24 Ottobre 1917: Caporetto, la disfatta umana e militare dell’Italia. Intervista ad Arrigo Petacco

(contrasto)

La battaglia di Caporetto è diventata simbolo di disfatta nel linguaggio comune: la principale sconfitta dell’esercito italiano nella storia causò migliaia di morti, decine di migliaia di feriti, oltre a una quantità incredibile di prigionieri e sfollati. Il disastro fu l’effetto della mancanza di un piano strategico dei vertici militari, le cui conseguenze furono gravose: la ritirata, la pesante occupazione del Friuli e del Veneto e la violenza sulle donne, l’esodo della popolazione locale, il grave problema dei prigionieri italiani lasciati a morire nei lager dell’impero, il rientro in patria dei superstiti e l’ostruzionismo nei loro confronti, il doloroso recupero delle salme. «I soldati hanno mollato» si sostenne al comando vedendo la falla aperta e la disfatta profilarsi.Il famigerato Generale Cadorna telegrafò al ministro della Guerra affibbiando la responsabilità della sconfitta a «dieci reggimenti arresisi senza combattere». Una menzogna quella di Cadorna:  perché, invece, i pesanti sacrifici umani molti soldati che resistettero, permisero ad altri la ritirata. Per ricordare quella disfatta militare abbiamo intervistato il giornalista, e scrittore, Arrigo Petacco. Petacco è coautore con il giornalista spezzino Marco Ferrari di un bel saggio, appena pubblicato da Mondadori, Caporetto. 24 ottobre – 12 novembre: storia della più grande disfatta dell’esercito italiano.

Arrigo Petacco, incominciamo questa “chiacchierata”  con il dire che “Caporetto” non esiste, o meglio si tratta di una storpiatura fatta dagli italiani di un nome sloveno, che esiste, ci spieghi come nasce questa “invenzione”…

Nel nostro reportage spieghiamo che Caporetto non esiste, è solo un’invenzione italiana durata qualche decennio. La Caporetto finita nei libri di storia si chiama in realtà Kobarid – e così si è sempre chiamata – , sta in Slovenia, faceva parte dell’impero austro-ungarico da 400 anni e soprattutto non esisteva un solo italiano all’anagrafe comunale del 1915. Una sola persona, Caterina Medves, parlava italiano quando i soldati di Cadorna arrivarono nel paese il 25 maggio del 1915. Per fortuna Kobarid conserva una buona memoria della battaglia grazie ad un Museo e ad un gruppo di collezionisti che ancora oggi estrae dalle trincee e dalle caverne il materiale usato dai soldati sui due fronti. La cittadina slovena è infatti ricca di piccoli musei, collezioni private, le trincee sono state recuperate, i viaggi nella memoria di discendenti di soldati sono costanti. Riemergono così in tutta la loro drammaticità storie individuali e collettive di una guerra che ancora parla e si presenta con le sue atrocità.

Se il nome è “inventato”, quella battaglia sull’alto Isonzo , invece, fu una catastrofe umana e militare. Cosa avvenne in quella sera nefasta del 24 Ottobre di un  secolo fa?

Nelle ore della battaglia avvennero le cose più incresciose che l’esercito italiano abbia mai conosciuto: i cannoni di Badoglio non spararono, il 60% dell’artiglieria fu mal posizionata in prima linea, il fondo valle dell’Isonzo venne incredibilmente lasciato libero, le postazioni italiane sotto il monte Mrzli e il monte Vodil, giudicate inespugnabili, caddero come birilli, interi reparti scapparono e altri, lasciati soli in prima linea, si consegnarono al nemico non essendo più funzionanti le comunicazioni.

Ma Caporetto fu soprattutto una vittoria dell’esercito tedesco e austro-ungarico con la tecnica delle Stosstruppen, piccole unità mobili e autonome, capaci di penetrare nel terreno avverso, magari aggirando le trincee per impedire i rifornimenti alla truppa, per distruggere le comunicazioni, minare le strade e fare attentati. Erwin Rommel compì una impressionante avanzata da una montagna all’altra e in 50 ore catturò 150 ufficiali e 9.150 soldati. A Caporetto si sperimentarono anche armi nuove: mille tubi lanciagas a comando elettrico liberarono nelle trincee italiane una miscela sino ad allora sconosciuta e l’87° Reggimento della Brigata Friuli, 1.800 uomini schierati in ricoveri e caverne, fu sterminato. I soldati usarono la mitragliatrice portatile Leich Maschinen 08/15 che scaricava 550 colpi al minuto sino a duemila metri di distanza senza mai avere le canne riscaldate. Nel totale ogni battaglione tedesco aveva 36 armi automatiche contro le 14 italiane.

Quali erano gli obiettivi militari di Cadorna? Perché   saltarono? Che rapporti aveva con la truppa?

Cadorna e i suoi subalterni non si parlavano. Nelle lettere del generale si trova in anticipo una descrizione precisa di quanto sarebbe accaduto il 24 ottobre: lo sfondamento della piana di Plezzo verso Caporetto e lo sfondamento da Tolmino verso la stessa località. Mancò il piano di risposta. Perché? Probabilmente, viste le incomprensione tra generali italiani, non si gettò giù un programma di razionalizzazione delle forze in campo. Inoltre i generali consideravano i nostri soldati, gran parte contadini analfabeti, carne da macello: questo portò a oltre 650 mila morti in tutta la guerra. Nella sola battaglia di Caporetto si contarono 11.600 italiani morti, 30 mila feriti, 350 mila sbandati, 300 mila prigionieri e 400 mila profughi.

E se non ci pensava il nemico, bastava poco per finire davanti al plotone di esecuzione. I nostri soldati furono uccisi per mano amica, come hanno raccontato poi tanti reduci: gente che non sopportava di andare al macello per nulla, per conquistare una buca o una trincea, per fare avanzare la linea di difesa di qualche metro. Spesso si camminava su prati di cadaveri, specialmente nelle notti buie. Gente finita davanti al plotone di esecuzione per insubordinazione, insurrezione, sciopero, fuga o per puro caso.

