Ce la farà Francesco? La sfida della riforma ecclesiale di Papa Bergoglio. Intervista a Don Rocco D’Ambrosio.

cop-Ce-la-farà-FrancescoSono passati poco più di tre anni dall’elezione al soglio pontificio di Jorge Bergoglio.

Papa Francesco ha impresso una svolta nella vita della Chiesa Cattolica. Facciamo il punto su questo cammino, nell’ intervista, con Don Rocco D’Ambrosio. D’Ambrosio è professore di Filosofia della Politica alla Pontificia Università Gregoriana di Roma. E’ autore di numerosi saggi, l’ultimo, “Ce la farà Francesco?”, è uscito pochi giorni fa, per le edizioni “”La Meridiana” di Bari.

Professore nel suo saggio, “Ce la farà Francesco?”, tenta di fare una analisi istituzionale della Chiesa Cattolica sotto il Pontificato di Papa Francesco. Lei mette in guardia da due pericoli, ovvero dalla “deriva semplicistica” e dall’ideologia nell’analizzare le dinamiche ecclesiali e quindi il tentativo di Riforma di Papa Francesco. Può spiegarceli?

Per comprendere la vita ecclesiale, nei suoi risvolti istituzionali quanto teologici, va superata qualsiasi forma di superficialità e semplicismo. Mai come oggi abbiamo bisogno di studiare il contesto contemporaneo e le istituzioni, Chiesa compresa, incrociando le competenze, cioè usando strumenti culturali che attingono ai diversi saperi che investigano sulle realtà umane: l’antropologia, l’etica, la teologia, la sociologia, la psicologia, la scienza politica, il diritto, l’economia. Pertanto, soprattutto educatori ed intellettuali, non sono chiamati ad avere tutte le competenze – pretesa inconsistente e sciocca – ma una capacità di sintesi per aiutare l’interlocutore, specie se educando, a dotarsi di una mappa per districarsi nei vari labirinti di questo mondo e su cui, se vuole, costruire la propria personale competenza, concepita sempre in funzione del vivere bene, come persona e come credente.

Quali sono i punti principali della Riforma di Francesco?

Sono quelli più volte espressi nei suoi interventi. Nel discorso ai vescovi degli Stati Uniti, li ha così enunciati: ”Le vittime innocenti dell’aborto, i bambini che muoiono di fame o sotto le bombe, gli immigrati che annegano alla ricerca di un domani, gli anziani o i malati dei quali si vorrebbe far a meno, le vittime del terrorismo, delle guerre, della violenza e del narcotraffico, l’ambiente devastato da una predatoria relazione dell’uomo con la natura, in tutto ciò è sempre in gioco il dono di Dio, del quale siamo amministratori nobili, ma non padroni. Non è lecito pertanto evadere da tali questioni o metterle a tacere. Di non minore importanza è l’annuncio del Vangelo della famiglia che, nell’imminente Incontro Mondiale delle Famiglie a Filadelfia, avrò modo di proclamare con forza insieme a voi e a tutta la Chiesa” (23 settembre 2015). In un’intervista, invece, ha detto sinteticamente che i mali più grandi del mondo sono: “Pobreza, corrupción, trata de personas” (ovvero: povertà, corruzione e tratta di persone).

Qual è il bilancio di questi tre anni di Pontificato?

I bilanci sono sempre molto difficili perché la riforma è in atto e il papa continua a indicare mete e a confermare la sua linea. Si potrebbe affermare che gli intenti di papa Francesco sono stati esposti con chiarezza; ora è il tempo di renderli operativi con le riforme specifiche dei dicasteri vaticani e degli organismi diocesani e territoriali.

 Lei giustamente afferma che le riforme proposte da Francesco sono “conciliari”, ovvero si pongono come attuazione del Concilio Vaticano II. Per cui la posta in gioco non è la fedeltà al disegno del leader (il Papa) ma la continuità con il Concilio. A leggere certi avversari del Papa, per alcuni l’avversione a Francesco rasenta l’odio, siamo agli antipodi dell’ermeneutica conciliare. Quanto pesa questa avversione all’interno della Chiesa?

L’opposizione al papa è un fatto notorio. Bisogna, tuttavia, non cadere nella trappola del personalizzare il conflitto. Ciò che interessa, prima di tutto, è la riforma della Chiesa nello spirito del Vaticano II. La lettura evangelica, attualizzata dal Vaticano II, è quindi il criterio per valutare questo pontificato. Ovviamente per chi crede in un modello di vita cristiana e di Chiesa preconciliari riterrà la riforma di Francesco, a seconda dei casi, eretica, inconsistente, sprovveduta e via discorrendo. Per chi crede nel nella lettura evangelica del Vaticano II cercherà di valutare la riforma di Francesco spostando l’attenzione sui contenuti annunciati e incarnati, più che la persona del papa, il quale, come ogni essere umano, e come ogni leader, per quanto dotato e avveduto, commette errori.

 Uno dei tratti, di questi anni di Papa Bergoglio, è stato quello della lotta alla mondanità (con tutto quello che significa)  nella Chiesa. E questo presuppone uno stile di vita sobrio, ma c’è anche una lotta ad una certa idea di potere nella Chiesa. Ovvero ci sono delle virtù, necessarie per chi vuole servire la Chiesa di Cristo,  su cui il Papa si è soffermato spesso. Qual è l’idea di “Servizio” che ha il Papa?

Essa è espressa molto bene negli ultimi due discorsi natalizia alla Curia Romana. Sono da leggere e meditare! Succede nella comunità cristiana quello che accade spesso in tutte le istituzioni quando si toccano alcuni punti critici o deleteri, come la corruzione, gli abusi, il rinnegamento delle finalità fondamentali e cosi via. Soprattutto coloro che hanno responsabilità – siano essi cardinali, vescovi, presbiteri, religiose/i o fedeli laici – più che cambiare radicalmente, si sottopongono a quel processo per cui, secondo Jung, enfatizzano i propri pregi e negano, ponendoli in una zona d’ombra, i propri lati oscuri e problematici, quelli che compromettono l’identità di persona integra ed eticamente sana. Le “ombre”, in questione, sono quelle classiche, le si chiami “malattie” o in altro modo, ovvero: narcisismo, perfezionismo, superbia, avarizia, invidia, rabbia, masochismo, sadismo, istrionismo, arroganza, vendicatività, ambizioni sfrenate, demagogia, populismo, falsità, vanagloria, violenza, aggressività, sociopatia, cinismo, ipocrisia, ambiguità, cioè gli aspetti più deleteri che un uomo o una donna possano avere. Orbene si comprende la forza e spesso la violenza della reazione al papa che mette il dito nella piaga di questi mali, proprio perché queste persone hanno poco interesse a riconoscere le zona d’ombra e a rinnovarsi in fedeltà e giustizia.

