La guerra di Anonymous all’Isis. Intervista ad Antonino Caffo

 

ANSA

(ANSA)

Il sedicente stato islamico si combatte anche via web. Dopo il tragico venerdì di sangue, quello delle stragi di Parigi, gli hacker di Anonymous hanno dichiarato guerra all’Isis. Si calcola che migliaia di siti vicino all’Isis siano stati oscurati dall’attacco dei paladini mascherati. Inoltre secondo Anonymoys, i jihadisti stanno preparando la “giornata mondiale del terrore”. Si tratterebbe di otto attacchi contemporanei in altrettanti Paesi: tra questi ci sarebbe l’Italia, e ancora la Francia.  Come si svolge questa cyberwar? Quali gli obiettivi di Anonymous? Ne parliamo, in questa intervista, con Antonino Caffo, giornalista del settimanale Panorama ed esperto di social network.

Anonymous, dopo i drammatici fatti di Parigi, ha dichiarato guerra all’Isis: “Il web non è posto sicuro per voi!” hanno detto i paladini mascherati ai nemici dell’Isis. Insomma siamo in piena cyberwar. Quali gli obiettivi?

Dimostrare alle milizie cibernetiche del sedicente stato islamico che la battaglia oggi si combatte anche sul web, attraverso Facebook e Twitter. Internet è diventato un luogo privilegiato per far passare informazioni particolari, aumentare la propaganda e, in generale, arruolare possibili nuovi adepti. Non è un caso se alcuni europei convertiti all’Islam “comunicato” dall’Isis siano giovani, cresciuti a pane e social network e dunque più facili da agganciare.

 

Puoi spiegarci come opera Anonymous? Il” deep web” è la frontiera del conflitto?

Il metodo principale finora era stato il DDoS, ovvero un tipo di attacco hacker con cui si crea un blackout di un determinato sito web o servizio. Dopo la dichiarazione di guerra all’Isis le cose sono cambiate. Con un distributed denial of service non si possono mandare ko Facebook o Twitter, e non sarebbe nemmeno giusto. Gli sforzi degli Anonymous si concentrano allora sull’individuazione di persone possibilmente legate ai terroristi. Le ricerche si svolgono soprattutto sul deep web, ovvero in quella parte di internet non direttamente accessibile ai motori di ricerca come Google, ma navigabile con strumenti particolari, tra cui il browser Tor. Qui ci sono forum di discussione, chat e portali nascosti dove è possibile scambiarsi informazioni restando il più anonimi possibile. Si tratta di un luogo a metà strada tra il legale e l’illegale, tant’è è vero che il deep web rappresenta il giardino di fioritura privilegiato per negozi digitali di droga o di scambio materiale pedo-pornografico. Ovviamente il lato oscuro della rete non è solo nelle mani dei criminali ma è chiaro che se c’è qualcuno che vuole sfruttare internet per compiere azioni non proprio etiche è qui che va ad operare.

 

Ci sono stati, in questi giorni, attacchi di Anonymous verso l’Isis. Quali risultati concreti hanno realizzato gli “Anon”?

Spegnere migliaia di account Twitter ritenuti molto vicini ai terroristi. Quando gli hacker “buoni” dicono che per l’Isis non c’è posto su internet intendono proprio questo: qualunque persona attiva in rete, soprattutto sui social network, riconosciuta come divulgatore della jihad, verrà smascherata e cancellata dal web. Ma sappiamo benissimo che l’eliminazione di un account da internet non è per nulla definitiva. Tutti possono aprire decine di account fasulli con cui riprendere discorsi interrotti prima. Il compito degli Anonymous non è semplice ma ha un valore assoluto, perché li pone in una posizione di assoluto valore agli occhi degli occidentali, sia privati che interni governi, certi  di aver trovato un aiuto fondamentale nella lotta all’Isis.

 

Come guardano i Servizi di intelligence l’opera degli attivisti? C’è collaborazione tra loro e i servizi?

Non direi collaborazione ma un certo dialogo si. Fin quando gli Anonymous pensavano a stuzzicare aziende o governi, le loro azioni restavano in un limbo ben circoscritto agli addetti ai lavori. Quando invece hanno lanciato il guanto di sfida all’Isis è ovvio che la loro notorietà sia aumentata e per questo anche le responsabilità. Gli Anon non sono più una caricatura di una tipologia di utente di internet, quello più smanettone che si oppone all’ordine costituito delle cose, ma diventano un supporto decisivo nella lotta al terrorismo, una sorta di ramo digitale del governo statunitense e degli alleati. Ogni organo militare nazionale ha un settore specializzato nella cyberwar ma è ovvio che l’appeal e l’interesse verso gli Anonymous sia maggiore, e sotto un certo punto di vista più interessante.

 

Ultima domanda: Il web si sta sempre più militarizzando?

– In realtà non ha mai smesso. Internet nasce come strumento di comunicazione extra per i militari e tale è sempre rimasto. Che poi sia stato creato un internet “commerciale”, ovvero disponibile a tutti, è solo una conseguenza. Anche oggi molte delle innovazioni tecnologiche vengono prima testate a livello militare e poi introdotte sul mercato. Ne sono un esempio le telecamere di sicurezza connesse ad internet, i sistemi di crittografia digitale l’integrazione dell’Intelligenza Artificiale in dispositivi portatili. In tal senso il deep web è ciò che è stato Intranet all’inizio: uno spazio condiviso ma solo ad alcuni; non una rete aperta e liberamente navigabile come quella a cui siamo abituati oggi. Molte delle attività quotidiane si svolgono su piattaforme connesse alla rete; quando un’azione militare, come gli attentati terroristici, scuotono le coscienze di tutto il mondo è ovvio che anche il popolo del web si mobiliti per chiedere più sicurezza e protezione. Vita digitale e vita organica hanno oramai intrapreso un percorso di crescita simbiotica che probabilmente non potrà più essere scisso.