Diamo qualche cifra di quell’immane carneficina che si compì in quella  terra slovena…

Alla fine delle dodici battaglie dell’Isonzo si può parlare di catastrofe umanitaria: tra caduti, feriti e prigionieri 160 mila italiani e 125.000 austro-ungarici. L’idea di una rapida avanzata verso Vienna, propria di Cadorna, si impantanò sull’Isonzo.

Lo Stato Maggiore  italiano (o per meglio dire il Generale Cadorna) addossò la colpa della disfatta alle truppe. Una vergognosa impostura messa in giro da Cadorna per giustificare la sua incapacità . E’ Così Petacco?

“I soldati hanno mollato” si sostenne al comando vedendo la falla aperta e la disfatta profilarsi. Cadorna telegrafò al ministro della Guerra affibbiando la responsabilità della sconfitta a “dieci reggimenti arresisi senza combattere”. Ma non era vero: con pesanti sacrifici umani molti soldati resistettero, permettendo ad altri la ritirata. Al di là dei nomi dei reparti, si trattava di uomini in carne e ossa, giovani e meno giovani, persone sposate o piene di sogni, che lasciarono la loro vita sul terreno di battaglia per salvarne altre. Cadorna giustificava la sconfitta dando la responsabilità ad un esercito di leva inadatto e impreparato alla guerra e soprattutto alla guerra di trincea. A questa concezione aderiva gran parte dell’esercito di carriera che trattava i coscritti come uomini da mandare al macero. Un rapporto disumano che si manifesò sino a che Cadorna non venne sostituito da Diaz. Così durante l’intera Grande Guerra davanti ai tribunali militari comparvero 323.527 imputati di cui 262.481 in divisa (162.563 accusati di diserzione), 61.927 civili e 1.119 prigionieri di guerra. Il 60 per cento dei processi si chiusero con la condanna degli imputati: 4.028 dibattimenti si conclusero con la pena capitale (2.967 con gli imputati contumaci). Quasi un decimo dei mobilitati subì indagini disciplinari”.

Caporetto è una tragedia assoluta anche sul piano sociale. Parliamo dei profughi, famiglie intere costrette a lasciare quelle terre. All’inizio furono bene accolte nel resto d’Italia..poi sopraggiunse un sentimento aspro di diffidenza e pregiudizio. Caporetto significa anche questo?

Il numero dei profughi salì a un milione e mezzo. Quasi tutti dovettero attendere la fine del conflitto per rientrare a casa, nel 1919 e nel 1920. Nel periodo di lontananza non mancavano i pregiudizi verso i nuovi venuti per una naturale diffidenza e per la scarsa conoscenza delle abitudini, ma soprattutto per il fatto che la loro presenza diminuiva la distribuzione dei generi di prima necessità. Talvolta anche i patronati e i comitati locali erano maldisposti verso i nuovi venuti che agivano come gruppi a sé stanti. Questo clima di pregiudizio creò del malcontento e mise ai margini della società i profughi che si sentivano esiliati in patria.

Dopo la disfatta si furono le “vendette” compiute da Cadorna e dai suoi generali contro le povere truppe. Una delle pagine bieche nella storia militare italiana. Come avvenivano queste vendette?

Più la Grande Guerra andava avanti, più gli episodi di crudeltà si moltiplicavano, anche perché aumentavano le insofferenze verso le morti inutili, gli assalti inconcludenti per conquistare qualche metro di terra, gli ordini assurdi dei superiori. Allora la via prediletta dai comandi era quella della decimazione. Di qui lo sbandamento di 350 mila soldati nella rotta di Caporetto, tutti inviati in campi di rieducazione. Negli stessi campi finirono i 600 mila prigionieri italiani nell’impero austro-ungarico alla fine del conflitto. Per loro rimase l’onta della disfatta di Caporetto, una macchina indelebile.

E la politica di allora come reagì a questa catastrofe  ?

I tedeschi e gli austro-ungarici avevano compiuto una marcia di 22 chilometri in tre giorni sfondando tutta la difesa italiana. La travolgente avanzata portò le truppe germaniche a raggiungere Udine alle ore 14 del giorno 28 ottobre.  Il disfacimento italiano era totale. La rotta di Caporetto aprì un varco militare ma innestò soprattutto la grande paura tra gli italiani che videro cadere i principi fondanti del giovane stato. Caporetto aprì una crisi di governo e la politica reagì l’avvio di un nuovo esecutivo di unità nazionale. L’entrata in campo del generale Diaz riuscì a dare vigore all’esercito con una mitigazione del pesante regime disciplinare, con uno sforzo propagandistico a difesa della patria e con un’attenzione privilegiata alle condizioni della truppa. A ciò si deve aggiungere un atteggiamento difensivo dell’esercito senza inutili stragi o effimere avanzate, senza grandi battaglie campali o conquiste di vette innevate difficili da tenere. Prima dell’ottobre 1918 ci si limitò a contenere e annientare gli attacchi nemici senza lanciare offensive. Gli austro-ungarici fallirono l’assalto decisivo sul Piave nel giugno 1918, mentre i tedeschi si dissanguarono sul fronte occidentale. Le composite etnie dell’impero si sentirono logorate dalla guerra, non più unite ma attraversate da nuove spinte autonomistiche che coinvolgevano le popolazioni locali, sfiancate da anni di conflitti, privazioni, requisizioni e dalla leva obbligatoria che toglieva le braccia migliori dalle campagne e dall’industria. Di qui la decisione italiana di riprendere l’offensiva che partì dal monte Grappa nell’autunno del 1918, un anno dopo Caporetto,  e che si concretizzò in quella che è chiamata «la battaglia di Vittorio Veneto». L’armistizio del 3 novembre a Villa Giusti di Padova e la cessazione delle ostilità il giorno successivo, sanciti dal generale Armando Diaz, portarono un sollievo nel paese dopo l’infausto 1917 che resterà per sempre nella memoria storica degli italiani l’anno di Caporetto.

