Ratzinger rinuncia alla rinuncia? La fine di un mito. Intervista ad Andrea Grillo

 

Ratzinger rinuncia alla rinuncia? La domanda può sembrare una  provocazione, ma un episodio fa sorgere questo dubbio. Si tratta della pubblicazione di una “prefazione” , come anticipato dal “Corriere della Sera” e dalla “Nuova bussola quotidiana”, ad un libro, dal titolo la “Forza del Silenzio”, del Cardinale conservatore Sarah, Prefetto della Congregazione per il culto Divino. Sappiamo che il cardinale è un ultras della  “Riforma della Riforma” liturgica del Vaticano II. E sappiamo, anche, che Papa Francesco è su altre posizioni.  Insomma quale “statuto” deve avere il “papa” emerito? Ne parliamo, in questa intervista, con il professor Andrea Grillo ordinario di Teologia al Pontificio Ateneo Sant’Anselmo di Roma.

 

 Professore, il sito ultratradizionalista “La nuova bussola quotidiana ”  e il “Corriere della Sera”, hanno lanciato l’anticipazione della “postfazione” (nell’edizione italiana sarà una “prefazione”) di Joseph Ratzinger (Papa Benedetto XVI) ad un libro (titolo “La force du silence”) del Cardinale  Sarah, Prefetto della Congregazione per il culto divino. Sappiamo che il cardinale è un ultras della  “Riforma della Riforma” liturgica del Vaticano II. E sappiamo, anche, che Papa Francesco è su altre posizioni. Non sfugge, quindi, che la decisione di Ratzinger sia da interpretare come una blindatura di Sarah. Insomma un condizionamento non da poco. E’ così?


Bisogna considerare bene la singolarità della situazione. Un papa rinuncia all’esercizio del proprio ministero petrino. Si apre la procedura di successione e viene eletto il successore. Normalmente ciò accade “mortis causa”. Quando la ragione non è la morte del precedessore, ma la “dimissione”, questo fatto apre per la istituzione un delicato caso di possibile conflitto di autorità. Che dovrebbe essere superato dalla “consegna del silenzio” del predecessore. Il quale, nella prefazione con cui esalta le doti del Prefetto Sarah, cita un testo di Ignazio di Antiochia che dice: “E’ meglio rimanere in silenzio…”. Se non solo parla, ma addirittura esalta un Prefetto che ha creato continui imbarazzi alla Chiesa e al suo successore, si apre un conflitto pericoloso, che richiederebbe comportamenti più prudenti e parole più responsabili. Si dovranno prevedere, in futuro, norme che regolamentino in modo più netto e sicuro la “morte istituzionale” del predecessore e la piena autorità del successore, in caso di dimissioni.

Sulla liturgia, all’interno della Chiesa, c’è un dibattito, certo tra addetti ai lavori, decisivo però sul cuore stesso della Chiesa. La liturgia non è mera ritualità: è l’estroversione della testimonianza cristiana; le chiedo, allora, la posta in gioco è molto alta?

La liturgia è fonte e culmine di tutta la azione della Chiesa, come dice il Concilio. Questo significa che una lettura chiusa, inadeguata, nostalgica della liturgia – che Sarah ha in comune con Ratzinger – insidia in radice ogni percorso di “uscita” e di “liberazione dalla autoreferenzialità”. La fissazione sul “rito antico” è, precisamente, il segno preoccupante che accomuna il Vescovo emerito di Roma e il Prefetto della Congregazione del culto. E su questo papa Francesco ha preso posizione con giusta fermezza.

Veniamo a Ratzinger.  Papa Francesco lo ha definito come un “nonno saggio”. E Ratzinger ha manifestato stima nei confronti di Bergoglio. Eppure la visione idilliaca di un “Papa” emerito pone non pochi problemi. Se uno lascia il ministero, anche esteriormente dovrebbe  manifestarlo. Insomma regge o non regge questa “coabitazione”?

 

Non può esserci coabitazione. Questo è ora del tutto evidente. Come è evidente che la veste bianca e la loquacità, oltre alla residenza, debbono essere dettagliatamente normate. Il Vescovo emerito deve allontanarsi dal Vaticano e tacere per sempre. Solo a queste condizioni è possibile configurare una reale “successione”. E’ ovvio che per Ratzinger, come per Bergoglio, si tratta di un “experimentum”, poiché non vi sono precedenti. Per questo si deve fare paziente esperienza di questi inciampi. E non vi è dubbio che questa Postfazione (o Prefazione) sia un capitombolo. Le intenzioni di discrezione e di umiltà sono palesemente violate, in modo quasi scandaloso. E trovo veramente sconcertante che il Vescovo emerito di Roma lodi Francesco per una nomina che sa bene di aver contribuito pesantemente a determinare. Questo mi sembra il dato più grave, un segno di clericalismo e direi anche di una certa ipocrisia.

Vi sono stati episodi di  condizionamento fatti da Ratzinger? Mons.Gaenswein, tempo fa, parlava di un “ministero allargato”…

Anche questi sono “sogni di visionari interessati”: non vi è alcun ministero allargato. C’è una successione al papato che è avvenuta senza morte, ma che deve esigere un silenzio e una discrezione che non alterino l’esercizio del ministero petrino da parte del successore. E’ ovvio che chi perde il potere cerca di mantenerlo. E i segretari spesso sognano e brigano molto più dei pontefici…

ULTIMA domanda: come giudica l’apertura di Papa Francesco nei confronti della “Fraternità San PIO X” , che ha provocato uno scisma negli anni del post-concilio?

