello socio assistenziale (23%), che mobilitano 4,7 milioni di volontari; che generano un PIL pari a circa 64 miliardi (4,2%) e occupano più di 700.000 persone. Diversamente da quanto si crede, tali soggetti associativi si finanziano mediante risorse private per il 65,9% (tessere, donazioni, vendite di beni e servizi) e, pur trovandoci di fronte a enti non commerciali, il 47% delle loro entrate deriva da vendite di beni e servizi. I loro bilanci però sono, per il 95% dei casi inferiori a 500.000 euro. Vi sono poi circa 3,1 milioni di volontari individuali e quasi il 26% della popolazione italiana ha effettuato una donazione per una finalità sociale.

Però dopo lo scandalo di Mafia Capitale, che ha coinvolto realtà della cooperazione, nell’opinione pubblica è aumentata la diffidenza nei confronti del “terzo settore”. Secondo lei è così? Quali strumenti per evitare il ripetersi di questi episodi?

Le vicende collegate allo scandalo “Mafia capitale” hanno certamente prodotto un danno rilevante in termini di reputazione a tutto il Terzo Settore e in particolare alla cooperazione sociale. Non bisogna però lasciarsi travolgere da questa ondata di giusto sdegno e intervenire in modo che casi simili non si ripetano. Le misure però devono essere appropriate in quanto, delle 301.000 organizzazioni censite dall’Istat, un terzo ha un bilancio inferiore a 5000 euro. Un altro terzo sta nella fascia da 5000 a 30.000 euro di bilancio; mentre più dell’80% delle risorse attivate dal terzo settore, ovvero 52 miliardi su 64 complessivi, è generato interamente dal 4,5% dei soggetti, ovvero poco più di 13.500 organizzazioni. E’ in questo segmento che occorre modificare regole, vincoli e controlli. In parte, con la Legge di stabilità, sono già state emanate alcune norme con questo scopo: per le cooperative sociali, gli affidamenti diretti devono essere sottoposti a procedure ad evidenza pubblica; inoltre, per i soggetti beneficiari del cinque per mille vi sarà l’obbligo di rendicontare con procedure trasparenti le risorse ricevute attraverso questo meccanismo fiscale.
Ancora, bisogna mettere mano al sistema di revisione dei bilanci delle cooperative affidato oggi alle Centrali Cooperative e al Ministero dello Sviluppo Economico (MISE). Il passaggio di questa funzione dal Ministero del Lavoro al Mise non ha certo migliorato l’efficacia dei controlli, disperdendo un prezioso patrimonio di competenze. Forse qui è necessario un ripensamento. Infine il Parlamento italiano sarà chiamato a recepire la Direttiva sugli appalti della UE del febbraio 2014. Tale direttiva, da un lato consente di utilizzare, a determinate condizioni, le “clausole sociali”; dall’altro prescrive che tali clausole si possano applicare se i destinatari degli interventi sono soggetti svantaggiati e se le imprese che li realizzano hanno una specifica qualificazione “sociale”.

Veniamo alla “Legge” per la Riforma del “Terzo Settore”. A che punto siamo?

La legge è all’esame della Commissione Affari Sociali della Camera. Si è conclusa la fase di discussione generale e sono stati presentati 430 emendamenti. In questa settimana e nel mese di febbraio verranno esaminati

Quali sono i punti “strategici” di innovazione? Quale sarà il principale vantaggio per il cittadino con questa riforma?

Il cuore della riforma consiste nel riordinare e riformare la disciplina dei soggetti del Terzo Settore alla luce del dettato costituzionale dell’art. 118, ultimo comma “Lo Stato, le Regioni, le Provincie, le Città metropolitane e i Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, nello svolgimento di attività di interesse personale, secondo il principio di sussidiarietà”. Un dettato semplice e chiaro ma spesso disatteso da una normativa cresciuta senza un disegno, a volte contradditoria e che rischia di complicare la vita ai cittadini che vogliono contribuire, associandosi, al bene comune. Per questo vogliamo arrivare a modificare il Codice Civile, per il riconoscimento di personalità giuridica; costituire un Registro Unico dei soggetti di terzo Settore e favorire quelle realtà che effettivamente generano un valore sociale aggiunto e promuovono la disponibilità all’impegno volontario. Vogliamo altresì riordinare la legislazione fiscale di settore. Vi sono poi due motori aggiuntivi della riforma: una revisione della disciplina del servizio civile per arrivare nel 2017 a 100.000 giovani in servizio; una riforma della legge sull’impresa sociale in modo di favorire la nascita di soggetti imprenditoriali capaci di generare innovazione sociale.