“I gesti, le parole, gli interventi, le decisioni di Papa Francesco,- scrive nel suo libro – conservano tutti una prospettiva dal basso”. Questo è il cuore della riforma di Francesco. Cosa significa e quali implicazioni?

La “prospettiva dal basso” ci riportano a Jorge Mario Bergoglio, segnato da un dato indiscutibile: Bergoglio è sempre stato così, innamorato dei poveri, con intelligenza, passione, impegno. Alla sua elezione il dato è stato confermato: il suo collega cardinale Claudio Hummes gli ha detto “Non dimenticarti dei poveri!”. E il papa, commentando le parole di Hummes, ha precisato: “quella parola è entrata qui: i poveri, i poveri” (Discorso alla stampa 16 marzo 2013). E’ entrata nel suo cuore, ma già c’era. Ora deve entrare in tutta la prassi ecclesiale. Ha detto in un’intervista: “La Chiesa deve parlare con la verità e anche con la testimonianza: la testimonianza della povertà. Se un credente parla della povertà o dei senzatetto e conduce una vita da faraone: questo non si può fare. Questa è la prima tentazione”

 Ultima domanda: Lei, oltre che professore universitario, è un sacerdote impegnato nella sua Diocesi. Le chiedo come  si sta ponendo la Cei nei confronti della Riforma di  Papa Bergoglio? L’impressione personale è che faccia molta fatica ad adeguarsi al Papa…Per lei?

Anche nell’episcopato italiano c’è un grande dibattito sulla riforma di Francesco, per quello che ci è dato di sapere dalle cronache giornalistiche. Ci auguriamo che il dibattito aiuti a comprendere sempre più un principio etico fondamentale: ogni processo di riforma implica una scelta di campo di coloro che sono coinvolti. Tutti sono tenuti a offrire il loro sostegno alla riforma, con quello che sono e con quello che hanno. In altri termini non esiste una sorta di limbo in cui sostare in attesa che il tutto passi. Chi non sceglie, in fondo, ha già scelto, cioè ha scelto di non collaborare. E la posta in gioco qui non è la semplice sequela di un leader, ma l’attuazione del Vaticano II.

 

 

LO STATO PARALLELO. La prima inchiesta sull’Eni tra politica, servizi segreti, scandali finanziari

COPStato parallelo PA.inddL’Eni è oggi un pezzo fondamentale della nostra politica energetica, della nostra politica estera, della nostra politica di intelligence. Cosa vuol dire intelligence? I servizi, i servizi segreti.” (Matteo Renzi a Lilli Gruber, 3 aprile 2014)

Tra le inchieste pubblicate da Chiarelettere sul potere in Italia NON POTEVA MANCARE UN LIBRO SULL’ENI. Il suo amministratore delegato vale più del ministro degli Esteri, sul suo tavolo passano affari miliardari, alleanze internazionali, interessi geopolitici, questioni di sicurezza fondamentali. I più grandi scandali e casi di corruzione sono nati qui, dall’Ente che più volte con le sue strategie spericolate, prima filoarabe poi filorusse, ha messo in crisi i nostri rapporti con gli alleati occidentali. Il suo fondatore, ENRICO MATTEI, è morto in circostanze ancora oggi misteriose, un suo ex presidente, Gabriele Cagliari, coinvolto in Tangentopoli, si è suicidato in carcere, gli ultimi due amministratori delegati sono indagati per corruzione internazionale. Ce n’è abbastanza per farci un libro.

In quasi cinque anni Greco e Oddo hanno intervistato ex funzionari, addetti ai lavori, politici, studiosi (qualcuno si è negato), verificando bilanci e documenti di ogni tipo, anche privati. Ne è nato UN RACCONTO CORALE E RICCHISSIMO DELL’ITALIA degli ultimi sessant’anni: dalla Dc di Fanfani e le aperture di Moro alle giravolte di Berlusconi, grande alleato di Putin. In gioco ci sono la nostra indipendenza energetica e la diversificazione degli approvvigionamenti che potrebbe sconvolgere gli assetti del Mediterraneo.

GLI AUTORI

ANDREA GRECO, vice caposervizio a “la Repubblica”, dove lavora dal 2001 dopo un periodo alla Reuters, ha pubblicato Le Grida. Memoria, epica, narrazione della

Borsa di Milano (a cura di Roberta Garruccio, Rubbettino 2004) e Meno Stato, poco mercato (con Federico De Rosa, Marsilio 2007). Si occupa di banche, assicurazioni, energia per la redazione economica del quotidiano, per il sito Repubblica.it e per il settimanale “Affari & Finanza”. Nel 2013 ha vinto il premio “Giornalista dell’anno” di State Street per un’inchiesta sui derivati del Tesoro. Nel 2016 ha ottenuto il riconoscimento “Targa Caffè ai sostenitori della buona economia”.

GIUSEPPE ODDO, già inviato de “Il Sole 24 Ore”, ha scritto con Giovanni Pons L’Affare Telecom. Il caso politico-finanziario più clamoroso della Seconda Repubblica (Sperling & Kupfer 2002) e L’intrigo. Banche e risparmiatori nell’era Fazio (Feltrinelli 2005). Ha inoltre pubblicato con Angelo Mincuzzi Opus Dei, il segreto dei soldi. Dentro i misteri dell’omicidio Roveraro (Feltrinelli 2011). Autore di grandi inchieste, ha raccontato fatti e misfatti delle maggiori imprese pubbliche e private e le principali vicende dell’economia italiana, sia sul versante dell’industria sia su quello della finanza e della politica.

