Alla scoperta dell’ “Internet delle cose”. Intervista ad Antonino Caffo

Si è aperta giovedì a Roma, al Parco della Musica, la mostra “Maker Faire Rome 2014”, un evento dove i cosiddetti “artigiani digitali” mettono in mostra le più importanti innovazioni tecnologiche. Questo ci offre l’occasione di parlare dell’Internet delle cose (“Internet of Things”). Lo facciamo con Antonino Caffo, giornalista dell’edizione on-line del La Stampa (www.lastampa.it) e Panorama (www.panorama.it).

Antonino CaffoCaffo, incominciamo con il dare una definizione di “Internet delle cose”, che a molti sembra un concetto astruso invece è un termine concreto. Cosa s’ intende con questo?

L’internet delle cose è la definizione che si utilizza per descrivere quelli oggetti inanimati, tra cui i classici che abbiamo con noi da anni, che adesso possono diventare intelligenti e scambiare informazioni connettendosi alla rete.
Un esempio sono i gadget che supportano l’attività fisica, come i braccialetti, con cui registrare i propri allenamenti, lo stato di salute e i risultati raggiunti o i cosiddetti smartwatch, che donano nuova luce ad un accessorio semplice come l’orologio, che ora può arrivare a compiere azioni molto complesse, degne di uno telefonino.
Il panorama dell’Internet delle cose è però nato per funzioni diverse come il controllo di grandi flussi di persone (ad esempio le telecamere connesse ai siti della polizia nel caso di concerti, eventi di interesse pubblico, manifestazioni) o il monitoraggio di complessi industriali.
La declinazione verso oggetti più vicini al pubblico è stata la naturale conseguenza dello sviluppo di internet e del successo degli smartphone. In questo senso il livello di educazione “digitale” ha permesso che altri tipi di oggetti, notoriamente noiosi come lampade, persiane e orologi, acquistassero maggiore interesse verso il consumatore.

Secondo l’economista Jeremy Rifkin la post-rivoluzione dell’IoT (internet of Things) sarà il motore decisivo per lo sviluppo planetario. Non è un po’ esagerato Rifkin?

Si pensi che secondo vari studi di ricerca entro il 2020 gli oggetti connessi alla rete (quindi anche quelli considerati IoT) saranno tra i 50 e i 200 miliardi. Questo vuol dire che tutti avremo con noi almeno un dispositivo in grado di andare su internet, che si tratti di uno smartphone, un tablet o un’automobile. È evidente che anche il commercio troverà in questo modo sbocchi ulteriori. Aziende che normalmente oggi offrono i loro prodotti su internet potranno pensare di sviluppare un’app per l’orologio così da avvisare gli utenti quando si trovano vicino ad un loro negozio e approfittare di un particolare sconto, oppure l’automobile potrà connettersi (in parte lo fa già) a sistemi di infomobility e scoprire come fare per evitare il traffico. Con questa logica potranno aprirsi delle partnership di collaborazione importanti, magari con le stazioni di servizio, di carburante o motel. Insomma il campo di azione, almeno per lo sviluppo di idee, è davvero illimitato.
In questo modo non solo si potrà dare nuovo spazio all’economia ma anche creare nuovi posti di lavoro con figure competenti, che sappiano interpretare e usare i dati inviati da dispositivi intelligenti con un fine particolare. Ad esempio ci vorranno persona che sappiano filtrare i dati sullo stato di salute inviati dalle persone al medico, oppure analisti che dovranno studiare come le persone usano le Smart TV (anch’esse parte del mondo IoT) per andare su internet, e quali applicazioni future potranno avere maggiore successo su questo apparecchio. Al contrario di chi sostiene che l’Internet delle cose farà perdere il lavoro a molte persone, a mio parere credo che avverrà il contrario, con la richiesta di figure sempre più capaci di dare un significato concreto ai dati analitici raccolti con tali dispositivi.

Una ricerca del Politecnico di Milano ha individuato ben sette macro-aree di applicazione dell’ “Internet of Things”: dalle smart-city alla sanità. Quali sono attualmente, in Italia, le maggiori applicazioni in questa logica?

