Il ruolo dell’Italia nel caos libico. Intervista a Michela Mercuri

La Libia è ben lontana dall’essere pacificata. Ben due governi si contendono il Paese. Così tra milizie e “signori” della guerra prende campo l’espansionismo russo. Quale ruolo gioca l’Italia? Ne parliamo, in questa intervista, con Michela Mercuri. Mercuri è Professore di Storia contemporanea dei paesi mediterranei all’Università degli Studi di Macerata. Collabora, come analista di politica estera, con diverse testate.

Professoressa, dobbiamo cominciare questa nostra intervista sulla Libia con una brutta notizia per l’Italia e per l’Europa: è di qualche giorno fa che un tribunale di Tripoli ha sospeso il “memorandum d’intesa” con l’Italia. Perché questa decisione? Quali le conseguenze?
Ci sono almeno due considerazioni da fare. In primo luogo questa “sospensione” testimonia le profonde spaccature che ci sono nella capitale tra il Governo di accordo nazionale e le altre forze presenti sul terreno – milizie, tribù e rappresentanti delle municipalità locali – che spesso disconoscono la leadership di Serraj. In secondo luogo andrebbe ridimensionato il peso della Corte di appello di Tripoli. Nella capitale, così come in molte altre zone del Paese, regna la più totale anarchia e i vari organismi politici e di giustizia hanno un peso specifico molto limitato. Da questo punto di vista, più che della giurisprudenza, dovremmo preoccuparci della pratica. Fare accordi con un governo che non controlla il territorio né le milizie che gestiscono i flussi potrebbe essere un fallimento annunciato. Prima bisogna creare un accordo politico più inclusivo e poi, eventualmente, erogare soldi e “attrezzature”. Altrimenti è il caso di dire “soldi buttati”.

Qual è la condizione dei migranti in Libia?
I migranti, in linea di massima, arrivano dal sud dell’Africa (Mali, Niger, Ciad ecc.) passano attraverso il deserto meridionale libico, santuario di numerose organizzazioni criminali e terroristiche, e arrivano sulle coste libiche. Qui vengono “smistati” in 34 centri di detenzione all’interno dei quali, al momento, sarebbero detenute tra le 4.000 e le 7.000 persone; 24 di queste strutture sarebbero gestite dal Dipartimento del governo libico che si occupa dell’immigrazione illegale, le altre sono in mano a gruppi criminali. Posto che nell’anarchia in cui versa il Paese abbia un senso parlare di “Dipartimento del governo libico”, l’Unicef ha dichiarato di avere accesso a meno della metà dei centri gestiti dal governo e a nessuno di quelli controllati dalle milizie. Le poche testimonianze che abbiamo parlano di condizioni drammatiche di vera e propria detenzione in condizioni inumane. Spesso gli uomini della guardia costiera non si avvicinano nemmeno alle aree dove si trovano i centri controllati dai miliziani perché è troppo pericoloso. Una parte dell’accordo sui migranti si pone l’obiettivo di rendere meno “bestiali” questi lager, fornendo aiuti alla guardia costiera ma, in un contesto come quello appena delineato, siamo sicuri che i nostri soldi verranno davvero utilizzati per questi fini o andranno nelle mani di uomini senza scrupoli che li utilizzeranno per ben altri scopi?

Parliamo della situazione politica libica. Come si sa siamo ancora ben lontani dalla pacificazione. Abbiamo ben due governi , Tripoli e Tobruk. L’Italia e la comunità internazionale (quasi tutta) sostengono il governo di al-Sarraj. Le chiedo: come si sta svolgendo il nostro ruolo di pacificazione? Quali iniziative, se ve ne sono, abbiamo preso con il governo della Cirenaica?
C’è, purtroppo, una deplorevole incongruenza nell’atteggiamento degli attori occidentali, e in particolare di quelli europei, in Libia. Tutti, nei tavoli negoziali, hanno sostenuto il “progetto Onu” per il Governo di accordo nazionale di Serraj. Una volta con i piedi sul terreno, però, molti hanno continuato a finanziare e armare Haftar e, dunque, l’ala di Tobruk. Il governo italiano, in questo momento, è l’unico alleato internazionale di Tripoli. Abbiamo riaperto la nostra ambasciata nella capitale. Abbiamo avviato la missione Ippocrate: 300 uomini tra cui 65 medici e infermieri e un ospedale da campo a supporto delle milizie di Misurata fedeli e Serraj. Infine, addestriamo la guardia costiera libica nell’ambito della missione europea “Sophia”. Si tratta di un impegno notevole ma c’è un solo modo per non renderlo inutile e anacronistico: sfruttare il ruolo di “unico punto di contatto occidentale a Tripoli” per porci come interlocutori per la mediazione di un accordo più inclusivo anche con gli attori della Cirenaica e i loro sponsor, Russia in primis.

Vogliamo chiarire i punti strategici-geopolitici dell’Italia. In questo ambito è determinante il ruolo dell’Eni…
L’Italia è il maggior importatore di petrolio e l’unico destinatario del gas libico attraverso il Greenstream. Il terminal Eni di Mellitah è a tutt’oggi uno dei pochi ancora funzionanti, mentre sono italiane molte delle attività estrattive offshore realizzate a largo delle coste tripoline. L’intervento in Libia della coalizione internazionale del 2011 è stato voluto da molti attori internazionali, Francia in primis, anche per rivedere le commesse petrolifere a proprio vantaggio. Nonostante ciò l’Eni è l’unica compagnia internazionale ancora in grado di produrre e distribuire petrolio e gas in Libia. D’altra parte è nel Paese dal 1959, da molto più tempo rispetto ad altre società petrolifere europee, ed è facile immaginare che si sia creata quei contatti che ora le rendono possibile coesistere con alcune delle milizie libiche. Non è certo una condizione ideale poiché i gruppi armati cambiano casacca con molta facilità e non sono nuovi ad atti di forza che vedono nella conquista dei pozzi petroliferi l’obiettivo più gettonato. Anche in questo caso, dunque, sarebbe necessario un maggiore sforzo politico.

L’Uomo forte, oggi in Libia, appare il generale Haftar. Il quale non ne vuole   sapere del governo  di Tripoli. Forte dell’appoggio di Egitto e Russia. L’Egitto di Al Sissi lo appoggia per ragioni di contrasto all’integralismo islamista. E per la Russia di Putin, quali sono gli obiettivi? Sappiamo che non guarda solo al generale Haftar ma anche ad al-Sarraj…
I motivi del sostegno russo ad Haftar sono di ordine economico, geopolitico e geostrategico. Da un punto di vista economico Putin non ha certo bisogno del greggio libico, ma ha tutto l’interesse a vendere know-how e tecnologie. Inoltre ad Haftar servono armi per proseguire la guerra sia contro gli islamisti sia contro il Governo di unità nazionale. La Russia ha tutto l’interesse a fornirgliele. In termini di proiezione mediterranea, la Libia è un tassello della partita russa in Medio Oriente e Nord Africa. Haftar, baluardo del laicismo, è il complemento ideale all’asse con al Sisi e, forzando un po’ la mano, anche con Damasco. Infine, la Russia, mira ad ottenere uno sbocco sul mar Mediterraneo nella Cirenaica. Va però detto che Haftar, per quanto forte, non può essere l’unico interlocutore nel Paese. Ci sono altri attori rappresentativi, come ad esempio le milizie di Misurata, con cui è necessario mediare un qualche accordo. La Russia ne è perfettamente cosciente. Per questo sta cercando di assurgere ad un ruolo maggiormente diplomatico nella partita libica, “agganciando” anche gli attori tripolini. Non è un caso se pochi giorni fa Serraj si è recato a Mosca per incontrare il ministro degli esteri russo Lavrov. La vera diplomazia russa in Libia potrebbe cominciare da qui.