PER GENTILE CONCESSIONE DELL’EDITORE PUBBLICHIAMO UN ESTRATTO DEL LIBRO

Questo libro

 L’Eni è un colosso industriale controllatodallo Stato, ma è anche uno Stato nello Stato. Con 110 miliardi di euro di ricavi nel 2014, e nonostante la perdita del 2015 causata dal crollo del prezzo del petrolio a 30 euro al barile, il gruppo occupa la venticinquesima posizione nella classifica di «Fortune» sulle prim cinquecento aziende mondiali per fatturato, alimenta le casse del Tesoro con i suoi ricchi dividendi ed è la quarta multinazionale petrolifera europea per riserve di idrocarburi, dopo l’inglese Bp, la anglo-olandese Royal Dutch Shell e la francese Total. L’impresa fondata da Enrico Mattei garantisce la sicurezza dei nostri approvvigionamenti di petrolio e di gas naturale con una presenza diffusa in oltre ottanta paesi – dai deserti mediorientali e africani alle acque profonde degli oceani, dalle steppe asiatiche alle aree più remote e ostili del pianeta – e occupa 84.000 dipendenti di cui circa un terzo in Italia e la parte rimanente in Asia, nel resto d’Europa, in Africa, nelle due Americhe e in Oceania. Il suo amministratore delegato vale più di un ministro degli Esteri ed esercita un grande potere che gli deriva dalla gestione di investimenti, flussi di cassa, acquisti, dividendi allo Stato, il tutto per svariate decine di miliardi di euro.

 

Ma l’Eni non è solo una potenza economico-industriale, è uno snodo delle vicende italiane dal dopoguerra a oggi: impresa al servizio dello Stato capace, all’occorrenza, di piegare lo Stato ai propri interessi; attore influente della nostra politica estera, che fa da apripista a relazioni con paesi non democratici come Congo, Libia, Nigeria, Kazakistan e altre dittature africane, mediorientali e asiatiche ai primi posti nella graduatoria mondiale della corruzione. 

 

Forse per lavarsi la coscienza i petrolieri osservano, con il cinismo tipico degli affari, che il petrolio non si estrae in Svizzera: che la presenza in paesi come questi è indispensabile per la soddisfazione dei bisogni energetici dell’Occidente. Del resto, non è un problema di esclusiva pertinenza dell’Eni. Tutte le imprese multinazionali, a cominciare da quelle statunitensi, operano in queste aree del mondo con analoga spregiudicatezza. È stata l’amministrazione di George W. Bush a intensificare i rapporti commerciali con il Caspio, con Stati come l’Azerbaijan e il Kazakistan, per ridurre la dipendenza energetica Usa dal Medio Oriente e in particolare dall’Arabia Saudita. La stessa Cina, per far fronte al proprio crescente fabbisogno energetico, è tra i più agguerriti protagonisti dell’industria petrolifera in Africa. I giacimenti di idrocarburi, a parte quelli in Nord America e nel Mare del Nord, si trovano in zone «calde», in paesi dilaniati da guerre, conflitti tribali, retti da regimi – emirati, sceiccati, monarchie, teocrazie, giunte militari – che fondano il proprio potere sull’indebita appropriazione delle risorse pubbliche e del pubblico denaro, sulla soppressione dei diritti civili, sull’eliminazione degli oppositori, sull’oscurantismo religioso, sulla tortura, sulla pena di morte per lapidazione e decapitazione, sulla schiavitù della donna, sullo sfruttamento dei bambini. E, per accaparrarsi le fonti di energia, le compagnie occidentali si rendono complici della corruzione di questi paesi, le cui condizioni di indigenza sociale diffusa stridono con l’illecita accumulazione di ricchezza da parte dei loro governanti.

 

Quale strada sta dunque percorrendo l’Eni nella forsennata competizione per il rimpiazzo delle riserve? E quali indicazioni arrivano dall’azionista-Stato al nuovo top management insediatosi alla guida del gruppo nella tarda primavera del 2014? La domanda non riguarda solo i rapporti tra Eni, Italia e Sud del mondo, coinvolge anche le relazioni con una grande potenza energetica e militare come la Russia, che con Algeria e Libia è, storicamente, uno dei nostri maggiori fornitori di metano. L’Eni continua a rappresentare una garanzia nei rapporti con Mosca o si è posta al servizio di interessi particolari? A chi ha giovato l’asse politico tra Vladimir Putin e Silvio Berlusconi: al futuro del paese, a quello dell’azienda e dei suoi azionisti o a quello dei due diretti interessati? Le scelte strategiche del gruppo sono state le migliori possibili nel difficile connubio tra globalizzazione dell’attività petrolifera e retaggi monopolistici nel settore del gas?

Il nostro libro sugli ultimi venticinque anni di storia dell’Eni parte da qui, come approfondimento del nostro lavoro giornalistico, e analizza i rapporti tra un colosso industriale nato per garantire l’approvvigionamento energetico del paese e lo Stato, suo azionista di riferimento, che in fasi ricorrenti ha debordato dalle sue funzioni, intrecciando industria e affarismo, occupazione e conti pubblici, geopolitica e affari esteri, finanziamento ai partiti e corruzione, sicurezza nazionale e servizi segreti. Un rapporto inestricabile e mai lineare.

 

In quasi cinque anni abbiamo intervistato una cinquantina di addetti ai lavori tra politici e funzionari, operatori del settore, studiosi, dipendenti dell’Eni vecchi e nuovi. Non c’è protagonista della storia del gruppo dell’ultimo quarto di secolo che non sia stato contattato. Quasi tutti, nel rispetto dei ruoli e dei punti di vista, hanno accettato il confronto. Di molte testimonianze abbiamo la registrazione, anche se in tanti ci hanno posto come condizione il vincolo della riservatezza, quindi il loro racconto non è direttamente citato.

 

Oltre alle fonti orali abbiamo consultato centinaia di documenti, atti, bilanci, archivi privati, opere, e riletto i ritagli delle testate di informazione. Storia dopo storia, snodo dopo snodo ci si è composto un disegno corale dell’Italia moderna, guardato con le lenti della sua più grande impresa industriale, che abbiamo tracciato con il «racconto dell’inchiesta».

 

Questo libro è un contributo a conoscere un’azienda complessa che opera in un paese intricato. Crediamo che nessuno, dopo averlo letto, potrà più dire che sia un luogo comune assimilare l’Eni a uno «Stato parallelo».

 

(“Lo Stato parallelo”, pp. 5-7)

Andrea Greco, Giuseppe Oddo, Lo Stato parallelo. La prima inchiesta sull’Eni tra politica, servizi segreti, scandali finanziari e nuove guerre. Da Mattei a Renzi, Ed. Chiarelettere, Milano 2016, pagg. 368, € 17,50.