IO E LEI. Una donna nell’oscurità della sclerosi multipla. INTERVISTA A FIAMMA SATTA

Nel mondo si contano circa 2,5-3 milioni di persone con SM, di cui 600.000 in Europa e circa 114.000 in Italia. E’ una malattia grave, altamente invalidante, la scienza ha fatto progressi per combatterla. Ma siamo ancora lontani dalla cura definitiva. I malati di SM fanno i conti ogni giorno con le grandi difficoltà quotidiane create dalla malattia. Non mancano, però, bellissime testimonianze di resistenza alla malattia. Quella che vi proponiamo oggi, in questa intervista, è la testimonianza di Fiamma Satta. Fiamma Satta è una giornalista romana, voce storica di Radio 2. Per oltre vent’anni è stata autrice e interprete, con Fabio Visca, della serie quotidiana “Fabio & Fiamma”. Il 1993 è l’anno in cui le viene diagnosticata la sclerosi multipla, che però non ha fermato le sue passioni: prima di questo ha scritto quattro libri, ha collaborato con Vanity Fair e dal 2009 firma, sulla Gazzetta, il blog “Diversamente aff-abile, diario di un’invalida leggermente arrabbiata“.  L’ultimo suo libro, IO E LEI. Confessioni della sclerosi multipla (Ed. Mondadori, pag. 134), sta avendo un grande successo e sta facendo discutere per la sua originalità. Ne parliamo con l’autrice.

copertina libro Fiamma Satta

Fiamma, devo confessarti che ho trovato geniale il libro. Il titolo trae, volutamente, in inganno. La voce narrante è la Sclerosi Multipla. IO E LEI, la Sclerosi Multipla, che ha vissuto anni, come scrivi nel romanzo, nell’ “oscurità più profonda” della donna in cui alberga, definita dalla malattia la “Miagentileospite”, che sei tu. Nel libro la SM afferma che solo pronunciare il suo nome mette paura. È stata questa la tua reazione nel “reale”? 

Fiamma Satta: Credo che sia la reazione di chiunque. La SM incute paura a tutti, malati e non, come ogni altra grave malattia cronica invalidante e degenerativa.

La SM è dissacrante, irascibile, sadica (prova orgasmi multipli quando  ti terrorizza con momenti di sofferenza, ovvero quando prosegue  nella demielinizzazione delle fibre nervose). Spara a zero su tutto e tutti. Su di te è spietata, “piccola decerebrata”, e sui lettori non è da meno, definiti “uditorio miserrimo” (dice anche di peggio per la verità). Il tutto condito da una grande dose di ironia e auto ironia. Questa potenza dissacrante rappresenta, non so se ho colto bene, anche i tuoi momenti di rabbia nei confronti della malattia? 

Fiamma Satta: Probabilmente nella costruzione del personaggio della voce narrante, la SM, ho intercettato le mie zone più scure, tra le quali è presente anche la rabbia.

Eppure questa potenza inesorabile, in preda a deliri di onnipotenza, conosce i suoi lati di fragilità. E questi sono rappresentati anche dalle tue vittorie sul piano fisico. Cioè quando ancora dimostri la tua autonomia. Però la sua rabbia esplode quando la tua autonomia diventa psicologica, mentale, ovvero quando affermi il tuo diritto a vivere. È così?

Fiamma Satta: Sì. L’acquisizione di autonomia, fisica o mentale, è indigeribile per la SM.

Nel tuo racconto, immerse nella narrazione della sclerosi, offri indirettamente anche qualche consiglio ai malati. Qual è il più importante?

Fiamma Satta: Concludere prima possibile il percorso dell’accettazione della malattia, tenere presente che anche per chi gravita intorno al malato non è facile accettarla e condividerla, e fare sempre e comunque fisioterapia.

 La voce narrante, la SM, non ha grande stima dei tuoi amori maschili. Nel reale è stato difficile l’amore?

Fiamma Satta: Il libro è un romanzo d’amore vagamente biografico e racconta la difficoltà per una coppia di tener saldo il timone in caso di tempesta.

Cosa ti ha “donato” la Sclerosi?

Fiamma Satta: La SM, come ogni altra malattia grave, è una forma di conoscenza e quindi un’opportunità di conoscere il mondo e se stessi.

Cos’è, alla fine per te, la Sclerosi Multipla? Una lente d’ingrandimento sui limiti della società italiana?

Fiamma Satta: Certamente è anche uno strumento di indagine sulla scarsissima attenzione al prossimo, soprattutto quello in difficoltà, che c’è nel nostro paese.

Ultima domanda: Il libro sta avendo grande accoglienza e sono state molte le presentazioni in giro per l’Italia. Un libro, come ha scritto Giampiero Mughini, che fa sentire “piccoli” di fronte alla potenza della tua testimonianza. Hai ricevuto lettere dai lettori o da qualche lettore malato di sclerosi? Se sì, cosa ti hanno scritto?

Fiamma Satta: Ricevo in continuazione, attraverso i social, lettere e messaggi dai sempre più numerosi lettori appassionati di IO E LEI. Molti di loro sono essi stessi malati di SM, che mi ringraziano di averlo scritto, di aver individuato temi universali, di aver descritto così approfonditamente la malattia e di aver dato loro e a chi gli sta vicino l’opportunità di comprenderla e accettarla.