L’espansionismo russo può entrare in rotta di collisione con gli interessi dell’Italia e dell’UE. È possibile una collaborazione con la Russia?
Il problema è a monte. Quali sono gli interessi dell’Europa? Le politiche estere degli attori europei procedono in ordine sparso, senza una chiara visione comune, se non sulla carta. Fino a questo momento il minimo comun denominatore è stato il ruolo di “traino degli Stati Uniti”. Ora che Trump ha paventato un maggiore disimpegno, l’Europa ha due opzioni: o saprà costruire una maggiore autonomia nel tradizionale asse atlantico, oppure il suo ruolo verrà marginalizzato. Allo stato attuale è difficile immaginare, però, che le capitali europee decidano di investire in spese militari. Inoltre, per assumere un ruolo di “guida”, l’Europa avrebbe bisogno di una volontà comune e di una chiara leadership. Al momento manca di entrambe. In queste condizioni la Russia ha la possibilità di ritagliarsi il ruolo di attore egemonico indiscusso. Una qualche collaborazione con Putin, stante così le cose, non potrà avvenire a livello europeo. L’Italia ha una sola chance, come già detto, sfruttare il suo capitale di fiducia con alcuni attori tripolini per mediare un accordo intra-libico con Mosca.

Abbiamo, però, alleati che fanno il “gioco sporco” nello scacchiere Libico. Mi riferisco alla Francia. Che ruolo sta giocando?
La Francia, fin dall’inizio della crisi libica ha sempre anteposto la realpolitik dell’interesse nazionale allo spirito di fedeltà all’alleanza europea. La missione della Nato in Libia è stata voluta dal governo francese di Sarkozy per motivazioni del tutto personali: le elezioni imminenti, la sua popolarità in drastico calo e la necessità di allargare la fetta petrolifera d’oltralpe. Le cose non sono migliorate in seguito. La Francia con una mano ha siglato gli accordi di Skhirat per il Governo unitario di Serraj e con l’altra ha fornito armamenti alle milizie di Haftar, attraverso triangolazioni estere con Egitto ed Emirati. L’obiettivo è accedere alle riserve petrolifere della Cirenaica, riprendendo le attività estrattive e allargando il raggio di quelle esplorative avviate nel 2011. Da questo punto di vista non posso che giudicare negativamente la politica francese.

Gli USA di Trump come si stanno muovendo?
Trump, fedele alla dichiarata politica del “disimpegno Mediterraneo”, pare fin qui poco interessato alla Libia. E’ plausibile ipotizzare, dunque, che sia disposto a lasciare mano libera alla Russia nel tentare di dirimere la spinosa questione. Putin, estromesso dalla partita libica nel 2011 perché contrario ai bombardamenti, coglierebbe volentieri questa occasione per dimostrare di poter riuscire là dove gli Stati Uniti di Obama hanno fallito.

Ultima domanda. L’ISIS è ancora presente?
I combattenti dell’Isis a Sirte – circa tremila prima dell’inizio dell’offensiva – non sono stati tutti uccisi o catturati. Molti sarebbero fuggiti verso il sud del Paese, nel Fezzan. Da qui, grazie anche ai fiorenti traffici della zona, potrebbero riorganizzarsi. Non c’è solo Isis. Nel deserto libico è stabilito anche un nuovo comando di al Qaeda nel Maghreb Islamico (Aqmi).  Qui i servizi segreti di Algeri hanno localizzato campi e basi logistiche dei qaedisti attivi anche in territorio algerino e nel Sahel e fonti di stampa estera hanno in più occasioni raccontato di incursioni condotte oltreconfine dalle forze speciali di Bouteflika per annientarli. Da ciò risulta evidente che dire di aver espulso l’Isis da Sirte non significa aver risolto il problema del terrorismo nel Paese.

Il caos “infinito” della Siria. Intervista a Marina Calculli

Quali sono i possibili sviluppi del grande caos siriano? Ne parliamo, in questa intervista, con Marina Calculli. Marina Calculli, è politologa e specialista di Medioriente presso il St Antony’s College dell’Università di Oxford e all’Istituto Universitario L’Orientale di Napoli. Ha pubblicato: Esilio Siriano (con Shady Hamadi) e Terrore Sovrano (con Francesco Strazzari)

Lo scenario siriano è sempre più complicato. Come stanno procedendo colloqui di pace, sulla Siria, ad Astana in Kazakistan? 

Pur essendo partiti con grande entusiasmo, i negoziati non hanno prodotto risultati significativi. Permane, in particolare, molto scetticismo da parte dei ribelli anti-regime che non si fidano né della Russia né del regime siriano. Nell’ultimo round, inoltre, sono emerse divergenze anche tra la Russia e il regime di Asad stesso circa la discussione del testo di una nuova costituzione. L’unica cosa che sembra tenere per ora è l’accordo tra Russia, Turchia e Iran sulla data dei nuovi round negoziali all’inizio di maggio. Ma anche i rapporti tra i tre sponsor di Astana sono fragili. In particolare tra Russia e Turchia le relazioni potrebbero nuovamente deteriorarsi sulla questione curda. I russi – pare – sono ritornati a sponsorizzare più o meno indirettamente i ribelli curdi, dopo aver dato parvenza, per poco tempo, di fare il gioco di Ankara.

E’ sempre più evidente il ruolo egemonico della Russia nello scacchiere siriano, non solo sul piano militare ma anche diplomatico, alcune fonti affermano che anche la Russia parteciperà ai dialoghi infra-siriani di pace ad Astana, quale obiettivo della Russia?

La Russia è un alleato storico della Siria e, attraverso la guerra in Siria, ha cercato di recuperare una posizione di influenza in Medio Oriente, perduta durante e soprattutto dopo la fine della Guerra Fredda. L’aspetto più importante da monitorare è l’aspetto militare – perché è la spia del disegno di lungo periodo che Mosca ha sulla Siria. Preziosa per la Russia è la base navale di Tartous, ma anche la base aerea di Latakia, nella zona controllata dal regime. A Marzo 2017 i ribelli curdi hanno detto che la Russia starebbe costruendo una base nel nord del paese contro l’ISIS. Anche se Mosca ha smentito questa notizia, è evidente che la Russia sta cercando di influenzare diversi attori del conflitto – non solo il regime, ma anche i curdi, in modo da poter accrescere il suo potenziale negoziale con la Turchia, con gli Stati Uniti e con l’Iran.

Washington, per alcuni osservatori, rimane fedele al principio strategico per cui la Siria è cruciale solo in funzione dei propri interessi in Iraq, conferma di voler lasciare a Mosca la guida della risoluzione del conflitto tra regime di Damasco e opposizioni, mantenendo però un ruolo di primo piano nell’altra guerra, quella contro l’Is e che si svolge in un’area strategicamente più importante in funzione irachena: l’est siriano. E’ così secondo te?

Per gli Stati Uniti la guerra in Siria non ha mai rappresentato una reale priorità strategica. Per questo, il ruolo della Russia non è visto come un reale competitor. Anzi, seppur con molte incognite, da un punto di vista realista la Siria potrebbe essere nella prospettiva americana, la patata bollente lasciata in mani russe – un modo per indebolire indirettamente la Russia nel lungo periodo. Neppure lo ‘Stato Islamico’ rappresenta una reale minaccia strategica, ma piuttosto una minaccia simbolica. Sconfiggere lo Stato Islamico militarmente a Mosul e a Raqqa serve più a costruire l’immagine di un successo internazionale per l’America, dopo i disastri della politica estera statunitense dall’inizio della guerra al terrore. Ma la presa di Mosul e Raqqa difficilmente sconfiggerà la forza comunicativa del progetto del Califfato, e questo forse lo sanno anche i generali americani. Il paradosso della guerra al terrorismo è che ha prodotto una proliferazione del terrorismo. Lo strumento militare, l’enfasi sulla sicurezza – che è sempre e comunque un business – è un palliativo che compensa l’assenza di una strategia politica.

