La Libia è ben lontana dall’essere pacificata. Ben due governi si contendono il Paese. Così tra milizie e “signori” della guerra prende campo l’espansionismo russo. Quale ruolo gioca l’Italia? Ne parliamo, in questa intervista, con Michela Mercuri. Mercuri è Professore di Storia contemporanea dei paesi mediterranei all’Università degli Studi di Macerata. Collabora, come analista di politica estera, con diverse testate.
Professoressa, dobbiamo cominciare questa nostra intervista sulla Libia con una brutta notizia per l’Italia e per l’Europa: è di qualche giorno fa che un tribunale di Tripoli ha sospeso il “memorandum d’intesa” con l’Italia. Perché questa decisione? Quali le conseguenze?
Ci sono almeno due considerazioni da fare. In primo luogo questa “sospensione” testimonia le profonde spaccature che ci sono nella capitale tra il Governo di accordo nazionale e le altre forze presenti sul terreno – milizie, tribù e rappresentanti delle municipalità locali – che spesso disconoscono la leadership di Serraj. In secondo luogo andrebbe ridimensionato il peso della Corte di appello di Tripoli. Nella capitale, così come in molte altre zone del Paese, regna la più totale anarchia e i vari organismi politici e di giustizia hanno un peso specifico molto limitato. Da questo punto di vista, più che della giurisprudenza, dovremmo preoccuparci della pratica. Fare accordi con un governo che non controlla il territorio né le milizie che gestiscono i flussi potrebbe essere un fallimento annunciato. Prima bisogna creare un accordo politico più inclusivo e poi, eventualmente, erogare soldi e “attrezzature”. Altrimenti è il caso di dire “soldi buttati”.
Qual è la condizione dei migranti in Libia?
I migranti, in linea di massima, arrivano dal sud dell’Africa (Mali, Niger, Ciad ecc.) passano attraverso il deserto meridionale libico, santuario di numerose organizzazioni criminali e terroristiche, e arrivano sulle coste libiche. Qui vengono “smistati” in 34 centri di detenzione all’interno dei quali, al momento, sarebbero detenute tra le 4.000 e le 7.000 persone; 24 di queste strutture sarebbero gestite dal Dipartimento del governo libico che si occupa dell’immigrazione illegale, le altre sono in mano a gruppi criminali. Posto che nell’anarchia in cui versa il Paese abbia un senso parlare di “Dipartimento del governo libico”, l’Unicef ha dichiarato di avere accesso a meno della metà dei centri gestiti dal governo e a nessuno di quelli controllati dalle milizie. Le poche testimonianze che abbiamo parlano di condizioni drammatiche di vera e propria detenzione in condizioni inumane. Spesso gli uomini della guardia costiera non si avvicinano nemmeno alle aree dove si trovano i centri controllati dai miliziani perché è troppo pericoloso. Una parte dell’accordo sui migranti si pone l’obiettivo di rendere meno “bestiali” questi lager, fornendo aiuti alla guardia costiera ma, in un contesto come quello appena delineato, siamo sicuri che i nostri soldi verranno davvero utilizzati per questi fini o andranno nelle mani di uomini senza scrupoli che li utilizzeranno per ben altri scopi?
Parliamo della situazione politica libica. Come si sa siamo ancora ben lontani dalla pacificazione. Abbiamo ben due governi , Tripoli e Tobruk. L’Italia e la comunità internazionale (quasi tutta) sostengono il governo di al-Sarraj. Le chiedo: come si sta svolgendo il nostro ruolo di pacificazione? Quali iniziative, se ve ne sono, abbiamo preso con il governo della Cirenaica?
C’è, purtroppo, una deplorevole incongruenza nell’atteggiamento degli attori occidentali, e in particolare di quelli europei, in Libia. Tutti, nei tavoli negoziali, hanno sostenuto il “progetto Onu” per il Governo di accordo nazionale di Serraj. Una volta con i piedi sul terreno, però, molti hanno continuato a finanziare e armare Haftar e, dunque, l’ala di Tobruk. Il governo italiano, in questo momento, è l’unico alleato internazionale di Tripoli. Abbiamo riaperto la nostra ambasciata nella capitale. Abbiamo avviato la missione Ippocrate: 300 uomini tra cui 65 medici e infermieri e un ospedale da campo a supporto delle milizie di Misurata fedeli e Serraj. Infine, addestriamo la guardia costiera libica nell’ambito della missione europea “Sophia”. Si tratta di un impegno notevole ma c’è un solo modo per non renderlo inutile e anacronistico: sfruttare il ruolo di “unico punto di contatto occidentale a Tripoli” per porci come interlocutori per la mediazione di un accordo più inclusivo anche con gli attori della Cirenaica e i loro sponsor, Russia in primis.
Vogliamo chiarire i punti strategici-geopolitici dell’Italia. In questo ambito è determinante il ruolo dell’Eni…
L’Italia è il maggior importatore di petrolio e l’unico destinatario del gas libico attraverso il Greenstream. Il terminal Eni di Mellitah è a tutt’oggi uno dei pochi ancora funzionanti, mentre sono italiane molte delle attività estrattive offshore realizzate a largo delle coste tripoline. L’intervento in Libia della coalizione internazionale del 2011 è stato voluto da molti attori internazionali, Francia in primis, anche per rivedere le commesse petrolifere a proprio vantaggio. Nonostante ciò l’Eni è l’unica compagnia internazionale ancora in grado di produrre e distribuire petrolio e gas in Libia. D’altra parte è nel Paese dal 1959, da molto più tempo rispetto ad altre società petrolifere europee, ed è facile immaginare che si sia creata quei contatti che ora le rendono possibile coesistere con alcune delle milizie libiche. Non è certo una condizione ideale poiché i gruppi armati cambiano casacca con molta facilità e non sono nuovi ad atti di forza che vedono nella conquista dei pozzi petroliferi l’obiettivo più gettonato. Anche in questo caso, dunque, sarebbe necessario un maggiore sforzo politico.
