Tecnocrazia versus Democrazia? Intervista ad Alfio Mastropaolo.

La nascita del governo Monti ha suscitato grande discussione nell’opinione pubblica italiana. Per qualcuno, esagerando, si è trattato della vittoria della “tecnocrazia”sulla “democrazia”. Per parlare di questo abbiamo intervistato il professor Alfio Mastropaolo, docente di Scienza Politica alla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Torino. Mastropaolo ha studiato a fondo il fenomeno dell’antipolitica e i problemi della democrazia. L’ultima sua opera, “La democrazia è una causa persa? Paradossi di un’invenzione imperfetta”, è uscita quest’anno per Bollati Boringhieri. Continua a leggere

“Lo Stato siamo noi”. L’attualità di Piero Calamandrei

In tempi di transizione, come questi che stiamo vivendo, è bene che ciascuno di noi ritrovi la propria memoria storica e politica. Bene ha fatto, così, la casa editrice Chiarelettere a pubblicare questa raccolta di interventi e scritti di Piero Calamandrei (“Lo Stato siamo noi”, pagg, 137. € 7,00).

Il libretto raccoglie interventi e scritti che coprono un arco temporale che va dal 1946 al 1956. Sono ripresi, nella maggior parte, dalla rivista “Il ponte”.
Il progetto che ha animato la vicenda umana e politica di Calamandrei è stato quello di “defascistizzare gli italiani” per fondare una nuova “religione civile” centrata sulla Costituzione del 1948. Su queste basi nasce la “cittadinanza attiva” dell’Italia repubblicana.
La visione del giurista fiorentino della Costituzione era una visione dinamica, si potrebbe dire progressiva: “Le Costituzioni – scriveva – vivono fino a che le alimenta dal didentro la forza politica”. Senza questo “spirito vitale” le costituzioni muoiono.
Per questo Piero Calamandrei, padre Costituente e tra i fondatori del Partito d’Azione, tra le figure più nobili della nostra storia repubblicana in un discorso ai giovani, giustamente celebre, tenuto a Milano nel 1955, nel salone dell’Umanitaria, affermava: “Quindi, voi giovani alla Costituzione dovete dare il vostro spirito, la vostra gioventù, farla vivere, sentirla cosa vostra, metterci dentro il vostro senso civico, la coscienza civica, rendersi conto – queste è una delle gioie della vita – rendersi conto che ognuno di noi nel mondo non è solo, che siamo in più, che siamo di un tutto, nei limiti dell’Italia e del mondo”.
E’ un appello, quello di Calamandrei, all’agire politico nobile, ad una visione della politica come “scienza della libertà”. Che non è la libertà individualistica, l’individualismo infatti afferma il tragico orgoglio dell’uomo che considera la propria sorte staccata da quella degli altri che il fascismo ha portato ad etica suprema con l’urlo animalesco del “me ne frego!” (in nome di questo poi si schiacciano popoli e nazioni). Quella intesa da Calamandrei,invece, è la libertà intesa come interdipendenza: “libertà come consapevolezza della solidarietà umana che unisce in essa gli individui e i popoli, come coscienza della loro dipendenza scambievole; come condizione di giustizia sociale (…) I popoli saranno veramente liberi quando si sentiranno, anche giuridicamente, “interdipendenti”. Il federalismo, prima che una dottrina politica, è la espressione di questa raggiunta coscienza morale della interdipendenza della sorte umana, che intorno ad unico centro si allarga con cerchi sempre più larghi, dal singolo al comune, dalla regione, dall’unione supernazionale alla intera umanità”.
Siamo agli antipodi della logica leghista dove il primato sta nella separazione, il “federalismo” della Lega è atomismo invece che interdipendenza.
Per concludere queste brevi note: dicevamo, poco sopra, del progetto di Calamandrei per creare una nuova “religione civile” centrata sulla Costituzione. Ebbene questa non può nascere dalla “desistenza”, che è sinonimo di passività, rassegnazione, ignavia, assenza di futuro, ma al contrario nasce dalla “resistenza” che parte, scrive Calamandrei, da un “sussulto morale che è stato la ribellione di ciascuno di noi contro la propria cieca e dissennata assenza”. Per questo “ora e sempre RESISTENZA”.

