Un “Telegram” dall’Isis. Intervista ad Antonino Caffo

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Terrorismo e social media: perché l’Isis preferisce Telegram.

La protezione dei dati personali è un vantaggio per gli utenti normali ma anche per i seguaci del Califfato che cercano di nascondersi pur restando online

Scoprire e rintracciare i terroristi online non è semplice. Soprattutto quando le recenti innovazioni tecniche, pensate per tutt’altro scopo, permettono a criminali e malfattori di nascondersi online meglio di quanto fosse possibile qualche anno fa. Se i social media hanno un pregio riconosciuto, è quello di dare un reale valore alla comunicazione immateriale, slegata dai concetti di luogo e spazio. Più della telefonata, più degli sms, sono le chat che abilitano la comunicazione “everywhere and everytime”, senza confini e ostacoli.

Per questo, anche i terroristi avevano imparato a usare Facebook (poco) e Twitter (di più), almeno fin quando polizia e opinione pubblica ha capito che forse andava fatto qualcosa per arginare la minaccia. Proprio il microblog è intervenuto pesantemente, eliminando profili e post, con l’aiuto degli hacker di Anonymous. Il passaggio dalla piattaforma dei cinguettii a qualcosa di più sicuro è stato semplice e quasi indolore. Parliamo di Telegram e delle sue funzioni per proteggere l’identità degli iscritti e i messaggi scambiati. Ne abbiamo parlato con Antonino Caffo, giornalista esperto di nuove tecnologie.

Da cosa Telegram è diverso dalle altre applicazioni di chat?

Il fatto è che l’app in questione usa una forma di protezione dei dati personali e delle conversazioni di tipo avanzato. Tutto quello che passa al suo interno è crittografato, ovvero trasformato in lunghe sequenze di codici che non hanno valore agli occhi di un ladro senza una chiave di traduzione. La chiave in questione non è singola ma formata da diverse parti, alcune conservate sul dispositivo in uso (lo smartphone) altre sul cloud. Certo, in qualche modo il team potrebbe violare la privacy dei suoi utenti, ma difficilmente lo fa, se non a seguito di forti pressioni.

In che modo?

Nel recente passato, Telegram ha cancellato circa 80 canali legati all’Isis, confermando di poter benissimo accedere alle informazioni divulgate. Molto è dipeso dalle segnalazioni degli utenti e dall’opinione pubblica, che si era spinta a definirla l’anti-WhatsApp proprio per l’adozione di misure sempre a favore degli utilizzatori. Eppure l’Isis continua a usarla, sfruttando le chat segrete.

Di cosa si tratta

È una funzione con cui chiunque può creare singole istanze o gruppi che usano una forma di crittografia definita “end-to-end”. In questo caso, la chiave di sblocco dei dati è nelle mani del mittente e del destinatario di un messaggio. Telegram non ha voce in capitolo; anche volendo non potrebbe ottenere la sequenza per tradurre i messaggi perché irraggiungibile. Si pensi, che le chat segrete permettono anche di impostare una forma di autodistruzione dei messaggi e una cancellazione definitiva su tutti i telefoni dei partecipanti. Non è un mistero che, ad oggi, i seguaci dell’Isis usino Telegram esclusivamente per questa opzione.

Le forze dell’ordine non possono davvero fare nulla per contrastarlo?

No se il discorso resta legato alle chat segrete, mentre quelle “normali” sono passibili di controllo da parte della compagnia. Tuttavia, in più di un’occasione il fondatore ha affermato di non voler scendere a patti con nessuno quando si tratta di monitorare gli iscritti: non lo farà, tranne casi particolari.

A chi si deve la creazione della piattaforma?

A Pavel Durov, dissidente russo nato a Torino (da cui è andato via in giovane età). Telegram per iOS è stato pubblicato il 14 Agosto del 2013 mentre per Android è stato ufficialmente lanciato il 20 Ottobre 2013. Nonostante gran parte della squadra sia di origine russa, Durov ha deciso di basare il quartier generale della sua creatura a Berlino, lontano dagli occhi e dalle orecchie del Cremlino. Va bene la crittografia, ma è risaputo che all’ombra di Mosca ci siano tra gli hacker più pericolosi al mondo.

I 500 anni della Riforma Protestante: la svolta storica di Papa Francesco. Intervista a Paolo Ricca

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Il prossimo 31 ottobre Francesco sarà a Lund ,in Svezia, per prendere parte, insieme a vari rappresentanti della Chiesa luterana, a una cerimonia commemorativa dei 500 anni della Riforma. Un evento ecumenico a dir poco eccezionale se si guarda alla storia europea degli ultimi cinque secoli. In particolare ai conflitti, ma anche ai tentativi di unità falliti nel corso della storia del cristianesimo europeo. Fino al Vaticano II la figura di Lutero era per i cattolici negativa (salvo rare eccezioni tra qualche teologo cattolico). Dopo il Concilio le cose sono cambiate. Il cammino ecumenico ha fatto grandi progressi. E’ quello di Lund può segnare davvero una svolta positiva per le Chiese cristiane. Per capire i risvolti storici di questo straordinario evento, abbiamo intervistato lo storico del cristianesimo, e pastore valdese Paolo Ricca. Ricca è tra i protagonisti del cammino ecumenico.

Professor Ricca, la prossima settimana Papa Francesco si recherà nella storica, per la Chiesa Luterana svedese, cittadina  di Lund per assistere all’inizio delle celebrazioni per i 500 anni della Riforma  luterana. Un fatto storico che può avvicinare sempre più cattolici e luterani. Per Lei ?