 

Un libro geniale: Le leggi fondamentali della stupidità umana

8b0bfeccover26032.jpegUn libro geniale, più volte ristampato dalla casa Editrice “il Mulino”, questo piccolo saggio sulle “leggi fondamentali della stupidità umana”. Scritto da un grande storico dell’economia, Carlo M. Cipolla, autore di numerosi saggi, tradotti in diverse lingue, che hanno segnato la metodologia della storia economica italiana ed europea. Questo, forse, è il più noto, insieme al fondamentale volume  sulla “Storia economica dell’Europa pre-industriale”. Il saggio, del 1976, scritto in Inglese, nasce come regalo di Natale per gli amici. Il Titolo della prima edizione, era “Allegro ma non troppo”, e comprendeva anche una micro storia della diffusione di una preziosa spezia: il pepe. Visto, dato il suo potere afrodisiaco, come un potente fattore di sviluppo nel Medioevo.   Così il “The basic laws of Human Stupidity”, per una “magia” (il passaparola), conosce una serie fortunata di diffusione: solo in Italia, in poco più di 24 anni, ha venduto qualche centinaio di  migliaia di copie.

Davvero una bella storia editoriale. Quest’ ultima edizione italiana, uscita da poco sempre per il Mulino, è, poi, impreziosita dalle bellissime vignette di Altan. Insomma un libro da consigliare per l’irresistibile humor della prosa di Cipolla e per le micidiali vignette del grande Altan (e qui  ne segnaliamo una davvero bellissima: un uomo seduto, un marito,  su una poltrona legge un quotidiano e commenta: “questo mondo diventa sempre più idiota”. E una donna, la moglie, indaffarata ai fornelli, risponde: “Mi chiedo come hai fatto tu ad accorgertene”).

Sulla base dell’analisi, quasi applicando la metodologia della scienza economica, dei danni o vantaggi che l’individuo procura a se stesso e di quelli che procura agli altri, e data la definizione per cui “una persona è stupida se causa un danno a un’altra un subendo un danno”, Cipolla costruisce uno schema di assi cartesiani, ascisse e ordinate, in cui collocare con precisione i tipi degli intelligenti, degli sprovveduti, dei banditi e degli stupidi, dal quale si evince tra l’altro che «lo stupido è più pericoloso del bandito». Affermazione Assolutamente vera.

Così, ecco le leggi fondamentali della stupidità umana:

Prima Legge

Sempre e inevitabilmente ognuno di noi sottovaluta il numero degli individui stupidi in circolazione:

Ovvero:

a) persone che abbiamo giudicato razionali ed intelligenti all’improvviso si sono rivelate essere irrimediabilmente, senza alcun dubbio, stupide;

b) Ed ogni giorno siamo condizionati in qualunque cosa che facciamo da persone, ostinatamente, stupide che improvvisamente compaiono nei luoghi meno opportuni.

E’ impossibile stabilire una percentuale, dato che qualsiasi numero sarà sempre inferiore alla realtà.

Seconda Legge

La probabilità che una certa persona sia stupida è indipendente da qualsiasi altra caratteristica della stessa persona.

Non si può trovare nessuna differenza del fattore Stupidità nelle razze, condizioni etniche, educazione, eccetera. Anche, aggiunge Cipolla con perfidia, tra i Premi Nobel c’è la medesima percentuale.

Terza (ed aurea) Legge

Una persona stupida è chi causa un danno ad un altra persona o gruppo di persone senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per sé o addirittura subendo una perdita.

E qui la razionalità non trova “ragionevoli spiegazioni” perché quell’assurda creatura abbia un comportamento del genere. O meglio una  spiegazione c’è: quella persona è stupida.

Quarta Legge

Le persone non stupide sottovalutano sempre il potenziale nocivo delle persone stupide. Dimenticano costantemente che in qualsiasi momento, e in qualsiasi circostanza, trattare e/o associarsi con individui stupidi si dimostra infallibilmente un costosissimo errore.

Quinta Legge

La persona stupida è il tipo di persona più pericolosa che esista.

Questa è la più facile da capire delle leggi. Infatti per la conoscenza comune  i banditi intelligenti, per quanto possano essere ostili, sono prevedibili mentre gli stupidi non lo sono.  Perché, osserva l’autore, le persone intelligenti, generalmente, sanno di esserlo, i banditi anche sono consapevoli della loro attitudine al crimine, gli sprovveduti hanno la coscienza della loro sventura.  Ma le persone stupide non sanno di essere stupide, e questa è una ragione che li rende molto pericolose. Per cui, già detto, il corollario di questa legge è che lo stupido è più pericoloso del bandito.

Anche nella politica il tasso, come nella società, il tasso di stupidità è costante. Anzi attraverso la politica (con i suoi strumenti – elezioni e partiti politici) consente agli stupidi di mantenere la loro quota di potere.  Per cui la battaglia, assai complicata, contro la stupidità resta fondamentale nella società se si vuole mantenere il suo, sempre in divenire, equilibrio.

Resta una domanda da farsi alla fine della lettura del libro: Noi siamo coscienti della nostra stupidità? E questa domanda, forse, ci aiuta a capire che non siamo completamente stupidi.

Carlo M.Cipolla, Le leggi fondamentali della stupidità umana, Ed. Il Mulino, pagg. 96, € 15,00

I Servizi Segreti nell’epoca del terrore. Intervista ad Aldo Giannuli

Aldo Giannuli

Le stragi di Parigi, della scorsa settimana, hanno messo in discussione le capacità di prevenzione dell’Intelligence. Quali le cause della loro defaillances? Quali le nuove sfide che devono affrontare? Ne parliamo con Aldo Giannuli, docente di Storia Contemporanea all’Università Statale di Milano e studioso degli apparati di Sicurezza.