 

Quale Nuova politica per l’Italia ? Intervista a Marco Damilano

Marco Damilano (Contrasto)

Il Nuovo è stato la via italiana al governo e alla politica. Ora sembra smarrito, per incapacità di elaborazione, fragilità culturale, inconsistenza progettuale. Ma nessuna restaurazione del passato è possibile. E l’Italia ha bisogno di una nuova politica, per uscire da questo limbo senza riforme e senza partiti, senza destra e senza sinistra, senza vecchio e senza nuovo. Serve un Nuovo che sia ricostruzione, rigenerazione. Allora la domanda è: quale nuova politica? Ne parliamo con Marco Damilano, vicedirettore del settimanale L’Espresso, che ha dedicato all’argomento un libro, appena uscito in libreria, dal titolo “Processo al nuovo” (Editore Laterza, pagg. 149, € 14,00)

Marco Damilano, il tuo libro è un processo radicale alla categoria del “nuovo” nella politica italiana. Un concetto assai evanescente … è cosi?

«Certo, ma anche affascinante. Il nuovo in questi venti anni è stato qualcosa di più di una forma comunicativa: è stato una sostanza. Giulio Bollati in “L’italiano” ha scritto anni fa che il trasformismo di fine Ottocento è stato la via che l’Italia si è data per modernizzare il Paese, con tutte le storture che conosciamo. Direi che allo stesso modo in questi ultimi decenni il nuovo – i leader che si sono presentati con la caratteristica del nuovo – è stata la via che la politica si è data per mascherare la verità di un paese che ha attraversato una lunga stagione di declino. E in questo, alla fine, si è rivelato evanescente, inadeguato. E lo dico dal punto di vista di uno che alle innovazioni politiche e istituzionali ha creduto e continua a credere».

La tua analisi parte dalla fine degli anni ’70. L’emergere della figura di Bettino Craxi, con il progetto della “Grande Riforma Costituzionale”, l’idea, cioè, di cambiare il Paese attraverso le Riforme. Una idea anticipatrice del renzismo….? O, per meglio dire, quanto craxismo c’è nella politica italiana di oggi?

«Nel 1979 Craxi scrive sull’Avanti, il quotidiano socialista, un editoriale intitolato “Ottava legislatura”, in cui lancia l’idea della Grande Riforma delle istituzioni. Siamo poco dopo l’omicidio di Aldo Moro, il vero spartiacque della storia repubblicana italiana: con il suo assassinio si interrompe il processo di autoriforma dei partiti e il peso della crisi della politica, che è una crisi di rappresentanza della società, si sposta sulle istituzioni e sulla Costituzione. L’altra innovazione craxiana è il cambiamento del partito socialista: da partito delle correnti a partito del capo, a forte leadership personale. In questo c’è l’anticipazione di alcuni fenomeni dei decenni successivi: il berlusconismo, il renzismo. Anche se Craxi si muoveva ancora, almeno all’inizio, in una situazione in cui la politica era forte. E la parola riforma richiamava tra i cittadini l’idea di un cambiamento in meglio. Mentre negli anni più vicini a noi ha assunto un significato opposto: restringimento dei diritti, tagli dello Stato sociale. E questo capovolgimento semantico pone un problema in più ai riformisti di tutta Europa».

Gli anni ’80 sono gli anni del conflitto sulla modernizzazione della politica italiana tra De Mita e Craxi…Incominciava anche la crisi del PCI di Berlinguer. Chi  vinse la battaglia sul nuovo? De Mita parlava di superare le categorie “Destra” “Sinistra” .  Venne sconfitto, perché Troppo avanti De Mita? Oppure era inconsistente il progetto?

«Per De Mita il superamento delle categorie di destra e sinistra significa rilanciare la Dc in un sistema bipolare che già allora il segretario della Dc voleva costruire. La Dc non si era mai definita come partito conservatore o di centrodestra, per De MIta deve diventare il partito dell’innovazione, contrapposto al Pci che in questo schema diventa il partito della conservazione, e al Psi di Craxi con cui c’è la sfida per la modernizzazione. Com’è finita, lo sappiamo. Hanno perso tutti. Nessuno è riuscito davvero a cambiare il sistema politico italiano. E l’economia negli anni Ottanta si è sviluppata a prescindere dalla politica».

Gli anni si chiudono con Il CAF…La restaurazione pura……è così?

«Craxi finisce ingabbiato nell’alleanza con Andreotti e Forlani, le destre democristiane. E manca il grande appuntamento con la storia, la caduta del muro di Berlino e la trasformazione del Pci. Il suo tramonto comincia qui».

Arriviamo agli ’90. L’esplosione, dopo Tangentopoli, del “nuovo”. Fu il “vero” nuovo? Oppure si può dire che la Seconda Repubblica non è mai nata?

«Oggi possiamo dire che Mani Pulite fu una rivoluzione soltanto giudiziaria. Quelle inchieste travolsero i partiti perché la loro crisi si era già consumata, ma non furono in grado di costruire un autentico cambiamento politico, e d’altra parte questo compito non poteva essere affidato ai giudici e ai pm. Servivano comportamenti nuovi, come scrisse già in quegli anni lo storico Pietro Scoppola. E nuovi partiti, nuovi leader, che arrivarono, in effetti, ma con il volto del berlusconismo. Che è stato nuovo, nuovissimo nelle forme, ma non ha cambiato il Paese: il ventennio del Cavaliere in politica si è concluso con un bilancio avvilente».

L’Ulivo fu il grande sogno. IL PD è la realizzazione del sogno?Considero l’Ulivo di Romano Prodi alla metà degli anni Novanta il momento di massimo equilibrio tra innovazione e tradizione, con un leader che si proponeva come sintesi di culture diverse e non come padrone del suo campo. Un tentativo ambizioso di cambiare la politica italiana: la democrazia dell’alternanza, il potere di decisione affidato ai cittadini, nella scelta dei candidati con le primarie e dei governi con sistemi elettorali coerenti con questo obiettivo. Il Pd è nato troppo tardi e in una situazione completamente mutata: di crisi economica, di crisi politica e di crisi culturale. E il sogno è rimasto tale, fino a trasformarsi, come avviene in questi giorni, in un incubo: l’incubo del ritorno della Prima Repubblica senza i partiti della Prima che avevano comunque il loro ruolo».