Una cosa appare chiara: che dietro la guerra al fantomatico “Stato Islamico” c’è, ed è in atto, la spartizione della Siria in zone d’influenza per Usa, Russia e Turchia. Resta il punto dei curdi. La Turchia di Erdogan non accetterà mai uno Stato curdo…Pensi che la Russia lo imporrà ad Erdogan?

Non dimentichiamo l’Iran tra gli stati che si stanno spartendo le sfere influenza in Siria, oltre a Turchia, Russia e Stati Uniti… Il problema curdo è certo un problema enorme per la Turchia. Ma i curdi hanno diversi e forti alleati – a partire dagli USA, ma anche la Russia. E’ molto difficile che la Turchia di Erdogan possa un giorno accettare uno stato curdo. Certamente i partner internazionali dei miliziani dello YPG sono tali perché i curdi sono strategicamente i migliori per portare avanti la campagna contro lo ‘Stato Islamico’. Sarei cauta, tuttavia, sia nel parlare di “alleanze” vere e proprie o di promesse vincolanti. I curdi, dal loro canto, stanno cercando di conquistarsi la legittimità morale per rivendicare uno stato, proprio attraverso il loro impegno oggettivamente efficace nella lotta allo Stato Islamico.

L’Unione Europea, la “bella addormentata”,  non ha nulla da dire in tutto questo?

L’Unione Europea c’è come attore umanitario, seppur con una burocrazia così pesante che spesso inficia l’impatto che Bruxelles potrebbe avere anche solo con la diplomazia degli aiuti umanitari. Dal punto di vista politico, non l’UE non c’è come attore unitario. Ci sono, però, diversi paesi europei che hanno giocato un ruolo di primo piano in Siria, Francia e Regno Unito in primis. Tuttavia, si deve riconoscere che dal punto di vista diplomatico e strategico né l’Europa né i singoli stati membri riescono a competere con Russia e Stati Uniti, ma nemmeno a influenzare gli storici alleati regionali. La Turchia, in particolare, è ormai più lontana che mai dall’Europa, pur essendo – ricordiamolo – membro della NATO.

In questo scenario di giochi tattici e strategici delle potenze politiche resta l’enorme tragedia umanitaria delle popolazioni Siriane. Qual è il bilancio provvisorio ad oggi?

Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani sono circa 450 mila i morti del conflitto. E’ la lenta distruzione del tessuto sociale, cui si devono aggiungere 4, 8 milioni di profughi attualmente fuori dalla Siria, e i 13 milioni di sfollati o sotto assedio all’interno della Siria, in aree difficili da raggiungere, anche e soprattutto perché il regime di Asad non consente alle agenzie umanitarie di entrare nel paese con lo scopo di alleviare la sofferenza di chi soffre in aree assediate.

Nel tuo libro “L’Esilio Siriano” offri una chiave di lettura drammatica per capire la condizione del  popolo siriano: è quello dell’esilio. Uno esilio destinato a durare a lungo date le condizioni del loro paese. Nell’epoca “sovranista” quale rischio corrono gli esuli?

Gli esuli sono figure politiche: cittadini di stati che hanno fallito nel loro patto con la società, prodotti inevitabili delle diseguaglianze economiche all’interno degli stati e tra gli stati – fenomeni che generano conflitti come quello siriano. In tutto questo, invece di comprendere e identificare le cause – purtroppo difficili da risolvere – si stigmatizzano i migranti, i rifugiati o gli sfollati – gli esuli – confondendo così la causa con la conseguenza con della disfunzionalità della politica e dell’economia globale. In questo i siriani sono in realtà solo rappresentativi di un fenomeno ben più ampio.

„In Europa è il momento della grande politica”. Un testo di Beniamino Andreatta

Come si sa Sabato 25 marzo saranno 60 anni dai Trattati di Roma. E’ la festa dell’Europa. Una Europa, oggi, investita da un vento nazionalista molto pericoloso e da attacchi terroristici. Eppure bisogna ancora credere al “sogno” di un continente unificato.

Quei trattati, infatti, segnarono l’avvio del processo di integrazione europea. Era un lunedì, quel 25 marzo del 1957, quando i ministri degli esteri di cinque Paesi europei firmarono le carte oggi fondamento dell’Unione. Due trattati: quello costitutivo della Comunità Economica Europea (CEE) e quello della Comunità europea dell’energia atomica (EURATOM). 

Così per ricordare quella storica firma abbiamo pensato di proporre un testo di un grande europeista contemporaneo: Beniamino Andreatta. Politico ed economista di statura internazionale, in questo intervento invita la politica a pensare in grande. Il sogno di un Europa unita implica una politica coraggiosa, una politica capace di pensare il futuro.

Il testo di Andreatta, che pubblichiamo per gentile concessione, si trova nel primo numero del 2017 della rivista Arel. Il volume, curato da Mariantonietta Colimberti ed Enrico Letta, dal titolo “L’Europa di Andreatta” verrà presentato a Roma, domani pomeriggio, presso il Centro di Studi Americani in via Caetani. Interverranno Enrico Letta e Giuliano Amato

Il crollo delle certezze
Ha scritto Max Weber: «La cattedra non è per i demagoghi, né per i profeti». Cercherò, quindi, di attenermi a una valutazione del futuro della politica del mondo basata sugli sviluppi che possono, in qualche modo, essere estrapolati da ciò che io chiamo “oggi”.
Sul piano internazionale, si impongono alla nostra attenzione due elementi.
Il primo: la fine dell’ideologia dello sviluppo, così com’era concepito negli anni Sessanta; lo sviluppo, infatti, è stato ineguale. Alcuni paesi, come Cina e India, sanno maneggiarlo e hanno risolto prima i loro problemi alimentari; altre parti del mondo, invece, sono incapaci di avviare la prima accumulazione; altri ancora, per la fragilità dei loro sistemi politici, si sono indebitati e devono smaltire i loro debiti. In qualche misura si è rotto l’universo dello sviluppo, si è infranto il partito del Sud, e questo si è riflesso in una perdita anche per i paesi avanzati, per i paesi capitalistici, per l’ideologia dello sviluppo.

Il secondo: la difficoltà di reggere la sicurezza del mondo affidandosi alla credibilità della deterrenza nucleare.
Ebbene, sembra che oggi questi due fenomeni, che hanno caratterizzato trenta o quarant’anni della nostra storia, che hanno costituito la grande ideologia trasversale alle generazioni politiche mondiali e che hanno trovato negli anni Sessanta il massimo periodo di diffusione, siano entrambi in crisi.
Si pongono poi tra le paure il problema dei rapporti tra le grandi aree industriali e quello del costo della leadership. Lo stesso libro, un po’ banalmente profetico, di Paul Kennedy, The rise and fall of great powers, uscito nel 1987, riprendendo il concetto di onda lunga o ciclo lungo, sottolinea come le certezze si dissolvano nella prospettiva delle ere storiche. L’autore si fa portavoce di un clima intellettuale di maggiore relativizzazione: sembra che a spingerlo a scrivere il libro sia proprio il logorìo cui sono stati sottoposti i concetti dominanti nel periodo dal dopoguerra ad oggi. Kennedy paragona l’attuale sovraestensione degli impegni della potenza dominante al ciclo che ha visto la fine tanto dell’impero spagnolo, quanto dell’impero inglese, e osserva che l’incapacità di accumulare capitali e la strategia di politica estera, unite all’idea di contenimento, hanno portato gli Stati Uniti a una presenza mondiale che ormai è sproporzionata rispetto alle risorse che il paese stesso è in grado di produrre. La progressiva riduzione della quota di reddito mondiale prodotta dagli Stati Uniti rispetto alle responsabilità imperiali fa sì che queste sempre meno vengano accettate dai cittadini.