Le Macerie del berlusconismo. Intervista a Michele Salvati

L’Italia vive giorni pesanti. Si sta consumando una lunga fase storica: quella segnata dal berlusconismo. Il fatto politicamente importante nella giornata di ieri è stata la nomina, da parte del Presidente della Repubblica, del Professor Mario Monti a Senatore a vita. Questa nomina, tra l’altro, porterà, quasi sicuramente, ad un incarico per formare un governo d’emergenza. Per parlare di questo periodo decisivo per il destino del nostro Paese abbiamo intervistato il professor Michele Salvati, economista e Direttore della rivista ”il Mulino ed editorialista del “Corriere della Sera”. E’ autore di numerose pubblicazioni, l’ultima suo libro è uscito da poco per i tipi del Mulino: “Tre pezzi facili sull’Italia. Democrazia, crisi economica, Berlusconi”. Un’analisi chiara di alcune costanti dell’anomalia italiana, di cui la più interessante e significativa è quella di una difficile democrazia dell’alternanza.

Professor Salvati il Paese sta vivendo ore pesanti: lo spread ha toccato ormai un livello pericolosissimo. La fase conclusiva del berlusconismo (Berlusconi si dimetterà dopo l’approvazione della “legge di stabilità”) ci lascia un cumulo di macerie sul fronte economico e sociale. Lui che si è auto proclamato “uomo del fare” ha portato l’Italia ad un punto limite. Nel suo libro, “Tre pezzi facili per l’Italia” appena uscito per il Mulino, analizza la parabola berlusconiana. Le chiedo: qual è la radice della crisi del berlusconismo?

La radice sta nella sua incapacità di tenere fede al programma che con tanta baldanza aveva annunciato quando è “disceso” in politica, cioè un programma liberale, un programma che riflettesse sui bisogni di “riforme strutturali” del nostro Paese. Come si sa Berlusconi ebbe un primo breve termine, come Presidente del Consiglio, nel ’94 e presentò una riforma importante delle pensioni fatta da un eccellente economista, Onorato Castellino. Le reazioni a questa riforma liberale e profondamente giusta furono tali da parte della Lega (molto simili a quelle di adesso che non vuole toccare le pensioni d’anzianità) che il governo Berlusconi cadde, la Lega si staccò e ci fu una serie di governi che conosciamo: il governo Dini, le elezioni e il governo Prodi. In realtà i governi degli anni ’90 avevano cominciato ad affrontare i problemi di fondo del nostro Paese. Quando Berlusconi tornò al potere nel corso degli anni 2000 (2001-2006; 2008 ad oggi) di queste riforme profonde non si parlò più, perché il problema della popolarità, il desiderio di rincorrere la popolarità e quindi di evitare l’impopolarità che riforme così profonde creano, fecero si che Berlusconi non fece più nulla e anzi dicesse che tutto andava bene quando in realtà tutto andava male. Doveva continuare le riforme che avevano iniziato i governi tra il ’92 e il ’98 se devo dare una risposta da economista. Lascio del tutto da parte i problemi di inadeguatezza di Berlusconi sotto altri profili: politico, morale ecc, considero soltanto il profilo economico dove le riforme non le ha fatte, dando un’idea del tutto entusiastica ed erronea della situazione economica italiana.

La “II Repubblica” che doveva segnare il passaggio ad una democrazia “normale”, fatta di alternanza tra le coalizioni, in realtà, come scrive nel libro, si è configurata e polarizzata come uno scontro tra “berlusconiani” e “antiberlusconiani” (che richiama la vecchia divisione tra “comunisti” e “anticomunisti”). E’ sufficiente, secondo lei, l’uscita di Berlusconi per normalizzare la situazione? Oppure, in verità, anche l’attuale centrosinistra deve essere più convincente?

Che l’attuale centrosinistra debba essere più convincente è una domanda apprezzabile che mi sento anch’io di fare. Piuttosto la domanda che dobbiamo farci è la seguente: a parte il fenomeno Berlusconi possiamo considerare che i toni aspri e di scontro che ci sono stati tra Berlusconi e il centrosinistra, durante la II Repubblica, questo tipo di conseguenze che non hanno fatto bene al Paese siano eliminabili con l’eliminazione di Berlusconi? Detto in altre parole: è possibile avere un bipolarismo meno gridato e urlato, e più efficiente di quello che noi abbiamo avuto se al posto di Berlusconi si forma un centrodestra più, diciamo, “normale”? Questa è la domanda, perché molti, innanzitutto Casini che diventerà un “pivot” delle scelte politiche dei prossimi giorni, come vedremo, non la pensano così. Pensano che il nostro Paese sia inadatto a uno scontro frontale fra un centrodestra e un centrosinistra, cioè che anche senza Berlusconi ci saranno delle tensioni fortissime. Questo è un giudizio sul qual bisogna prendere posizione, perché da come si risponde a questa domanda dipende molto l’evoluzione del nostro sistema politico nei prossimi anni.