Torniamo per un attimo agli anni 68-70. Moro parlava di “Tempi nuovi” , ben altro spessore rispetto alla vacuità di  oggi ….

«A differenza di quello che ha scritto una certa pubblicistica Moro non era pessimista, guardava alle novità con curiosità e con acume. Erano i tempi nuovi del grande cambiamento degli anni Sessanta-Settanta. La mia generazione ha vissuto uno sconvolgimento maggiore: la globalizzazione, la rete. Ma oggi questi cambiamenti fanno paura. Se si parla di caduta dei muri vengono in mente immigrazione selvaggia, dumping sociale e terrorismo globale, Trump ha vinto per questo motivo: sul clima ha contrapposto gli interessi degli operai americani a quello mondiale della tutela ambientale. Se si parla di internet non viene più in mente l’agorà democratica ma le fake news e la post-verità. Se si pensa all’Europa c’è la crisi dell’euro. E mancano politici come Aldo Moro in grado di pensieri lunghi: sono in gran parte schiacciati sul presente, sull’istante, sull’ultimo tweet.

Monti, Renzi e Grillo. Il nuovo diventato vecchio..Per Renzi poi l’eterogenesi dei fini gli ha giocato un brutto scherzo. Come si svilupperà il “renzismo” nei prossimi anni?

«IN questi giorni c’è una nuova trasformazione: da leader sindaco d’Italia, come immaginava il sistema fondato sull’Italicum, Renzi sta diventando il segretario di un partito che dovrà fare una coalizione con alleati scomodi, Forza Italia e Berlusconi. Da uomo della competizione a capo del Pd come “argine della tenuta democratica del Paese”, così lo ha definito nel discorso del Lingotto a Torino prima di essere rieletto segretario del Pd. L’argine è qualcosa di solido, ma anche di statico, immobile. Quello che si prepara a essere Renzi nei prossimi anni: l’amministratore di una importante rendita di posizione, non più il leader che si gioca tutto su una sfida e che se perde va a casa. Lui ha perso ma è rimasto al suo posto, per interpretare la stagione opposta a quella precedente. La stessa parabola sta seguendo il Movimento 5 Stelle: da partito di lotta si appresta a diventare una casa accogliente per un nuovo tipo di establishment. Lo vedremo nei prossimi mesi: cambiamenti di pelle, nuovi trasformismi».

Nella parte finale del libro scrivi:  “Dopo gli uomini del Nuovo –scrive Damilano, – per salvare e difendere le innovazioni serviranno gli uomini della transizione, gli eroi della ritirata, personaggi alla frontiera tra il vecchio e il nuovo, destinati all’incomprensione e non spaventati dall’impopolarità, disposti a rinunciare a qualcosa di se stessi e della loro narrazione. Uomini del ponte, alternativi alla richiesta di uomini forti che avanza in Occidente”. Pisapia?

«Non so se Pisapia riuscirà ad avere queste caratteristiche. Di certo la risposta non è la restaurazone dei vecchi partiti e delle vecchie culture (rifare la sinistra, rifare la Dc…), ma un’innovazione che non sia puramente di facciata. E di questi uomini e di queste donne ci sarà sempre più bisogno. Perché altrimenti il nuovo continuerà a consumare se stesso. Accelerando la crisi della politica».

La strategia dell’inganno

1992-93. Le bombe, i tentati golpe, la guerra psicologica in Italia.

Un libro di Chiarelettere

 

La strategia dell inganno

IL LIBRO

L’autrice, giornalista d’inchiesta, ricostruisce, in questo libro uscito oggi nelle librerie, Il periodo più nero della nostra Repubblica. La grande crisi di sistema che colpì l’Italia tra il 1992 e il 1993, e che trovò soluzione nella nascita della Seconda repubblica, è segnata da avvenimenti tragici dai risvolti ancora non chiari. Il cosiddetto golpe Nardi, l’assalto alla sede Rai di Saxa Rubra da parte di un gruppo di mercenari in contatto con la Cia, le stragi di Milano, Firenze, Roma, quelle mafiose di Palermo, il black-out a Palazzo Chigi, e in mezzo Tangentopoli, gli scandali del Sismi e del Sisde, la fine dei partiti storici, la crisi economica.

La sequenza di avvenimenti di quel biennio ricostruita in questo libro ha qualcosa di impressionante e fa pensare a una regia che passa attraverso le nostre stesse istituzioni. Come dimostra l’autrice, tutti questi fatti portano il segno di una grande opera di destabilizzazione messa in pratica anche con la collaborazione delle mafie e con l’intento di causare un effetto shock sulla popolazione, creando un clima di incertezza e di paura, e disgregando le nostre strutture di intelligence.

Centinaia di testimonianze, inchieste, processi hanno offerto le prove che in Italia è stata combattuta una guerra non convenzionale a tutto campo e sotterranea.

Furono azioni coordinate? E se sì da chi? Non lo sappiamo. Di certo tutte insieme, in un contesto di destabilizzazione permanente, provocarono un ribaltamento politico generale. Un golpe a tutti gli effetti.