Per me è un fatto storico di grande rilievo per molti motivi. Per esigenze di brevità ne menziono solo due. Il primo è ovvio: la presenza del papa a Lund è una novità assoluta. È la prima volta nella storia che un papa partecipa pubblicamente alla celebrazione della Riforma, che da Roma è stata, per oltre quattro secoli, condannata come eretica e giudicata, fino al concilio Vaticano II (1962-1965), deviante rispetto alla verità cristiana. La presenza del papa a Lund modifica profondamente questo verdetto negativo e implica un giudizio positivo: la Riforma è stata, nell’insieme, un bene. Il secondo motivo è che il papa, recandosi a Lund continua il processo di decentramento rispetto a Roma, già da lui iniziato da tempo, ad esempio andando in Africa a inaugurare il Giubileo straordinario della misericordia. L’unità cristiana, secondo questo papa, si costruisce «camminando insieme», ma non si direbbe che questo cammino comune porti necessariamente a Roma. Non c’è dubbio che il viaggio del papa a Lund contribuisca ad avvicinare cattolici e luterani, ma non nel senso di riportarli tutti all’ovile romano.

Sicuramente alla base di questo gesto di Papa Bergoglio, un papa molto attento gestualità, c’è il mutato atteggiamento dei cattolici verso la figura di Lutero. Tanto che il Papa ha fatto recentemente una affermazione molto significativa: Lutero fu “una medicina” per la Chiesa cattolica. Lei come interpreta questa affermazione?

Il giudizio dei cattolici su Lutero è molto cambiato in questi ultimi decenni. Dicendo che Lutero fu «una medicina» per la chiesa cattolica, il papa ha detto un’indubbia verità, anche se occorre precisare che la chiesa cattolica, nella scia e in alternativa alla riforma di Lutero, ha attuato, con il concilio di Trento (1545-1563) una sua riforma, e contemporaneamente una controriforma, proprio per non assumere la «medicina» proposta da Lutero. È comunque accertato che, sia pure solo indirettamente, la «medicina Lutero» ha giovato anche, e non poco, alla chiesa cattolica.

Dal conflitto alla comunione” è il titolo di un importante documento luterano-cattolico, fatto dalla Commissione luterana-cattolica per l’unità, dove si esplicita il paradigma del cammino fatto dagli anni 80 ad oggi. Si riconosce che “siamo colpevoli dinanzi a Cristo di avere infranto L’unità della Chiesa”. Il documento afferma anche che l’anno giubilare ci presenta ci presenta due sfide: la purificazione e la guarigione delle memorie, e la restaurazione dell’unità dei cristiani secondo la verità del Vangelo di Gesù Cristo (cf. Ef 4,4-6). Anche se non siamo ancora alla piena unità, ciò che ci unisce è molto più di quello che ci divide. Le chiedo: dopo il consenso sulla dottrina sulla giustificazione per fede, cosa manca per sigillare la piena comunione?

Mancano due cose. La prima è il riconoscimento delle chiese evangeliche come chiese di Gesù Cristo, e non come «comunità ecclesiali» (come ha detto il concilio Vaticano II), che non si sa bene che cosa significhi (o si è chiesa o non lo si è!), e comunque è una definizione nella quale le chiese evangeliche non possono riconoscersi. Senza questo riconoscimento la comunione non è possibile. La seconda cosa che manca è una piattaforma dottrinale comune, formulata insieme, nella quale si dice qual è l’«essenziale cristiano» che tutti devono condividere perché ci sia comunione di fede, e quali sono invece le dottrine, le scelte etiche e le pratiche di pietà sulle quali si può essere di pareri diversi senza che questo impedisca la comunione.

Quanto alla «purificazione e guarigione delle memorie» è un’operazione necessaria ma delicata: richiede prudenza, pazienza, intelligenza spirituale e senso della storia.

Professore torniamo a Martin Lutero. Lei è un insigne storico del Cristianesimo, allievo di Oscar Cullmann (tra i più grandi teologi del ‘900). Come è cambiata la storiografia cattolica e protestante sul riformatore tedesco ? Qual è  il punto comune raggiunto su Lutero?

La storiografia cattolica su Lutero è, come già ho detto, molto cambiata Fino ai primi del Novecento, Lutero era un «monaco impossibile» (così lo chiamava Nietzsche), o ribelle, o malato, comunque eccessivo, intemperante, deviante, che ha ubbidito a diversi impulsi, ma non a un’esigenza di fede. Poi gli storici cattolici hanno cominciato a riconoscere in lui un’autentica ricerca religiosa. Poi si è ammesso che, almeno su alcune questioni, Lutero è stato – come disse il cardinale Willebrands negli anni Ottanta, «il nostro maestro comune». Oggi il traguardo raggiunto insieme è quello di considerare Lutero un vero riformatore della chiesa cristiana.

Dal suo punto di vista valdese che prospettiva vede per il cammino ecumenico?

Le prospettive per il cammino ecumenico sono buone nel senso che là dove, in qualunque chiesa, si spiega che cos’è l’ecumenismo e che cosa vuole raggiungere, esso è accettato volentieri e anche, talvolta, con entusiasmo. L’ecumenismo sembra a tutti quelli che lo conoscono e capiscono, una bella prospettiva, anzi una scelta necessaria: oggi non si può essere cristiani senza essere ecumenici. L’ecumenismo è iscritto nel futuro della cristianità tutta; il suo futuro può solo essere ecumenico. Purtroppo però bisogna riconoscere che l’ecumenismo è ancora, in tutte le chiese, un fatto largamente minoritario. Tanti dialoghi tra le chiese sono in corso, ma le chiese ragionano e agiscono ancora nel senso del monologo, come si ciascuna di loro fosse l’unica chiesa esistente. Lo si vede, tra l’altro, dal fatto che molte chiese non praticano tra di loro l’ospitalità eucaristica: ciascuna cioè celebra da sola la Cena del Signore, senza ospitare i cristiani delle altre chiese. Dunque, la situazione ecumenica della cristianità è ancora al quanto contraddittoria. D’altra parte il cristianesimo è l’unica grande religione al mondo nella quale esiste un movimento ecumenico. Non solo, ma oggi sembra che cresca il consenso tra le chiese nel concepire come «diversità riconciliata» l’unità cristiana che esse stanno cercando di manifestare.

Cosa significa, per lei, celebrare i 500 anni la Riforma in un’epoca di globalizzazione?