Ultima domanda: Gli osservatori stranieri imputano la crisi,tra l’altro, alla scarsa credibilità all’attuale governo italiano. Le chiedo lei è ottimista sulla possibilità di un “governo del Presidente”?

Ho l’impressione che due sono le possibili soluzioni. Una più probabile oggi che è quella di un brevissimo governo elettorale, affidato ad una personalità autorevole e riconosciuta o del centrodestra o del centrosinistra, per esempio Giuliano Amato, che prepari semplicemente il Paese alle elezioni e tenga sotto controllo la crisi economica. Deve essere una persona stimata anche a livello internazionale, affidabile per i mercati, con il compito fondamentale di far passare le riforme che i mercati ritengono essenziali e che, sia il Fondo Monetario sia l’UE ci stanno prescrivendo in dettaglio. Poi si va alle elezioni con questa legge elettorale con la possibilità che si formino di nuovo due blocchi, uno di centrodestra uno di centrosinistra, forse con un personaggio intermedio come Casini, che però non trova una facile collocazione né da una parte né dall’altra. Direi che se così avviene, la crisi continua.

L’altra possibilità è più azzardata perché non si trova nel Parlamento una quantità di voti che ne garantisca la solidità. Questo è un governo più ambizioso, un governo Monti, che non starebbe per un breve governo elettorale , ma per fare delle riforme più pesanti e avviare il nostro Paese al risanamento sia economico, sia politico-amminstrativo. A questo punto è fondamentale una nuova legge elettorale, che è molto discussa e controversa sia nel centrodestra che nel centrosinistra.

Queste sono le due possibilità che io vedo, ma certo non escludo che ce ne possano essere altre, come in extremis un rinvio di Berlusconi alle Camere. Io ho una fortissima preferenza per un governo Monti, cioè per un governo che abbia il tempo e lo spazio, non solo di stare e obbedire ai diktat del FMI o dell’ UE, anche se sono diktat ragionevoli date le nostre circostanze, ma anche di interloquire e di negoziare e che abbia lo stile internazionale sufficiente a condurre queste negoziazioni.

Laici e cattolici dopo Todi. Intervista a Giuseppe Vacca

Lunedì scorso si è svolto a Todi, in provincia di Perugia, l’importante Forum dell’associazionismo cattolico impegnato nel mondo del lavoro.  Un evento che ha fatto e fa discutere l’opinione pubblica laica e cattolica. Su questo evento abbiamo intervistato Giuseppe Vacca, storico delle Dottrine Politiche, Presidente della Fondazione Gramsci di Roma. E’ tra i maggiori intellettuali della Sinistra italiana ed europea.

A Todi si è assistito ad una rinnovata volontà d’impegno del laicato cattolico per una “buona politica”. Qual è il suo giudizio?

Il mio giudizio è molto positivo, perché il Convegno di Todi manifesta,o comunque giunge a conclusione di un periodo, relativamente breve, di ripresa della funzione nazionale del cattolicesimo politico, o detto in linguaggio più semplice, per il destino della nazione italiana da parte della Chiesa. Basti pensare a come la Chiesa italiana, e non solo italiana, il Papa hanno affrontato, trattato l’occasione del 150° della storia d’Italia. Quindi una ripresa d’impegno civile del laicato cattolico,di quella parte del mondo cattolico che anima l’idea di “popolo di Dio”, come viene definita dal Concilio Vaticano II, sicuramente costituisce una ricchezza messa a disposizione del Paese nella complessità dei suoi attori, forze politiche, culturali, di chi dedica la sua attenzione ai legami della società, degli strati meno protetti.

L’intervento del cardinale Angelo Bagnasco, al Forum di Todi, ha sottolineato, tra l’altro, la sfida “della metamorfosi antropologica” dell’uomo contemporaneo. Ribadendo così, ancora una volta, i “valori non negoziabili”.  In che misura questo pone un limite al confronto tra laici e cattolici? Oppure, al contrario, invece questa posizione può essere una ricchezza per il dialogo?

Il punto di maggiore interesse è esattamente la riaffermazione del ruolo specifico e autonomo del laicato rispetto a quelli che il magistero della Chiesa definisce “valori non negoziabili”,partendo da una messa a tema, ormai ampiamente condivisa da credenti e non credenti, di una percezione dell’umanità definita in termini di emergenza antropologica. Questo è un ulteriore passaggio che consente di definire, in termini più innovativi che in passato, le possibilità di collaborazione tra, credenti e non credenti, laici, cioè nella dimensione della laicità o di una nuova laicità, che non è più definita una volta per tutte dalla distinzione tra Stato e Chiesa, diciamo così.  Sia pure nelle forme di una forma concordataria di interessi reciproci e dei vecchi conflitti come è stata nell’Italia del novecento, a partire dal 1929.