Mi sembra che Francesco voglia due cose: comunione e misericordia. E le voglia giustamente con e per tutti. Questo, ovviamente, non significa una “resa incondizionata”. Occorrono adeguate garanzie di “fedeltà a tutta la tradizione” (compresa quella più recente) per poter recuperare una comunione effettiva con chi era caduto in condizione di scomunica. Magari anche recuperando, in forma differenziata, soggetti legati a tradizioni più rigide e chiuse, ed eliminando così la tentazione che per recuperare loro si contaminino le fonti comuni a tutti. Mi riferisco, in particolare, all’uso del “rito antico”, che con un accordo di comunione con i lefebvriani – subordinato a specifiche garanzie – sarebbe sottratto all’”uso straordinario” ed entrerebbe nelle caratteristiche rituali di un settore specifico della esperienza ecclesiale, che per questo risulterebbe accuratamente circoscritto e controllato.

ADISTA, l’agenzia che tiene viva la memoria del Concilio. Intervista a Valerio Gigante

Immagine del primo numero dell’agenzia

 

Adista, una piccola agenzia di stampa ma di grande prestigio e qualità, compie quest’anno 50 anni. Un bel traguardo. Per cinquant’anni ha raccontato il cammino della Chiesa cattolica del post-Concilio. Uno strumento prezioso, non solo per chi fa informazione religiosa, per la comunità dei credenti.  La sua storia merita di essere conosciuta. Lo facciamo, in questa intervista, con Valerio Gigante, giornalista e Presidente della Cooperativa  che   gestisce la testata. Si perché Adista è un progetto “dal basso”, libero e indipendente. Ed è con questa prospettiva che racconta i fatti della vita sociale ed ecclesiale del Paese e del mondo. Neanche a dirlo, questa indipendenza  crea una sola dipendenza, quella dai lettori e abbonati. È un bell’esempio di giornalismo che va sostenuto.

 Valerio, quest’anno cadono diversi cinquantenari. Ed è anche il vostro: quello dell’agenzia “Adista”. Partiamo dalle origini: come nasce la vostra agenzia?

Nasce nel 1967 dall’iniziativa di un gruppo di cristiani progressisti che avevano un duplice obiettivo: scardinare il dogma dell’unità dei cattolici in politica, ossia dentro la Democrazia Cristiana, rivendicando il diritto di militare, come cristiani, anche a sinistra, in particolare nei partiti dell’area socialista e comunista; dall’altro, il tentativo di realizzare il mandato conciliare, impegnandosi per una Chiesa più aperta ed inclusiva, che riformasse se stessa ed il suo modo di rapportarsi con la realtà contemporanea.

Franco Leonori, cattolico vicino all’esperienza dei cattolici comunisti, è stato il vostro fondatore. Quali sono stati gli altri “Padri fondatori”?

Leonori veniva dal Partito della Sinistra Cristiana, un partito che aveva fatto la resistenza e che in gran parte, alla fine del 1945, era confluito all’interno del Partito Comunista Italiano, su impulso di un suo autorevolissimo dirigente, Franco Rodano. Leonori in particolare era però assai legato ad Adriano Ossicini, con cui aveva fatto la Resistenza qui a Roma, che all’interno della Sinistra Cristiana faceva parte di quell’area, minoritaria, che aveva scelto di non confluire dentro il Pci. Il principio della vicinanza e della collaborazione con i comunisti, ma da una posizione autonoma ed “indipendente” caratterizza la scelta di Ossicini e Leonori anche in merito alla fondazione di Adista: Ossicini subito dopo aver contribuito a far nascere la testata viene eletto parlamentare, come indipendente, proprio nelle liste del Pci. Negli anni successivi, a partire dal 1976, diversi altri credenti lo raggiungono caratterizzando il gruppo parlamentare della Sinistra Indipendente come una fucina in cui si sperimentava una inedita collaborazione tra cristiani (nel gruppo c’era infatti anche il pastore valdese Tullio Vinay) e comunisti, credenti e marxisti. Adista in quegli anni divenne il punto di riferimento di questa area politico culturale, mantenendo però sempre una sua forte autonomia. Che si accrebbe quando, alla fine degli anni ’70, Adista divenne una cooperativa, sviluppando nuove aree di impegno ed interesse grazie al contributo determinante di un altro personaggio centrale nella storia della testata: Giovanni Avena. Lui ad Adista era arrivato nel 1978, dall’impegno in una parrocchia palermitana contro la mafia, le connivenze tra la Chiesa e il potere democristiano, l’impegno per la chiusura dei manicomi (uno dei quali era nel territorio della sua parrocchia, una sorta di terra di nessuno dove avvenivano abusi di ogni tipo).

La vostra agenzia nasce nell’ambito del post-concilio, quel periodo ricco di iniziative nella Chiesa cattolica e nel mondo cattolico. Quella era “la primavera” nella Chiesa. Quale è stato il contributo di Adista?

