Fake news e Politica. Intervista a David Puente

Oggi ci occupiamo di “Fake news” . Quali sono le caratteristiche delle Fake news? Come sono utilizzate? Ne parliamo, in questa intervista, con David Puente giornalista del sito www.open,online (fondato da Enrico Mentana).

David, tu sei diventato il debunker più importante in Italia e non solo. Con te affrontiamo il tema delle, “Fake news”. Un tema complicato. Ti chiedo: quali sono le caratteristiche di una “Fake news”? Qual è il meccanismo psicologico che porta, qualcuno, a credere a queste bufale?

Le emozioni. Hai presente le pubblicità? Ognuna di queste punta a un target, il cliente da raggiungere tramite un messaggio e delle immagini che lo coinvolgano. Le bufale vengono create con la stessa strategia, le “vittime” reagiscono emotivamente e tendono a cascarci. Chiunque può cadere in trappola, nessuno escluso, ma c’è chi reagisce, non condivide, conta fino a 10 e inizia a domandarsi se ciò che ha letto è vero. Questa pratica è difficile perché per attuarla bisogna “lottare contro se stessi” e le proprie emozioni.

Sappiamo che esistono diversi tipi di Fake news: si va dalla burla fino alla vera e propria diffamazione… Un ampio panorama troviamo nel web… In questi ultimi anni non sono mancati casi clamorosi. Quale è stata quella che ha fatto maggior danni (morali e politici)?

Non una, ma diverse, sono state fatte ai danni di Laura Boldrini. False citazioni, falsi parenti super pagati alla Camera, avevano persino infangato il nome della defunta sorella. Qualcuno le definiva goliardate, anche un parlamentare della Lega ne aveva condivisa una, ma dopo una lunga chiacchierata su Twitter ha chiesto scusa all’allora Presidente della Camera.

Il web, lo sappiamo, è un “luogo” frequentato da utenti di qualsiasi genere. Tu, per lavoro, combatti contro gli “avvelenatori dei pozzi”, come li chiama il giornalista Enrico Mentana. Chi sono quelli attualmente più attivi?

Da anni opera ancora indisturbato uno xenofobo, suprematista bianco e falso cristiano che gestisce un sito internet di nome Voxnews.info. A volte mi chiedono se sono troppo duro anche nel definirlo “pervertito sessuale”, gli ho ricostruito anni di vita online e so di cosa parlo. Nonostante gli abbia bloccato gli introiti da Google e altre aziende che fornivano banner pubblicitari al suo sito, continua a diffondere disinformazione mirata tipica degli estremisti di destra. Del resto, il progetto del suo sito nasce sul forum Stormfront dove erano stati arrestati e condannati a Roma, e in via definitiva, alcuni dei suoi membri.

Sappiamo che la politica usa il web non solo per la propaganda ma, soprattutto, per condizionare il consenso. Nel web, così, entrano in azione i team specializzati, le così dette “Bestie”, per questo lavoro di condizionamento…. Qual è la stata, per quello che riguarda l’Italia, la fake news su cui si è costruita una vera e propria guerra mediatica?

Non ne vedo una in particolare, ne ho viste e ne vedo tante. Intanto la “Bestia” non è un software o un algoritmo, parola che viene spesso usata per dire tutto e nulla. Non parliamo di sistemi automatizzati, di bot o cose del genere, in pratica vengono sfruttati i temi e i sentimenti del momento per ingaggiare l’utente. Guardiamo l’ultima di Salvini con la Nutella, ha distratto l’opinione pubblica sfruttando la notorietà di nuovi biscotti. Una che ritengo tutt’oggi vuota nel paniere delle prove è la “fabbrica dei troll” di Sanpietroburgo, ci sono già abbastanza reti locali di troll e non servono quelli russi.

Le forze sovraniste fanno uso di Fake news?

Tutti, in un momento o l’altro, hanno diffuso volontariamente o involontariamente una notizia falsa. Lo dicevamo prima, ci può cascare chiunque e diffonderla è un attimo, che tu sia sovranista, di destra, di sinistra o di centro. Noto che buona parte arrivano da utenti anonimi caratterizzati da una ideologia di destra, anche estrema, e purtroppo gli altri ci vanno dietro danneggiando la loro stessa figura politica.

Qual è il social più usato per la diffusione di Fake news?