Il Futuro del PD. Intervista a Giorgio Tonini

Foto Roberto Monaldo / LaPresse

Foto Roberto Monaldo / LaPresse

Il Partito Democratico sta vivendo un periodo di forte turbolenza. Non passa giorno che non si assista a polemiche personali e politiche tra i diversi leader del partito. Polemiche che investono anche il livello periferico del PD (vedi, da ultimo, il caso della Spezia con la vicenda delle dimissioni di tre assessori della giunta Federici).  Lunedì prossimo, a Roma, si svolgerà una Direzione Nazionale molto delicata per gli equilibri interni del partito. Insomma un partito lacerato. Quale futuro per il PD? Ne parliamo, in questa intervista, con il Senatore Giorgio Tonini, Presidente della 5ª Commissione Bilancio del Senato.

Senatore Tonini, la scorsa settimana il suo partito ha vissuto momenti drammatici (le primarie a Roma e Napoli, l’immancabile discussione sulle regolarità, a Napoli poi con episodi gravi di mercanteggiamento). Senza contare l’intervista di D’Alema al Corriere, le risposte stizzite di Orfini e Serrachiani. Insomma un partito per niente pacificato. Il PD ha la capacità di continuare a farsi del male. Insomma Renzi non può continuare a dare la colpa alla minoranza, se poi non fa nulla per pacificare il partito. Un poco di autocritica non guasterebbe…Qual è la sua opinione Senatore?

La mia opinione è che in molti nei giorni scorsi si siano lasciati prendere dal gusto della polemica e  siano andati molto al di sopra delle righe, avvicinandosi pericolosamente ad una soglia oltre la quale, come ha opportunamente rilevato Walter Veltroni, si rischia di mettere in discussione l’unica alternativa credibile al populismo dilagante in Italia e in Europa. Al netto di questi eccessi, ci sono state le primarie con le quali il Pd, unico partito in Italia, ha selezionato i suoi candidati sindaci. Le primarie sono un metodo democratico per definire le candidature, come tale assolutamente imperfetto, ma comunque di gran lunga migliore del metodo monarchico tanto caro ai nostri avversari, si tratti di Berlusconi o della premiata ditta Grillo, Casaleggio e associati. Quanto a Renzi, come ogni leader ha pregi e difetti. Renzi, come è noto, non è un pacificatore, né un mediatore. È uno che gioca sempre all’attacco e forse proprio a questo deve la sua popolarità. Non si può avere tutto dalla vita…

Veniamo ai problemi politici. Nell’intervista al Corriere Massimo D’Alema aveva affermato che il Partito della Nazione c’è già. Frutto delle scelte di Renzi, arrivando a sostenere che Renzi assomiglia più a Berlusconi che all’Ulivo. Insomma cosa è rimasto dell’Ulivo nel PD renziano?

Quella del cosiddetto Partito della Nazione è una vicenda surreale. L’espressione, di chiara derivazione togliattiana, fu coniata da Alfredo Reichlin, non da Renzi. E stava a indicare la vocazione del Pd a porsi come asse centrale del governo del Paese, più ancora: della sua stessa tenuta democratica. Ora è divenuta un’espressione negativa, il sinonimo di partito pigliatutto, senza valori e senza principi, tutto intento a sostituire la diaspora di consensi di sinistra con il reclutamento di spezzoni di centrodestra. Una caricatura priva di qualunque significativo riscontro nella realtà. La verità è che noi siamo costretti, dai rapporti di forza in Senato, a governare sulla base di un’alleanza innaturale con il centrodestra. Con il centrodestra intero, con Berlusconi alla guida, all’inizio della legislatura, quando si dovette dare vita al governo Letta-Alfano, il governo dei due vice. E poi, dopo i rovesciamenti di tavoli da parte di Berlusconi, con aree resesi autonome di quello che era stato il PdL: il nuovo centrodestra di Alfano dopo la rottura segnata dal voto sulla decadenza di Berlusconi da senatore, a cui si è aggiunto il sostegno esterno del gruppo di Verdini dopo la rottura del patto del Nazareno, a seguito dell’elezione di Mattarella. Da questo punto di vista Renzi sta seguendo la stessa linea seguita da Bersani: una linea tracciata da Napolitano con l’obiettivo di salvare la legislatura e anzi di utilizzarla come occasione per fare finalmente quelle riforme istituzionali da troppo tempo rinviate. Proprio le riforme sono tuttavia la prova che Renzi non intende fare dell’accordo parlamentare col centrodestra l’orizzonte strategico del Pd: se collaboriamo oggi è per porre le condizioni istituzionali per non essere più costretti a farlo domani. Il premio di maggioranza alla lista e non alla coalizione, previsto dall’Italicum, sta lì a dimostrare che l’alleanza col centrodestra è una necessità del presente e non una scelta per il futuro.

Come risponde alle critiche, da parte di Fassina e Civati, che parlano di “mutazione genetica” del PD?

Che il PD non sta subendo nessuna mutazione genetica, ma è in perfetta continuità con l’Ulivo, che nelle parole del suo fondatore, Romano Prodi, era la casa comune dei riformisti italiani. Semmai fu proprio l’Ulivo a chiedere una mutazione genetica alla sinistra italiana, che rendesse possibile il suo scioglimento in un progetto nuovo e più grande, prima la coalizione e poi il partito dell’Ulivo, il Partito democratico. Un partito che doveva e deve essere capace di ristrutturare i rapporti di forza nel Paese, conquistando al riformismo una parte significativa dei consensi che dopo la crisi dei partiti della Prima Repubblica erano andati a destra. A cominciare da quelli degli operai: alle elezioni politiche del 2013, il Pd di Bersani si piazzò terzo nelle preferenze delle tute blu, dopo Grillo e Berlusconi. Alle europee, con Renzi, è tornato al primo posto. Mi piacerebbe mantenerlo questo primato… Semmai, in contraddizione con l’Ulivo sono quelli che pensano e agiscono in nome di un progetto autonomo della sinistra.

La minoranza PD non vuole la scissione e questo è sicuramente un gesto di buona volontà, se vuole anche di realismo politico. Perché non farsi carico di alcune proposte ragionevoli che vengono da quella parte. Invece è un continuo “dialogare tra sordi”. Esempio concreto: per la minoranza PD occorre puntare sulla ricostruzione del Centrosinistra. Non c’è il rischio che alle amministrative corra un partito sempre più centrista. Come pensate di vincerle se “terremotate” l’area di riferimento? Non vede questo rischio?