L’aver messo in collegamento le tantissime realtà di base del nostro territorio, l’aver offerto loro le colonne di Adista in una fase (assai lunga, per la verità e ancora in parte operante) nella quale la Chiesa plurale, quella conciliare, l’anima cattolica conciliare non aveva diritto di parola e di espressione nei media e nei luoghi istituzionali della Chiesa cattolica. Adista ha poi informato su tutto ciò che si muoveva di nuovo nel cattolicesimo politico, nelle diocesi e nelle parrocchie di “frontiera”, accompagnando questa informazione ad una documentazione amplia sul dibattito teologico in Italia ed all’estero, dando ai lettori materiale spesso inedito e comunque pressocché introvabile su teologia della liberazione, teologia indigena, femminista, del pluralista, altermondialialista, asiatica, queer, ecc. ecc. Tutto ciò, insomma, che intellettuali e teologi hanno prodotto lontano dal Vaticano. Venendo spesso censurati e perseguitati a causa del loro impegno e del loro mancato “allineamento” alle posizioni espresse dalla gerarchia.

Non solo avete fatto conoscere la Chiesa di base, il “mondo” vicino alle CdB, ma avete aperto lo sguardo del cattolicesimo contemporaneo alla Chiesa dei poveri. In particolare alla realtà dell’America latina. Avete mai subito pressioni dalla Curia romana?

Pressioni dirette non in maniera particolare. Semmai qualche telefonata in cui ci veniva manifestato il dispiacere di questo o quell’ecclesiastico per ciò che avevamo scritto. Diverse pressioni affinché persone di spicco all’interno del mondo ecclesiale evitassero di avere rapporti con l’agenzia, di “macchiare” la loro immagine associando la loro firma a testi pubblicati sulle nostre pagine, oppure inviti agli inserzionisti di area cattolica che ci commissionavano un po’ di pubblicità a non dare soldi a un giornale come il nostro, accusato di non fare il bene della Chiesa e minare la sua unità.

Tra la gerarchia cattolica chi vi ha difeso?

Esplicitamente pochi, perché siamo stati oggettivamente una “pietra di scandalo” e un vescovo o un cardinale che difendesse apertis verbis Adista si metteva in una posizione piuttosto difficile. Chi è dentro l’istituzione, mi pare comprensibile, non può ufficialmente consentire con chi l’istituzione la contesta. Detto questo, tanti vescovi e cardinali sono stati e sono tuttora abbonati alla rivista, diversi l’hanno sostenuta anche con qualche contributo economico nei momenti difficili, non pochi hanno chiamato o sono venuti qui in redazione a discutere con noi questioni ecclesiali, teologiche o pastorali; in tanti comunque hanno apprezzato e ritenuto che il nostro lavoro fosse prezioso, seppure non sempre condivisibile, per mettere in circolazione idee e creare finalmente un’opinione pubblica anche dentro il mondo cattolico.

 Torniamo, per un attimo, alla politica. Per i vostri critici si trattava di un “collateralismo” opposto a quello ufficiale. Come rispondi a questa critica?

Che non c’è nulla di male ad essere o ad essere stati comunisti o socialisti, o dell’area della sinistra radicale. In nessun momento della sua vita Adista si è legata a carrozzoni politici, ha fatto l’ufficio stampa di qualche parlamentare o aspirante tale. Ha sostenuto sempre le ragioni della sinistra, di una sinistra plurale, ritenendo fondamentale il confronto ed il dialogo tra culture diverse che avevano però valori comuni; e soprattutto ha cercato di aiutare il cattolicesimo politico a dialogare con la sinistra, fossero i cattolici dei gruppi spontanei, della comunità di base, delle Acli della scelta socialista, i cattolici del fermento e quelli del cosiddetto “dissenso”, i cristiani per il socialismo, i cristiani nonviolenti e pacifisti, le femministe cattoliche, ecc.

 

Qual è stato lo scoop più importante della vostra agenzia?

Diversi, direi soprattutto legati alla pubblicazione di documenti riservati di qualche Congregazione Vaticana. Oppure la diffusione delle propositiones che concludevano i sinodi dei vescovi, che in passato erano sub secreto e che poi sono diventate pubbliche anche e soprattutto grazie al fatto che comunque Adista trovava il modo di averle e di diffonderle non per fare sensazionalismo, ma per garantire ai credenti il diritto di sapere come si era svolto il dibattito tra i loro vescovi e su quali punti si era o meno trovata la sintesi tra di loro.

 

Veniamo all’oggi. Quali saranno le future battaglie di ADISTA?

La prima è la sopravvivenza. L’editoria è in crisi. Quella che non è legata a sponsor politici ed ecclesiastici, gruppi finanziari o imprenditoriali lo è drammaticamente di più. Adista è una piccola cooperativa che vive del sostegno dei suoi abbonati, cui si aggiungeva un tempo il finanziamento pubblico all’editoria, oggi drasticamente ridotto. Il contributo dello Stato garantisce la pluralità dell’informazione. Siamo imprese, come tante altre, e stiamo sl mercato. Ma non vendiamo soprammobili, facciamo e vendiamo notizie. E se non vogliamo un’opinion pubblica informata ed orientata solo in un’unica direzione è necessario garantire che tante voci possano contribuire a formare coscienze critiche che conoscano e confrontino tante idee ed opinioni diverse.

Abbonarsi ad Adista è un atto di militanza per una Chiesa più aperta dentro una società più giusta e libera, ma è anche la scelta di presidiare i pochi strumenti di informazione “alternativa” ancora presenti oggi.