Professore, la Francia ha chiesto l’attivazione della clausola di Difesa collettiva (art. 42.7) previsto dal Trattato di Lisbona. In concreto cosa significa?

Intanto c’è un problema giuridico. Dando per scontato che i terroristi agissero su ordine del Califfato dell’Isis, abbiamo di fronte quello che non sappiamo neppure se può essere considerato uno stato di fatto, perché non è uno stato riconosciuto, per cui obiettivamente c’è il problema se si applichi la clausola collettiva. Possiamo anche decidere politicamente di applicarla, ma cosa significa? Fare un intervento militare congiunto lì? Potrebbe anche darsi, ma siamo sicuri che non sia peggiorativo? Guardate che qui il problema è capire qual è la strategia dell’Isis per avere questo intervento. Io non capisco qual è il disegno strategico di questa cosa, posto che i bombardamenti dall’alto dovevano esserci già da un anno, ci è stato raccontato che è da un anno che ci sono attacchi franco-americani. Comunque con le azioni militari di questo genere non si butta giù il Califfato, si deve arrivare all’intervento di terra. Ma non è quello che l’Isis vuole?

Dopo “Charlie Hebdo”, le agenzie di intelligence, sono state rinforzate con uomini e denaro. Cos’ è mancato? Quali sono state le defaillances?

La defaillance di base è una. Qui non è soltanto Charlie Hebdo, qui sono 14 anni dall’attentato alle Due Torri, durante i quali abbiamo fatto tre guerre, abbiamo speso qualcosa come 3mila miliardi di dollari, ci siamo dotati del più spaventoso apparato tecnologico mai disponibile, con foto satellitari in grado di leggere il numero di una targa, possiamo intercettare tutto. E quali sono i risultati? Che questi vanno scorrazzando per le capitali occidentali facendo stragi? È evidente che qualcosa non ha funzionato. I francesi poco prima della strage avevano detto di fare dei bombardamenti per prevenire azioni terroristiche, si è visto il risultato. È evidente che questo approccio, che ha al centro l’azione militare e, in secondo piano, quella poliziesca è un approccio sbagliato, perché i terroristi non sono folli, saranno criminali, ma sono razionali, fanno una serie di calcoli politici, che vanno capiti e bisogna contrastarli su questo. Il guaio è che qui manca il contrasto politico e il contrasto psicologico, il contrasto militare e poliziesco devono essere di supporto, invece è l’unica cosa che c’è. Cosa è mancato? È mancato il contrasto politico, l’analisi di quello che vogliono fare. Ecco perché sono contrario all’intervento europeo, perché questo rafforza la narrazione dell’Isis del contrasto fra i crociati cristiani e l’Islam, di cui loro tendono a diventare gli unici rappresentanti, e noi gli diamo un argomento di propaganda formidabile nei loro paesi. Attenzione che stiamo perdendo questa guerra, di questo passo noi ci troveremo la super potenza islamica integralista che è il vero obiettivo. A loro non frega niente del nostro modello di vita, loro vogliono creare il super Stato Islamico fondamentalista e noi gli stiamo dando una mano.

Pensa che le misure chieste a Versailles da Hollande siano efficaci?

Ma manco per sogno, Hollande è la caricatura dell’Ispettore Trouseau e non sa quello che dice.

Che tipo di guerra è quella dell’Isis? Passeranno alla Cyberwar?

Sono molto più avanti di quanto pensassimo e lo stanno dimostrando, sapendosi muovere molto bene, però non credo siano ancora al livello di fare la Cyberwar. C’è un divario enorme fra noi e il Califfato e non credo sia quello il piano. Ci vorrebbe una potenza che fornisca loro gli strumenti, ma non vedo chi. I russi non hanno interesse in questo, le ultime notizie li vedono schierati insieme ai francesi, i cinesi e perché? Non hanno alcun interesse, anzi per i cinesi la presenza dell’Isis disturba il loro gioco delle vie della seta. No, non è questo. Credo invece che dobbiamo mettere in conto attacchi terroristici di quel tipo. Mi aspetto altri attentati che passino sull’errore della nostra intelligence. Errori tecnici formidabili sono stati fatti, ad esempio alcuni schemi di lotta antiterrorista già vecchiotti, però funzionavano in presenza di terroristi che intendevano sottrarsi alla cattura e cercavano la via di fuga, allora tu facevi un apparato, scatta il blocco delle autostrade ecc.. Questo però funziona se il terrorista vuol fuggire, ma se il terrorista si vuol fare esplodere tu di quell’apparato cosa te ne fai? Oppure l’idea delle infiltrazioni, intanto è difficile infiltrarsi in quel mondo per problemi linguistici, distanza culturale, poi perché hanno imparato loro a fare la contro-infiltrazione per mandarti false spie per depistarti, ci siamo scordati che il killer di Tolone era un collaboratore dei servizi francesi, nel senso che era stato mandato da quelli. Tutto deve essere puntato sul web, identificare i loro siti, seguirli, cercare di tracciare il traffico. Questi invece fanno il gioco di chiudere i siti fondamentalisti, facendo tre errori: 1) una fatica inutile, perché quando gliel’hai chiuso, quelli ne fanno un altro e si spostano su un altro dominio e tu devi ricominciare, spendendo soldi inutilmente; 2) ti privi di una fonte di informazioni; 3) ti privi di uno strumento che ti può permettere, attraverso falsi siti jihadisti, di provocarli e di spezzarli. Hai tutto l’interesse a tenere in piedi questa roba per infiltrarti.

Parliamo dei Servizi Segreti. Come mai non si è ancora arrivati ad un autentico coordinamento europeo tra le varie agenzie di intelligence?

Perché i servizi segreti sono per loro natura gelosi l’uno dell’altro, perché nelle guerre coperte non esistono alleati, ognuno gioca per sé: non ti voglio far sapere se ho degli infiltrati, non ti voglio far sapere a che livello di informazione sono, perché magari poi siamo rivali in economia. Per cui un’eccessiva integrazione non la vedono di buon occhio. I Servizi Segreti hanno questo genere di impostazione.