Bella domanda, ma la mia preoccupazione ora non sono i social ma i dark social, ossia tutte qui sistemi di comunicazione criptati dove non è possibile avere delle statistiche di condivisione e viralità. Sono le chat di WhatsApp, Telegram, una volta andavano molto le mailing list. Facebook e Twitter vengono molto usati, ma non sappiamo quanto le notizie false stiano realmente circolando in questi ambienti chiusi.

Veniamo, per un attimo, all’attualità politica. Mi riferisco al dibattito sul MES (MECCANISMO EUROPEO DI STABILITÀ). ti chiedo : qual è la stata la più clamorosa?

Sostenere che non si sapeva niente del MES. Le teorie di complotto fanno parte della propaganda, purtroppo.

Hai un consiglio da dare per difendersi dalle Fake?

Non lasciatevi prendere per il naso, prima di condividere una notizia, una foto, un audio, che sia su Facebook, Twitter o la chat di calcetto, dedicate un minimo del vostro tempo a verificare. Immaginate di giocare ogni volta alla settimana enigmistica, potrebbe diventare un ottimo esercizio mentale.

Fake News e mondo reale. Due facce della stessa medaglia. Intervista ad Antonino Caffo

Oramai le “bufale” fanno parte della nostra vita anche se riconoscerle non è mai semplice.
Le “Fake News” sono entrate prepotentemente anche nella polemica politica. Il giornalista
di Panorama, esperto di social e nuove tecnologie, Antonino Caffo, in questa intervista, ci
spiega perché sono uno dei mali della “società connessa” e come tutelarsi.

Caffo, le “bufale” sono sempre esiste. Adesso, nell’opinione pubblica, si
ha come la sensazione di un venire meno dell’autorevolezza della fonte.
Insomma siamo così disarmati di fronte alle fake?
Il motivo principale delle fake news è la viralizzazione. Nell’era dei social e
nella continua ricerca dei click, anche i siti di informazione più autorevoli
hanno imparato a sbattere in prima pagina, insieme agli articoli “seri”, altri
costruiti ad-hoc per attirare l’attenzione. Quando quel sottile filo che lega
curiosità e verità si spezza allora è tutto più difficile. Basti pensare all’esempio
del portale “Lercio”, fondato proprio per fare il verso a un mondo che pare
andare avanti più con le bufale che con la realtà e che sull’estrema
viralizzazione della notizia fake ha basato tutto il suo successo. Oggi “Lercio”
macina migliaia di contatti e decine di articoli, che sono sempre là, da leggere
come qualsiasi altro ma nessuno si scandalizza. La bufala è entrata a far
parte della vita sociale di ognuno. Il difficile è capire dove finisce la verità e
comincia la finzione.

E infatti sappiamo che non è molto complicato costruire una fake news
ma lo è, invece, smascherarla. Perché? C’è un modo per difendersi?
Proprio per quanto detto prima, se le persone hanno oramai interiorizzato la
possibilità che qualcosa letto online (e non solo) potenzialmente è falso, può
anche accettarlo. Una volta la televisione era considerata “il verbo” mentre
adesso anche i giornalisti in TV rischiano di trattare una bufala come un fatto
accaduto realmente. I mezzi per difendersi dovrebbero essere gli stessi usati
dai giornalisti: la verifica. Abbiamo letto di un immigrato che ha rubato o
violentato una ragazza a Trieste? Chi lo dice? Un sito nazionale, locale
oppure un piccolo blog? C’è qualche stralcio sul portale della polizia o delle
autorità competenti? Non ci si può nemmeno fidare di presunte
testimonianze: bastano due minuti a creare un profilo Facebook e postare ciò
che si vuole, per rendere tutto ancora più verosimile. Il punto è: una certa
notizia è in grado di farmi cambiare opinione circa un argomento? Se è così
allora meglio approfondire, per non rischiare di essere manipolati da qualcosa
che non esiste oppure costruito proprio per creare disordine.