Se l’obiettivo della sopravvivenza sarà raggiunto, continueremo ad essere coscienza critica nella Chiesa e nella società, facendo quello che un giornale dovrebbe sempre fare, essere diffidente nei confronti del potere, di ogni potere, cercando di raccontare ciò che accade nelle pieghe della realtà. Per quanto ci riguarda, continuando a prediligere le strade polverose della storia percorse dai  tanti poveri cristi oppressi che vivono nella nostra realtà contemporanea, senza voce e senza diritti, piuttosto che frequentando le cattedrali che odorano di incenso. Fuori dal tempio, ma – speriamo – sempre dentro la storia.

I crocifissi di oggi e il Crocifisso di ieri. Un testo di Leonardo Boff

Leonardo Boff (Ansa)

Per gentile concessione dell’autore pubblichiamo questa meditazione pasquale del teologo brasiliano Leonardo Boff, traduzione di S. Toppi e M. Gavito.

Oggi la maggior parte dell’umanità vive crocifissa dalla povertà, dalla fame, dalla scarsità d’acqua e dalla disoccupazione. Crocifissa è anche la natura lacerata dall’avidità industriale che si rifiuta di accettare limiti. Crocifissa è la Madre Terra, esausta fino al punto di perdere il suo equilibrio interiore, evidenziato dal riscaldamento globale.

Uno sguardo religioso e cristiano vede Cristo stesso presente in tutti questi crocifissi. Per avere assunto pienamente la nostra realtà umana e cosmica, lui soffre con tutti i sofferenti. La foresta abbattuta dalla motosega significa colpi sul suo corpo. Negli ecosistemi decimati e per l’acqua inquinata, lui continua a sanguinare. L’incarnazione del Figlio di Dio ha una misteriosa solidarietà di vita e di destino con tutto quello che lui ha assunto, con tutta la nostra umanità e tutto ciò che esso implica di ombre e di luci.

Il primo Vangelo di San Marco, narra con parole terribili la morte di Gesù. Abbandonato da tutti, in cima alla croce, si sente anche abbandonato dal Padre di misericordia e bontà. Gesù grida:

“Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? E dando un forte grido, Gesù spirò” (Mc 15,34.37).

Gesù non muore perché tutti moriamo. È stato assassinato nel modo più umiliante del tempo: inchiodato ad una croce. Sospeso tra cielo e terra, agonizzò per tre ore sulla croce.

Il rifiuto umano può decretare la crocifissione di Gesù, ma non può definire il senso che lui ha dato alla crocifissione che gli fu imposta. Il Crocifisso ha definito il significato della sua crocifissione come solidarietà con tutti i crocifissi della storia che, come lui, erano e sono vittime di violenza, di relazioni sociali ingiuste, d’odio, d’umiliazione dei piccoli e di rifiuto della proposta di un Regno di giustizia, fratellanza, compassione e amore incondizionato.

Nonostante il suo impegno solidale verso gli altri e il Padre, una terribile e ultima tentazione invade la sua mente. La grande lotta di Gesù, ora che sta per morire, è con il suo Padre.

Il Padre di cui lui ha avuto esperienza con profonda intimità filiale, il Padre che lui aveva annunciato come misericordioso e pieno di bontà, Padre con tracce di madre amorevole, il Padre il cui regno ha proclamato e anticipato nelle sue prassi liberatorie, questo Padre ora sembra abbandonarlo. Gesù passa attraverso l’inferno dell’assenza di Dio.

Verso le tre del pomeriggio, minuti prima della fine, Gesù gridò a grandi voce: “Eloì, Eloì, lamá sabacthani: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” Gesù è sull’orlo della disperazione. Dal vuoto abissale del suo spirito, esplodono domande spaventose che modellano la tentazione più terribile subita dagli esseri umani e ormai da Gesù, la tentazione della disperazione. Si chiede: “Non era assurda la mia fedeltà? Senza senso la lotta sostenuta, per gli oppressi e per Dio? Non sono stati vani i rischi che ho corso, le persecuzioni che ho sopportato, il processo legale-religioso umiliante in cui sono stato sottoposto alla pena capitale: la crocifissione che sto soffrendo?”

Gesù è nudo, indifeso, completamente vuoto davanti al Padre che è in silenzio e così rivela tutto il suo Mistero. Gesù non ha nessun altro a cui aggrapparsi.

Per gli standard umani, ha fallito completamente. La stessa certezza interiore svanisce. Anche se il sole è tramontato al suo orizzonte, Gesù continua ad avere fiducia nel Padre. Così grida con voce potente. “Padre mio, Padre mio!” Al culmine della disperazione, Gesù si dona al Mistero veramente senza nome. Egli sarà l’unica speranza oltre qualsiasi speranza. Non ha più alcun sostegno in te stesso, soltanto in Dio, che si nascondeva. La speranza assoluta di Gesù può essere compresa solo sul presupposto della sua disperazione. Dove è abbondata la disperazione, ha sovrabbondato la speranza.

La grandezza di Gesù è quella di sopportare e superare questa tentazione scoraggiante. Questa tentazione lo porterà all’abbandono totale a Dio, una solidarietà senza restrizioni con i fratelli e le sorelle anch’essi disperati e crocifissi nel corso della storia, una spoliazione totale di se stesso, un dedicazione assoluta di se stesso in funzione degli altri. Solo allora la morte è morte e può anche essere completa: la rende perfetta a Dio e ai suoi figli e figlie che soffrono, ai suoi fratelli e sorelle più piccoli.