Torniamo al cammino della Legge. In commissione sono stati presentati, come lei ha detto. ben 430 emendamenti. Il PD, il suo partito, ne ha presentati più di cento. In estrema sintesi, che tipo di emendamenti sono? Cosa mettono in discussione della “Riforma”?

Distinguiamo: gli emendamenti dell’opposizione – in particolare dei Cinque Stelle – tendono a scardinare la riforma e ad impedire che si realizzi il disegno voluto dal Presidente del Consiglio. Gli emendamenti del PD e delle altre forze di maggioranza sono correttivi e integrativi. Li valuteremo con attenzione perché vogliamo arrivare ad un testo il più possibile condiviso e soprattutto ad una legge delega con principi chiari e innovativi. Così sarà facilitato anche il lavoro di stesura dei successivi decreti delegati.

Non c’è possibilità, quindi, di dialogo con il Movimento 5 Stelle?

Ho tentato un dialogo con il Movimento 5 Stelle anche prima che la Commissione avviasse l’esame del testo. Ma devo dire che sono deluso dalla linea che sembra prevalere nel loro gruppo politico. Nella discussione generale hanno esclusivamente messo in evidenza i fenomeni opportunistici, quando non illegali che sono presenti in questo mondo. Ma è una lettura che distorce completamente la realtà: il mondo associativo e volontario è un mondo fatto di milioni di persone che dedicano volontariamente tempo e capacità per il bene comune. Anche noi – come dicevano le linee guida – vogliamo distinguere il grano dal loglio. E cioè vogliamo che le risorse pubbliche siano effettivamente e interamente destinate a coloro che agiscono senza scopo di lucro, realizzano attività di interesse generale e producono un effettivo e misurabile impatto sociale. Il caso “Roma” ha poi enfatizzato questa propensione dei Grillini: ma così si finisce per voler statalizzare tutto, anziché promuovere la sussidarietà. Sono d’accordo con l’editorialista del Corriere della Sera, Mauro Magatti, che ha scritto che l’introduzione di norme più severe non è necessariamente una garanzia per vincere la battaglia contro la corruzione. Occorre invece ridurre l’area di intermediazione di risorse pubbliche soggette a decisione politica e chiamare in campo il Terzo Settore promuovendo regole e norme più semplici e trasparenti per l’identificazione dei soggetti nonché obblighi effettivi di rendicontazione sociale. Questa è la strada da seguire.

Ultima domanda: Il Premier Renzi aveva promesso entro Marzo la Riforma. Ci riuscirete?

L’impegno sarà rispettato. A Marzo, il provvedimento andrà in Aula alla Camera per l’approvazione. Nel frattempo avvieremo gruppi di lavoro per preparare i decreti legislativi. Entro metà 2015, la riforma dovrà essere operativa.

PARIGI: I TRE GIORNI CHE SCONVOLSERO IL MONDO. INTERVISTA KHALED FOUAD ALLAM

Khaled Fouad Allam - (ANSA/MARIO ROSAS)

Khaled Fouad Allam – (ANSA/MARIO ROSAS)

Dopo l’immensa manifestazione di ieri a Parigi di solidarietà alla Francia, dopo i criminali attentati terroristici jihadisti, come si svilupperà in Europa il dialogo con l’Islam? Ne parliamo con Khaled Fouad Allam, professore di Sociologia del mondo islamico all’Università di Trieste. Tra le numerose pubblicazioni ricordiamo l’ultimo, uscito per Piemme, “Il Jihadista della porta accanto”.

 

 

PROFESSOR ALLAM, non possiamo non partire dalla oceanica manifestazione di Parigi (Un “Oceano Pacifico” l’ha definita il “Fatto Quotidiano”). Al di là dell’emozione, qual è il suo giudizio politico su questa manifestazione? 

 

Mi sembra evidente che nei momenti di grande crisi la funzione simbolica della politica è estremamente importante, anche perché, di fronte ad un fenomeno globale, bisogna definire delle risposte, degli approcci che siano globali, sia dal punto di vista della comunicazione politica che dal punto di vista della presa di coscienza. Quindi può darsi che ieri sia nata un “qualche cosa in più”, con questa crisi, ovvero una coscienza europea e planetaria.