Nel calderone delle “fake news” si incrociano diversi livelli: da quello
politico all’economico. Cioè le bufale possono diventare anche un
business?
L’esempio di “Lercio” è calzante ma non solo. Spesso ci si dimentica che le
fake news vengono presentate come un articolo vero e proprio, corredato di
titolo e sommario. Vale allora la pena considerare non solo le bufale ma
anche i tentativi di “clickbait”, ancora più complessi. Si tratta di articoli con un
titolo, diffuso sui social, creato appositamente per attirare l’attenzione, senza
che poi all’interno del testo si verifichi quanto promesso. I clickbait più famosi
sono quelli che in passato aggiornavano sulla situazione dell’ex campione di
Formula 1 Michael Schumacher. Su Facebook circolavano post del tipo
“Incredibile in casa Schumacher: clicca per leggere cosa è successo”. Beh, la
notizia sconvolgente spesso era che il figlio del pilota aveva cominciato a
correre. Insomma: si stimola un’emozione facendo pressione su questa per
poi veicolare dell’altro. Non si tratterà di fake news ma ci andiamo molto
vicino. Tutto ciò incrementa il business editoriale nostrano che pompa notizie
più o meno false per portare traffico a pagine web dove sono presenti banner
e pubblicità degli sponsor. Più persone visitano il sito più quelli annunci
saranno visti, generando entrate economiche e business.

In questi mesi abbiamo “scoperto” che ci sono Stati che hanno
costruito infrastrutture per creare “fake news” e che utilizzano per la
propaganda politica per destabilizzare l’Europa. Mi riferisco alla Russia
di Putin. Attraverso quali canali avviene la propaganda russa?
Grazie a una “gola profonda” di San Pietroburgo, è stato scoperto che esiste
un’organizzazione chiamata Internet Research Agency che nella seconda
città più grande della Russia aveva messo in piedi una vera redazione atta a
redigere notizie false, partendo dalle questioni in Crimea per arrivare alle
elezioni USA del 2016 e alla Brexit. Decine di ragazzi, peraltro pagati anche
più di quanto prendono i giornalisti di fascia media in Italia, hanno prodotto
una montagna di contenuti verosimili, cioè non spiccatamente fasulli ma
nemmeno rispondenti a fatti concreti. Spingendo tramite post sponsorizzati
tali articoli online, la Russia è riuscita (almeno così pare) a manipolare le
coscienze di molti “indecisi” riguardo a situazioni lontane (l’Ucraina appunto)
ma anche di interesse diretto (come il voto negli Stati Uniti e in Gran
Bretagna). Presentando una fazione politica migliore di un’altra (Trump vs
Clinton, Brexit vs Europa), l’agenzia ha sicuramente contribuito a far pendere
le scelte di chi non era convinto di certe posizioni.

Sul piano della propaganda politica la Rete è un mezzo potente. Vedi
l’inchiesta di “Buzzfeed”, su alcuni siti che si sono rivelati vicini ad
un’associazione cattolica ultraconservatrice, e il “New York Times” che
ha svelato la propaganda di “Lega” e “5 Stelle” il cui regista è un certo Marco Mignogna di Afragola. L’inchiesta è stata molto criticata dai due
soggetti politici. Al di là di questo, resta un dato di fatto: le bufale sono uno strumento di propaganda politica per i movimenti populisti di
destra. Attraverso questo riescono a veicolare messaggi devastanti su
immigrazione ed euro. Sono esagerati gli allarmi? Non pensa che,
invece, possano creare un clima pericoloso?
Alla fine, tutto questo clamore pur giusto sulle fake news ha contribuito a
innalzare il livello di attenzione su ciò che leggiamo online. Con gli strumenti
giusti, più educativi che informatici, le persone possono ben capire quando un
politico sta estremizzando un evento cercando di porre una questione a
proprio favore. Internet ci ha donato un potere enorme: quello di poter
controllare all’istante se qualcosa di già accaduto è vero o falso. Quando un
partito nomina tasse, pensioni, trend di furti e delitti, per dimostrare una
propria supposizione, bastano 5 minuti su Google per capire se ciò che dice
corrisponde a qualcosa di vero o no. Qui poi si apre un altro interessante
filone: chi ci assicura che Google sia un contenitore di realtà? Chi può
mettere la mano sul fuoco sugli argomenti presenti su Wikipedia? Del resto
tutta la storia dell’uomo viaggia su una lunga strada a due corsie: verità da
una parte, bugia dall’altra: sono gli incroci quelli più pericolosi.