Le ultime parole di Gesù indicano questa consegna, non dimessa e fatale, ma libera, “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46). “Tutto è compiuto” (Gv 19,30).

Il Venerdì Santo continua, ma non ha l’ultima parola. La risurrezione, come irruzione dell’essere nuovo è la grande risposta del Padre e la promessa per tutti noi.

 

“Populorum Progressio”: la profezia inascoltata di Paolo VI. Intervista a Gianpaolo Salvini

Cinquant’anni fa Papa Paolo VI pubblicò la Populorum progressio. Una Enciclica che segnò per sempre la Storia della Chiesa contemporanea. Quel 26 marzo del 1967 si verificò, a due anni dal Concilio Vaticano II, lo spostamento dell’asse dell’Evangelizzazione della Chiesa: “Lo sviluppo dei popoli, in modo particolare di quelli che lottano per liberarsi dal giogo della fame, della miseria, delle malattie endemiche, dell’ignoranza; che cercano una partecipazione più larga ai frutti della civiltà, una più attiva valorizzazione delle loro qualità umane; che si muovono con decisione verso la meta di un loro pieno rigoglio, è oggetto di attenta osservazione da parte della chiesa. All’indomani del Concilio ecumenico Vaticano II, una rinnovata presa di coscienza delle esigenze del messaggio evangelico le impone di mettersi al servizio degli uomini, onde aiutarli a cogliere tutte le dimensioni di tale grave problema e convincerli dell’urgenza di una azione solidale in questa svolta della storia dell’umanità”. Iniziava così il documento pontificio. A 50 anni dalla sua pubblicazione è ancora attuale questo documento? Ne parliamo, in questa intervista, con Padre Gianpaolo Salvini, gesuita, economista ed ex direttore della prestigiosa rivista “La Civiltà Cattolica”.

Padre Salvini, cinquant’anni fa il Papa Paolo VI rinnovò, sulla scia del Concilio Vaticano II e dell’approccio evangelico dei “segni dei tempi”, la  dottrina sociale della Chiesa pubblicando la “Populorum Progressio”. L’Enciclica fece grande scalpore per il suo contenuto. Il documento  pontificio è stata definito come la “Rerum Novarum” dei popoli, perché?

La Populorum Progressio fu e rimane una delle encicliche più significative della dottrina sociale della Chiesa. In certo senso completò il Concilio, chiusosi due anni prima, che aveva parlato poco dei problemi sociali a livello mondiale. Il Vaticano II era stato soprattutto un Concilio europeo e in particolare tedesco e francese, dal punto di vista teologico. Ben pochi vescovi provenienti dal mondo povero avevano avuto modo di farsi notare. In qualche modo fu un’integrazione del Concilio, e come tale venne percepita. Inoltre in quel momento molti Stati ex-colonie, accedevano all’indipendenza, pieni di speranze, ma anche di incognite, come purtroppo dimostrò la storia successiva.
Allora non si parlava di globalizzazione, ma l’enciclica portò un messaggio globale, occupandosi dei problemi dello sviluppo, visto come riedizione su scala planetaria della vecchia questione sociale. Inoltre il testo non si poneva più al di sopra delle parti, «dando a ciascuno il suo», ma si pone decisamente dalla parte dei più deboli, dei Paesi poveri, cioè dei vinti, degli emarginati.
Per questo non venne ben accolta dappertutto, almeno in alcuni Paesi industrializzati. Per alcuni si trattava addirittura di «marxismo riscaldato». Non si percepiva ancora l’interconnessione tra i vari Paesi del globo che esiste, e che non necessariamente è frutto di un rapporto tra causa ed effetto. Ma si denunciava come uno scandalo che le due realtà, di grande ricchezza e di povertà coesistessero, anche se non sempre (ma spesso sì) frutto dello sfruttamento degli uni sugli altri. Nella parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro lo scandalo non è dato dal fatto che il primo abbia depredato il secondo (cosa che il Vangelo non dice), ma che le due realtà coesistano e che il ricco rimanga cieco davanti alla povertà dell’altro. Semplicemente non lo vede. E per questo viene condannato, e non solo rimbrottato come noterà Giovanni Paolo II nella Sollicitudo rei socialis (che commemora proprio la Populorum progressio). Il progetto di Dio sull’umanità è incompatibile con questa situazione.

La “Populorum Progressio” è frutto di un lavoro preparatorio di laici e teologi. Quali sono le radici della P.P.?

La Populorum progressio ebbe una gestione di oltre sei anni, e risentì in particolare del pensiero del domenicano Louis-Joseph Lebret, e di altri teologi, ma risentì in particolare della grande sensibilità di Paolo VI per i problemi internazionali. Se nell’Ottocento i documenti ufficiali del magistero sociale della Chiesa arrivarono in ritardo rispetto al Manifesto di K. Marx, non fu così nel secondo dopoguerra per i problemi riguardanti lo sviluppo. La Populorum progressio si compone di 87 paragrafi, espressi in modo lapidario e molto efficace. Alcune sue frasi sono diventate quasi proverbiali: «lo sviluppo è il nuovo nome della pace» (n. 47); «lo sviluppo deve essere rivolto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo» (n.14) e non hanno perso nulla del loro messaggio. I documenti dei Papi successivi in materia sono invece assai più complessi e articolati, probabilmente anche per tenere conto di un mondo che rivelava gradualmente la sua complessità.