La crisi delle certezze che sostenevano l’ideologia marxiana e comunista si colloca chiaramente nello stesso quadro. Tuttavia, pare che queste crisi, che guarda caso si fanno sentire proprio all’approssimarsi della fine del millennio, non inneschino la paura. Più che di paura, si può parlare di un desiderio di quiete, quasi di riposo, di voglia di non andare con il fiato mozzo, come quando, dopo una corsa eccitante, si desidera l’estenuazione come contrappeso.
Chi possiede certezze non vive in stato di quiete: le certezze allertano, fanno correre, impegnano. Allo stesso modo, se le certezze cadono e la loro caduta è una folgore, una rivoluzione, il sentimento che prevale non è la paura, ma il desiderio incontenibile e drammatico di confessare pubblicamente il crollo delle certezze.

Desiderio di quiete e centrismo
Dal Baltico a Pechino si sono accesi molti di questi focolai, e non è un caso che ciò avvenga in Oriente. In Occidente cadono le certezze e non c’è paura, né confessione drammatica e pubblica. Si indossa l’abito buono e con sorniona impudenza si va al funerale ritardato di Nagy, o si riceve Gorbaciov con applausi fragorosi. Due modi per dire che sono cadute le certezze, ma ciò che si desidera ora è stare in quiete, perché tutto è business.
Almeno per noi, in Occidente, non vedo paura ma piuttosto emozionante desiderio di quiete,
volontà di allontanare i problemi e, infine, una gran voglia di non arrivare al Duemila con il fiato mozzo perché si è dovuto correre, sia che ti abbiano fatto correre le certezze che avevi, sia che ti abbia fatto correre la confessione pubblica e drammatica del loro crollo.
Lo stesso pronosticare catastrofi di ogni ordine e tipo è, in un certo senso, la controprova dell’apatia dominante, della ricerca di quiete. Del resto, anche l’Occidente è reduce da due decenni di mobilitazione. Dal ’68 al ’78 il pendolo ha battuto sulla sinistra del suo arco, poi, dal ’78 all” 88, tra Reagan e la Thatcher, sulla destra. Sono stati due decenni ideologicizzati: ora si desidera che regni la calma del centrismo.

Qualche tempo fa, parlando di queste cose con un amico americano, affacciavo l’ipotesi che Bush – al di là delle sue intenzioni e dei suoi disegni, o non avendo, forse, né intenzioni né disegni – finisca di fatto col favorire l’insorgere di un “club di condómini” con un regolamento fatto di gerarchie, responsabilità, quote e contribuzioni, con lo scopo finale di offrire al mondo la quiete che cerca. Tale ipotesi veniva commentata dal mio amico come una eventualità bushish e riconosceva che essa va tenuta presente, considerando anche le atmosfere che regnano a Ovest e a Est, ben diverse seppure originate entrambe da una caduta generale di molte certezze. L’amico era un fisico, il quale aggiungeva come oggi non si pensi più, perché pensare è diventata un’attività correlata alla quota di profitto delle imprese. Come queste si interessano del profitto a breve termine e non spingono lo sguardo al di là del trimestre, così i dipartimenti universitari pensano solo al futuro immediato, in modo da far quadrare il bilancio.
Riflettere sul nuovo, e quindi sullo sconosciuto, è antieconomico. Ma questo significa crisi della politica, esigendo da essa una drammatizzazione. Forse anche quelle confessioni pubbliche, quei focolai che si sono accesi dal Baltico a Pechino, sono solo rivolte di protesta e di delusione. È il dramma che nasce dal crollo di certezze politiche, ma non è un dramma che mostri il
preludere a una politica. Sotto questo profilo, la situazione è negativa a Ovest come a Est. A Ovest si vuole la quiete per continuare a comprare, a Est ci si rivolta perché è negata la possibilità di comprare.

Ma a Est, come a Ovest, ben poco si fa per procurarsi ciò che non si può comprare: il carattere, ovvero una morale. E questo è in linea con la caduta delle certezze, con le consolazioni che il concetto di onda lunga procura, con il rifiuto di drammatizzare, e quindi con il rifiuto della politica, con il desiderio di non arrivare al Duemila con il fiato mozzo, contando sulla manna che il centrismo distribuisce.
Questa caduta dell’ideologia si colloca nell’ambito della ybris con cui la nuova destra ha affrontato il problema. Reagan ha giocato su una menzogna di fondo nella contrapposizione tra i suoi grandi obiettivi e i suoi scarsi mezzi, non solo economici, ma anche politici. L’America non è ancora uscita dalla situazione post-Vietnam, il presidente ha manovrato piccole crisi militari, che sono state interpretate dall’Unione Sovietica come volontà di determinazione e perciò sopravvalutate, ma che erano le uniche azioni che si potevano portare avanti, considerando che la delega “potere alla Presidenza”, caratteristica dei primi trent’anni del dopoguerra, in realtà è caduta con il Vietnam, e Reagan non è riuscito a ricostruirla. Dall’altra parte la Thatcher, che ha certamente operato una epocale trasformazione in un paese in decadenza, ha affrontato con ybris ogni categoria, persino quella del suo elettorato. Si pensi alla lotta che sta intraprendendo contro i medici, contro gli avvocati, contro le università. In questa maniera ha spinto al radicalismo il pendolo di destra, ha mostrato la sua collera ma, dalla parte opposta, non sembra che le stanche ideologie socialdemocratiche degli Stati Uniti siano in grado di contrapporre a questa ultima grande avventura dell’Occidente, che è stata la destra degli anni
Ottanta, qualche cosa di nuovo, qualche cosa capace di mobilitare.

Una nuova leadership come soluzione?
Eppure di leadership ci sarebbe bisogno per dare soluzione all’inevitabile problema del debito, che in questi anni è cresciuto più del prodotto dei paesi in via di sviluppo. La strategia di mantenere il debito “a bagnomaria” era fondata sulla speranza che il rapporto fra i tassi di interesse e quelli di crescita permettesse progressivamente di liquidare in maniera benevola il problema del debito. Ma ciò non è accaduto, tanto che oggi si pone il problema del taglio, del disconoscimento, proprio perché è interesse degli stessi creditori che il debito non schiacci lo sviluppo, per evitare che le prospettive di ottenere almeno il pagamento degli interessi si facciano sempre più aleatorie. Non si tratta più di un’operazione meramente commerciale. Se ci fosse leadership, il problema dell’inevitabile riduzione del debito (oggi si discute fra una riduzione del 15%, come vorrebbero le banche, e una riduzione del 50%, come propongono i paesi) potrebbe rivelarsi l’occasione di una ricostruzione della politica, là dove di politica si muore, come in America Latina o in Africa. Le vie sarebbero l’imposizione di aree di libero scambio, come ha fatto l’America con l’Europa all’inizio del dopoguerra, e la sottrazione del potere di battere moneta ai paesi in via di sviluppo, concentrando quindi in banche federali a livello continentale questo pericoloso potere, che disorganizza le politiche economiche dei Paesi latinoamericani.
Una leadership sarebbe necessaria per risolvere i problemi della distensione: per evitare che essa divenga un’arma di guerra, com’è stata nell’era brezneviana.

Si sono fatti avanti un new thinking, quello che Gorbaciov ha presentato alle Nazioni Unite nel dicembre 1988, e una nuova strategia dell’Armata Rossa, basata sulla difesa distensiva. Ma l’esperienza della prima distensione lascia qualche perplessità sull’esito dell’operazione.
Di leadership ci sarebbe bisogno per risolvere i problemi in Europa perché, in qualche misura, l’attenuarsi dell’equazione nucleare, che dava una matematica sicurezza della necessità per tutti i Paesi europei di regolarsi secondo criteri comuni, ha rimesso in gioco molti deliri. I nostri ragazzi conoscono Danzica come la città di Solidarnosc, eppure i Republikanen in Germania parlano di una Danzica come quella di cui si parlava negli anni Trenta. Quattro milioni di ungheresi vivono fuori dei confini nazionali. Tutto questo mi preoccupa molto avendo vissuto gli anni Trenta e le parole d’ordine di quel periodo.