La Riforma fu, nel XVI secolo, un evento globale, che non riguardò la Germania soltanto, ma l’intera Europa. Per me, celebrare i 500 anni della Riforma è anzitutto un atto di gratitudine a Dio per averla suscitata. In secondo luogo è un’assunzione di responsabilità. La responsabilità è quella di rivivere nel nostro tempo l’eredità che la Riforma ci ha lasciato, che riassumerei così: annunciare la realtà di Dio come grazia e libertà.

Siamo noi a esplodere, non la tecnologia. Intervista ad Antonino Caffo

L’iper-tecnologia e la corsa all’ultimo gadget spingono le aziende ad accorciare tempi di produzione per lanciare sempre nuovi modelli.

copertinaOgni giorno che passa il numero di smartphone Galaxy Note7 con una tendenza a esplodere (in realtà non esplodono, ma si emettono fumo e si gonfiano in corrispondenza della batteria) cresce sempre di più. Si era arrivati a circa 48 quando il gigante coreano aveva deciso di fermare non solo la sostituzione dei negozi ma anche la produzione nelle fabbriche. Un numero considerevole, seppur minimo rispetto agli oltre 2,5 milioni di unità vendute e pre-ordinate al mondo, sin dal lancio di metà agosto.

 Ma non solo Samsung: iniziano a essere rilevanti anche i report che parlano di problemi di surriscaldamento degli iPhone 7 e generazioni precedenti, tra cui l’ultimo che avrebbe (il condizionale è d’obbligo) causato diverse ferite al volto di un ragazzo cinese, che si è visto esplodere il telefonino a distanza ravvicinata mentre stava registrando un video. Insomma, siamo invasi dalla tecnologia esplosiva, come possiamo uscirne? Lo abbiamo chiesto ad Antonino Caffo, giornalista esperto di nuove tecnologie.

Caffo, come si spiegano i casi recenti legati a Samsung e gli ultimi avvenimenti di Apple?

In realtà si tratta di due contesti differenti, almeno per il momento. Cambiano i dati numerici, che da un lato raccontano di decine di segnalazioni a livello mondiale, seppur in Europa non vi sia un solo caso riportato di deflagrazione dei Galaxy Note7, l’altro invece descrive una situazione che, visto il bacino, può essere considerata fisiologica.

In che senso?

Su milioni di iPhone 7 e 6/6S venduti al mondo, solo negli ultimi anni, è normale che qualche modello faccia i capricci, arrecando possibili danni a chi lo utilizza. È pur vero che diversi siti web, come “Daily Express”, evidenzino il numero crescente di persone con un iPhone esploso, ma quando ci si ferma a una casistica del genere non è possibile parlare di problema globale, almeno non come quello vissuto da Samsung. Ma alla fine la vicenda del Note7 ha almeno avuto il pregio di alzare l’attenzione sugli incidenti quotidiani che possono verificarsi con gli smartphone più recenti, tra cui gli episodi di auto-combustione. Per questo terrei d’occhio anche quello che succede in casa Apple, visto che la base da cui nasce la grana sembra essere la stessa.

Conosciamo il motivo di queste esplosioni o presunte tali?

In realtà no, Samsung ha parlato solo di un errore durante la fabbricazione. Sappiamo però che il difetto è circoscritto alla batteria. Quelle sui Galaxy, come sugli iPhone, sono agli ioni di litio, più veloci da caricare, più durature e, almeno in teoria, più sicure. Può succedere però che, durante la fase di ricarica, qualcosa vada storto; una conseguenza di un processo di produzione che in gergo viene definito “fallato”.

Da cosa può dipendere?

I tipici dentini che collegano la batteria alle resistenze nel telefono possono fuoriuscire, oppure si creano dei fori sulla superfice del modulo, così da far emergere, anche in quantità minime, l’elettrolito contenuto all’interno. Questo, a contatto con la carica, produce fumo e calore.

La colpa, giusto per sfatare un mito, non è della “ricarica veloce” di cui sono dotati gli smartphone di ultima generazione, visto che in quel caso il processo di spostamento degli ioni da un polo all’altro avviene con una velocità controllata, oltre la quale la batteria potrebbe scoppiare.

Si è fatto un’idea sul perché il Galaxy Note7 esplode?

Probabilmente per l’estrema vicinanza tra le piastrine presenti nella batteria, che durante la ricarica creano un eccessivo stato di calore e seguente rigonfiamento. Ci tengo a precisare che un difetto del genere, ancora da valutare ma comunque presente, riguarda solo i Note7 e nessun altro prodotto di Samsung in commercio. Per dire: i Galaxy S7 e Galaxy S7 Edge sono più che sicuri.

Non è lecito pensare che la causa di tutto questo sia l’iper-tecnologia e la continua ricerca della novità?

Certamente. Rispetto a un decennio fa, i dispostivi hi-tech che ci portiamo dietro godono di una potenza di calcolo decisamente maggiore, con elementi hardware a volte superiori a quelli di un computer medio (pensiamo ai cellulari con 6 GB di memoria RAM). Siamo entrati in un circolo vizioso dal quale è difficile uscire: da un lato le aziende produttrici spingono sempre di più verso l’innovazione e la maggiore capacità, comprimendo le dimensioni a favore di uno spessore ridotto; dall’altro i consumatori non possono fare a meno di dotarsi dell’ultimo gadget hi-tech, perché fa tendenza ed è di moda, anche se lo useremo solo per scattare foto nel weekend o giocare a Pokémon GO (per il quale va bene anche un cellulare di fascia media per intenderci).

Iper-connettività e iper-tecnologia sono un male?

No, anzi, rappresentano la spinta per spostare sempre più in là i limiti del possibile. Il colpevole, se così lo si può chiamare, è la continua ricerca al nuovo prodotto da commercializzare in tempi brevi, per anticipare le mosse dei concorrenti e spingere le vendite anche in periodi deboli, come quelli post-estivi e primaverili. Il rischio è di saltare uno step di controllo fondamentale che metta in sicurezza aggeggi destinati a milioni di persone. Non è solo una questione di salvaguardia fisica dell’individuo ma di etica nei suoi confronti: se mi affido a un certo prodotto è perché credo in quel marchio e nella bontà di ciò che mi può offrire. In questo, Samsung non ha indietreggiato di un solo centimetro, agendo tempestivamente per proteggere i clienti da un errore che di sicuro poteva essere evitato e che ora richiederà una campagna riparatoria a 360 gradi.