Veniamo ai contenuti. Al centro c’è la messa in discussione di un modello “neoliberale” (o per meglio dire neoliberista) di sviluppo. Propone uno sviluppo integrale dell’uomo e della società. Ci può dire  quali sono i punti fermi di  questa riflessione dell’enciclica?

L’enciclica critica certamente alcuni dei capisaldi del capitalismo e dei suoi meccanismi, senza con questo contestare radicalmente l’economia di mercato. D’altronde voleva rifiutare decisamente le soluzioni proposte dal sistema ad economia pianificata (cioè il modello proposto dal comunismo, che aveva nell’Urss il suo Paese leader), allora molto popolare e visto (da milioni di persone) quasi come un messaggio messianico, ma che la Chiesa giudicava un rimedio peggiore del male, anche in base all’esperienza storica del dopoguerra. L’enciclica poneva al centro la persona umana, trasformando la quale si sarebbero trasformate anche le strutture economiche. Il marxismo sosteneva il contrario. Uno dei principali messaggi dell’enciclica è che lo sviluppo (l’originale latino usava l’espressione più forte progressio) non si può mai ridurre soltanto all’aspetto economico o all’aumento del Pil, ma richiede uno sviluppo armonico di tutte le dimensioni umane, di cui quella economica è una, anche se molto importante. Il sogno di Paolo VI era quello di dare un’anima allo sviluppo. Un’espressione molto suggestiva, ma tanto difficile da attuare in un mondo nel quale prevalgono tuttora i rapporti di forza.

Per citare il domenicano Marie-Dominique Chenu: con l’Enciclica di Paolo VI viene superato il “riformismo morale ” della Rerum Novarum e  si pone, finalmente, fine alla “collusione ” della Chiesa con il sistema capitalistico. E’ Così?

E’ vero che vi è un grosso distacco dal sistema capitalistico, di cui si denunciano le disfunzioni e i meccanismi perversi, le «strutture di peccato», come le chiamerà Giovanni Paolo II, e le correzioni che l’enciclica propone di portare al sistema capitalistico sono tali, che ci si può chiedere se alla fine si tratta ancora della vecchia economia di mercato o di qualcos’altro. Basti pensare al rifiuto degli automatismi di mercato che avrebbero provveduto a sanare il sistema. Ma occorre ricordare che l’economia mondiale è assai più articolata e variegata di quanto normalmente si pensi. In ogni caso i Governi oggi vedono il vantaggio dell’integrazione e protestano non più perché devono entrare in un mondo globalizzato, ma perché non si concede loro di entrarvi, o almeno non di entrarvi a condizione eque.

Quali sono i punti che hanno anticipato la riflessione della società politica su questi temi e quali, invece, sono “datati”?

Molti temi dell’enciclica sono ancora attualissimi, mentre altri sono ovviamente datati, o semplicemente non esistevano (o non venivano percepiti) al tempo della sua pubblicazione. Non vi è alcun cenno ai problemi ecologici e dell’ambiente. Non si parla del problema della donna e cosa ha comportato l’ingresso massiccio di essa nel mondo del lavoro. Si accenna solo marginalmente al problema delle migrazioni, oggi così drammatico e urgente. Nel nostro mondo attuale possono circolare liberamente le informazioni, le tecnologie, le merci (ancora per quanto?), ma non le persone non qualificate, che ogni Paese si affanna a respingere alle proprie frontiere, vedendole come una minaccia costante. Lo stesso problema del lavoro e della disoccupazione non viene visto nell’enciclica come «il» problema centrale.

Lei è stato per diversi anni in America Latina,in particolare in Brasile. Cosa ha significato per l’America Latina  quell’Enciclica?

Io sono stato alcuni anni in Brasile e in America Latina, dove la Populorum progressio ebbe un enorme influsso. Ma questo non significa che vi abbia avuto adeguata applicazione, anche perché a molti di quei Paesi, per il timore del comunismo, non venne consentito di svilupparsi in forme democratiche e anche perché non sempre le classi politiche e dirigenti si sono dimostrate preparate e all’altezza della situazione. Milioni di latinoamericani sono usciti in questi cinquant’anni dalla povertà, ma senza che lo sviluppo si sia tradotto in un processo durevole e sostenibile animato da una cultura nazionale adeguata, in grado di includere la maggioranza della popolazione.

L’Insegnamento sociale vive della Storia degli uomini e della Chiesa. Per dirla ancora  con un grande teologo francese, citato nell’Enciclica, Marie-Dominique Chenu: l’insegnamento sociale è il “Vangelo nel tempo”. Oggi questo “Vangelo nel tempo” si incarna nella predicazione di Papa Francesco.  Possiamo dire che con Papa Francesco la Populorum Progressio trova la sua pienezza?