Le tensioni in Jugoslavia ricordano infatti altre tensioni. La capacità europea di ricostruzione, nata per saldare la Germania all’Occidente, viene meno proprio nel momento in cui, per alcuni aspetti, si è vinta la “terza guerra mondiale”. Si può, infatti, per gli anni Ottanta, parlare di “terza guerra mondiale”: il riarmo voluto da Carter e proseguito da Reagan ne ha tracciato una possibile storia, non basandosi sulla guerra campale, ma su manovre avvenute, appunto, sui quadri. Proprio quando la “terza guerra mondiale” sembra essere stata vinta, l’Europa viene messa alla prova da due tentazioni: il desiderio della Germania di risolvere il suo problema nazionale attraverso la marcia verso Oriente, e la voglia di altri paesi di opporsi a un equilibrio di potenze, come suggerisce Kissinger, e alla riunificazione tedesca, creando notevoli tensioni tra le nazioni d’Europa.
Al di là dei successi o insuccessi delle operazioni economiche del 1992, credo che questi problemi riportino in primo piano la grande politica, che è politica internazionale. L’Europa è stata in questi ultimi anni, dopo la vicenda coloniale, il paese della bassa politica, il paese delle politiche di redistribuzione, della politica del benessere, della politica dello Stato corporato. L’Europa si trova ora impari e in preda alle gelosie. Perché escludere che l’azione della Thatcher sulla questione dei missili fosse volta a mettere in difficoltà la marcia tedesca verso l’Oriente, in un momento in cui l’industria era in crisi e praticamente fuori gioco su questi mercati?

Si rifà avanti la grande politica, quando le consuetudini, le abitudini europee sono quelle della politica di basso livello, della politica interna, della politica sociale. Si apre un’avventura eccitante, un’avventura da consegnare alla generazione futura: ricreare l’Europa Centrale e Orientale fuori dei confini della Russia. Da questo punto di vista sembra opportuno che l’Austria non aderisca alla Comunità Europea e assuma, invece, il ruolo di clip dell’Occidente, in un’ipotesi di neutralizzazione del bacino danubiano e dell’Europa Orientale, e di finlandizzazione, la quale aveva già costituito, peraltro, la soluzione iniziale di Stalin per regolare i problemi di sicurezza nell’Unione Sovietica. Quest’ipotesi non va quindi contro l’idea di sicurezza che Stalin aveva seriamente prospettato e realizzato nel caso finlandese. Naturalmente, però, richiede la magnanimità della grande politica, la capacità di giocare la politica estera, anche al di fuori delle alleanze, anche come “europei”, senza ostacolarsi a vicenda, presentando il ricco campionario di ciò che ciascuno dei paesi può offrire per la ripresa, per il salvataggio economico dell’Unione Sovietica.
Se la sfida della situazione attuale si dimostrasse così forte da modificare le istituzioni, la priorità andrebbe certamente al coordinamento delle politiche internazionali, agli obiettivi internazionali dell’Europa di fronte al problema della liberazione di cento milioni di confratelli europei, che per quarant’anni sono vissuti sotto la regola sovietica.

La fragilità della forma statale attuale
Tutto questo sembra contrastare con il grado di maturità delle istituzioni. È la stessa forma statale, secondo alcuni analisti, che è entrata in crisi, coinvolta sempre più da fenomeni transnazionali. Gli stessi conflitti che abbiamo vissuto e che ci si prospettano davanti sono conflitti che poco debbono allo scontro classico tra gli Stati. McNamara constatava che, contando il numero di guerre dal ’45 a oggi, su 140 totali ben 120 scaturivano da sedizioni, rivolte interne e conflitti tribali.
I problemi più seri che ci troviamo a dover oggi affrontare sono quelli collegati al terrorismo, alle immigrazioni e alle loro conseguenze sulla sicurezza dei paesi meta dei flussi migratori. Sono quelli dell’energia, dell’arma nucleare: sei o sette paesi sono ormai in grado di produrre armi nucleari, e c’è persino chi pensa che l’unico strumento per riportare questo fenomeno sotto controllo sarebbe l’omicidio politico delle centinaia di fisici e ingegneri che rappresentano il patrimonio di questi paesi. Fortunatamente gli economisti non costituiscono argomento di preoccupazione per i Servizi Segreti.
I nostri problemi interni, poi, sono collegati a una paura antica: la paura che ebbero le forze politiche del nostro paese, prima della Costituzione, di creare un sistema con un esecutivo che funzionasse veramente. Nessuno sapeva esattamente quale era la forza dell’altro. C’era l’ipoteca della guerra civile in Grecia. E allora l’accordo fu quello di avere un sistema elettorale e di istituzioni debole, che permettesse, quale che fosse stato l’esito delle elezioni, di controllare l’esecutivo attraverso le guerriglie parlamentari. Questo sistema ha prodotto lo sfascio finanziario più rilevante che sia mai avvenuto nella nostra storia al di fuori dei periodi di guerra. Ed è un’equazione del tutto comprensibile che trova la sua puntuale spiegazione nel confronto di sistemi politici diversi. I sistemi deboli, basati sulla rappresentanza proporzionale, e quindi sulla necessità di negoziazioni all’interno dei rappresentanti e dei Parlamenti, hanno attraversato tutti delle situazioni di crisi finanziaria; le risorse pubbliche sono state ovunque utilizzate per cercare di guadagnare posizione in questa lotta dei partiti senza regole. E in un tempo contratto – nel caso di governi proporzionali esso può diventare anche estremamente breve riducendosi alla misura di un anno – nessuna politica finanziaria può produrre i suoi frutti; occorre infatti un orizzonte temporale medio di almeno quattro o cinque anni. Quando la signora Thatcher affrontò i problemi finanziari inglesi dovette aggiungere la coda delle Malvinas perché la sua popolarità dopo tre anni era già in declino.

La fragilità finanziaria è, infatti, caratteristica di questi sistemi con ampio grado di libertà, in cui la legittimazione non proviene dalle elezioni e in cui alla sera della domenica non si sa chi comanderà il paese per i prossimi cinque anni. Quando, poi, le scarse difese costituzionali non vengono attivate (e questo pone problemi di gravi responsabilità costituzionali alle maggiori autorità dello Stato), la crisi finanziaria interviene come inevitabile conseguenza della debolezza e della fragilità del sistema della rappresentanza.
Uscire da questa situazione in tempo per le scadenze economiche è un obiettivo che pone in estrema tensione il nostro sistema politico. Si fa sentire sempre più forte l’esigenza di una riforma del sistema della rappresentanza che permetta, attraverso la modifica dell’organizzazione elettorale, di esprimere esecutivi che ricevano la loro legittimità dalle elezioni, e non dagli accordi tra i proseliti. Peraltro, il sistema politico ha un interesse oggettivo a che ciò non avvenga: i 900 partecipanti al legislativo hanno un interesse personale alla instabilità dei governi per massimizzare la loro probabilità di successo personale.
La politica è una cosa troppo seria per lasciarla ai politici. È essenziale quindi che l’esecutivo trovi un saldo fondamento attraverso l’automatismo del sistema elettorale, in modo da disporre del tempo necessario per affrontare i problemi minimi della convivenza.
Bisogna, comunque, aver chiaro che dalla politica non può venire la salvezza. Alla politica non si può chiedere un’ideologia per vincere la paura o fornire delle utopie. Platone, capostipite di quella linea politica che finisce a Lenin e ai tiranni, concepiva la città come organismo, come individuo. Aristotele gli si contrappone: la politica c’è solo dove c’è differenza e dove si tratta di trovare un metodo per comporre le differenze attraverso una regola di civiltà. La polis non sarebbe la polis, dice Aristotele, se fosse un individuo. E allora, se c’è un limite intrinseco alla politica, c’è da domandarsi se la politica non possa che basarsi sui valori di tolleranza, e difficilmente possa basarsi su utopie o su ideologie a lungo termine; se la forza di vivere, di impegnarsi e di imparare non debbano essere fornite al di fuori della politica e se alla politica noi dobbiamo chiedere soltanto questa garanzia di convivenza a livello della singola città, del singolo Stato o a livello planetario, senza chiederle il sostituto pericoloso di una ideologia. Se questo fosse vero, quello stato di quiete verso il quale mi pareva di poter diagnosticare che si stia avviando la politica mondiale, non sarebbe, dopo tutto, una situazione così negativa.