Non è stato il Pd a “terremotare” il centrosinistra di governo in regioni e città. Abbiamo confermato il sostegno ai sindaci di sinistra con cui abbiamo governato in questi anni: basti pensare a Zedda a Cagliari, o alle pressioni di Renzi su Pisapia perché si ricandidasse a Milano. Non è avvenuto il contrario: basti pensare alla candidatura di Airaudo contro Fassino a Torino, o alla fuga solitaria di Fassina a Roma. Tutte mosse disperate, che possono solo far perdere il centrosinistra.

Tra le critiche che vengono mosse a Renzi c’è quella di aver  LASCIATO il PD in stato di abbandono. In effetti la vita interna al PD langue, il tesseramento ha avuto un forte calo, e tanto altro. Il doppio incarico si è rivelato un fallimento. Un segretario di partito dovrebbe avere a cuore il destino della sua comunità politica. Lei è ancora convinto del doppio incarico?

Si, il doppio incarico, ossia il principio secondo il quale il premier è il leader del primo partito del Paese è una regola base della moderna democrazia parlamentare. Del resto è così in tutta Europa. E in tutte le grandi democrazie europee, il leader che vince le elezioni concentra tutte le energie sue personali e del partito che guida nello sforzo di governare il Paese. E trascura un po’ il partito… Il Pd ha problemi, ma non è un partito in crisi. Il tesseramento è in declino da molti anni, perché è una modalità di partecipazione sempre meno avvertita come attuale dai cittadini. Non a caso il Pd ha importato ìn Italia le primarie, una modalità anch’essa non priva di rischi e problemi, ma che rappresenta un grande elemento di vitalità democratica del Pd. E poi il 2 per mille: mezzo milione di cittadini-contribuenti hanno firmato per dare una piccola quota delle loro tasse al nostro partito… Il principale problema del Pd è il ricambio generazionale, nei territori più ancora che a livello nazionale. La generazione che, tra luci e ombre, vittorie e sconfitte, ha guidato il centrosinistra nella lunga transizione italiana dal 1989 ad oggi, la generazione alla quale io stesso appartengo, ha in gran parte fatto il suo tempo, a Roma come in tutto il Paese. Ma non sempre è facile rimpiazzarla. Non tutti sono fuoriclasse come Matteo Renzi o Maria Elena Boschi. E formare una nuova classe dirigente non è un lavoro che si improvvisa. Ma il Pd lo sta facendo. Come dice Renzi, il Pd è la somma delle primarie e della formazione. Nessun altro partito in Italia può dire altrettanto.

Una parola, infine, sul governo. La battaglia contro le politiche di austerità a livello europeo è certamente un punto di vanto per Matteo Renzi. Quali saranno le prossime sfide per il governo?

Sono le sfide che ha dinanzi l’Italia. Diventare più moderna, più forte, più competitiva e più giusta: a cominciare dai suoi apparati pubblici, dal Parlamento al più piccolo dei comuni. E farlo nel pieno di tre grandi crisi internazionali: la guerra civile che sta dilaniando il mondo arabo-islamico, dal cuore dell’Asia fino a quello dell’Africa, passando per il Mediterraneo; la nuova crisi fredda tra Occidente e Russia; fino alla crisi dell’Europa, incapace di uscire dalla trappola delle 28 sovranità nazionali.

Carlo Donat-Cattin uomo di Stato e leader della Dc. Un testo di Francesco Malgeri

Oggi, nel pomeriggio, al Senato in aula Koch, si è svoto un convegno, nel 25° anniversario della sua morte, per ricordare la figura di Carlo Donat Cattin. Il leader della sinistra sociale della Dc. Grande figura di sindacalista, cresciuto alla scuola di Pastore, è stato un protagonista della politica italiana della “Prima Repubblica”. Al convegno, alla presenza del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, sono intervenuti il Presidente del Senato Pietro Grasso, il professor Francesco Malgeri – che ha tracciato un profilo storico dell’uomo di Stato – Franco Marini, Emanuele Macaluso, Maurizio Sacconi e Pierferdinando Casini.

Di seguito pubblichiamo, per gentile concessione dell’autore, il testo dell’intervento del Professor Francesco Malgeri, grande studioso del cattolicesimo politico italiano.

Signor Presidente della Repubblica,
Signor Presidente del Senato, Signore e signori,

A venticinque anni dalla morte, ricordiamo oggi un uomo che ha lasciato un segno profondo nella storia dell’Italia repubblicana. Formatosi, sin dagli anni Trenta nell’associazionismo cattolico a Torino, ebbe parte attiva nella Resistenza, e, nell’immediato dopoguerra, lo troviamo al centro delle battaglie sindacali, giornalistiche e politiche in Piemonte. Nel corso degli anni Cinquanta, il suo nome è già al centro della vita politica e sociale nazionale. Sono anni segnati da un aspro confronto ideologico tra le forze politiche, ma anche carichi di attese e speranze, grazie ad una straordinaria accelerazione dello sviluppo economico del nostro paese, e, sul piano politico alla svolta del Centro-sinistra, con l’inserimento nell’area di governo del partito socialista che, rompendo lo schema frontista, si propose come forza politica disponibile all’incontro e alla collaborazione con i partiti di democrazia laica e cattolica. Un processo che avvenne in un quadro internazionale segnato da importanti novità: la destalinizzazione in Unione sovietica, le rivoluzioni polacche e ungheresi, il processo di distensione avviato da Kruscev, la presenza di Kennedy alla Casa Bianca e la grande svolta nella storia della Chiesa, con Giovanni XXIII e il Concilio Vaticano II.

E’ in questo contesto che Donat-Cattin entrò a pieno titolo nella vita politica nazionale come consigliere nazionale della Dc dal 1954 e membro della direzione del partito dal 1959. Raccogliendo l’eredità di grandi leader sindacali come Rapelli e Pastore, Donat-Cattin divenne, in seno alla Democrazia cristiana, la guida indiscussa della Sinistra sociale, che dal 1964, con “Forze Nuove”, assunse la fisionomia di “gruppo di pressione sindacale” nel partito, acquistando sempre più una “precisa qualificazione politica”1. La Sinistra sociale fu espressione di una scuola, una cultura, un pensiero, che affondava le sue radici nella storia del cattolicesimo sociale italiano, animato da una intransigenza e da un impegno etico che mai venne meno2. Eletto deputato nel 1958, la sua presenza in Parlamento proseguì per ben trentatré anni, per otto legislature, fino al 1991, di cui le prime cinque alla Camera e le ultime tre al Senato. Nel dicembre 1963, cominciò per Donat-Cattin anche una lunga e intensa attività di governo: sottosegretario alle Partecipazioni statali nei primi tre governi di centro sinistra, guidati da Moro, fino al giugno 1968, fu, in seguito, ministro del Lavoro, del Mezzogiorno, dell’Industria, della Sanità, concludendo il suo iter governativo con il ritorno, nel 1989, al Ministero del Lavoro.