Ultimo punto. Riguarda l’Italia. Le Chiedo: Pensa che i nostri servizi all’altezza del compito?

I nostri servizi, considerando la scarsità di mezzi a disposizione, tutto sommato se la stanno cavando, tenuto conto che l’Italia ha elementi che l’hanno aiutata finora: noi insieme alla Germania siamo l’unico paese europeo che non ha avuto un petardo, perché? Perché abbiamo questi elementi ambientali: 1) l’Eni che con la sua politica petrolifera presuppone una rete molto ramificata nel Medio Oriente con cui si riesce ad avere notizie, a bloccare certe cose; 2) in Italia c’è il Vaticano, il che significa una potentissima rete informativa fatta di preti, cappellani delle carceri, associazioni del laicato cattolico, banche cattoliche; 3) infine, noi abbiamo un territorio in cui agisce un soggetto, non simpatico, che è la mafia, che ha tutto l’interesse a non essere disturbata nei suoi traffici, per cui oggettivamente la mafia sfavorisce l’innesto qui, magari gli vende le armi, ma in cambio chiede che non ci siano problemi a casa. Non è che bisogna esserne grati, ma oggettivamente è un ambiente sfavorevole.

Papa Francesco e la nuova stagione della Chiesa italiana. Intervista a Massimo Faggioli

Il discorso di Papa Francesco, tenuto ieri nel Duomo di Firenze nell’ambito del 5 Convegno Nazionale della Cei, ha segnato, per molti osservatori, una svolta nella Chiesa italiana. Quanto sarà profonda questa svolta? Quali le conseguenze per la società ? Ne parliamo con Massimo Faggioli, Director Institute for Catholicism and Citizenship alla University of St. Thomas a St. Paul (MN – USA).

convegnoProfessor Faggioli, partiamo per un attimo dalla torbida vicenda di VatiLeaks2. Se l’obbiettivo era di mettere in difficoltà Papa Francesco, questo obbiettivo è completamente fallito. Qual è il suo pensiero? 
VatiLeaks 1 e 2 appartengono al passato, mentre la visione di chiesa di Francesco è il futuro. La riforma di Francesco (e Francesco è un papa che non ha paura di parlare di “riforma”) procede e quello che è emerso sono nature morte di abusi e immoralità passate di cui vediamo ancora le tracce. Ma i tempi sono cambiati con Francesco e non c’è dubbio che tutti percepiscono le differenze abissali tra Francesco e il mondo che esisteva prima di lui in certi angoli del Vaticano.

Veniamo al discorso del Papa, tenuto ieri nel Duomo a Firenze, alla Chiesa italiana. Per molti osservatori segna una svolta dalla “politica” ecclesiale degli ultimi 30 anni. E’ così?
È un cambiamento di atteggiamento che il papa propone alla chiesa italiana: più evangelico e meno politico, ma senza rifugiarsi nello spiritualismo. Giovanni Paolo II tentò di portare in Italia il modello polacco, ma questo tentativo di importazione di un modello non è quello che Francesco vuole. Francesco non ha un piano di azione ecclesiale, ma un’ecclesiologia che è profondamente conciliare. In un certo senso, potrebbe essere la ripresa del Vaticano II in Italia dopo un trentennio di modelli che erano frutto di altre strategie. Francesco parla poco del Vaticano II in maniera diretta, ma è chiaro che fa riferimento al Vaticano II che ha introiettato e assimilato in modo molto profondo.

Quali sono i punti di svolta?
Specialmente la messa in guardia di Francesco dai “surrogati” – potere, denaro, apparenza
– che sono stati parte di un certo modo di essere cattolici (chierici e laici) sulla scena pubblica. La centralità dei poveri non solo dal punto di vista sociale, ma spirituale. Il ruolo della chiesa non come lobby ma come madre di tutti e specialmente dei poveri. L’approccio al dialogo come distintivo di un certo modo di essere chiesa nel mondo plurale di oggi.

Può spiegarci l’attacco al “pelagianismo” e allo “gnosticismo”?
Sono due modi classici di criticare una certa idea di cattolicesimo che prescinde dalla centralità di Gesù Cristo e dalla semplicità e gratuità del suo messaggio. Francesco è radicalmente un centrista in termini teologici.

Tra i punti trattati nell’intervento, ricco e denso, colpisce il riferimento a “Don Camillo e Peppone”. Due personaggi immaginari che hanno segnato l’Italia dell’immediato dopoguerra. Qualcuno ha trovato debole questo riferimento del Papa in quanto all’epoca c’era un popolo. Oggi non c’è più nulla di tutto questo. Come va inteso quel riferimento?
Credo il papa si riferisse non a quel modello sociale e civile di Italia, ma a quel modello di pastoralità del ministero: don Camillo vedeva anche Peppone come una delle pecore del suo gregge. Era una chiesa universalista anche nel mondo delle divisioni ideologiche.
Oggi a volte sembra prevalere il settarismo e un cattolicesimo ideologico. Non è il problema principale della chiesa cattolica in Italia, ma in altre parti del mondo sicuramente sì. Questo ha avuto conseguenze su un certo modo di percepire la funzione del vescovo e anche influito su un certo modello di nomine episcopali. Il profilo pastorale dei vescovi nominati da Francesco è visibilmente diverso da quelli nominati nei 35 anni precedenti.

Nel suo discorso il Papa ha invitato la Chiesa italiana ad essere “creativa”, pensa che la comunità ecclesiale del nostro paese sia all’altezza?
Lo vedremo. Di certo la chiesa italiana ha ricchezze spirituali che sono state silenti per molto tempo, e non solo per colpa di una certa politica vaticana ma anche della refrattarietà della cultura laica italiana a interagire con quella cattolica. Quello che è importante è che il convegno ecclesiale di Firenze 2015 è un importante test a livello mondiale per la “chiesa della sinodalità” che Francesco ha delineato nel discorso al Sinodo del 17 ottobre scorso.