Comprerebbe un telefonino Samsung in futuro?

Da una situazione del genere un colosso come la coreana non può che uscirne rafforzato. Aumenterà le procedure di verifica di ogni dispositivo mobile, supervisionando meglio di quanto fatto ieri su ogni fase dell’assemblaggio. Non so se vedremo mai un altro Note7 o si passerà direttamente alla generazione successiva. È auspicabile però che la vicenda sia servita a ripensare le strategie di tutti i principali soggetti attivi sul mercato, fin troppo dipendenti da tempistiche e logiche a cui, onestamente, non stiamo più dietro.

La “Cyber guerra” contro Papa Francesco. Intervista a Giacomo Galeazzi

I siti web tradizionalisti scatenano una sorta di “cyber guerra” contro l’operato di Papa Francesco. Quali sono i siti e chi sono questi super integralisti “cattolici”? Ne parliamo con Giacomo Galeazzi, vaticanista del quotidiano La Stampa, autore, insieme ad Andrea Tornielli, di una inchiesta su questa area ecclesiale che vive di nostalgici risentimenti contro il Vaticano II e la modernità.

Galeazzi, lei e Andrea Tornielli siete stati autori di una bella inchiesta giornalistica sulla resistenza (o dissenso) a Papa Francesco pubblicata nei giorni scorsi su Vatican Insider, vogliamo approfondire alcuni nodi della vostra inchiesta . Incominciamo col fare una piccola mappa: Dove è collocata maggiormente l’area del dissenso?
“Quando un mese fa abbiamo iniziato il nostro viaggio nella galassia degli oppositori di Bergoglio, abbiamo applicato subito un metodo rigorosissimo. Incontri, colloqui, visite: tutto registrato, scritto, inattaccabile. E infatti, dopo l’uscita della nostra inchiesta, le reazioni dei siti ultratradizionalisti devono arrampicarsi sugli specchi della dietrologia perché non hanno elementi per contestare neppure una virgola di quello che abbiamo riportato. Ci siamo immersi per settimane in un fronte ecclesiale, politico e culturale che sul web e nei circoli unisce leghisti, nostalgici di Ratzinger, nemici del Concilio. Per esempio, nella sua pagina ufficiale su Facebook, Antonio Socci sostiene che Benedetto XVI non si sia voluto davvero dimettere ma si consideri ancora Papa volendo in qualche modo condividere il «ministero petrino» con il successore. Interpretazione che lo stesso Ratzinger ha smentito”

Il dissenso si manifesta maggiormente, non solo con libri, ma, come già detto, con lo strumento del web. La rete diventa, così, l’arma per scatenare l’opposizione a Francesco. Può farci qualche nome dei maggiori oppositori?
“A tenere unita la galassia del dissenso è l’avversione a Francesco. E’ un area composita che spazia dai lefebvriani che hanno deciso di «attendere un Pontefice tradizionale» per tornare in comunione con Roma, ai cattolici leghisti che contrappongono Francesco al suo predecessore Ratzinger e lanciano la campagna «Il mio papa è Benedetto». Ci sono gli ultraconservatori d ella Fondazione Lepanto e i siti web vicini a posizioni sedevacantiste, convinti che abbia ragione Socci a sostenere l’invalidità dell’elezione di Bergoglio soltanto perché nel conclave del marzo 2013 una votazione era stata annullata senza essere scrutinata. Il motivo? Una scheda in più inserita per errore da un cardinale. La votazione era stata immediatamente ripetuta proprio per evitare qualsiasi dubbio e senza che nessuno dei porporati elettori sollevasse obiezioni. In questa galassia ci sono anche prelati e intellettuali tradizionalisti firmano appelli o protestano contro le aperture pastorali del Pontefice argentino sulla comunione ai divorziati risposati e sul dialogo con il governo cinese”.

Quanto peso ha questa area?
“Dopo l’uscita della nostra inchiesta sulla “Stampa”, un bravo collega del quotidiano “Avvenire”,Luigi Rancilio si è fatto proprio questa domanda: quante persone coinvolge questo fronte anti Bergoglio sul web? Così, ha analizzato il traffico dei blog e dei siti citati nel mese di settembre, usando Similarweb (che non sarà preciso al 100% ma è molto affidabile). Ecco i risultati: La nuova Bussola quotidiana 11.200 lettori medi al giorno.Il blog di Antonio Socci 6.833 lettori medi al giorno. Il Timone 3.253 lettori medi al giorno. Il blog di Sandro Magister sull’Espresso 2.870 lettori medi al giorno. Riscossa Cristiana 2.440 lettori medi al giorno. Unavox 1.456 lettori medi al giorno .Il blog di Don Giorgio De Capitani 730 lettori medi al giorno. Il blog Chiesa e postconcilio 284 lettori medi al giorno Rosso porpora 57 lettori medi al giorno. Facendo anche finta che nessuno di questi siti o blog abbia lettori in comune (cosa impossibile) stiamo parlando di 29.123 persone al giorno. Quindi, Papa Francesco può dormire sonni tranquilli. Il dissenso verso il Papa unisce persone e gruppi tra loro molto diversi e non assimilabili”.

La linea pastorale di Francesco che, sulla scia del Vaticano II, propone una ecclesiologia inclusiva (la visione della “Chiesa come ospedale da campo”) è contestata da alcuni cardinali e da una parte della Curia Romana. Cosa contestano a Papa Francesco? Qual è la critica più feroce dal punto di vista teologico?
“Uno dei principali centri di resistenza, secondo lo storico ultratradizionalista Roberto De Mattei (presidente della fondazione Lepanto) è l’Istituto Giovanni Paolo II per la famiglia. Nel mirino dei critici c’è anche il contributo che la politica migratoria di Francesco, a giudizio dei suo detrattori, fornisce alla destabilizzazione dell’Europa e alla fine della civiltà occidentale. Tra coloro che vengono considerati stelle polari da parte di questo mondo ci sono soprattutto il porporato statunitense Raymond Leo Burke, patrono dei Cavalieri di Malta, e il vescovo ausiliare di Astana, Athanasius Schneider. I vescovi cattolici nel mondo sono più di cinquemila, ci ha ricordato il sociologo Massimo Introvigne, il dissenso riesce a mobilitarne una decina, molti dei quali in pensione, il che mostra appunto la sua scarsa consistenza”.