Può essere utile una legge per contrastare le fake?
Sicuramente ma non se rimane su un foglio di carta. Nessun giudice potrà
mai bussare alle porte di tutti i navigatori del mondo per controllare se quello
che scrivono online ha una base di concretezza o è solo finzione. Serve
dunque la collaborazione di chi gestisce il traffico in rete, delle piattaforme
social, degli editori. Già Facebook ha messo in campo un algoritmo in grado
di penalizzare i profili e le pagine che producono fake news, così come
Google lascerà negli ultimi risultati di ricerca i link che si riferiscono a siti non
certificati o segnalati come fonte di bufale. Fin quando l’interesse sul tema
rimarrà così alto combattere le fake news resterà difficile: un agente che
convince un investitore a creare un banner su un certo portale visitato da
milioni di persone, seppur produttore di fake, continuerà a farlo, con il solo
scopo economico che lo guida. La necessità è di scardinare l’intera industria
che vive di bufale, per renderle non solo innocue ma controproducenti.

Alla scoperta dell’ “Internet delle cose”. Intervista ad Antonino Caffo

Si è aperta giovedì a Roma, al Parco della Musica, la mostra “Maker Faire Rome 2014”, un evento dove i cosiddetti “artigiani digitali” mettono in mostra le più importanti innovazioni tecnologiche. Questo ci offre l’occasione di parlare dell’Internet delle cose (“Internet of Things”). Lo facciamo con Antonino Caffo, giornalista dell’edizione on-line del La Stampa (www.lastampa.it) e Panorama (www.panorama.it).

Antonino CaffoCaffo, incominciamo con il dare una definizione di “Internet delle cose”, che a molti sembra un concetto astruso invece è un termine concreto. Cosa s’ intende con questo?

L’internet delle cose è la definizione che si utilizza per descrivere quelli oggetti inanimati, tra cui i classici che abbiamo con noi da anni, che adesso possono diventare intelligenti e scambiare informazioni connettendosi alla rete.
Un esempio sono i gadget che supportano l’attività fisica, come i braccialetti, con cui registrare i propri allenamenti, lo stato di salute e i risultati raggiunti o i cosiddetti smartwatch, che donano nuova luce ad un accessorio semplice come l’orologio, che ora può arrivare a compiere azioni molto complesse, degne di uno telefonino.
Il panorama dell’Internet delle cose è però nato per funzioni diverse come il controllo di grandi flussi di persone (ad esempio le telecamere connesse ai siti della polizia nel caso di concerti, eventi di interesse pubblico, manifestazioni) o il monitoraggio di complessi industriali.
La declinazione verso oggetti più vicini al pubblico è stata la naturale conseguenza dello sviluppo di internet e del successo degli smartphone. In questo senso il livello di educazione “digitale” ha permesso che altri tipi di oggetti, notoriamente noiosi come lampade, persiane e orologi, acquistassero maggiore interesse verso il consumatore.

Secondo l’economista Jeremy Rifkin la post-rivoluzione dell’IoT (internet of Things) sarà il motore decisivo per lo sviluppo planetario. Non è un po’ esagerato Rifkin?

Si pensi che secondo vari studi di ricerca entro il 2020 gli oggetti connessi alla rete (quindi anche quelli considerati IoT) saranno tra i 50 e i 200 miliardi. Questo vuol dire che tutti avremo con noi almeno un dispositivo in grado di andare su internet, che si tratti di uno smartphone, un tablet o un’automobile. È evidente che anche il commercio troverà in questo modo sbocchi ulteriori. Aziende che normalmente oggi offrono i loro prodotti su internet potranno pensare di sviluppare un’app per l’orologio così da avvisare gli utenti quando si trovano vicino ad un loro negozio e approfittare di un particolare sconto, oppure l’automobile potrà connettersi (in parte lo fa già) a sistemi di infomobility e scoprire come fare per evitare il traffico. Con questa logica potranno aprirsi delle partnership di collaborazione importanti, magari con le stazioni di servizio, di carburante o motel. Insomma il campo di azione, almeno per lo sviluppo di idee, è davvero illimitato.
In questo modo non solo si potrà dare nuovo spazio all’economia ma anche creare nuovi posti di lavoro con figure competenti, che sappiano interpretare e usare i dati inviati da dispositivi intelligenti con un fine particolare. Ad esempio ci vorranno persona che sappiano filtrare i dati sullo stato di salute inviati dalle persone al medico, oppure analisti che dovranno studiare come le persone usano le Smart TV (anch’esse parte del mondo IoT) per andare su internet, e quali applicazioni future potranno avere maggiore successo su questo apparecchio. Al contrario di chi sostiene che l’Internet delle cose farà perdere il lavoro a molte persone, a mio parere credo che avverrà il contrario, con la richiesta di figure sempre più capaci di dare un significato concreto ai dati analitici raccolti con tali dispositivi.