Donat-Cattin credette nel Centro-sinistra come reale strumento di trasformazione politica, sociale ed economica del paese, per costruire uno “stadio più alto di civiltà” e avviare sostanziali riforme, superando da un lato la logica del profitto capitalistico e dall’altro il collettivismo di ispirazione marxista. Si coglie in lui l’esigenza di dar vita ad un sistema economico in grado di offrire all’uomo, al lavoratore, uno sviluppo non alienante, ma costruito sulla base di equilibri ispirati al rispetto della persona e dei valori più profondi che devono guidare la convivenza civile. Con la nomina, nell’agosto del 1969, a Ministro del Lavoro nel secondo governo Rumor (confermato nel 3° e nei successivi governi di Colombo e di Andreotti, sino al giugno 1972) spettò proprio a Donat- Cattin gestire la drammatica situazione segnata dall’esplodere delle agitazioni operaie del 1969, di quell’“autunno caldo” che era conseguenza della crisi determinata dalla conclusione del processo espansivo dell’economia italiana. Un momento delicatissimo, segnato, tra l’altro, anche dalla contestazione giovanile e dall’emergere del terrorismo e della strategia della tensione. Fu lui portare a conclusione nel 1970 l’iter legislativo – avviato dal suo predecessore, il socialista Giacomo Brodolini – dello Statuto dei lavoratori. Donat-Cattin ebbe a definirlo “un fondamento dello Stato democratico” e “il completamento del sistema di libertà” nel nostro paese. Agli attacchi di chi attribuiva alla legge un orientamento demagogico e populista, replicava definendo lo Statuto “il riconoscimento al cittadino lavoratore dei diritti personali di libertà anche quando svolge attività produttiva dipendente”. In questi anni strinse un rapporto di reciproca stima e amicizia con Aldo Moro, che Donat-Cattin definì “l’unico uomo strutturalmente aperto a sviluppi della democrazia fuori da una logica di semplice difesa del potere della Dc”3. Questo rapporto, fino alla tragica morte dello statista pugliese, evidenzia un confronto intenso e profondo. Può apparire singolare questa amicizia tra due personalità così diverse e a loro modo così forti. La formazione sociale e sindacale di Donat-Cattin, forgiatasi nella durezza degli scontri e delle battaglie del movimento operaio, forse mal si conciliava con la sofferta riflessione culturale e politica di un intellettuale del Mezzogiorno, che non era diretta espressione della tradizione del cattolicesimo sociale. Ciò che li univa era soprattutto una visione della democrazia che si misura nel rapporto con la società, con le sue attese e le sue richieste. Lo affascinò di Moro la capacità di lettura e interpretazione dei fenomeni sociali, a partire da quel discorso del novembre 1968, ove, di fronte ai movimenti che stavano investendo in quei mesi la società e la scuola italiana, parlò di “tempi nuovi “, del “moto irresistibile della storia” e di una “nuova umanità che vuol farsi”. Dal suo canto Moro mai cercò di depotenziare la Sinistra sociale, considerandola “un elemento decisivo e insostituibile per caratterizzare in senso popolare l’attività politica della Con Moro Donat-Cattin si confrontò nelle fasi più delicate della storia della Repubblica. Proprio nel 1968 fu Moro a dissuaderlo dall’idea di uscire dal partito per dar vita ad un nuovo soggetto politico. Quando poi, dieci anni dopo, Moro, con il discorso ai gruppi parlamentari del 28 febbraio 1978 indicò la strada della solidarietà nazionale e della convergenza parlamentare con i comunisti, Donat-Cattin sciolse le sue riserve dopo un intenso e severo confronto con il Presidente della Dc, giudicando poi un vero “capolavoro politico” il modo in cui era riuscito a realizzare quel disegno. Di lì a poco vennero i giorni di scelte difficili e sofferte, di fronte alla sorte dell’amico vittima della violenza terroristica. Le lettere e gli scritti di Moro dal carcere lasciarono un segno nell’animo di Donat-Cattin. Quelle parole, a volte crude e pesanti, svelavano, a suo avviso, “pagine tristi di uno squallido mondo del potere”. Quelle pagine, scriveva con la sua consueta franchezza ed asprezza, “scavano giudizi contro il sistema e contro di noi democratici cristiani”. E sulla incapacità di salvare la vita al suo amico ci ha lasciato un interrogativo inquietante: “Potevamo essere meno rigidi? Dovevamo agire di più, inventare, sommuovere, minacciare, ritorcere, pagare, pregare di più per ottenere la salvezza? […] un malessere mi percorre e un senso di colpa personale e di pena mi stringe. Da allora il cuore sarà inquieto per sempre”5 Nei mesi successivi, quando entrò crisi la solidarietà nazionale, Donat-Cattin fu contrario ad un possibile coinvolgimento del Pci nell’area di Governo. Com’è noto, fu lui a scrivere il testo del “preambolo” al congresso di Roma del 1980. Nell’atteggiamento di Donat Cattin emergeva non solo il rifiuto dello Stato inteso come “economia statizzata e burocratizzata” ma un rischio, a suo avviso fatale per la democrazia, giudicando l’ipotesi di un governo Dc-Pci, come “una maggioranza pressoché unanimistica, con tutti e due i piedi dentro la ‘democrazia consociativa’ senza controllo, slittante verso la strategia incontrollabile di piccoli gruppi dirigenti”6. Ed infine non trascurava il pericolo di una alleanza nella quale la Dc doveva assumere il ruolo di polo moderato.