Abbiamo visto che la Rete diventa il grande contenitore dove alberga il risentimento, la delegittimazione (e in taluni casi anche l’odio) nei confronti del Papa. Pur tra differenze di posizioni, quello che appare è che vi sia una “regia” comune che alimenta questo dissenso. C’è? Oppure è una visione da “complottisti” immaginare questo?
“Introvigne sostiene che questo dissenso è presente più sul web che nella vita reale ed è sopravvalutato: ci sono infatti dissidenti che scrivono commenti sui social sotto quattro o cinque pseudonimi, per dare l’impressione di essere più numerosi. Ed è un movimento che non ha successo perché non è unitario. Ci sono almeno, secondo Introvigne, tre dissensi diversi: quello politico delle fondazioni americane, di Marine Le Pen e di Matteo Salvini che non sono molto interessati ai temi liturgici o morali – spesso non vanno neppure in chiesa – ma solo all’immigrazione e alle critiche del Papa al turbo-capitalismo. Quello nostalgico di Benedetto XVI, che però non contesta il Vaticano II. E quello radicale della Fraternità San Pio X o di de Mattei e Gnocchi, che invece rifiuta il concilio e quanto è venuto dopo”.

Tra i protagonisti, oltre a teologi ed alcuni elementi della gerarchia, vi sono i giornalisti. Tra i più noti ricordiamo: Magister (più sofisticato), Socci (sostenitore della tesi della invalidità della elezione di Francesco) e Rusconi (tradizionalista ticinese). Ho notato l’assenza di Aldo Maria Valli, vaticanista del TG1, tra i più critici, sia pure raffinato, nei confronti del Papa. Perché ?
“Abbiamo scattato una fotografia dell’esistente. E’ stato un lavoro capillare e faticoso. Sicuramente ci sono anche altre voce di dissenso a Francesco, abbiamo riportato quelle che riteniamo più significative. Il dissenso verso il Papa unisce persone e gruppi tra loro molto diversi e non assimilabili: ci sono le prese di distanza soft del giornale online «La Bussola quotidiana» e del mensile «Il Timone», diretti da Riccardo Cascioli. C’è il quasi quotidiano rimprovero al Pontefice argentino messo in rete dal vaticanista emerito dell’«Espresso», Sandro Magister. Ci sono i toni apocalittici e irridenti di Maria Guarini, animatrice del blog «Chiesa e Postconcilio», fino ad arrivare alle critiche più dure dei gruppi ultratradizionalisti e sedevacantisti, quelli che ritengono non esserci stato più un Papa valido dopo Pio XII”.

Non c’è solo la teologia il dissenso riguarda anche la “politica”, e anche la “geopolitica della misericordia”, di Francesco. Qui lo spettro va dai cattolici conservatori americani (che votano Trump) ai cattoleghisti che tifano per Putin. Non è assurdo avere come interlocutore Putin da contrapporre a Papa Francesco? Senza dimenticare la destra “sovranista”. Su che basi si fonda questa fronda?
“Abbiamo visitato i luoghi e incontrato i protagonisti di questa opposizione a Francesco, numericamente contenuta ma molto presente sul web, per descrivere un arcipelago che attraverso Internet ma anche con incontri riservati tra ecclesiastici, mescola attacchi frontali e pubblici a più articolate strategie. Introvigne ci ha fatto notare una sorprendente caratteristica comune a molti di questi ambienti: È l’idealizzazione mitica del presidente russo Vladimir Putin, presentato come il leader “buono” da contrapporre al Papa leader “cattivo”, per le sue posizioni in materia di omosessuali, musulmani e immigrati. Con il dissenso anti-Francesco collaborano fondazioni russe legatissime a Putin”.

Pensa che queste posizioni abbiano una qualche possibilità di avere un consenso più largo nella comunità ecclesiale?
“Nel libro “Il Concilio di Papa Francesco” (Elledici) ho avuto modo di elencare ragioni e temi che dividono questi oppositori di Bergoglio dalla larghissima maggioranza dei fedeli. Tra i nemici di Francesco, molti hanno come “grande nemico” il Vaticano II. Francesco, proprio perché è il primo Papa che non ha partecipato al Concilio, ha come indirizzo fondamentale la realizzazione e l’attualizzazione della primavera conciliare. E ciò contrasta con il luogo comune di un periodo storico della Chiesa del tutto concluso e, ormai, da celebrare con un obbligato ossequio retorico, più o meno convinto, più o meno ipocrita. Francesco ritiene che il Concilio, al contrario, sia rimasto largamente inapplicato e che, invece di celebrarlo ritualmente, appunto, vada vissuto nella quotidiana esperienza pastorale. Il richiamo al Concilio mi ha consentito, anche attraverso una vasta ricognizione tra le opinioni dei più autorevoli protagonisti del dibattito ecclesiale, di formulare distinzioni tra termini che si confondono troppo per essere chiarificatori. Quelli che ricordano l’essenziale differenza, per esempio, tra miseria e povertà, per cui la prima è indegnità, la seconda è stile di vita e il Vangelo dice, appunto, «beati i poveri», non «beati i miseri». Proprio per contestare ingenue o maligne assimilazioni ideologiche, è utile ricordare le parole di Francesco che rivendicano la primogenitura della parola evangelica sull’importanza della «cura dei poveri», rispetto a rivendicazioni marxiste totalmente estranee alla concezione cristiana della vita”.