*Intervento al Convegno Il futuro tra utopia e paura, Castel Ivano, 25 giugno 1989, ora nel volume omonimo edito da Sonda (1990), con il titolo Una politica per il futuro.

La nuova primavera di Palermo. Intervista ad Alfio Mastropaolo

 

Palermo (Contrasto)

Entro questa primavera si svolgeranno le importanti elezioni amministrative. Elezioni che saranno, anche, un test politico nazionale. In particolare per PD e Movimento 5Stelle.

Complessivamente, considerando tutte le regioni, alla tornata elettorale amministrativa di primavera 2017 saranno interessati gli elettori di 1.020 comuni, di cui 796 appartenenti a regioni ordinarie e 224 a regioni a statuto speciale.
Si voterà in quattro comuni capoluogo di regione (Catanzaro, Genova, L’Aquila e Palermo) ed in ventuno comuni capoluogo di provincia (Alessandria, Asti, Belluno, Como, Cuneo, Frosinone, Gorizia, La Spezia, Lecce, Lodi, Lucca, Mondza, Oristano, Padova, Parma, Piacenza, Pistoia, Rieti, Taranto, Trapani e Verona).
Superano i 100.000 abitanti le seguenti città: Genova, Monza, Padova, Palermo, Parma, Piacenza, Taranto e Verona.
Da segnalare che si voterà per la prima volta in nove nuovi comuni istituiti nel 2017 mediante processi di fusione amministrativa. Il comune più piccolo alle elezioni è Blello (BG), che conta solo 71 abitanti al 31 dicembre 2015, data dell’ultimo bilancio demografico annuale Istat.

Ce ne occuperemo anche noi, facendo un piccolo “tour” politico – amministrativo, andando a scovare realtà significative nel nostro Paese.
Incominciamo, oggi, con la città di Palermo. Palermo città di Frontiera. Ne parliamo, in questa intervista, con Alfio Mastropaolo, palermitano doc, che è stato per anni docente universitario di Scienza politica e tra i più noti studiosi europei sull’antipolitica.

Professore, guardando all’operato di questi anni del Sindaco Orlando, quale giudizio si sente di esprimere? Per riprendere lo slogan di Luca Orlando “Il sindaco lo sa fare” sì o no?
Palermo è un laboratorio di molte cose italiane e per questo merita di essere osservata. È un esempio di quel che capita al momento alle amministrazioni locali in Italia. Nei primi anni ’90 erano state acclamate come la leva del rinnovamento politico e morale del paese. Si era introdotta l’elezione diretta del sindaco, si erano snellite le procedure amministrative (qualcuno si ricorda la storia del sindaco manager), se ne erano ampliate le competenze e si era concessa loro qualche autonomia impositiva. Dopo un quarto di secolo la situazione si è rovesciata. Che l’applicazione pratica dei modelli più perfetti sia di solito deludente è cosa nota. Ma qui siamo al disastro. Ci si voleva liberare dai partiti. Pian piano qualcuno comincia a pensare che tra sindaco e cittadini non c’è niente in mezzo, che l’assenza d’istituzioni di raccordo pregiudica l’azione di governo, che se le elezioni producono una scelta disgraziata – un sindaco non necessariamente disonesto, basta incompetente – le conseguenze sono micidiali e i cittadini le pagano. Non siamo ancora entrati in una fase di ripensamento, ma siamo in pieno in quella dell’insofferenza. La cosa più saggia sarebbe rivedere certe scelte e provvedere a una messa a punto. Al momento, invece, il rischio di derive politiche devastanti e di riforme peggiorative è altissimo. Osservare i casi concreti è dunque utile.
Ciò che rende ancor più problematica la condizione delle amministrazioni locali sono state le misure spietate adottate nei loro confronti degli ultimi governi. Esse hanno pagato la parte più consistente delle riduzioni della spesa pubblica. I tagli erano iniziati da tempo, ma si sono a dismisura accelerati. Sono i tagli, risalenti, la ragione delle cementificazioni dissennate degli ultimi due decenni. Concedere opportunità di costruzione era un modo per far cassa, come lo erano le grandi opere e i grandi eventi. Da ultimo sono intervenute riduzioni mostruose nei trasferimenti dallo Stato agli enti locali. I governi si vantano di avere ridotto la spesa pubblica e perfino di aver abbassato le tasse. Invece, anche se pochi cittadini lo sanno e nessuno li informa, la fiscalità è divenuta iniqua. Il risultato è che i comuni si sono impoveriti e hanno ridotto drammaticamente i servizi ai cittadini, di cui sono i fondamentali fornitori. Non senza differenze tra i comuni più ricchi e quelli più poveri.
In questa micidiale tempesta, la parabola di Palermo è esemplare. È un distillato della storia recente. La città ha vissuto da protagonista la stagione delle grandi aspettative, con un sindaco – Orlando – che impersonava il desiderio di rigenerazione morale non solo di Palermo, ma pure del paese. In otto anni di amministrazione, tra il 1992 e il 2001, Orlando era riuscito a ottenere risultati piuttosto soddisfacenti. Quando il suo ciclo elettorale si esaurito, a Palermo è toccata un’amministrazione disastrosa e neanche troppo rispettabile. Cinque anni or sono la città si è di nuovo affidata a Orlando e sta provando a risalire la china, con una duplice complicazione: lo stato lamentevole in cui la città era stata lasciata dall’amministrazione precedente e i succitati tagli spietati della spesa pubblica.
La mia esperienza è quella di un fruitore part time della città. Molti palermitani si lamentano, ma chi studia queste cose sa che gli elettori hanno memoria corta. Vista con più distacco, la città è in risalita. Date le condizioni in cui il sindaco Orlando l’aveva trovata – valga per tutti il fallimento dell’azienda municipale per la nettezza urbana – a Palermo si sono fatti miracoli. Gli elettori non studiano scienze sociali e le classifiche, come quella del Sole/24 Ore, giocoforza semplificano. Per rendere giustizia alla realtà, occorrerebbero indagini molto più accurate.

Durante l’incontro al Teatro Golden, per il lancio della sua ricandidatura a Sindaco, Orlando ha presentato il bilancio del suo operato. Stando alle cifre che ha mostrato indubbiamente vi sono opere pubbliche di riqualificazione del territorio molto importanti, si pensi alle zone strappate al degrado che hanno recuperato una bellezza antica. Tutto questo è importante, però le chiedo, in sintesi, quali sono state le direttrici strategiche su cui si è mosso il Sindaco?
Orlando ha illustrato pubblicamente il bilancio della sua amministrazione. Mi pare ovvio che abbia redatto un elenco di successi strepitosi. Questa è la politica. Ma è innegabile che di cose lui e la sua giunta ne hanno fatte molte. Il comune ha resistito alle difficoltà a quadrare i bilanci. Come tutti le amministrazioni locali, quella di Palermo è afflitta da terribili carenze di personale, aggravate dai vari blocchi delle assunzioni. Eppure, la città è più pulita di cinque anni fa; le attività culturali sono in pieno risveglio; il restauro del centro storico, che porta ancora le ferite della guerra, è ripreso, pur nella crisi generalizzata dell’edilizia; si è avviata una politica di potenziamento del trasporto pubblico e di riduzione dell’inquinamento; si contrasta l’abusivismo edilizio e la massiccia evasione di tributi e tariffe locali. Insomma, si fanno cose utili. Non escludo che si potesse far di meglio. Bastava trovare l’uomo adatto e eleggerlo.