 

Sergio Romano, ieri in un editoriale un po’ provocatorio, apparso sul Corriere della Sera,  affermava che “faremmo un grave errore se pensassimo di essere il principale bersaglio dell’Islam jihadista. – per Romano-la vera  guerra è quella che si combatte all’interno del mondo musulmano”. Che ne pensa di quest’ affermazione?

 

Io l’ho scritto vent’anni fa in un saggio, pubblicato da Laterza, dal titolo “La crisi dell’Islam contemporaneo”, dove mettevo a fuoco che c’era una spaccatura, che non è nuova, nasce negli anni 30 tra Shaaria e Stato. Che cosa significa questo? Significa essenzialmente che si oppongono due visioni del mondo, due visioni della ricerca della felicità di ciò che è il soggetto. Su questo l’islam radicale ha amplificato la frattura fino a diventare oggi un terrorismo globale. È vero che questa è anche una guerra dichiarata ai musulmani, l’ha detto il rettore della Moschea di Parigi, affermando che è una guerra dichiarata anche contro i musulmani. Ci sono due visioni diametralmente opposte su che cos’è la società, su che cos’è lo Stato, che cos’è la storia e che cos’è il rapporto fra identità religiosa e identità territoriale, c’è una battaglia di significato che coinvolge il mondo globale e l’Islam.

 

E veniamo al “Califfato dell’ISIS”. Nel suo libro smonta con precisione l’ideologia apocalittica di questa organizzazione del terrore. Però lei fa anche capire che questa ideologia è molto subdola: ovvero il “califatto” pone il problema della crisi dell’islam e della crisi d’ identità del mondo arabo. Può spiegarcelo sinteticamente?

 

Questa crisi d’identità nasce alla fine degli anni 20 quando si abolisce il Califfato, cioè il Califfato voleva dire anche un ordine politico che era durato più di cinque secoli, anche attraverso il Califfato di matrice turco ottomana. Il passaggio dal Califfato allo stato-nazione per il fondamentalismo islamico ha corrisposto ad un vuoto ed è per questo che il principio dei fratelli musulmani è affermare la volontà di tornare ad un Califfato di matrice araba. I punti di programmazione dell’Isis riprendono questo, è una frattura che ha attraversato il XX secolo e noi entriamo nel XXI con questo problema.

 

Un altro punto strategico da lei analizzato è il wahhabismo, ovvero l’interpretazione radicale e “antimodernista” del Corano. Questa corrente sta alla base del radicalismo islamico. Tutti sanno, o dovrebbero sapere, che l’ Arabia Saudita è la centrale del wahhabismo. Eppure l’occidente è molto timido nei confronti della dinastia wahhabita. Come risolvere questo problema?

 

A questo non ho risposta. La real politikue, attraverso i problemi energetici, fa  chiudere gli occhi  di fronte a questa questione. Il wahhabismo è nato in Arabia Saudita già nel 700 e poi si è trasformato con la nascita dell’Arabia Saudita in una specie di dottrina dello Stato. Tutte queste categorie politiche, con questa crisi, vanno ripensate e ridefinite: cosa può essere un dialogo fra paese e paese.  Cioè verso un “standar” globale che comprende i diritti dell’uomo.

 

Sullo sfondo di tutto questo c’è il grande problema del rapporto tra Islam e modernità e quindi tra Islam e democrazia. Le primavere arabe sono state spazzate vie. Cosa può fare l’occidente per “sfidare” positivamente l’islam verso questo cammino di laicità?

 

Mi sembra evidente che sia quella di fornire gli strumenti educativi e pedagogici in grado di formare le generazioni che vivono la stessa modernità e la stessa democrazia. Quello che manca a queste generazioni è di avere delle figure modello che indichino il cammino verso la libertà. Nella stessa storia dell’Occidente, che è oggi libero, è perché ci sono stati dei pensatori che hanno pensato per loro, siamo il prodotto di un “debito di riconoscimento” nei confronti di alcuni pensatori che hanno pensato per il mondo la libertà. L’Islam ha bisogno di figure del genere, per questo è importante di rivisitare un pensiero come quello di Averroè e di altri filosofi contemporanei Mohammed Arkun.

 

Ultima domanda: lei è cittadino italiano, come giudica l’attenzione della cultura e dell’opinione pubblica del nostro paese nei confronti dell’islam?

 

L’Italia non dà visibilità a questi protagonisti culturali dell’Islam moderato, è assente. Bisogna dare più visibilità nell’opinione pubblica, nelle Università, nelle istituzioni, ecc. perché così facendo si crea un movimento significativo e si colma una frattura con le giovani generazioni dando esempi positivi.