“Beati, umili, disinteressati”. Intervento di Papa Francesco al Convegno CEI

 

Pope Francis in Prato Pubblichiamo il testo integrale del discorso di Papa Francesco, tenuto nella Cattedrale di Firenze, in occasione dell’apertura del  V Convegno Nazionale della Chiesa italiana . Nel suo intervento ai delegati  e, quindi, a tutta la Chiesa italiana, ha ricordato che noi «possiamo parlare di umanesimo solamente a partire dalla centralità di Gesù». Di qui i tre tratti distintivi dell’umanesimo cristiano evidenziati da Francesco: l’umiltà, il disinteresse e la beatitudine. “Sia una Chiesa libera e aperta alle sfide del presente, mai in difensiva per timore di perdere qualcosa. E, incontrando la gente lungo le sue strade, assuma il proposito di san Paolo: «Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno» (1 Cor 9,22)”. Insomma una Chiesa “estroversa” libera dai giochi di potere, ricca dell’inquietudine evangelica. Anche nella Chiesa italiana soffia il vento di Papa Francesco. 

 

Il nuovo umanesimo in Cristo Gesù

Nella cupola di questa bellissima Cattedrale è rappresentato il Giudizio universale. Al centro c’è Gesù, nostra luce. L’iscrizione che si legge all’apice dell’affresco è “Ecce Homo”. Guardando questa cupola siamo attratti verso l’alto, mentre contempliamo la trasformazione del Cristo giudicato da Pilato nel Cristo assiso sul trono del giudice. Un angelo gli porta la spada, ma Gesù non assume i simboli del giudizio, anzi solleva la mano destra mostrando i segni della passione, perché Lui ha «ha dato sé stesso in riscatto per tutti» (1 Tm 2,6). «Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,17).

Nella luce di questo Giudice di misericordia, le nostre ginocchia si piegano in adorazione, e le nostre mani e i nostri piedi si rinvigoriscono. Possiamo parlare di umanesimo solamente a partire dalla centralità di Gesù, scoprendo in Lui i tratti del volto autentico dell’uomo. È la contemplazione del volto di Gesù morto e risorto che ricompone la nostra umanità, anche di quella frammentata per le fatiche della vita, o segnata dal peccato. Non dobbiamo addomesticare la potenza del volto di Gesù. Il volto è l’immagine della sua trascendenza. È il misericordiae vultus. Lasciamoci guardare da Lui. Gesù è il nostro umanesimo. Facciamoci inquietare sempre dalla sua domanda: «Voi, chi dite che io sia?» (Mt 16,15).

Guardando il suo volto che cosa vediamo? Innanzitutto il volto di un Dio «svuotato», di un Dio che ha assunto la condizione di servo, umiliato e obbediente fino alla morte (cfr Fil 2,7). Il volto di Gesù è simile a quello di tanti nostri fratelli umiliati, resi schiavi, svuotati. Dio ha assunto il loro volto. E quel volto ci guarda. Dio – che è «l’essere di cui non si può pensare il maggiore», come diceva sant’Anselmo, il Deus semper maior di sant’Ignazio di Loyola – diventa sempre più grande di sé stesso abbassandosi. Se non ci abbassiamo non potremo vedere il suo volto. Non vedremo nulla della sua pienezza se non accettiamo che Dio si è svuotato. E quindi non capiremo nulla dell’umanesimo cristiano e le nostre parole saranno belle, colte, raffinate, ma non saranno parole di fede. Saranno parole che risuonano a vuoto.

Non voglio qui disegnare in astratto un «nuovo umanesimo», una certa idea dell’uomo, ma presentare con semplicità alcuni tratti dell’umanesimo cristiano che è quello dei «sentimenti di Cristo Gesù» (Fil 2,5). Essi non sono astratte sensazioni provvisorie dell’animo, ma rappresentano la calda forza interiore che ci rende capaci di vivere e di prendere decisioni.

Quali sono questi sentimenti? Vorrei oggi presentarvene almeno tre.

Il primo sentimento è l’umiltà«Ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a sé stesso» (Fil 2,3), dice san Paolo ai Filippesi. Più avanti l’Apostolo parla del fatto che Gesù non considera un «privilegio» l’essere come Dio (Fil 2,6). Qui c’è un messaggio preciso. L’ossessione di preservare la propria gloria, la propria “dignità”, la propria influenza non deve far parte dei nostri sentimenti. Dobbiamo perseguire la gloria di Dio, e questa non coincide con la nostra. La gloria di Dio che sfolgora nell’umiltà della grotta di Betlemme o nel disonore della croce di Cristo ci sorprende sempre.

Un altro sentimento di Gesù che dà forma all’umanesimo cristiano è il disinteresse. «Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri» (Fil 2,4), chiede ancora san Paolo. Dunque, più che il disinteresse, dobbiamo cercare la felicità di chi ci sta accanto. L’umanità del cristiano è sempre in uscita. Non è narcisistica, autoreferenziale. Quando il nostro cuore è ricco ed è tanto soddisfatto di sé stesso, allora non ha più posto per Dio. Evitiamo, per favore, di «rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli» (Esort. ap. Evangeliigaudium, 49).

Il nostro dovere è lavorare per rendere questo mondo un posto migliore e lottare. La nostra fede è rivoluzionaria per un impulso che viene dallo Spirito Santo. Dobbiamo seguire questo impulso per uscire da noi stessi, per essere uomini secondo il Vangelo di Gesù. Qualsiasi vita si decide sulla capacità di donarsi. È lì che trascende sé stessa, che arriva ad essere feconda.