Uno snodo fondamentale per una “buona politica” è la “nuova laicità”. In un documento sottoscritto da Lei, Barcellona, Tronti e Sorbi ritenete che la “nuova laicità” è il terreno comune per laici e cattolici. Come si declina la “nuova laicità”?

Esattamente partendo dalla affermazione per parte cattolica (è un tema fortemente presente nel pensiero, diciamo pure nella teologia, il Papa Benedetto XVI già da molto tempo, nel modo in cui ha ripensato il Concilio,  l’ha rielaborato anche in chiave teologica), di una visione della modernità come permeata da una tensione ma anche di una alleanza tra Fede e Ragione, tra scienza e religione. Questa è una visione  che lascia da parte ogni vecchio timore della Chiesa cattolica di sentirsi solo sfidata dalla modernità e quindi è un terreno per distinguere bene tra modernità e secolarizzazione e derive nichilistiche possibili nella secolarizzazione. Da parte dei non credenti laici la “nuova laicità” è un ritorno alla consapevolezza, il fatto che la religione, il fattore religioso è elemento costitutivo, positivo della comunità, mai riducibile alla pura sfera della coscienza interiore dell’individuo considerato come singolo nella forma più esasperatamente solitaria. Questo è il terreno comune per cercare di definire di volta in volta i temi della mediazione laica al di là delle vecchie distinzioni fra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio distinto dalla affermazione dello Stato nazionale moderno che si è costruito in Europa partendo dalle guerre di religione.

Tornando ai valori “non negoziabili”. Quello a cui si assiste, oggi in Italia, è una sorta di bipolarismo etico. Come superarlo?

Il bipolarismo etico negli ultimi venti anni è stata la conseguenza di una caduta della cultura della mediazione, di un impoverimento delle culture politiche per cui, da una parte è venuta crescendo una posizione opportunistica rispetto a quelli che la Chiesa ha declinato come valori non negoziabili, quasi che la funzione della politica per ragioni opportunistiche fosse quella di tradurre in normative conseguenti quelli che invece nella dottrina della Chiesa sono valori, ovvero criteri di coerenza del comportamento, validi sia per credenti e non credenti che poi affidano alla mediazione di laici la loro traduzione nella cultura della mediazione appunto, che è il fondamento di ogni ordinamento democratico. La democrazia si regge nella misura in cui di volta in volta i propri fondamenti attraverso la mediazione fra pluralità di fedi, culture. Dall’altra parte c’è stata una deriva radicale della cultura laica, quella che i credenti definiscono laicista, che ha pensato soltanto in termini d contrasto e di intrusione, invasione della propria sfera la predicazione e lì affermazione di valori non negoziabili. La definizione di valori non negoziabili è una definizione di valori non solo per i credenti ma anche per i non credenti che definisce la sfera dei principi che chiede, come dire, coerenza nel rapporto tra un’ispirazione etica, o religiosa che sia, e comportamenti. Come tale non è barriera per nessuno a condizione che non si voglia praticare una politica opportunistica verso i valori religiosi in un paese dove c’è la più alta autorità spirituale della Chiesa: c’è il Vaticano, c’è il Papato, e dall’altra parte verso una regressione, che ci porta persino molto più indietro del Concordato. Considerare la laicità come la definizione di una autonomia della politica a prescindere da qualunque fondamento di valore è una definizione assai povera della democrazia, anzi è qualcosa che non riesce a sostenerla, a stabilizzarla e a renderla felice.

Esiste ancora un “pensiero forte” di sinistra?

Devo dire con franchezza che la parola sinistra come la parola destra sono parole molto povere per definire la soggettività in campo nella loro ricchezza, nella loro pluralità e nei loro fondamenti. Io interpreto la domanda così: esiste nel pensiero moderno e contemporaneo, esistono filoni, autori classici, correnti ancora fertili, vitali per progettare fra credenti e non credenti insieme la comunità del futuro? Ma certo che esistono. Si può leggere il mondo di questa crisi, e non parlo della crisi degli ultimi tre o quattro anni, ma insomma questa enorme trasformazione che comincia negli anni sessanta e continua con mutamenti sempre più sorprendenti, si può arrivare a capirla nella prospettiva storica rinunciando per esempio a un pensatore come Marx o ad un pensatore come Gramsci? Io penso proprio di no. Se da questo poi si possa ricavare una nuova catechesi o ricettario per forze politiche, vecchie e nuove che si vogliono costituire sulla base di una dottrina, questa è altra questione, non più proponibile nei termini in cui è stata lungamente vissuta tra ‘800 e ‘900.