Papa Francesco come reagisce di fronte a tutto questo?
“Francesco è un dono provvidenziale alla Chiesa e al mondo. Basta seguire ogni giorno su “Vatican Insider” l’attività di Bergoglio e vederne gli straordinari effetti globali per capire la portata storica del suo pontificato. A chi acriticamente attacca Bergoglio a testa bassa e, pur definendosi cattolico, arriva a insultarlo sui siti ultratradizionalisti definendo il Vicario di Cristo “un monotono clown di basso conio” di leggere “Il nome di Dio è misericordia” (Piemme), il libero nel quale il Papa dimostra splendidamente e in maniera inequivocabile ad Andrea Tornielli come il Vangelo sia l’unica linea guida della sua azione. Le risposte di Bergoglio a Tornielli fanno capire in maniera inequivocabile come il Pontefice abbia a cuore esclusivamente l’evangelizzazione. Mediocri e meschini veleni di piccole pozze inquinate non riescono neppure a sfiorare il grande fiume alimentato dallo Spirito Santo”.

“Lo scontro nel PD è tra democrazia dell’alternanza e democrazia consociativa”. Intervista a Giorgio Tonini

Oggi il PD compie nove anni. Per l’anagrafe è un partito giovanissimo. Eppure è lontano “anni luce” l’ entusiasmo di quei giorni. Nacquero comitati civici composti da cittadini semplici, militanti di base, intellettuali, per sollecitare la nascita del nuovo soggetto politico che “finalmente avrebbe traghettato il centrosinistra italiano verso la modernità”: il Partito Democratico appunto. Oggi il PD, come gli avvenimenti dei giorni scorsi hanno mostrato, è un partito diviso, lacerato. Per parlare della situazione interna, della lacerazione politica e della sua possibile soluzione, abbiamo intervistato il Senatore Giorgio Tonini. Tonini è stato tra i fondatori del PD. Attualmente è Presidente della Commissione Bilancio del Senato, ed è esponente di spicco della maggioranza renziana all’interno del partito.

Senatore Tonini, diciamoci la verità: l’ultima direzione del suo partito è stata come il “canto del cigno” del PD (così l’ha definita Marcello Sorgi). Insomma, nonostante le aperture di Renzi sulla modifica dell’Italicum, la minoranza non si fida del Segretario-Premier. Bersani smentisce scissioni, e così altri della sinistra dem. Cuperlo entrerà nella Commissione proposta da Renzi per cambiare la legge elettorale. Però il clima è degenerato. Insomma Renzi dovrà pur fare mea culpa se non riesce a tenere unito il partito. Certo anche la minoranza ha le sue colpe: quella, in primis, di vivere in perenne stato congressuale. Non è un bel compleanno (il nono) per il PD. Non è così Senatore?

Non mi convince un’analisi della discussione interna al Pd che si esaurisce attorno a questioni psicologiche (il brutto carattere di questo o il risentimento di quello), o anche solo ad uno scontro di potere e per il potere. Certo, c’è anche tutto questo: la politica è fatta da esseri umani e non da creature angeliche. Ma il nocciolo della questione è un altro: lo ha detto bene Bersani in un’intervista di qualche settimana fa, parlando di “idee diverse della democrazia”. E in effetti, nella discussione sulla riforma costituzionale e sul cosiddetto “combinato disposto” con la legge elettorale, sta riemergendo, in modo via via più chiaro, la frattura tra chi crede in un modello competitivo della democrazia e dunque tende a sposare sistemi elettorali e istituzionali di tipo maggioritario, e chi invece propende per una visione consociativa e consensuale e preferisce quindi sistemi di tipo proporzionale. Con tutta la buona volontà del mondo, e anche mettendo da parte asprezze e spigolosità, non è facile mediare tra queste due visioni. Si può temperare un impianto maggioritario con correttivi garantisti per le minoranze. O, viceversa, si può correggere un sistema proporzionale con soglie d’accesso e altri meccanismi stabilizzatori. Ma al dunque, si deve scegliere quale strada prendere. La via intrapresa dalla riforma costituzionale e da quella elettorale è la prima: è la via della democrazia dell’alternanza, della competizione tra alternative politico-programmatiche, incarnate da leadership riconoscibili; è la via che affida al cittadino elettore il potere di investitura di chi deve governare. Il superamento del bicameralismo paritario, in favore di un sistema nel quale la Camera abbia l’esclusiva del rapporto fiduciario col Governo e per questo eserciti anche un ruolo preminente nel procedimento legislativo, è il primo pilastro di questa visione della democrazia, quello contenuto nella riforma costituzionale. Una regola di elezione della Camera politica, che selezioni uno schieramento e un leader vincitori nella competizione per il governo, è il secondo pilastro, affidato alla legge elettorale, nel nostro caso all’Italicum. La riforma costituzionale, approvata dal Parlamento, è ora affidata al giudizio popolare e su di essa non si può più intervenire. L’Italicum, invece, si può cambiare: la strada è aperta, sia sul piano tecnico, perché si tratta di una legge ordinaria, sia sul piano politico, dopo l’apertura di Renzi all’ultima Direzione nazionale del Pd. Il problema è come cambiarlo: se per correggere alcuni aspetti, anche importanti (ad esempio preferenze o collegi uninominali…), ma senza rimetterne in discussione l’impianto maggioritario, come in molti nel Pd pensiamo, o se invece si vuole dare al paese una legge elettorale che non consente ai cittadini di scegliere chi deve governare, ma vuole riaffidare questa decisione ai parlamentari e ai partiti ai quali essi appartengono. Nel primo caso, la Commissione costituita dalla Direzione su proposta di Renzi, potrà formulare alcune ipotesi sulle quali lavorare in Parlamento. Nel secondo caso, invece, sarà il referendum a sciogliere il nodo.

Dicevamo del nono compleanno , infatti il 14 ottobre 2007 nasceva il PD, di un partito che aveva suscitato grandi speranze. Che è riuscito a rompere un tabù della politica italiana: quello della Sinistra al governo. Pochi “anni dopo, quel partito si trova senza radici e senza orizzonte, con le fonti inaridite e l’identità incerta”. Questo è il duro giudizio di Ezio Mauro, in un editoriale di qualche giorno fa su Repubblica. Forse la “mistica” renziana della “rottamazione” non è riuscita a creare una nuova identità di sinistra democratica. Il punto è proprio questo: la radice dei dissensi politici interni al PD sta qui. Un partito che è scarsamente curato dal segretario. Troppo drastici questi giudizi?