Carlo Donat-Cattin morì il 18 marzo 1991, in un periodo in cui la vita politica italiana stava vivendo quella delicata fase di passaggio che prelude alla crisi del sistema dei partiti, nato nella stagione della Resistenza e della Costituente. Un sistema che, per quasi mezzo secolo, aveva retto le sorti della Repubblica. Prima ancora che il ciclone di tangentopoli venisse a travolgere molti uomini e cose della vecchia Italia, Donat-Cattin comprese chiaramente che la crisi che investiva i partiti era anche crisi morale: la degenerazione era il risultato del venir meno delle “tensioni” e delle “ragioni ideali” dell’azione dei partiti. Il sistema dei partiti era degenerato – scrisse – “al livello della moralità media (scarsa sempre più scarsa) del Paese”, chiedendosi anche se avesse contribuito al degrado il permanere al governo per molti decenni degli stessi partiti, in primo luogo della Democrazia cristiana. Anche se non visse la fase conclusiva della crisi del sistema politico italiano, fu in lui chiarissimo il timore di un cambiamento che poteva abbassare il livello democratico della vita politica, determinare possibili derive plebiscitarie, con un peso eccessivo e invadente del potere economico e finanziario.

Restano oggi a noi i risultati della sua intensa presenza nella storia politica del nostro Paese e nella vita del suo partito. Se in quegli anni si è costruito in Italia uno Stato sociale che sanò antichi squilibri, offrendo ai cittadini più deboli il supporto e il sostegno delle istituzioni pubbliche, non poco pesò la pressione e l’azione svolta dalla Sinistra sociale e dal suo leader. Un riconoscimento che col passare degli anni sembra correre il rischio di diventare una colpa, ma che Donat- Cattin intese difendere sempre con grande convinzione. Intervenendo al XVI Congresso del partito nel 1984 ebbe a dire: “Si afferma che noi abbiamo contribuito a costruire lo Stato sociale e che noi non vogliamo distruggerlo. Noi siamo del tutto coscienti della crisi dello Stato sociale […]. Ma il tema centrale è il rapporto tra il sociale e l’economico, perché la spesa sociale non è un lusso, ma è un bisogno dell’uomo del nostro tempo, dell’uomo a reddito medio basso, che non c’è ragione di mettere in condizioni diverse da chi ha altri livelli di reddito”7. Se, infine, la Democrazia cristiana nella sua lunga storia non è stata un semplice collettore di consenso elettorale, ma è stata anche espressione di una cultura, di un pensiero e di partecipazione convinta di classi sociali appartenenti al mondo del lavoro, che ne hanno qualificato la fisionomia interclassista, lo si deve anche e soprattutto a Donat-Cattin. C’è una pagina molto bella, nella quale spiegò la natura articolata e complessa del suo partito. Intervenendo alla Camera il 12 agosto 1979 ebbe ad affermare: “Siamo cresciuti nel solco tracciato per faticosi decenni nella gleba dell’Italia contadina, tra le minoranze cattoliche dei quartieri operai e degli opifici di vallata della prima e della seconda industrializzazione, nel popolo minuto dedito all’artigianato e al commercio, nella schiera interminabile di educatori, intellettuali, uomini di pensiero, nella più ristretta schiera di imprenditori, di scienziati, di ricercatori chiamati alla vita sociale dalla ispirazione cristiana. Siamo popolo nell’accezione sociologica, chiamato alla politica secondo una spinta partita dalla base del mondo cattolico, alla conquista di una dimensione laica”. Non va infine dimenticato quanto contarono per lui i valori, i princìpi, le istanze ideali, che devono nutrire l’impegno politico e sociale. Il richiamo ai valori profondi, “per i quali vale la pena di vivere e sacrificarsi fino in fondo”, confessò di averli assorbiti nella sua casa paterna, “dove l’intransigenza della fede si sposava al più inflessibile antifascismo” e tra gli “amici e compagni d’arme della Resistenza”. Ed aggiunse: “Occorre il recupero civile di vessilli morali precisi e trascinanti, quel che Moro chiamava ‘un nuovo senso del dovere’, quel che Solženicyn lamenta come assenza quasi totale nell’Occidente consumistico e materialistico. Senza quel recupero costruiremmo ogni giorno qualche fantasma nel vuoto”8.
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1 La mia DC. Intervista a Donat Cattin di Paolo Torresani, Vallecchi, Firenze 1980, p.
2 Atti del VII congresso nazionale della DC, Cinque lune, Roma 1961, p. 314.
3 La mia Dc, cit., p. 35.
4 N. Guiso, Carlo Donat-Cattin. L’anticonformista della sinistra italiana, intervista a Sandro Fontana, Marsilio, 1999, pp. 54-5.
5 C. Donat-Cattin, Quell’uomo, trent’anni per l’Italia. Una vita per la politica, “La Gazzetta del popolo”, 16 marzo 1979.
6 La mia DC, cit., pp. 63-5.
7 Atti del XVI congresso nazionale della Democrazia cristiana, Spes-Dc, Roma 1985, p.
8 La mia DC, cit., pp. 117, 138.

L’epoca dell’infotainment tra informazione e potere. Intervista a Massimiliamo Panarari

Sono sempre più intrecciati, nella post-modernità, i rapporti tra informazione e intrattenimento. Quali sono le dinamiche che stanno alla base dell’infotainment? Quali i rischi, o le opportunità, per il giornalismo? Ne parliamo con il professore Massimiliano Panarari. Massimiliano Panarari, massmediologo e politologo, insegna “Campaigning e Organizzazione del consenso” all’Università Luiss di Roma e “Marketing politico” alla Luiss School of Government. Si occupa di comunicazione politica, mass media, immaginario e cultura pop. Editorialista de La Stampa e de Il Piccolo, è autore del libro L’egemonia sottoculturale (Einaudi, 2010)

Professore, partiamo da un fatto di cronaca. E’ di qualche giorno fa la decisione del GIP di Monza di rigettare, e archiviare, la denuncia dell’Ordine dei giornalisti contro Barbara d’urso che con il suo programma, Domenica live, per esercizio abusivo della professione giornalistica. Secondo il Gip la D’Urso fa infotainment.  Ci spiega, in breve, cos’è e come nasce l’infotainment?

Ha richiamato un fatto di cronaca che ci porta oltre l’infotainment, nei territori che vengono definiti dell’entertation. Se l’infotainment è un mix di informazione e intrattenimento nel quale prevale la prima dimensione, nel caso dell’entertation è, appunto, la seconda a risultare maggioritaria. Da svariati decenni ormai i mass media rappresentano le fonti essenziali non solo di trasmissione, ma anche di produzione dell’informazione politica. Si tratta di un dato di fatto, derivante da fenomeni storici strutturali, che hanno decretato via via la caduta e l’archiviazione delle ideologie, la crisi drastica della militanza politica, il disallineamento politico, e hanno indebolito in maniera radicale la capacità di comunicazione delle forze politiche che hanno affidato sempre più la loro possibilità di trasmettere ai media. In questo contesto e scenario fattosi postmoderno, l’informazione si è sempre più sposata con l’intrattenimento, fino a rappresentare una formula egemonica nel panorama giornalistico, partendo dagli Usa degli anni Settanta per diffondersi prima nel resto dell’Occidente e poi in tutto il Villaggio globale.   