 

L’AUTRICE

Stefania Limiti è nata a Roma ed è laureata in Scienze politiche. Giornalista professionista, ha collaborato con “Gente”, “l’Espresso”, “Left”, “La Rinascita della Sinistra”, “Aprile”. Da anni si dedica alla ricostruzione di pezzi ancora oscuri della nostra storia attraverso la lettura delle sentenze giudiziarie e interviste ai protagonisti. Risultato di questo lavoro giornalistico sono stati i tre libri finora pubblicati con Chiarelettere: L’Anello della Repubblica, Doppio livello e Complici. È attualmente indagata per non aver rivelato, relativamente alla strage di Capaci, le fonti usate nel libro Doppio livello. Stefania Limiti ha seguito con molta attenzione anche la questione palestinese. Ha scritto I fantasmi di Sharon (Sinnos 2002), nel quale ha ricostruito la strage nei campi profughi di Sabra e Shatila e le responsabilità libanesi e israeliane, e Mi hanno rapito a Roma (l’Unità 2006), sulla vicenda del sequestro da parte del Mossad di Mordechai Vanunu, che mise l’Italia sotto i riflettori del mondo intero nel 1986. Inoltre ha realizzato un’inchiesta sul dossier voluto dai Kennedy sull’assassinio di JFK dal titolo Il complotto (Nutrimenti 2012).

Per gentile concessione dell’Editore pubblichiamo un estratto del libro

   

Questo libro

 

Si è voluto, con l’uomo dal passamontagna,

creare una indelebile, ossessiva immagine del

terrore. Il terrore della delazione senza volto,

del tradimento senza nome. Si è voluto deliberatamente

e con macabra sapienza evocare il

fantasma dell’Inquisizione, di ogni inquisizione,

dell’eterna e sempre più raffinata inquisizione.

(Leonardo Sciascia, L’uomo dal passamontagna)

 

Avete presente il colpo di Stato classico, quello realizzato con

i carri armati e l’assalto al palazzo del governo? Bene, dimenticatelo.

Perché la grande crisi di sistema che colpì l’Italia tra il 1992

e il 1993, e che trovò soluzione nella nascita della Seconda repubblica,

passa attraverso sentieri tortuosi, avvenimenti incerti

e patti segreti: una via di mezzo tra il golpe cileno e la sfilata

della maggioranza silenziosa al seguito del generale Jacques

Massu, il torturatore d’Algeria che spianò la strada al generale

Charles de Gaulle.

 

Si susseguirono rapidamente molti eventi in quel biennio,

e, purtroppo, non è possibile stabilire un loro principio ordinatore.

Sarebbe affascinante, magari tirando un solo filo, far

crollare tutto e guardare in faccia l’unico responsabile. Ma assai

più adatta al nostro caso è la visione gaddiana delle cose:

per il commissario Francesco Ingravallo le catastrofi impreviste

non hanno mai un’unica causa, come sostengono alcuni filosofi,

ma sono generate da svariati motivi. Nel caso dei cicloni,

quelli che riservano a tutti una fase di profondo e generale

sconvolgimento, quelli che cambiano la vita delle persone e

di un paese intero, cercare un’unica causa è solo una perdita di

tempo. E il biennio che aprì gli anni Novanta è molto simile a

quel gaddiano «punto di depressione ciclonica nella coscienza

del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità

di causali convergenti». L’insieme dei fatti diventa un «nodo o

groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire

gomitolo. […] L’opinione che bisognasse “riformare in noi il

senso della categoria di causa” quale avevamo dai filosofi, da

Aristotele o da Emmanuele Kant, e sostituire alla causa le cause

era in lui [don Ciccio] una opinione centrale e persistente». Per

l’ineffabile commissario il «pasticciaccio» non può che essere

l’insieme delle cause che hanno generato il delitto e che vorticano

come un mulinello attorno all’investigatore.

 

Gli avvenimenti di quel biennio raccontati in questo libro

hanno il segno del golpe. Il politologo americano, «brutalmente

repubblicano» (Come lo definisce Enrico Deaglio), Edward Luttwak diede alle stampe nel 1968 un

famoso «manuale pratico«, aggiornando l’ormai ingiallito lavoro

di Curzio Malaparte, e definì il colpo di Stato «l’infiltrazione

di un settore limitato ma critico dell’apparato statale e del

suo impiego allo scopo di sottrarre al governo il controllo dei

rimanenti settori». In Italia andò proprio così. Senza esercito o

blitz nei centri nevralgici del potere ma attraverso una sottile e

strisciante «strategia dell’inganno», furono messe in pratica diverse

azioni che avevano le caratteristiche delle operazioni psicologiche

(PsyOps) e che ebbero un enorme impatto mediatico,

un effetto shock sulla percezione della sicurezza nazionale e la

disgregazione delle nostre strutture di intelligence. Furono azioni coordinate? Non lo sappiamo. Se agì una sovrastruttura della destabilizzazione – in passato si era verificato

–, lo fece nel profondo della clandestinità e ci vorrà tempo

perché affiori uno straccio di prova della sua esistenza.

 

Con meno incertezza possiamo affermare che agì una dimensione

clandestina dello Stato. Nella cosiddetta Prima repubblica

aveva funzionato un delicato equilibrio tra il sistema democratico-

parlamentare, pubblico e legittimo, fondato sull’antifascismo,

e un lato occulto del potere fondato sull’anticomunismo.

Una sorta di doppia conventio ad excludendum: una democrazia

costituzionale, edificata sull’esclusione dell’estrema destra neo-

fascista e sull’inclusione del Partito comunista, e una pratica

anticostituzionale che legittimava la destra neofascista ed escludeva

i comunisti e la sinistra. Fortissime furono le pressioni sulla

vita politica italiana, esercitate in forme spesso illegali, affinché

quel doppio regime funzionasse, soprattutto attraverso l’uso

dei gruppi terroristici e della criminalità organizzata. Questi

ultimi sedimentarono anche legami tra determinati apparati

dello Stato e i propri rappresentanti, condizionando la storia

italiana, forse ben oltre le dimensioni oggi note.

 

Nel mondo postcomunista non è andata molto diversamente.