La forza carismatica e la competenza di Luca Orlando fanno la differenza. Un sindaco senza partito. Tanto che lui afferma “Palermo è il mio partito”. Una logica di indipendenza molto forte. I partiti di centrosinistra accetteranno questo?
Si parla troppo del carisma di Orlando e non gli si rende giustizia. Vent’anni fa ne avevano fatto uno straordinario personaggio televisivo. Poi la televisione e media l’hanno mollato e Orlando è rientrato tra i ranghi, ma è rimasto una personalità non comune. Il suo è uno stile politico singolare, per qualcuno magari irritante, ma lui è soprattutto un amministratore competente, un politico attento a parlare coi cittadini, oltre che una figura moralmente irreprensibile. Nessuno ha mai potuto metterne in discussione la moralità personale. Per temperamento non ama le liturgie dei partiti. Ma il problema non sta tanto nel fatto che lui non ama i partiti. Sta nel fatto che i partiti sono odiosi, pretenziosi e inconsistenti. Tanto che a Palermo non riescono nemmeno a opporgli una candidatura accettabile.
Il Pd si vanta di essere rimasto l’ultimo partito italiano. Sta mettendo in scena l’ennesima ridicola incoronazione del suo leader, ma a Palermo, dopo avere fatto sempre resistenza a Orlando, non ha trovato nessuno disposto a fargli concorrenza. Secondo un’antica tradizione nazionale, corre perciò in soccorso al (presunto) vincitore: se va bene, elemosinerà qualche assessorato. L’unica scusante è che i partiti sono allo stremo in tutta Italia, in Europa e forse, a guardare all’America, in tutto l’occidente. È molto difficile capirne la ragione. Butto lì un’ipotesi: i partiti non sanno e non vogliono più connettere i cittadini ai pubblici poteri, perché costa molta fatica. Vogliono vincere le elezioni, spartirsi le cariche pubbliche e si illudono che a questo fine basti la comparsata televisiva dell’istrione di turno. Così il popolo lo stanno scoprendo i nuovi estremisti di destra, o i populisti alla Grillo. È una condizione disastrosa, perché i partiti erano sì stati inventati come macchine elettorali, per conquistare il potere, ma lo facevano raggruppando gli individui, accogliendoli, soprattutto educandoli e connettendoli tra loro. Per carità, c’era chi lo faceva malissimo e si incrociava con la mafia. Sta di fatto che i partiti attuali sono unicamente gruppi di potere, che si affannano tra politica e affari. Palermo riflette in piccolo questa condizione. In assenza di un’alternativa credibile, Orlando ne profitta e li tratta con sufficienza.
In realtà, anche se dice di non avere un partito, lui dispone di un larghissimo network di relazioni nella società locale, tra associazioni, parrocchie, gruppi di volontariato, opinion leaders di circoscrizione, che coltiva da decenni e che, specie in assenza di concorrenti, costituisce una discreta base elettorale. Ho però il sospetto che, come tutte le persone di buon senso, anche lui si renda conto che i partiti ci vorrebbero. Come si tiene assieme una società, anche solo locale, senza una pubblica amministrazione decente, senza attività imprenditoriali, private o pubbliche che diano lavoro e reddito e pure senza partiti che raggruppino e educhino i cittadini? Palermo è un esempio tra tanti. Le assenze – niente pubbliche amministrazioni, niente partiti, niente imprese – sembrano essere il destino del paese. Da qualche parte sopravvivono segmenti di amministrazioni pubbliche e di imprese, più o meno solidi: a Milano, a Torino, a Firenze. Ma il resto, si veda Roma, è al collasso. Nel collasso può capitare di tutto: il pessimo – di esempi ne abbiamo molti sotto gli occhi – e il buono. Quest’ultimo mi pare il caso di Orlando, il quale però può far fuoco solo con la legna che c’è. Dobbiamo comunque essere consapevoli che se c’è bricolage virtuoso, c’è n’è anche di terribile. Non a caso l’elettore medio, in Italia e non solo, non è scontento, ma è disperato, e la disperazione produce movimenti scomposti. È sciocco gridare al lupo populista quando non si fa che chiamarlo.

Palermo si è contraddistinta per le politiche di accoglienza. Può parlarcene? Vi sono progetti meritevoli?
Anche qui, l’amministrazione comunale fa quel che i mezzi le consentono. A quel che vedo, fa parecchio. L’immigrazione è un fenomeno irreversibile. Come lo giudichiamo è irrilevante. Ciò che conta è che non si fermerà. E non porta da nessuna parte l’idea che possiamo fermarla. Per fermarla servirebbero non i respingimenti, ma una politica di sostegno ai paesi di provenienza, che crei pane e lavoro da quelle parti. E poi smetterla di accendere guerre scellerate in giro per il mondo. Se uno avesse buon senso, rinuncerebbe alle guerre e investirebbe nella pace. Ma l’occidente è irrimediabilmente insensato e vai a persuadere le popolazioni occidentali che occorre investire per dare pane e lavoro all’Etiopia o al Marocco. Quindi adeguiamoci. Le politiche di accoglienza costano anch’esse. Ma oltre all’accoglienza materiale, è essenziale quella simbolica: la conoscenza e il rispetto dell’altro. Questa è una politica che non costa, ma che in pochi fanno. Orlando la fa, con accanimento. La fa col suo stile: Palermo come punto di contatto tra nord e sud, come grande capitale mediterranea. Le parole contano. Anzi, le parole sono fatti. Certe parole – benedetto sia chi le pronuncia – servono a bilanciare le parole di odio pronunciate da altri. Sono coerenti con questo schema anche le parole che Orlando spende da sempre contro la mafia e la sua attenzione ai temi della legalità. C’è da aspettarsi che Palermo capitale della cultura nel 2018, oltre a far conoscere meglio le sue mille risorse monumentali, artistiche, gastronomiche, colga l’occasione per ribadire questi temi, anche agli occhi dei palermitani. I quali andrebbero pure persuasi a rispettare di più la loro città. Un’amministrazione non può farcela da sola. Se il problema della raccolta rifiuti è ancora grave, quanto non aiuterebbe a risolverlo un comportamento più disciplinato dei cittadini? Se ci fossero dei partiti di qualità, aiuterebbero loro. Non ci sono anche in questo e se ne sente la mancanza.