Papa Francesco ha certamente sottolineato con forza quanto manca alla realizzazione degli ideali proposti dalla Populorum progressio e in particolare la necessità di un continuo dinamismo. La storia va avanti e le sue conquiste hanno bisogno di tempo, anche se non lo fa sempre con i ritmi così veloci che noi vorremmo. Ma il timore di Papa Francesco è che l’umanità si accontenti dei risultati raggiunti (che sono molti), senza badare a i milioni che sono stati «scartati» da un sistema economico e sociale che non è riuscito ad includerli in un sistema più equo e meno disuguale, nel quale anzi le disuguaglianze aumentano. La Populorum progressio propone degli ideali molto impegnativi, ma si tratta di traguardi in movimento che richiedono a loro volta di essere «aggiornati». Lo sviluppo, sia delle persone che delle società e dei Paesi è esso stesso un traguardo mobile, che ci corre davanti e che richiede continui perfezionamenti. L’impressione che dà spesso Papa Francesco di «essere oltre» esprime semplicemente questo desiderio di non perdere il treno della storia che si spinge evangelicamente e costantemente a qualcosa di più grande e di più umano.

A proposito dei manifesti contro Papa Francesco

 

La domanda dei manifesti contro il Papa, “Francesco …ma n’do sta la tua misericordia?”, svela il pensiero degli ispiratori dell’operazione.