Durante la nostra Seconda repubblica ha agito un livello

pubblico del potere e un’entità sconosciuta, espressione di interessi

particolari e potenti, un deep State, per usare un termine al

quale recentemente si fa spesso ricorso. Sdoganato dalla stampa

anglosassone dopo il coup dei militari in Egitto nel 2013, ma

usato per la prima volta in Turchia nel 1996, il deep State (Mike Lofgren, The Deep State. The Fall of the Constitution and the Rise of a Shadow Government , Penguin Books, Londra 2016) si

riferisce a quegli apparati segreti o meno, comunque sovrastatali

e fuori da ogni controllo politico-elettorale, in grado di usare

risorse umane e finanziarie tali da determinare le sorti di una

nazione. Taluni utilizzano quest’ampia categoria in riferimento

ai regimi illiberali, altri ad esempio per indicare il complesso

di interessi che ha agito e affondato molti progetti dell’amministrazione

Obama. In ogni caso, non è in discussione la sua

esistenza, semmai il suo modo di essere nelle determinate circostanze.

È un potere antidemocratico embedded, incistato, nelle

strutture democratiche del potere, cane da guardia degli interessi

di una piccola parte a scapito di una maggioranza disgregata,

impoverita e senza voce. Proprio come quello che ha agito

nel nostro paese nell’ultimo decennio del Novecento.

 

Stefania Limiti, La strategia dell’inganno 1992-93. Le bombe, i tentati golpe, la guerra psicologica in Italia, Editrice Chiarelettere ,Milano 2017, pp. 288, € 16,90

 

 

“Non volevo morire vergine”.
Intervista a Barbara Garlaschelli

Un libro forte, che fa emozionare. E’ davvero un inno alla vita quest’ultimo libro della scrittrice milanese Barbara Garlaschelli. “Non volevo morire vergine”, uscito da poco nelle librerie, pubblicato dalla Piemme (pagg, 199, € 17) è il racconto della sua lotta contro i tabù e i pregiudizi: “ad un certo punto -dice l’autrice – mi sono resa conto che se volevo davvero “non morire vergine” (e intendo non solo da un punto di vista sessuale ma di vita) dovevo ribaltare a mia favore il fatto di essere su una sedia a rotelle”. Così con ironia, ed autoironia,ma anche con molta serietà e fermezza  vediamo la trama della sua lotta per riappropriarsi della sua sensualità. Ne parliamo in questa intervista con l’autrice. Per il libro è previsto un tour di presentazioni in tutta Italia. Presentazioni che avverranno in una forma originale: ovvero portando in giro il libro non nella solita forma della classica presentazione, ma come reading musicale, accompagnata da Stefania Carcupino, alla fisarmonica e al canto. Il reading ha il padrocinio dell’Associazione culturale Tessere Trame (tesseretrame.com). La foto che pubblichiamo, per gentile concessione, è tratta dalla pagina Facebook dell’autrice ed è stata realizzata dalla fotografa Paola Cominetta.

Barbara, confesso che leggere il tuo libro mi ha emozionato, commosso ed ho anche riso (la tua ironia ed autoironia è micidiale). Tu in questo libro rompi diversi tabù. Il primo, secondo me, è quello di aver reso pubblica la paura (concreta, vera, realissima) che un disabile ha nel manifestare i suoi sentimenti, il suo desiderio carnale. Come hai fatto a demolire questo tabù?

L’ho demolito vivendo la paura e cercando di venirne a patti. Ho impiegato molti anni per superarla (tra l’altro la paura è uno dei temi che tornano spesso nei miei romanzi, e non intendo i due autobiografici). La paura è una formidabile sfida perché ti costringe a decidere cosa fare della  vita: se rimanere inchiodata a lei oppure sfidarla – e quindi sfidare te stessa – e andare oltre. Ma la paura, comunque, è sempre lì, in agguato. 

Tu sei una scrittrice, di talento, affermata. Quanto ti ha aiutato la scrittura nel superare la paura?

​La scrittura è stata fondamentale perché mi ha offerto gli strumenti tecnici per raccontare qualcosa che, a tratti, appare irraccontabile. Se non fossi stata una scrittrice non avrei mai potuto farlo.​

L’origine letteraria del libro, diciamo così, è stata la pubblicazione di post comici, su Facebook, sul tema “sesso e disabilità”.  Che hanno avuto un gran successo. Ed è sicuramente un bel segno. Ti chiedo: pensi che nella mentalità, comune, sia superata quel tipo di idea che vede nel disabile uno “sfigato” in particolare sul piano affettivo e sessuale? Io temo di no, parlo della mentalità italiana che è ancora legata alla cultura greca e latina della forza…Un canone che si è affermato in Occidente. Qual è il tuo parere?

Abbiamo ancora molta strada da fare in Italia. Qui il disabile è visto, spesso, come un essere asessuato, da curare e coccolare, che non ha pulsioni, aneliti, desideri. Mentre i disabili sono donne e uomini come tutti e hanno diritto a vivere ciò che vogliono. Non siamo una categoria protetta ma essere umani con pari diritti, doveri e dignità degli altri. Allo stesso tempo non si possono negare gli oggettivi limiti e quindi non bisogna nemmeno incorrere nell’ipocrita affermazione “siamo tutti uguali” perché non è vero, nel senso che chi ha dei problemi deve anche avere gli strumenti necessari – assistenza medica, accesso a luoghi pubblici senza barriere, soldi per vivere –  per poter avere una vita come gli altri.

A questo proposito ho letto che una grande rivista ha rifiutato di pubblicare le tue foto con tuo marito. Perché?