Sicuramente siamo molto attivi nel campo delle Smart City. Le grandi città, come Roma e Milano, utilizzano varie apparecchiature che rientrano nella prima categoria individuata dall’Osservatorio Internet of Things del Politecnico. Semafori connessi a videocamere, rilevatori di fumo gestiti da remoto e quelle che vengono chiamate “smart grid” (gestione intelligente degli apparati elettrici e idraulici) sono una realtà. La sfida è poter trasferire questi dispositivi almeno in tutti i capoluoghi di provincia. Si tratta di tecnologie scalabili, ovvero che si possono adattare ad ogni situazione, con evidenti vantaggi e risparmi economici (ad esempio si potrà conoscere ciclo di vita di un tubo prima che si rompa concretamente e debba essere sostituito).
I cittadini forse non si accorgono molto di questi cambiamenti. Sotto questo punto di vista, l’IoT che sfonderà sarà di certo quello della categoria degli indossabili.

Una frontiera interessante sono gli “indossabili”. Ci spiega il significato?

Non bisogna confondere l’Internet delle cose con le tecnologie indossabili o wearable, concetto molto di moda ultimamente che è solo una delle declinazioni di IoT. Per indossabili ci si riferisce infatti a dispositivi capaci di comunicare con la rete, piccoli e da poter propriamente “indossare”. Che si tratti di occhialini, bracciali, orologi o fotocamere, siamo dinanzi ad accessori che hanno quasi perso la loro caratteristica principale per assumere forme e utilizzi diversi, grazie all’accesso alla rete. Possiamo considerare gli indossabili come una categoria dell’Internet delle cose. Di certo è quella più vicina alle persone per via dei costi più accessibili (ci sono braccialetti anche a meno di 100 euro) e della possibilità di essere portati sempre con sé (non mi sognerei mai di viaggiare con un rilevatore di fumo intelligente, mentre con uno smartwatch si, e avrebbe anche più senso).

Ultima domanda. Quali sono gli scenari problematici per questa frontiera?

Tante possibilità ma anche dubbi e problematiche riguardano la gestione dei cosiddetti Big Data, ovvero la raccolta di più informazioni su un individuo. Se fino a poco tempo fa tutto si limitava a ciò che contenevano smartphone e tablet, ora le informazioni sensibili sono un po’ ovunque e l’Internet delle cose farà elevare all’ennesima potenza il traffico di dati privati sulla rete.
Il problema è che ogni cosa che viaggia su internet è, almeno ipoteticamente, violabile dai criminali informatici. Più oggetti personali si connettono al web, più sarà ampio lo spettro a disposizione di queste figure per rubare i nostri segreti, o semplicemente informazioni personali che ci appartengono.
Non è un contesto da sottovalutare. Se un criminale dovesse entrare in possesso dei dati scambiati dal mio braccialetto per il fitness, che registra l’ora in cui sono uscito di casa, i chilometri trascorsi e il rientro, il ladro potrebbe verificare se esco di casa sempre alla stessa ora e in quali giorni. Entrare indisturbato per tentare un furto non sarebbe così un gran problema.
C’è un evidente problema sicurezza che va affrontato. Molto spetta alle aziende produttrici che devono assicurare la massima efficienza degli oggetti e dei canali di comunicazione (la necessaria crittografia dei file durante lo scambio, ovvero l’illeggibilità degli stessi ad occhi indiscreti) oltre all’affidabilità delle piattaforme che conservano i dati sensibili. Tre elementi fondamentali (hardware, software e cloud) che, assieme ad una corretta educazione delle persone, potranno decretare il successo o il fiasco dell’Internet delle cose.

La Bad Godesberg di Renzi. Intervista a Giorgio Tonini

Sulla Riforma del lavoro il PD sta compiendo la sua Bad Godesberg?

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Ne parliamo con Giorgio Tonini, vicepresidente del PD al Senato e membro della Segreteria nazionale del partito.