L’Uomo forte, oggi in Libia, appare il generale Haftar. Il quale non ne vuole sapere del governo di Tripoli. Forte dell’appoggio di Egitto e Russia. L’Egitto di Al Sissi lo appoggia per ragioni di contrasto all’integralismo islamista. E per la Russia di Putin, quali sono gli obiettivi? Sappiamo che non guarda solo al generale Haftar ma anche ad al-Sarraj…
I motivi del sostegno russo ad Haftar sono di ordine economico, geopolitico e geostrategico. Da un punto di vista economico Putin non ha certo bisogno del greggio libico, ma ha tutto l’interesse a vendere know-how e tecnologie. Inoltre ad Haftar servono armi per proseguire la guerra sia contro gli islamisti sia contro il Governo di unità nazionale. La Russia ha tutto l’interesse a fornirgliele. In termini di proiezione mediterranea, la Libia è un tassello della partita russa in Medio Oriente e Nord Africa. Haftar, baluardo del laicismo, è il complemento ideale all’asse con al Sisi e, forzando un po’ la mano, anche con Damasco. Infine, la Russia, mira ad ottenere uno sbocco sul mar Mediterraneo nella Cirenaica. Va però detto che Haftar, per quanto forte, non può essere l’unico interlocutore nel Paese. Ci sono altri attori rappresentativi, come ad esempio le milizie di Misurata, con cui è necessario mediare un qualche accordo. La Russia ne è perfettamente cosciente. Per questo sta cercando di assurgere ad un ruolo maggiormente diplomatico nella partita libica, “agganciando” anche gli attori tripolini. Non è un caso se pochi giorni fa Serraj si è recato a Mosca per incontrare il ministro degli esteri russo Lavrov. La vera diplomazia russa in Libia potrebbe cominciare da qui.
L’espansionismo russo può entrare in rotta di collisione con gli interessi dell’Italia e dell’UE. È possibile una collaborazione con la Russia?
Il problema è a monte. Quali sono gli interessi dell’Europa? Le politiche estere degli attori europei procedono in ordine sparso, senza una chiara visione comune, se non sulla carta. Fino a questo momento il minimo comun denominatore è stato il ruolo di “traino degli Stati Uniti”. Ora che Trump ha paventato un maggiore disimpegno, l’Europa ha due opzioni: o saprà costruire una maggiore autonomia nel tradizionale asse atlantico, oppure il suo ruolo verrà marginalizzato. Allo stato attuale è difficile immaginare, però, che le capitali europee decidano di investire in spese militari. Inoltre, per assumere un ruolo di “guida”, l’Europa avrebbe bisogno di una volontà comune e di una chiara leadership. Al momento manca di entrambe. In queste condizioni la Russia ha la possibilità di ritagliarsi il ruolo di attore egemonico indiscusso. Una qualche collaborazione con Putin, stante così le cose, non potrà avvenire a livello europeo. L’Italia ha una sola chance, come già detto, sfruttare il suo capitale di fiducia con alcuni attori tripolini per mediare un accordo intra-libico con Mosca.
Abbiamo, però, alleati che fanno il “gioco sporco” nello scacchiere Libico. Mi riferisco alla Francia. Che ruolo sta giocando?
La Francia, fin dall’inizio della crisi libica ha sempre anteposto la realpolitik dell’interesse nazionale allo spirito di fedeltà all’alleanza europea. La missione della Nato in Libia è stata voluta dal governo francese di Sarkozy per motivazioni del tutto personali: le elezioni imminenti, la sua popolarità in drastico calo e la necessità di allargare la fetta petrolifera d’oltralpe. Le cose non sono migliorate in seguito. La Francia con una mano ha siglato gli accordi di Skhirat per il Governo unitario di Serraj e con l’altra ha fornito armamenti alle milizie di Haftar, attraverso triangolazioni estere con Egitto ed Emirati. L’obiettivo è accedere alle riserve petrolifere della Cirenaica, riprendendo le attività estrattive e allargando il raggio di quelle esplorative avviate nel 2011. Da questo punto di vista non posso che giudicare negativamente la politica francese.
Gli USA di Trump come si stanno muovendo?
Trump, fedele alla dichiarata politica del “disimpegno Mediterraneo”, pare fin qui poco interessato alla Libia. E’ plausibile ipotizzare, dunque, che sia disposto a lasciare mano libera alla Russia nel tentare di dirimere la spinosa questione. Putin, estromesso dalla partita libica nel 2011 perché contrario ai bombardamenti, coglierebbe volentieri questa occasione per dimostrare di poter riuscire là dove gli Stati Uniti di Obama hanno fallito.
Ultima domanda. L’ISIS è ancora presente?
I combattenti dell’Isis a Sirte – circa tremila prima dell’inizio dell’offensiva – non sono stati tutti uccisi o catturati. Molti sarebbero fuggiti verso il sud del Paese, nel Fezzan. Da qui, grazie anche ai fiorenti traffici della zona, potrebbero riorganizzarsi. Non c’è solo Isis. Nel deserto libico è stabilito anche un nuovo comando di al Qaeda nel Maghreb Islamico (Aqmi). Qui i servizi segreti di Algeri hanno localizzato campi e basi logistiche dei qaedisti attivi anche in territorio algerino e nel Sahel e fonti di stampa estera hanno in più occasioni raccontato di incursioni condotte oltreconfine dalle forze speciali di Bouteflika per annientarli. Da ciò risulta evidente che dire di aver espulso l’Isis da Sirte non significa aver risolto il problema del terrorismo nel Paese.