(a cura Redazione “Il sismografo”)
Nascondersi dietro un manifesto anonimo non è solo troppo facile ma, alle volte, è anche molto pericoloso, soprattutto per chi crede di potervi far ricorso senza pagare dazio. Tanti hanno commentato in questi ultimi giorni ciò che i soliti ignoti hanno commesso qualche notte fa affiggendo per le vie di Roma decine di manifesti accusatori nei confronti dell’operato di Papa Francesco. Molti vi hanno visto la mano di quella corrente conservatrice che da anni attacca l’operato del pontefice via web, altri l’ultima sfida di chi non vuole il cambiamento dentro la Curia romana, altri ancora il primo eco della battaglia definitiva contro il pontificato di un Papa che viene dalla “fine del Mondo” e parla degli ultimi condannando l’indifferenza e lo scarto dilaganti in questo mondo ormai allo sbando.
Subito dopo la notizia si è aperto il dibattito, per ora tutto ipotetico, su chi possa aver ordito tale azione, su chi ha mestato nell’ombra, su cosa c’è veramente dietro questa “goliardata” estemporanea. Certo, la giustizia farà il suo corso e, con tutta probabilità e con viva speranza, si farà luce su chi ha materialmente affisso quei manifesti e su chi li ha commissionati. Non bisogna nascondere la gravità del gesto retrocedendola a semplice marachella, né esagerare a sproposito parlando di duello all’ultimo sangue. Sinceramente più preoccupante, come altri hanno più opportunamente e con precisione evidenziato, è l’impatto che un siffatto manifesto può avere su un singolo individuo già in animo di compiere scellerati gesti. Tuttavia, chi ha avuto l’idea di quel gesto aveva chiaro nella mente un solo principale obiettivo: screditare il Papa, ridimensionare la sua figura e cercare di insinuare tra i fedeli il dubbio su ciò che fa ogni giorno come guida della Chiesa cattolica. Persino la scelta di quella foto è stata soppesata e l’intercalare romano, usato un po’ goffamente nella stesura del messaggio, serviva a mescolare le carte per far credere che fosse il popolo a pensare quelle cose.
Tuttavia c’è un altro aspetto che merita di essere analizzato fino in fondo e che ci mostra con grande evidenza la malafede e la fallacità del messaggio che quel manifesto voleva diffondere tra i fedeli come un freddo venticello d’inverno quale è la calunnia. Lasciamo per un momento la ricerca dei colpevoli, degli autori del gesto e del fine recondito che gli autori di quell’azione volevano portare a casa propria. Da semplici cristiani, da semplici fedeli di strada, fermiamoci su quel messaggio e ragioniamoci sopra per qualche istante. Cosa ci dicono quelle parole rivolte al Papa? Ci vogliono far credere, in buona sostanza, che Papa Francesco parla solo di misericordia ma poi non la mette in pratica nel suo quotidiano compito di guidare la Chiesa. Insomma, si è voluto ancora una volta far ricorso al vecchio cliché, di grande impatto  popolare e populista, che ci racconta dello stereotipo  del sacerdote che predica bene ma che razzola male. Ma vi è di più, molto di più. Quel testo insinua che la misericordia del Papa, quella sua personale, si è fermata davanti a certe decisioni che sono state da lui prese nella gestione quotidiana di quella che è la sua “santa missione”. Quel messaggio usa la pubblicità comparativa in senso negativo, ossia prima ci parla di alcune cose, messe lì alla rinfusa e tenute volutamente tenebrose allo stesso uditorio che non può essere in grado di capire di cosa si sta realmente parlando, e poi ci chiede, sarcasticamente, come può essere considerato misericordioso chi le ha fatte. Quel testo aveva il solo scopo di insinuare il dubbio, di far nascere il sospetto, di minare la credibilità dell’azione di un Papa che parla ogni giorno di Misericordia e che usa ogni suo gesto per disseminarne il valore cristiano tra i fedeli. Ma è davvero così? Realmente ci troviamo di fronte a un pontefice che parla in un modo e poi agisce dentro le mura del Vaticano in un senso diametralmente opposto? È vero che il Santo Padre non è stato misericordioso come predica a tutti noi quando ha dovuto trattare con i cardinali, con i sacerdoti, con certe situazioni specifiche che si sono solo accennate nel manifesto?
No, assolutamente. La risposta, infatti, ce la fornisce la stessa frase riportata dai manifesti. Non bisogna scervellarsi tanto per arrivare a questa semplice conclusione e capire che chi ha voluto affiggere quei manifesti non aveva argomenti seri per convalidare la propria teoria. La Misericordia di cui ci parla ogni giorno Papa Francesco non è, infatti, la sua “personale” misericordia o la misericordia di una sua individuale linea “politica”. Papa Francesco ci parla e ci racconta della misericordia di Gesù Cristo, non della sua. Il Santo Padre ci parla del Vangelo e dell’insegnamento del Cristo e non di una sua personale visione del mondo e dell’uomo.
Ecco, allora, che basta prendere in mano il Vangelo e fermarci su un passo di Giovanni, narrato al capitolo 2,14-16, per dare il giusto senso alle cose. “[Gesù] trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe, e i cambiavalute seduti al banco. Fatta allora una sferza di cordicelle, scacciò tutti fuori dal tempio con le pecore e i buoi, gettò a terra il denaro dei cambiavalute e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: Portate via queste cose e non fate della case del Padre mio un luogo di mercato”. Soffermiamoci su questo brano e chiediamoci come mai Gesù stesso, il Cristo misericordioso, nato per morire in croce perdonandoci tutti, abbia agito così duramente. Perché lo ha fatto? Perché ha rovesciato i banchetti dei cambiavalute e ha scacciato con una cordicella intrecciata coloro che avevano reso un mercato la casa del Padre? Come poteva il Gesù misericordioso comportarsi così? Era davvero necessario usare la sferza e cacciare tutti dal Tempio? Dov’era la misericordia di Gesù in quel momento?
Ecco la stessa domanda che gli anonimi autori dei manifesti ci hanno fatto trapelare per tentare di screditare ai nostri occhi l’operato del Papa: “… ma n’do sta la tua misericordia ?”. Basta questo per smascherare la fallacità di quel manifesto. La misericordia, quella di Gesù e di cui ci parla il Papa, non è sinonimo di buonismo, di lassismo, di noncuranza che sfocia nell’assoluto fatalismo delle cose che capitano. Non lo è affatto. La misericordia è ben altro che lasciar fare e non intervenire nelle situazioni che devono essere cambiate e che danneggiano l’uomo e la Casa del Padre. La misericordia riguarda l’anima dell’uomo, del singolo uomo, e non la sua azione corrotta e il suo comportamento errato e ipocrita. Qui sta la grande bugia raccontata in quel manifesto, il grande imbroglio che si è cercato di far passare mediaticamente grazie alla copertura che tutte le Tv hanno assicurato a quel testo diffondendolo in mondovisione. Tuttavia, a ben vedere, è stato un errore clamoroso, un autogol all’ultimo minuto. Quel messaggio ci racconta che chi lo ha pensato non conosce affatto il Vangelo o, forse, pur conoscendolo bene vuole raccontare ai fedeli qualcosa di molto diverso dalla realtà. Chi ha pensato quella frase del manifesto non ha agito da cristiano, da fedele di Gesù Cristo, da seguace del Vangelo. Non lo ha fatto non solo perché, come mi ha insegnato mia nonna da bambino, al Papa si deve sempre e comunque obbedienza, rispetto e lealtà, ma perché ha mentito sapendo di mentire. Chi ha ordito quella campagna di disinformazione verso il Papa, perché è di questo che si tratta, ha cercato di imbrogliarci, di farci deviare dal giusto sentiero, di gettare discredito e maldicenza usando la menzogna.
Il Pontefice è chiamato a compiere scelte, a prendere decisioni, ad assumere provvedimenti all’interno di una Chiesa in continuo movimento nei secoli e tra le società che cambiano. Non è certo un compito facile né invidiabile. Nel fare questo potrà anche sbagliare o avere dei dubbi, ma non si può mai mancare di rispetto o di lealtà. Non lo si può fare soprattutto dinanzi ad un Pontefice che più volte ha dichiarato e ha dato prova concreta di tenere più in considerazione chi lo critica che chi lo adula o, semplicemente, ne approva l’operato. Chi ha pensato quella frase e ha voluto metterla in un manifesto anonimo dovrebbe chiedersi prima di tutto quale beneficio ha portato la sua condotta alla Chiesa e alla fede che dice di voler tutelare. Chi si è nascosto dietro il vile anonimato dovrebbe interrogarsi sul suo essere cristiano e rileggersi con accuratezza il vangelo. Si accorgerebbe così che Gesù non ha mai usato l’anonimato, non ha mai fatto dire agli altri ciò che pensava, non si è mai nascosto dietro frasi pensate e fatte dire da altri. Si accorgerebbe inoltre che Gesù ci ha esortato a parlare chiaro, a dire Si Si e No No, ad essere reali testimoni della nostra fede e del nostro comportamento quotidiano, ad assumerci ogni nostra personale responsabilità. Al Papa si deve obbedienza e lealtà non per cortigianeria ma perché così si serve la Chiesa, intesa come comunità universale dei fedeli. Chiesa che già ha tante sfide davanti a sé e non ha proprio alcun bisogno di manifesti anonimi che cercano soltanto, in modo subdolo e calunnioso, di disorientare i fedeli e di alimentare quelle divisioni tra i cristiani che proprio Gesù ci ha chiesto di evitare in ogni modo. (Damiano Serpi – ©copyright)

Pubblichiamo questa riflessione per gentile concessione del sito d’informazione religiosa: ilsismografo.blogspot.it