Un ulteriore sentimento di Cristo Gesù è quello della beatitudineIl cristiano è un beato, ha in sé la gioia del Vangelo. Nelle beatitudini il Signore ci indica il cammino. Percorrendolo noi esseri umani possiamo arrivare alla felicità più autenticamente umana e divina. Gesù parla della felicità che sperimentiamo solo quando siamo poveri nello spirito. Per i grandi santi la beatitudine ha a che fare con umiliazione e povertà. Ma anche nella parte più umile della nostra gente c’è molto di questa beatitudine: è quella di chi conosce la ricchezza della solidarietà, del condividere anche il poco che si possiede; la ricchezza del sacrificio quotidiano di un lavoro, a volte duro e mal pagato, ma svolto per amore verso le persone care; e anche quella delle proprie miserie, che tuttavia, vissute con fiducia nella provvidenza e nella misericordia di Dio Padre, alimentano una grandezza umile.

Le beatitudini che leggiamo nel Vangelo iniziano con una benedizione e terminano con una promessa di consolazione. Ci introducono lungo un sentiero di grandezza possibile, quello dello spirito, e quando lo spirito è pronto tutto il resto viene da sé. Certo, se noi non abbiamo il cuore aperto allo Spirito Santo, sembreranno sciocchezze perché non ci portano al “successo”. Per essere «beati», per gustare la consolazione dell’amicizia con Gesù Cristo, è necessario avere il cuore aperto. La beatitudine è una scommessa laboriosa, fatta di rinunce, ascolto e apprendimento, i cui frutti si raccolgono nel tempo, regalandoci una pace incomparabile: «Gustate e vedete com’è buono il Signore» (Sal 34,9)!

Umiltà, disinteresse, beatitudinequesti i tre tratti che voglio oggi presentare alla vostra meditazione sull’umanesimo cristiano che nasce dall’umanità del Figlio di Dio. E questi tratti dicono qualcosa anche alla Chiesa italiana che oggi si riunisce per camminare insieme. Questi tratti ci dicono che non dobbiamo essere ossessionati dal “potere”, anche quando questo prende il volto di un potere utile e funzionale all’immagine sociale della Chiesa. Se la Chiesa non assume i sentimenti di Gesù, si disorienta, perde il senso. Se li assume, invece, sa essere all’altezza della sua missione. I sentimenti di Gesù ci dicono che una Chiesa che pensa a sé stessa e ai propri interessi sarebbe triste. Le beatitudini, infine, sono lo specchio in cui guardarci, quello che ci permette di sapere se stiamo camminando sul sentiero giusto: è uno specchio che non mente.

Una Chiesa che presenta questi tre tratti – umiltà, disinteresse, beatitudine – è una Chiesa che sa riconoscere l’azione del Signore nel mondo, nella cultura, nella vita quotidiana della gente. L’ho detto più volte e lo ripeto ancora oggi a voi: «preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti» (Evangelii gaudium, 49).

Però le tentazioni da affrontare sono tante. Ve ne presento almeno due.

La prima di esse è quella pelagianaEssa spinge la Chiesa a non essere umile, disinteressata e beata. E lo fa con l’apparenza di un bene. Il pelagianesimo ci porta ad avere fiducia nelle strutture, nelle organizzazioni, nelle pianificazioni perfette perché astratte. Spesso ci porta pure ad assumere uno stile di controllo, di durezza, di normatività. La norma dà al pelagiano la sicurezza di sentirsi superiore, di avere un orientamento preciso. In questo trova la sua forza, non nella leggerezza del soffio dello Spirito. Davanti ai mali o ai problemi della Chiesa è inutile cercare soluzioni in conservatorismi e fondamentalismi, nella restaurazione di condotte e forme superate che neppure culturalmente hanno capacità di essere significative. La dottrina cristiana non è un sistema chiuso incapace di generare domande, dubbi, interrogativi, ma è viva, sa inquietare, animare. Ha volto non rigido, ha corpo che si muove e si sviluppa, ha carne tenera: si chiama Gesù Cristo.

La riforma della Chiesa poi – e la Chiesa è semper reformanda – è aliena dal pelagianesimo. Essa non si esaurisce nell’ennesimo piano per cambiare le strutture. Significa invece innestarsi e radicarsi in Cristo lasciandosi condurre dallo Spirito. Allora tutto sarà possibile con genio e creatività.

La Chiesa italiana si lasci portare dal suo soffio potente e per questo, a volte, inquietante. Assuma sempre lo spirito dei suoi grandi esploratori, che sulle navi sono stati appassionati della navigazione in mare aperto e non spaventati dalle frontiere e delle tempeste. Sia una Chiesa libera e aperta alle sfide del presente, mai in difensiva per timore di perdere qualcosa. E, incontrando la gente lungo le sue strade, assuma il proposito di san Paolo: «Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno» (1 Cor 9,22).

Una seconda tentazione da sconfiggere è quella dello gnosticismo. Essa porta a confidare nel ragionamento logico e chiaro, il quale però perde la tenerezza della carne del fratello. Il fascino dello gnosticismo è quello di «una fede rinchiusa nel soggettivismo, dove interessa unicamente una determinata esperienza o una serie di ragionamenti e conoscenze che si ritiene possano confortare e illuminare, ma dove il soggetto in definitiva rimane chiuso nell’immanenza della sua propria ragione o dei suoi sentimenti» (Evangelii gaudium, 94).

La differenza fra la trascendenza cristiana e qualunque forma di spiritualismo gnostico sta nel mistero dell’incarnazione. Non mettere in pratica, non condurre la Parola alla realtà, significa costruire sulla sabbia, rimanere nella pura idea e degenerare in intimismi che non danno frutto, che rendono sterile il suo dinamismo.