L’infotainment non si esprime solo attraverso la Tv ma anche attraverso la Carta Stampata. In che modo?

La “contaminazione” e i travasi tra i modelli informativi della carta stampata e della televisione sono divenuti sempre più frequenti in Italia dagli anni Ottanta in avanti, in una sorta di rincorsa della prima nei confronti della seconda, a causa dei suoi successi in termini di pubblico e della forza del suo paradigma e della sua logica mediale. Situazione che da alcuni anni si ripete, mutatis mutandis, rispetto al mondo della Rete. L’informazione “spettacolarizzata” sulla carta nasce di qui (in vari ambiti e sezioni dei giornali: dalla titolazione al retroscena), e, più in generale, appunto, dalle modificazioni dei costumi, dei comportamenti sociali, dai cambiamenti nelle modalità di lettura e dai tempi sempre più accelerati a cui siamo tutti sottoposti nella nostra vita quotidiana.

Qual è la logica “profonda” dell’infotainment? A cosa mira? Alla spettacolarizzazione della realtà o della verità?

Si tratta di una forma di spettacolarizzazione delle notizie e del racconto della realtà, che punta ad attrarre più pubblico e a suscitare l’interesse dei lettori o telespettatori. Ecco perché la dimensione e l’“aura” dello spettacolo finisce talvolta per sopravanzare l’obiettività, quando – come in alcuni casi – si scommette direttamente sulla verosimiglianza anziché sulla “verità” del fatto. In tutto questo, evitando – dall’altra parte – gli eccessi di “moralismo”, occorre appunto sapere quando si fruisce di un prodotto o di un genere di infotainment che lo standard informativo contemporaneo più diffuso è diventato questo. E la consapevolezza, nella vita come nei consumi culturali e mediali, è (o dovrebbe essere) fondamentale.

L’infotainment è un rischio o una opportunità per il giornalismo?

Esistono scuole di pensiero differenti sul tema. Nel giudicare tale fenomeno, se volessimo – un po’ scherzosamente – ricorrere alla celebre dicotomia di Umberto Eco, potremmo dire che da un lato ci sono gli “apocalittici” e, dall’altro, gli “integrati”. Ovvero, esistono posizioni (duramente) critiche e altre maggiormente “comprensive” e più sfumate che tendono a evidenziare la presenza di una valenza positiva o, comunque, a cercare di vedere il “bicchiere mezzo pieno”, per dirla in maniera un po’ colloquiale. Le prime sottolineano che l’infotainment non è “politicamente asettico” e che, al contrario, rafforzerebbe nel pubblico atteggiamenti di disimpegno, disaffezione, avversione nei confronti della politica, e veicolerebbe orientamenti populistici e xenofobi e il cosiddetto “conservatorismo irriflessivo” (lo sostiene una scuola sociologica di grande rilievo e di notevole successo nel mondo anglosassone, quella dei Cultural studies). Il secondo orientamento afferma invece che, nonostante tutto, l’infotainment rappresenterebbe una fonte di “informazione” in materia di politica per fasce di popolazione che non se ne interessano abitualmente; e, dunque, se mancassero programmi e format di questo tenore esse non verrebbero neppure minimamente informate a proposito di temi di natura pubblica e politica (una tesi sostenuta da uno dei massimi esponenti e studiosi della comunicazione politica in Italia, e uno dei suoi fondatori, Gianpietro Mazzoleni).

Anche questo approccio alla realtà della comunicazione e dell’informazione ,tocca la politica. Si parla, infatti, di politainment…come si sviluppa nel nostro Paese?

Il termine politainment emerge al principio degli anni Duemila (viene coniato dallo studioso Thomas Meyer nel suo volume Media Democracy: How the Media Colonise Politics del 2002) per indicare un duplice fenomeno: l’incrociarsi di realtà politica e industria dell’intrattenimento e la presenza dei politici nei programmi di varietà e, contemporaneamente, la trasformazione dei temi e degli attori politici in prodotti (output) riconducibili ai format della cultura popolare e di massa (film, riviste di gossip, reality show). Un processo che fa per molti versi da corrispettivo di quello che ha coinvolto il mondo dell’informazione generando l’infotainment.

Quali sono le conseguenze per gli operatori della politica?

Le conseguenze per i soggetti e gli attori della politica appaiono sempre più riconoscibili e marcate, oltre che massicce. E gli Stati Uniti, come sempre avviene sotto il profilo delle innovazioni e tecnologie della comunicazione, ne sono la vetrina. La politica si fa pop, appunto; così, alla “furibonda” ricerca del consenso i politici mutuano tutte quelle tecniche e strategie d’immagine e compiono all’interno dei media quelle apparizioni che dovrebbero garantire loro popolarità. In particolare “invadendo” i programmi “di varietà” e quelli che non prevedono l’approfondimento giornalistico e informativo. Ma il consenso politico, giustappunto, è cosa in verità non precisamente coincidente con il disporre di una dote di popolarità (anche se vi sono chiaramente sovrapposizioni tra i due campi).   

Ci sono degli anticorpi per tenere a bada questa deriva assai problematica per la democrazia?

Come sviluppare anticorpi è, al tempo stesso, un tema problematico e un compito doveroso. Una democrazia in salute dovrebbe farsi promotrice del paradigma dello sviluppo umano e delle “capacità”, ovvero di quella che la filosofia Martha Nussbaum e altri chiamano l’istruzione per la democrazia, la quale mira alla formazione di cittadini e, dunque, alla preparazione di persone capaci di pensare agli altri in termini di reciprocità e rispetto, e non di manicheismi assolutistici. Un’istruzione per la democrazia, fondata sulla pedagogia socratica e sulla centralità del ragionamento, nella quale assumono un ruolo importante la cultura umanistica e quelle liberal arts. Ritengo personalmente che tutto ciò che riduce l’autonomia di giudizio, le facoltà intellettive e lo spirito critico sia da considerare come pericoloso. Quello che si deve fare, e che dovremmo ritenere alla stregua di un dovere etico, è la ricerca di tutti gli strumenti utili a mantenere uno sguardo critico rispetto alle cose e il pluralismo delle voci.