 Ufficialmente perché non adatte, ufficiosamente perché c’erano “troppo corpo e troppe tette”. Vorrei sottolineare che queste foto, scattate anni fa da Paola Cominetta, grande fotoreporter con in cantiere un bellissimo progetto – di cui anche queste foto fanno parte – su sensualità e disabilità fermo perché nessuno ha avuto, ad oggi, il coraggio di sponsorizzarlo, sono foto bellissime e nient’affatto volgari. Certo, c’è molto “corpo” e molta sensualità. E forse il fatto che io e mio marito non siamo modelli che corrispondono ai canoni richiesti da questo genere di riviste ha pesato. Però sono state pubblicate altrove e in riviste anche molto famose, come “Vanity Fair” o quotidiani come “La Stampa”. per non parlare di Facebook dove avevo postato il pezzo in cui raccontavo la vicenda, con foto annesse e che è stato condiviso da centinaia di persone.

Torniamo al libro. Nel libro ti vediamo all’opera nel demolire il primo grande tabù : quello della sedia a rotelle. E’ stato un cammino lungo. Fino a diventare, per paradosso, uno strumento di seduzione…Nel senso che la tua persona non si esauriva nella sedia a rotelle ma la  sedia enfatizzava la tua sensualità. E’ così?

 Sì, è così. Ad un certo punto mi sono resa conto che se volevo davvero “non morire vergine” (e intendo non solo da un punto di vista sessuale ma di vita) dovevo ribaltare a mia favore il fatto di essere su una sedia a rotelle. Mi sono detta: la gente mi guarda perché sono su questo mezzo di trasporto, bene e allora io faccio in modo che mi guardino perché sono bella, seducente.​

​ E ho cominciato a “usare” il mio corpo e la mia mente seguendo questa direzione: quella del “sedurre”.​

 L’altro tabù che demolisci è quello corporale. Non neghi, ovviamente, il limite. Ma c’è stato un cammino di riappropriazione del tuo corporale. Un cammino mentale (la ferma volontà di “non voler morire vergine”) e poi fisico (sono belle le pagine in cui descrivi le sensazioni, gli orgasmi come massima riappropriazione del corpo e della mente). E’ così?

​Sì, per molti anni ho negato a me stessa una parte di vita affettiva, di sensi, d’amore. Ed era parte enorme e importante quella legata al mio corpo che ho dovuto incominciare ad amare di nuovo, anche se era un po’ cambiato (esternamente non molto, ma la sensibilità, per esempio, in parte era sparita. Non sapevo se avrei potuto provare piacere facendo l’amore, se avrei potuto farlo provare ). E’ stato un universo da esplorare. Ed è stato difficile ma anche di straordinaria vitalità ed entusiasmo.

Il dolore quanto ti ha aiutato a maturare?

​Il dolore non mi ha aiutato. Io lo ripeto spesso: il dolore è un limite enorme, un’ingiustizia per chi lo subisce. Io ne ho provato e ne provo ancora molto ed è un ulteriore handicap. Se mi ha insegnato qualcosa è stato combatterlo e a non lasciarmi soggiogare da esso, ma è una battaglia giornaliera. Sogno di svegliarmi una mattina senza dolori, né grandi né piccoli. ​

 Prima di incontrare Giam​paolo, tuo marito, hai conosciuto altri uomini. E, alcuni non ne escono bene, quale era il loro limite più grave?

Che erano degli “omarini” come li definiva mio padre Renzo. Uomini attratti da me ma senza il coraggio di vivermi fino in fondo, di prendersi una responsabilità. Mi hanno fatta soffrire ma si sono persi molte cose belle, credo. (Non sono molto modesta, ma è ciò che penso in tutta sincerità. E la sincerità è un elemento fondamentale in questo libro.) Per fortuna ne ho incontrati anche di meravigliosi.

 Cosa hai fatto per conquistare tuo marito?

Ho messo in mostra tutta la mia bellezza! E poi è scattato un amore reciproco e una forte attrazione da subito. Quando l’ho visto per la prima volta, come racconto nel libro, mi ha colpito la sua bellezza. Poi ci siamo conosciuti meglio e l’amore è diventato forte e solido, ma il nostro è stato davvero un colpo di fulmine. Credo che se entrambi non ci fossimo piaciuti fisicamente la storia sarebbe andata in modo molto diverso. ​

 Nel tuo cammino di emancipazione la tua naturale sensualità e bellezza ti ha aiutato molto. Così come la visione della sessualità non bacchettona. Però senza la tua famiglia, dalla mentalità aperta, rispettosa dei tuoi diritti e sentimenti, il tuo percorso sarebbe stato più difficile. Un ruolo importante l’avuto tuo papà. Perché ?

Io ho sempre avuto un rapporto di grande complicità e intimità con i miei genitori, questo anche prima dell’incidente, ed è stata una grande fortuna perché non abbiamo dovuto costruirlo da zero. E sia mia madre che mio padre volevano che io vivessi tutto della vita. Mio padre, soprattutto, trovava inaccettabile che mi fosse negata quella parte di universo fatta di amore e sensi con l’altro sesso. E mi hanno sempre aiutata, mai criticata, anche quando facevo scelte discutibili, e spalleggiata.

E il fatto di avere un aspetto gradevole è stato senz’altro d’aiuto. Ma questo aspetto me lo sono conquistata negli anniCi ho impiegato molto a fare emergere la femmina che era in me.

Ultima domanda: Il libro inizia con l’acqua e finisce con l’acqua . Un finale profondo….

​Nasciamo nell’acqua e questo cordone ombelicale io non l’ho mai spezzato, anche se è lì che la mia vita si è trasformata, mio malgrado, dopo un tuffo in acqua bassa, al mare​. In acqua, ma soprattutto nel mare, mi sento libera, senza peso. Ho una resistenza che non mi sogno di avere sulla terraferma sulla quale fatico a respirare, a spingermi. In acqua ho tutta la forza che fuori non ho. Non c’è niente che sia pacificante e accogliente come il mare. Forse il corpo di mio marito.