La Chiesa italiana ha grandi santi il cui esempio possono aiutarla a vivere la fede con umiltà, disinteresse e letizia, da Francesco d’Assisi a Filippo Neri. Ma pensiamo anche alla semplicità di personaggi inventati come don Camillo che fa coppia con Peppone. Mi colpisce come nelle storie di Guareschi la preghiera di un buon parroco si unisca alla evidente vicinanza con la gente. Di sé don Camillo diceva: «Sono un povero prete di campagna che conosce i suoi parrocchiani uno per uno, li ama, che ne sa i dolori e le gioie, che soffre e sa ridere con loro». Vicinanza alla gente e preghiera sono la chiave per vivere un umanesimo cristiano popolare, umile, generoso, lieto. Se perdiamo questo contatto con il popolo fedele di Dio perdiamo in umanità e non andiamo da nessuna parte.

Ma allora che cosa dobbiamo fare? – direte voi. Che cosa ci sta chiedendo il Papa?

Spetta a voi decidere: popolo e pastori insieme. Io oggi semplicemente vi invito ad alzare il capo e a contemplare ancora una volta l’Ecce Homo che abbiamo sulle nostre teste. Fermiamoci a contemplare la scena. Torniamo al Gesù che qui è rappresentato come Giudice universale. Che cosa accadrà quando «il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria» (Mt 25,31)? Che cosa ci dice Gesù?

Possiamo immaginare questo Gesù che sta sopra le nostre teste dire a ciascuno di noi e alla Chiesa italiana alcune parole. Potrebbe dire: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi» (Mt 25,34-36).

Ma potrebbe anche dire: «Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato» (Mt 25,41-43).

Le beatitudini e le parole che abbiamo appena lette sul giudizio universale ci aiutano a vivere la vita cristiana a livello di santità. Sono poche parole, semplici, ma pratiche. Che il Signore ci dia la grazia di capire questo suo messaggio! E guardiamo ancora una volta ai tratti del volto di Gesù e ai suoi gesti. Vediamo Gesù che mangia e beve con i peccatori (Mc 2,16; Mt 11,19); contempliamolo mentre conversa con la samaritana (Gv 4,7-26); spiamolo mentre incontra di notte Nicodemo (Gv 3,1-21); gustiamo con affetto la scena di Lui che si fa ungere i piedi da una prostituta (cfr Lc 7,36-50); sentiamo la sua saliva sulla punta della nostra lingua che così si scioglie (Mc 7,33). Ammiriamo la «simpatia di tutto il popolo» che circonda i suoi discepoli, cioè noi, e sperimentiamo la loro «letizia e semplicità di cuore» (At 2,46-47).

Ai vescovi chiedo di essere pastori: sia questa la vostra gioia. Sarà la gente, il vostro gregge, a sostenervi. Di recente ho letto di un vescovo che raccontava che era in metrò all’ora di punta e c’era talmente tanta gente che non sapeva più dove mettere la mano per reggersi. Spinto a destra e a sinistra, si appoggiava alle persone per non cadere. E così ha pensato che, oltre la preghiera, quello che fa stare in piedi un vescovo, è la sua gente.

Che niente e nessuno vi tolga la gioia di essere sostenuti dal vostro popolo. Come pastori siate non predicatori di complesse dottrine, ma annunciatori di Cristo, morto e risorto per noi. Puntate all’essenziale, al kerygma. Non c’è nulla di più solido, profondo e sicuro di questo annuncio. Ma sia tutto il popolo di Dio ad annunciare il Vangelo, popolo e pastori, intendo. Ho espresso questa mia preoccupazione pastorale nella esortazione apostolica Evangelii gaudium (cfr nn. 111-134).

A tutta la Chiesa italiana raccomando ciò che ho indicato in quella Esortazione: l’inclusione sociale dei poveri, che hanno un posto privilegiato nel popolo di Dio, e la capacità di incontro e di dialogo per favorire l’amicizia sociale nel vostro Paese, cercando il bene comune.

L’opzione per i poveri è «forma speciale di primato nell’esercizio della carità cristiana, testimoniata da tutta la Tradizione della Chiesa» (Giovanni Paolo II, Enc. Sollicitudo rei socialis, 42). Questa opzione «è implicita nella fede cristologica in quel Dio che si è fatto povero per noi, per arricchirci mediante la sua povertà» (Benedetto XVI, Discorso alla Sessione inaugurale della V Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi). I poveri conoscono bene i sentimenti di Cristo Gesù perché per esperienza conoscono il Cristo sofferente. «Siamo chiamati a scoprire Cristo in loro, a prestare ad essi la nostra voce nelle loro cause, ma anche a essere loro amici, ad ascoltarli, a comprenderli e ad accogliere la misteriosa sapienza che Dio vuole comunicarci attraverso di loro» (Evangelii gaudium, 198).

Che Dio protegga la Chiesa italiana da ogni surrogato di potere, d’immagine, di denaro. La povertà evangelica è creativa, accoglie, sostiene ed è ricca di speranza.

Siamo qui a Firenze, città della bellezza. Quanta bellezza in questa città è stata messa a servizio della carità! Penso allo Spedale degli Innocenti, ad esempio. Una delle prime architetture rinascimentali è stata creata per il servizio di bambini abbandonati e madri disperate. Spesso queste mamme lasciavano, insieme ai neonati, delle medaglie spezzate a metà, con le quali speravano, presentando l’altra metà, di poter riconoscere i propri figli in tempi migliori. Ecco, dobbiamo immaginare che i nostri poveri abbiano una medaglia spezzata. Noi abbiamo l’altra metà. La Chiesa madre ha l’altra metà della medaglia di tutti e riconosce tutti i suoi figli abbandonati, oppressi, affaticati. Il Signore ha versato il suo sangue non per alcuni, né per pochi né per molti, ma per tutti.