Ultima domanda: Il PD è all’altezza di tutte queste sfide?

La mia opinione, che qui si fa molto più di parte, è che il PD è l’unico progetto ideale, etico, politico concepito con una apertura verso il futuro e quindi con ricchezza di fondamenti possibili nella situazione italiana degli ultimi anni. Che possa dar vita o dar seguito alla crescita e allo sviluppo di un soggetto compiuto che sia coerente o all’altezza delle aspettative su cui il progetto è stato concepito, io credo che ci voglia molta buona volontà, il concorso di molte forze, più di quante finora non siano in campo e ci voglia, come sempre nella storia di soggetti collettivi organizzati, capaci di radici nella storia nazionale, un bel po’ di tempo.

Giovani e futuro: il manifesto di Romano Prodi

Assistiamo, in questo periodo, a molte manifestazioni cui protagonista è il variegato mondo giovanile.

Un esempio è la vicenda degli “indignados”. Che nasce in Spagna, si è poi diffuso in Israele, Cile e Stati Uniti. Il loro è un grido forte d’indignazione contro lo sfascio creato dal “turbocapitalismo” finanziario, che distrugge le speranze di una generazione. Anche il complicato mondo arabo è attraversato da grandi tensioni.

Insomma quest’anno, il 2011, sarà ricordato come l’anno della indignazione giovanile. Così il grido di un grande di Francia, il partigiano e diplomatico Stephane Hessel, “Indignez vous!” attraversa i continenti.

Un altro punto che dovrebbe far pensare è che questa generazione di giovani è senza interlocutori. Pochi riescono ad entrare in sintonia con loro. Pochi sanno ascoltare e pochi sanno leggere con esperienza questi fenomeni. E per limitarsi alla nostra Italia occorre riconoscere che sono pochissimi  quelli che hanno queste capacità.

Tra questi spiccano il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex Premier Romano Prodi.

Romano Prodi da quando ha lasciato la politica attiva nel nostro Paese (anche se con le sue  interviste non fa mancare la sua attenzione, con rigore, alle prospettive italiane ed europee) si dedica all’insegnamento dell’Economia nelle università cinesi e americane. Ebbene questa sua attività gli consente di essere a contatto con il mondo giovanile di società in fermento come quella cinese.

Ed è in questo contesto che esce per i tipi di Aliberti questo libretto, che è una intervista, “Futuro Cercasi” (pagg. 64, € 6,00).

Un vero manifesto contro la “cattiva politica” che ha allontanato i giovani dalla politica. Ora la politica è indispensabile ai giovani per la loro affermazione e per la loro ascesa. Ma, attenzione, per Prodi occorre una radicale cesura con il passato: “Quando parlo di giovani e politica io non parlo di età, parlo di autonomia. Perché se un giovane entra in politica semplicemente perché fa il portaborse di uno più anziano non è giovane, è portaborse. Entra come anziano. I nostri giovani in politica sono entrati in politica come anziani. Quante volte ho detto a dei ragazzi: affermati prima nella professione; entra forte con un tuo ruolo, perché se poi ti va male, perché se poi trovi dei momenti duri – perché la politica è dura – tu hai la tua professione, stai fuori dalla politica e puoi andare avanti con la tua vita. Se non hai questo, sarai sempre vecchio, perché sarai sempre nelle mani di qualcuno”.

Il punto strategico sta qui: i giovani devono crearsi un profilo forte. E questo passa solo attraverso lo studio e la formazione. Solo così il futuro torna dei giovani.

E il suo è un atto di accusa contro la logica del “corto periodo” che attraversa la politica italiana ed europea. In cui predomina la logica del “chi è fuori è fuori, chi è dentro è dentro”, una logica senza futuro ed egoista.

L’appello del Professore alla politica ed ai suoi protagonisti è cambiate paradigma: occorre dare consapevolezza e strumenti al mondo giovanile del loro futuro, deciso è far sentire ai ragazzi che hanno “gambe per correre”. E queste “gambe” può darle solo una istruzione elevata. Il futuro passa per l’eccellenza dello studio.

Di molto altro parla questo libretto, dove non si danno “ricette magiche” ma si da una lezione di metodo: ogni cosa va pensata al futuro.