Tonini, qualche osservatore ha invocato per la riforma del lavoro a Renzi il coraggio di fare una “Badgodesber”, ovvero di rompere il tabù dell’articolo 18. La rottura nel PD ,avvenuta  nella tarda serata di lunedì, durante la direzione può essere considerata una piccola Badgodesberg per il PD ?

In un certo senso si. Renzi ha proposto alla direzione del Pd un cambiamento profondo di cultura politica sulla questione delicata e decisiva delle tutele del lavoro; e la direzione ha risposto con un si largamente maggioritario. Un partito riformista di centrosinistra, qual è il Pd, non sarebbe tale se non si battesse per i diritti dei lavoratori: il diritto al lavoro, innanzi tutto; e poi il diritto nel lavoro. Il problema è che le forme concrete che questi diritti universali devono assumere non possono essere oggi le stesse di quasi mezzo secolo fa. Allora, negli anni sessanta, in un contesto di crescita economica impetuosa e di quasi piena occupazione, il modello produttivo che appariva vincente era la grande fabbrica fordista, nella quale si entrava da ragazzi e si usciva da pensionati. In quel contesto, i diritti dei lavoratori si identificavano con la loro tutela sul posto di lavoro. Oggi quel mondo non esiste quasi più e comunque non è il mondo del futuro, quello nel quale abiteranno i giovani, i nostri figli. Il loro mondo è caratterizzato da una lunga durata della vita lavorativa e da un inevitabile alternarsi di periodi di lavoro e di periodi di ricerca o comunque di cambiamento di lavoro. Dunque, alla centralità della tutela sul posto di lavoro deve sostituirsi quella della tutela nel mercato del lavoro: offrendo più opportunità di essere assunti e in maniera stabile, un sostegno al reddito nei periodi di perdita del lavoro, strumenti di accompagnamento e ricollocazione in un nuovo lavoro, e in tutte queste fasi formazione, formazione, formazione. Il Jobs Act Renzi-Poletti si muove decisamente in questa direzione, la direzione di un nuovo patto virtuoso tra impresa e lavoro.

Veniamo al famoso editoriale del Corriere della Sera, firmato dal Direttore De Bortoli, in cui si criticava Renzi per la sua inconcludenza. Ma c’è un passaggio ,in quel pezzo,  che ha colpito l’opinione pubblica: ovvero che il patto del nazareno ‘odora di massoneria “. Cos’è una battuta o vede altri scenari?

Mi ha molto colpito quel passaggio. Renzi ha risposto al direttore del Corriere, protestando di essere un boy scout e non un massone. Questo è quello che vedono e sanno tutti gli italiani. Se De Bortoli sa qualcosa di diverso, lo dica: è il suo dovere di giornalista. In nessun paese anglosassone sarebbe tollerabile che il direttore di un grande giornale facesse intendere ai suoi lettori di sapere qualcosa di compromettente a riguardo del capo del governo e di non volerlo dire loro con chiarezza e trasparenza.

La scorsa settimana Renzi non ha fatto altro che prendersela con i “poteri forti “. Francamente la cosa è ridicola, visto le frequentazioni renziane (marchionne e Altri). Che idea si è fatto di questo scontro?

Credo che si tratti in gran parte di un dibattito mediatico, con pochi riscontri nella realtà. Del resto, lo stesso Renzi ci ha riso su, dicendo che in Italia più che poteri forti ci sono pensieri deboli. Nei giorni scorsi, alcuni imprenditori, come Della Valle, hanno aspramente criticato Renzi. Altri, come Marchionne, lo hanno coperto di elogi. Per fortuna siamo un paese libero e nei paesi liberi le cose vanno così: il governo, qualunque governo, ha una parte del paese che lo sostiene e una che lo avversa. Al momento, il gradimento del premier, del suo governo e del suo partito sono molto alti. Vuol dire che sono molto alte le aspettative del paese su questa in gran parte nuova classe dirigente. Renzi sa molto bene e lo ripete continuamente che ha sulle spalle la responsabilità di non mandare deluse tutte queste aspettative.