Vi raccomando anche, in maniera speciale, la capacità di dialogo e di incontro. Dialogare non è negoziare. Negoziare è cercare di ricavare la propria “fetta” della torta comune. Non è questo che intendo. Ma è cercare il bene comune per tutti. Discutere insieme, pensare alle soluzioni migliori per tutti. Molte volte l’incontro si trova coinvolto nel conflitto. Nel dialogo si dà il conflitto: è logico e prevedibile che sia così. E non dobbiamo temerlo né ignorarlo ma accettarlo. «Accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo» (Evangelii gaudium, 227).

Ma dobbiamo sempre ricordare che non esiste umanesimo autentico che non contempli l’amore come vincolo tra gli esseri umani, sia esso di natura interpersonale, intima, sociale, politica o intellettuale. Su questo si fonda la necessità del dialogo e dell’incontro per costruire insieme con gli altri la società civile. Noi sappiamo che la migliore risposta alla conflittualità dell’essere umano del celebre homo homini lupus di Thomas Hobbes è l’«Ecce homo» di Gesù che non recrimina, ma accoglie e, pagando di persona, salva.

La società italiana si costruisce quando le sue diverse ricchezze culturali possono dialogare in modo costruttivo: quella popolare, quella accademica, quella giovanile, quella artistica, quella tecnologica, quella economica, quella politica, quella dei media… La Chiesa sia fermento di dialogo, di incontro, di unità. Del resto, le nostre stesse formulazioni di fede sono frutto di un dialogo e di un incontro tra culture, comunità e istanze differenti. Non dobbiamo aver paura del dialogo: anzi è proprio il confronto e la critica che ci aiuta a preservare la teologia dal trasformarsi in ideologia.

Ricordatevi inoltre che il modo migliore per dialogare non è quello di parlare e discutere, ma quello di fare qualcosa insieme, di costruire insieme, di fare progetti: non da soli, tra cattolici, ma insieme a tutti coloro che hanno buona volontà.

E senza paura di compiere l’esodo necessario ad ogni autentico dialogo. Altrimenti non è possibile comprendere le ragioni dell’altro, né capire fino in fondo che il fratello conta più delle posizioni che giudichiamo lontane dalle nostre pur autentiche certezze.

Ma la Chiesa sappia anche dare una risposta chiara davanti alle minacce che emergono all’interno del dibattito pubblico: è questa una delle forme del contributo specifico dei credenti alla costruzione della società comune. I credenti sono cittadini. E lo dico qui a Firenze, dove arte, fede e cittadinanza si sono sempre composte in un equilibrio dinamico tra denuncia e proposta. La nazione non è un museo, ma è un’opera collettiva in permanente costruzione in cui sono da mettere in comune proprio le cose che differenziano, incluse le appartenenze politiche o religiose.

Faccio appello soprattutto «a voi, giovani, perché siete forti», come scriveva l’Apostolo Giovanni (1 Gv 1,14). Superate l’apatia. Che nessuno disprezzi la vostra giovinezza, ma imparate ad essere modelli nel parlare e nell’agire (cfr 1 Tm 4,12). Vi chiedo di essere costruttori dell’Italia, di mettervi al lavoro per una Italia migliore. Non guardate dal balcone la vita, ma impegnatevi, immergetevi nell’ampio dialogo sociale e politico. Le mani della vostra fede si alzino verso il cielo, ma lo facciano mentre edificano una città costruita su rapporti in cui l’amore di Dio è il fondamento. E così sarete liberi di accettare le sfide dell’oggi, di vivere i cambiamenti e le trasformazioni.

Si può dire che oggi non viviamo un’epoca di cambiamento quanto un cambiamento d’epoca. Le situazioni che viviamo oggi pongono dunque sfide nuove che per noi a volte sono persino difficili da comprendere. Questo nostro tempo richiede di vivere i problemi come sfide e non come ostacoli: il Signore è attivo e all’opera nel mondo. Voi, dunque, uscite per le strade e andate ai crocicchi: tutti quelli che troverete, chiamateli, nessuno escluso (cfr Mt 22,9). Soprattutto accompagnate chi è rimasto al bordo della strada, «zoppi, storpi, ciechi, sordi» (Mt 15,30). Dovunque voi siate, non costruite mai muri né frontiere, ma piazze e ospedali da campo.

 

 

Mi piace una Chiesa italiana inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti. Desidero una Chiesa lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza. Sognate anche voi questa Chiesa, credete in essa, innovate con libertà. L’umanesimo cristiano che siete chiamati a vivere afferma radicalmente la dignità di ogni persona come Figlio di Dio, stabilisce tra ogni essere umano una fondamentale fraternità, insegna a comprendere il lavoro, ad abitare il creato come casa comune, fornisce ragioni per l’allegria e l’umorismo, anche nel mezzo di una vita molto dura.

Sebbene non tocchi a me dire come realizzare oggi questo sogno, permettetemi solo di lasciarvi un’indicazione per i prossimi anni: in ogni comunità, in ogni parrocchia e istituzione, in ogni Diocesi e circoscrizione, cercate di avviare, in modo sinodale, un approfondimento della Evangelii gaudium, per trarre da essa criteri pratici e per attuare le sue disposizioni. Sono sicuro della vostra capacità di mettervi in movimento creativo per concretizzare questo studio. Ne sono sicuro perché siete una Chiesa adulta, antichissima nella fede, solida nelle radici e ampia nei frutti. Perciò siate creativi nell’esprimere quel genio che i vostri grandi, da Dante a Michelangelo, hanno espresso in maniera ineguagliabile. Credete al genio del cristianesimo italiano, che non è patrimonio né di singoli né di una élite, ma della comunità, del popolo di questo straordinario Paese.

Vi affido a Maria, che qui a Firenze si venera come “Santissima Annunziata”. Nell’affresco che si trova nella omonima Basilica – dove mi recherò tra poco –, l’angelo tace e Maria parla dicendo «Ecce ancilla Domini». In quelle parole ci siamo tutti noi. Sia tutta la Chiesa italiana a pronunciarle con Maria.