L’identità di un partito, ama dire Alfredo Reichlin, è data dalla sua funzione. La funzione del Pd è stata in questi anni ed è oggi più che mai, quella di guidare l’Italia sulla base di una strategia riformista e democratica, unica alternativa di speranza alle suggestioni populiste e talvolta reazionarie che la più grave crisi economica e sociale del nostro tempo ha fatto sgorgare dal corpo provato e spossato del paese. Una strategia che si è segnalata in Europa come l’unico esempio di sinistra riformista al governo, mentre la socialdemocrazia in quasi tutti i paesi del vecchio continente sprofondava nella crisi più grave della sua storia. Altro che partito senza radici e senza orizzonte! La verità è che la storia di questi anni ha dato ragione alla intuizione culturale che sta alla base del progetto originario del Pd, concepito nell’esperienza dell’Ulivo guidato da Romano Prodi, sbocciato con la leadership fondativa di Walter Veltroni e portato da Matteo Renzi al governo del paese in uno dei passaggi più drammatici della storia d’Italia: l’intuizione per cui solo dall’incontro tra le culture riformiste del Novecento si sarebbe potuto formare e strutturare quel pensiero nuovo, democratico senza aggettivi, che avrebbe potuto guidarci nell’affrontare le inedite questioni proposte dal mondo del Duemila. Certo, questa intuizione ha bisogno di essere coltivata e curata, tradotta in formazione culturale e in una innovativa forma di organizzazione politica. Su questo il Pd è in ritardo. Ma raramente i partiti al govern riescono a trovare energie sufficienti per occuparsi di se stessi: è normale che il nerbo dell forze disponibili sia usato nel e per il governo.

Ora infuria la battaglia sul Referendum. Lei è schierato per il SI. D’Alema ha accusato il vostro fronte di alimentare un “clima intimidatorio” e di essere espressione di un blocco di potere. Anche il vostro fronte non scherza in fatto di esasperazione e provocazione: sul sito “bastaunsi.it” è uscito un articolo che non lascia spazio a molte fantasie: “I punti in comune tra riforma costituzionale e programma del Pdl 2013”. Con il clima che c’è nel vostro partito, una cosa così è un “capolavoro” all’incontrario di comunicazione politica. Il clima è davvero esasperato. Rischia di produrre, il giorno dopo il Referendum, macerie politiche, da qui il richiamo del Presidente Mattarella. Lei non è preoccupato?

Sono molto preoccupato. Come è accaduto in altri passaggi della tormentata vicenda della nostra democrazia difficile, vedo aggregarsi forze che hanno in comune solo la volontà di opporsi, di contrastare, di impedire al faticoso lavoro del riformismo politico e istituzionale di procedere e di produrre risultati, per quanto limitati, parziali e perfino imperfetti. Questo grande fronte trasversale può far perdere il riformismo, ma non può vincere, se vincere significa non solo battere l’avversario, ma promuovere una visione alternativa. Se vincerà il Sì, il progetto politico riformista e democratico riceverà dal consenso popolare la forza necessaria ad andare avanti nell’opera, al tempo stesso determinata e paziente, di cambiamento del paese. Se invece prevarrà il fronte del No, ci troveremo in un vuoto, di visione e di proposta, malamente colmato da un rassegnato ritorno, un ripiegamento in un sistema politico istituzionale neo-proporzionale, nel quale nessuno vince, nessuno perde e nulla può cambiare. Come si possa pensare di affrontare i grandi nodi strutturali del paese con un sistema politico-istituzionale così debole e frammentato è per me un mistero. Quanto all’accostamento della riforma costituzionale sottoposta al referendum, al programma del Pdl del 2013, non so dire se sia un capolavoro o un infortunio sul piano della comunicazione politica. Dico però che i nostri avversari devono decidersi: vogliono contrastare la riforma perché “approvata a maggioranza spaccando il paese”, o invece perché “copiata dal programma di Berlusconi”? La verità storica è molto più semplice: il percorso riformatore di questa legislatura è nato da un patto tra Pd, Pdl e centristi, lo stesso che ha dato vita, sotto la guida del presidente Napolitano, al governo Letta. Un governo che aveva proprio nelle riforme istituzionali il primo punto programmatico. E le riforme individuate come possibili erano quelle sulle quali si poteva registrare il più alto livello di consenso: la riforma del bicameralismo, la revisione del titolo V nelle parti che non avevano funzionato e la riforma elettorale. Si erano invece accantonati temi più divisivi, come quello della forma di governo (premierato o presidenzialismo), per non dire della questione della giustizia. Dire dunque che la riforma approvata era ampiamente contenuta nei programmi del Pdl, come per altro verso del Pd, è ricordare una ovvietà, come è un’ovvietà ricordare che la rottura con Forza Italia non è si è determinata sul contenuto della riforma, ma su questioni di quadro politico esterne alla riforma stessa. Raccogliere il giusto invito del presidente della Repubblica dovrebbe significare innanzi tutto non nascondere o addirittura mistificare queste elementari verità storiche.

Parliamo di Economia. Lei è presidente della Commissione Bilancio del Senato. Organismo importante. Avete ascoltato il Ministro Padoan. Il governo punta ad una crescita dell’1%. Cifra che viene contestata dall’Ufficio Parlamentare di Bilancio, ma anche da altri organismi. A parte i dati di agosto, sicuramente importanti, non è che l’anno 2016 sia stato all’altezza delle aspettative del governo. Insomma l’ennesimo spot ottimistico?