Certamente vi sono stati dei miglioramenti presentati dal Sindaco in quelle sue slides, che hanno fatto sì che l’immagine di Palermo in Italia sia migliorata. Però c’è l’enorme cifra della disoccupazione che si aggira intorno al 42% nella città metropolitana. Il tessuto industriale del comprensorio si è desertificato per la chiusura della Fiat. Non pensa che questo dovrà diventare la priorità assoluta per il prossimo sindaco?
Palermo sul piano occupazionale è molto malmessa. Lo è come il resto della Sicilia e come il Mezzogiorno. Ci sono segni di risveglio, ma sono molto timidi. Cosa può fare un sindaco? Non chiediamogli quel che non può fare. Una città ben amministrata può attrarre investimenti: magari di buona qualità, anziché grandi opere e grandi eventi, genere olimpiadi. Il problema è che amministrare bene aiuta, ma non risolve. Palermo è situata alla periferia dell’Europa. Per ravvicinarla si dovrebbe investire in infrastrutture – porto, aeroporto, ferrovie, ecc. – ma mancano le disponibilità finanziarie e neanche questo forse basterebbe. Sarebbe invece di enorme aiuto lo Stato, ove colmasse, e consentisse di colmare, i vuoti che ci sono nelle pubbliche amministrazioni, se intervenisse a potenziare le scuole, l’università, la ricerca, ecc. ecc. Queste cose chi ci governa non le fa nemmeno nelle regioni di paese che gli stanno più a cuore. Figurarsi nel Mezzogiorno, in Sicilia, a Palermo, che sul piano elettorale contano ormai molto poco. Non parliamo della regione Sicilia. La strategia nazionale è di mettere le città in concorrenza e di far piovere finanziamenti dall’alto più o meno per grazia sovrana. Personalmente penso che tutti i cittadini abbiano diritto a essere trattati allo stesso modo e a ottenere lo stesso livello di servizi: non a essere erraticamente beneficati mediante qualche curiosa procedura competitiva, che premia gli amministratori e ignora i cittadini. Come pretendere allora il miracolo dal sindaco di una città carente di iniziative imprenditoriali private e pubbliche di qualche respiro? Si può sperare nel turismo, ma di solo turismo non si campa e comunque, salvo trasformare i centri storici in Disneyland, serve una politica del turismo, non solo locale. Soprattutto però occorrerebbe una vera politica industriale nazionale, che metta al centro il divario con il Mezzogiorno. Purtroppo non nutro alcuna speranza che ciò possa avvenire nei prossimi anni. L’agenda dei governanti nazionali è tutt’altra e coloro che aspirano a sostituirli non sono affatto migliori.
La sola cosa che forse si potrebbe fare, dico forse, è cominciare a sperimentare, in posti come Palermo, forme di organizzazione e distribuzione della vita collettiva e del lavoro alternative. Non il lavoro non pagato dei cosiddetti volontari o degli stagisti, che è una forma di sfruttamento vergognoso, ma la redistribuzione del lavoro. Può però farlo un sindaco? Non lo so. Ma bisognerebbe pensarci. Da qualche parte si fanno esperimenti. Perché non a Palermo?

Ecco chi e perché nel mondo perseguita i cristiani. Intervista a Nello Scavo

 

Nello Scavo, giornalista dinchiesta per il quotidiano cattolico Avvenire, in

questo libro, Perseguitati, ci offre un documentatissimo reportage di chi in ogni angolo del mondo viene perseguitato per la sola ragione di pregare il Dio di Gesù Cristo.

I dati sono impressionanti: ll  75% delle violenze che, oggi, una minoranza religiosa subisce riguarda i cristiani. Quali le ragioni di tanto odio? Ne parliamo, in questa intervista, con lautore del libro. Il libro verrà presentato a Roma, presso il Palazzo della Cancelleria, il prossimo 28 marzo. Alla presentazione sarà presente, tra gli altri, mons. Silvano Maria Tomasi (Segretario della Pontificia Commissione Giustizia e Pace).

 

Come nasce questo libro?


Dal desiderio di conoscere e di raccontare. Dalla necessità di andare a fondo. Non mi bastavano infatti le risposte preconfezionate sulla “guerra al cristianesimo” per ragioni strettamente religiose, come se l’essenza di una religione, sia essa l’islam o certe derive del buddismo nel sudest asiatico, così come l’induismo e lo stesso cristianesimo (laddove i cristiani venivano accusati di non essere vittime ma carnefici), contenessero nel loro Dna il germe dell’odio. Così ho provato a raccontare una delle ricadute della “terza guerra mondiale a pezzi” tante volte denunciata da Papa Francesco.

Il tuo libro è davvero un grido di allarme per le enormi violazioni della  libertà religiosa che investe, ormai quotidianamente, il 60% degli Stati a livello mondiale. Puoi farci una piccola mappa dove, secondo la tua esperienza sul campo, maggiori sono le violazioni?

Secondo Open Doors International la Corea del Nord per il 15° anno di fila è il luogo peggiore al mondo dove essere cristiani. La Chiesa è interamente clandestina. C’è poi la Somalia dove gli islamici che si convertono al cristianesimo, se scoperti vanno incontro a morte certa La Chiesa è pressoché totalmente clandestina o fortemente ostracizzata anche in Paesi come Afghanistan, Pakistan, Sudan, Iran ed Eritrea. La pressione anticristiana cresce rapidamente nelle regioni del Sud-Est Asiatico e dell’Asia Meridionale. Ma fenomeni anticristiani si registrano anche alle porte d’Europa, dove centinaia di profughi cristiani incontrano enormi difficoltà a raggiungere i Paesi Ue ai quali intendono chiedere asilo.

ll  75% delle violenze che, oggi, una minoranza religiosa subisce riguarda i cristiani. Un dato impressionante. Qual è il fattore scatenante di tanto odio?

Ci sono molte ragioni, ma in generale possiamo dire che si tratta di scontri per difendere un interesse. Sia esso di tipo economico, culturale, sociale, o di “supremazia religiosa”. Il cristianesimo, infatti, non è mai privo di ricadute sociali e la novità che esso rappresenta viene spesso vissuto come una minaccia per chi ha fatto del sopruso, sotto qualsiasi forma, anche quelle apparentemente più innocue, una regola di vita.

Colpisce, nel libro, il racconto delle umiliazioni , e le violenze, che subiscono le donne cristiane…Ce ne puoi parlare?

Ho cercato di ricostruire il tariffario delle schiave sessuali cristiane, le “condizioni contrattuali”, nella compravendita delle donne, le angherie che molte sopportano spesso per proteggere i propri bambini. Ci sono casi di donne rimaste vedove e che avrebbero voluto togliersi la vita, una volta “comprate” da qualche miliziano, ma che hanno accettato il quotidiano martirio solo per non abbandonare i figli nelle mani dei mujaheddin. I maschietti vengono avviati alla “guerra santa”, quanto alle femminucce non serve immaginazione per sapere quale futuro le aspetterebbe.

Hai scritto nel libro che hai raccolto testimonianze, documenti  e atti “top secret” che confermano l’esistenza di piani per la sistematica eliminazione di comunità di credenti perché, secondo il regime, creano destabilizzazione nella società. A chi ti riferisci in particolare?

Ho rovistato nel passato dell’America Latina, trovando molte conferme sui piani anticristiani delle dittature militare spalleggiate dagli Usa. Uno spartito che non è cambiato al giorno d’oggi in molti Paesi africani, in Asia, nella penisola araba, solo per fare alcuni esempi.

Per scrivere questo libro hai attraversato le “trincee della fede”, dalla Cambogia alla Somalia, ti sei imbattuto anche negli “007 della Fede”, così li hai definiti questi uomini coraggiosi, chi sono e cosa fanno?

Si tratta di cristiani, sia cattolici che protestanti, i quali affrontano enormi rischi per far arrivare il sostegno delle comunità di credenti ai gruppi perseguitati. Tra essi persone che mettono a repentaglio la loro vita per contrabbandare copie della Bibbia da far giungere alle chiese relegate nel silenzio.

Tra tanto dolore c’è stato un episodio che ti ha destato una speranza per il futuro?

Sono molti gli episodi che danno speranza e proprio alcuni di questi mi hanno spinto a continuare nell’inchiesta e scrivere il libro. Penso ad alcuni imam che nei Balcani hanno dato accoglienza a tanti profughi cristiani provenienti dalla Siria. Penso anche a quegli islamici che in Siria stanno proteggendo i loro amici cristiani, insomma a quei “samaritani” che non si girano dall’altra parte, ma si soffermano senza fare calcoli.

Ultima domanda: In questa tuoi incontri nel dolore come viene percepito Papa Francesco? Te lo chiedo perché nei “circoli” tradizionalisti Bergoglio viene accusato di fare poco per i cristiani perseguitati. Una accusa mostruosa….
Ovunque il pontefice è percepito dai cristiani, anche da tante comunità protestanti, come un vero difensore dei diritti umani e l’unico leader in grado di agire a sostegno dei martiri del nostro tempo. Sapere che c’è qualcuno che chiede di pregare per loro, non è solo di grande consolazione, ma gli conferma di essere parte di una comunità universale.

Nello Scavo, Perseguitati, Edizioni Piemme, Milano 2017, pagg. 300. € 18, 50