Una ricerca del Politecnico di Milano ha individuato ben sette macro-aree di applicazione dell’ “Internet of Things”: dalle smart-city alla sanità. Quali sono attualmente, in Italia, le maggiori applicazioni in questa logica?

Sicuramente siamo molto attivi nel campo delle Smart City. Le grandi città, come Roma e Milano, utilizzano varie apparecchiature che rientrano nella prima categoria individuata dall’Osservatorio Internet of Things del Politecnico. Semafori connessi a videocamere, rilevatori di fumo gestiti da remoto e quelle che vengono chiamate “smart grid” (gestione intelligente degli apparati elettrici e idraulici) sono una realtà. La sfida è poter trasferire questi dispositivi almeno in tutti i capoluoghi di provincia. Si tratta di tecnologie scalabili, ovvero che si possono adattare ad ogni situazione, con evidenti vantaggi e risparmi economici (ad esempio si potrà conoscere ciclo di vita di un tubo prima che si rompa concretamente e debba essere sostituito).
I cittadini forse non si accorgono molto di questi cambiamenti. Sotto questo punto di vista, l’IoT che sfonderà sarà di certo quello della categoria degli indossabili.

Una frontiera interessante sono gli “indossabili”. Ci spiega il significato?

Non bisogna confondere l’Internet delle cose con le tecnologie indossabili o wearable, concetto molto di moda ultimamente che è solo una delle declinazioni di IoT. Per indossabili ci si riferisce infatti a dispositivi capaci di comunicare con la rete, piccoli e da poter propriamente “indossare”. Che si tratti di occhialini, bracciali, orologi o fotocamere, siamo dinanzi ad accessori che hanno quasi perso la loro caratteristica principale per assumere forme e utilizzi diversi, grazie all’accesso alla rete. Possiamo considerare gli indossabili come una categoria dell’Internet delle cose. Di certo è quella più vicina alle persone per via dei costi più accessibili (ci sono braccialetti anche a meno di 100 euro) e della possibilità di essere portati sempre con sé (non mi sognerei mai di viaggiare con un rilevatore di fumo intelligente, mentre con uno smartwatch si, e avrebbe anche più senso).

Ultima domanda. Quali sono gli scenari problematici per questa frontiera?

Tante possibilità ma anche dubbi e problematiche riguardano la gestione dei cosiddetti Big Data, ovvero la raccolta di più informazioni su un individuo. Se fino a poco tempo fa tutto si limitava a ciò che contenevano smartphone e tablet, ora le informazioni sensibili sono un po’ ovunque e l’Internet delle cose farà elevare all’ennesima potenza il traffico di dati privati sulla rete.
Il problema è che ogni cosa che viaggia su internet è, almeno ipoteticamente, violabile dai criminali informatici. Più oggetti personali si connettono al web, più sarà ampio lo spettro a disposizione di queste figure per rubare i nostri segreti, o semplicemente informazioni personali che ci appartengono.
Non è un contesto da sottovalutare. Se un criminale dovesse entrare in possesso dei dati scambiati dal mio braccialetto per il fitness, che registra l’ora in cui sono uscito di casa, i chilometri trascorsi e il rientro, il ladro potrebbe verificare se esco di casa sempre alla stessa ora e in quali giorni. Entrare indisturbato per tentare un furto non sarebbe così un gran problema.
C’è un evidente problema sicurezza che va affrontato. Molto spetta alle aziende produttrici che devono assicurare la massima efficienza degli oggetti e dei canali di comunicazione (la necessaria crittografia dei file durante lo scambio, ovvero l’illeggibilità degli stessi ad occhi indiscreti) oltre all’affidabilità delle piattaforme che conservano i dati sensibili. Tre elementi fondamentali (hardware, software e cloud) che, assieme ad una corretta educazione delle persone, potranno decretare il successo o il fiasco dell’Internet delle cose.