Portare il tasso di crescita dell’economia italiana all’1% nel 2017 non è uno spot ottimistico, ma un obiettivo programmatico che il Governo intende perseguire con grande determinazione. L’ufficio parlamentare di Bilancio, autorità tecnica autonoma, istituita grazie al nuovo articolo 81 della Costituzione, riformato nel 2012, ha espresso dubbi sulla reale possibilità di raggiungere questo obiettivo di crescita, con un deficit pubblico che voglia mantenersi entro il limite del 2%. Al momento tuttavia la Commissione europea non ha ancora accolto la richiesta, da parte delle’ l’Italia, di superare quel limite, anche se il Governo ha già chiesto al Parlamento di essere autorizzato a discostarsene di uno 0,4% di PIL. Qualora questo scostamento venisse in tutto o in parte accettato dall’Unione europea, anche la divergenza tra il Governo e l’ufficio parlamentare del Bilancio sarebbe destinata a ricomporsi. Accanto alla dimensione quantitativa della manovra, decisiva ai fini del raggiungimento degli obiettivi di crescita sarà la sua composizione qualitativa: in particolare è decisivo che una parte significativa delle risorse impiegate nella manovra venga utilizzata per sostenere gli investimenti, sia pubblici che privati.

Lei è ottimista sulla flessibilità di bilancio? Non le pare che stiamo grattando il fondo del Barile?

Penso che dobbiamo creare le condizioni per spingere la crescita oltre l’1%, per portarla verso il 2, se vogliamo che se ne avvertano gli effetti positivi nella vita concreta delle famiglie e delle imprese. Arrivare a questo obbiettivo, che è poi il senso del nostro lavoro, comporta due condizioni, la prima delle quali è nelle nostre mani solo fino ad un certo punto ed è riuscire davvero a cambiare verso alla politica economica europea, ristabilendo il primato politico della crescita rispetto alla stabilità. Abbiamo infatti bisogno che, accanto al lavoro di risanamento, che è necessario venga fatto dagli Stati nazionali, e che quindi accanto al fiscal compact – che non rinneghiamo, perché costituisce un principio d’ordine necessario in una federazione di Stati, che mantengono ancora una forte sovranità sulle politiche economiche e nello stesso tempo vogliono avere in tasca la stessa moneta – accanto a questo elemento di disciplina ci sia un motore espansivo, che si accenda a livello federale. Quando il nostro Presidente del Consiglio invita a fare come in America, intende esattamente questo. Negli Stati Uniti d'America, gli Stati che compongono l’Unione hanno il dovere del pareggio di bilancio: se non hanno il bilancio in pareggio, vanno in default e nessuno li assiste. Allo stesso tempo, però, c’è il motore federale che si accende e c’è un’enorme spinta espansiva, dovuta al fatto che l’azione del Governo federale e il Tesoro americano favoriscono la crescita e l’occupazione. Questo è il compromesso su cui si reggono gli Stati Uniti, che certamente ha i suoi problemi e i suoi limiti, ma i dati ci dicono che, pur con tutti i problemi, sta funzionando molto meglio del compromesso europeo, che spinge gli Stati a rispettare il rigore di bilancio, ma poi non ha il motore federale che si accende e spinge la crescita. Dunque è stata inventata la flessibilità, che ci tiene in vita in questo momento. Se ci togliamo questo ossigeno, soffochiamo. Altro è dire che questo ossigeno, quel poco che c’è, va usato in maniera intelligente. Qui le parole chiave sono due: una è la parola “riforme”, l’altra è la parola “investimenti”. Le riforme sono necessarie, perché sono gli scarponi che usiamo per camminare su quel crinale così sottile e scivoloso che separa i due precipizi che abbiamo ai lati del nostro cammmino: da un lato lo spread, dall’altro la recessione. Se indossiamo scarpe con le suole lisce, è facile scivolare e precipitare. Se abbiamo i ramponi, è più facile camminare con passo sicuro e possiamo anche accelerare il ritmo del nostro passo. Fuor di metafora, ciò vuol dire che gli 800 miliardi di euro di spesa pubblica devono essere riqualificati, posto che non possono crescere, ma semmai devono diminuire un po’. Per farli diminuire un po’ e produrre crescita e uguaglianza sociale li dobbiamo riqualificare, ristrutturando la spesa pubblica, attraverso le riforme, cominciando dall’alto, ovvero dal Parlamento. Se infatti il Parlamento non funziona, non funziona lo Stato e, se non funziona lo Stato, l’economia va a farsi benedire. Questo è un concetto di normale buon senso: poi possiamo discutere sul merito di come si riorganizzano il Parlamento, il Governo di un Paese e lo Stato. Dire però che questo sarebbe un diversivo non ha senso, perché sarebbe come dire che non ci importa nulla della qualità delle nostre scarpe, mentre dobbiamo camminare su un tratto esposto e quindi pericoloso.

Renzi a Ventotene ha provato a rilanciare il sogno europeo. Ma qualche giorno dopo si è frantumato. Quanto pesa Renzi in Europa?

Renzi si trova a governare l’Italia nel pieno della crisi più grave del progetto europeo dal 1957 ad oggi. Ventotene e Bratislava sono due eventi che insieme ci descrivono perfettamente lo stato attuale della questione europea. Innanzi tutto ci dicono entrambi che i paesi che hanno sulle spalle la responsabilità più grande rispetto al futuro dell’Europa sono Germania, Francia e Italia: se i tre grandi fondatori agiscono in modo solidale e coeso, gli altri seguono. Se invece si fermano, la forza centrifuga prevale su quella centripeta e il progetto europeo entra in crisi. A Ventotene, dinanzi alle radici della più grande utopia storico-concreta che il Novecento ci abbia trasmesso in eredità e di fronte alla vista del Mediterraneo, con le sfide gigantesche che i suoi precari equilibri devono fronteggiare, sembravano prevalere la consapevolezza, la responsabilità e la solidarietà. Viceversa, a Bratislava, sono riemersi con prepotenza i conflitti fra interessi nazionali, secondo il copione tipico del procedimento intergovernativo. La prossima primavera l’Italia ospiterà il vertice programmato per celebrare il 60º anniversario dei Trattati di Roma: anche per questo abbiamo bisogno che il nostro paese arrivi alla prossima primavera, forte di una confermata stabilità di governo e di un riaffermato indirizzo politico riformatore.