Renzi ha aperto, su alcuni temi, al Sindacato. Resta però il un fastidio del Premier verso il Movimento sindacale. Insomma, francamente, non trova semplicistico (per non dire altro) tutto questo?

Anche in questo Renzi è un uomo della sua generazione, nata quando il sindacato aveva da tempo oltrepassato lo zenit del suo consenso e della sua influenza nel paese. La verità è che in questi anni il sindacato non ha saputo rinnovarsi, se non molto, troppo lentamente e parzialmente, e chi non si rinnova declina. Basti pensare a quelle tre sigle: Cgil, Cisl e Uil, sigle gloriose, ma figlie delle divisioni della guerra fredda, cioè di un mondo che semplicemente non esiste più. Perché debbano esserci ancora oggi tre grandi centrali confederali e non una sola, grande organizzazione, unitaria, autonoma e riformista, come ad esempio il Dgb tedesco, è una domanda alla quale è impossibile dare una risposta. Negli anni settanta il sindacato guidava il cambiamento, anche col suo percorso unitario, mentre oggi fatica a inseguirlo. Al punto che la politica è più avanti: con il Pd si è realizzata l’unità politica dei riformisti, sognata per decenni, mentre dell’unità sindacale si sono perse le tracce.

C’è un altro punto che colpisce: ovvero una certa inclinazione di Renzi verso la cultura imprenditoriale più che al primato del lavoratori. E’ così?

No, non è così. Renzi ha denunciato, in modo anche aspro e urticante, la crisi di rappresentatività e dunque di legittimazione, prima dei partiti politici e poi anche delle organizzazioni sociali ed economiche, dei sindacati come delle organizzazioni imprenditoriali. Poi, certamente, Renzi non crede alla cultura del conflitto di classe, tradizionalmente egemone nella cultura marxista in generale e comunista in particolare, ma si riconosce piuttosto in una versione moderna di quel filone cristiano-sociale, ma anche liberal-socialista, che valorizza un approccio cooperativo e partecipativo delle relazioni industriali: un filone per il quale l’imprenditore non è il nemico di classe, ma una risorsa imprescindibile per la crescita e lo sviluppo. Nel corso della direzione di lunedì scorso, Renato Soru ha tenuto un appassionato e assai applaudito intervento in questo senso, ricordando il discorso di Veltroni al Lingotto, che aveva aperto una fase nuova su questo punto decisivo. Queste nuove relazioni sindacali hanno bisogno di regole nuove della rappresentanza e della contrattazione, compresa una norma di legge sul salario minimo. Su questo, lunedì in direzione Renzi ha detto cose nuove e assi interessanti, quando ha annunciato che riaprirà la sala verde di Palazzo Chigi, ma non per riprendere lo stanco rituale della vecchia concertazione, bensì per concordare nuove regole che consentano di spostare il baricentro della contrattazione dal livello nazionale a quello aziendale, l’unico nel quale si può apprezzare, incentivare e distribuire la produttività. Anche per questa via si rilanciano la crescita e l’occupazione.

Come sarà, secondo lei, il cammino del Job act?

Tutto è difficile e faticoso, in questo parlamento, segnato dal vizio d’origine della mancanza, almeno al Senato, di una chiara maggioranza uscita dalle urne. Ma entro l’anno il Jobs Act sarà legge. E ci saranno, nella legge di stabilità, risorse aggiuntive per i nuovi ammortizzatori sociali.

Cosa succederà alla minoranza del PD ?

Non credo si possa parlare di minoranza al singolare. C’è piuttosto un arcipelago di minoranze, alcune delle quali assai vicine alla linea politica del segretario, altre più inclini  alla nostalgia per la vecchia “ditta rossa”, altre ancora molto affini, per contenuti e linguaggi, al piccolo mondo della sinistra critica. Tutte queste componenti devono avere ed hanno piena cittadinanza in un grande partito democratico a vocazione maggioritaria. Alla sola condizione che il pluralismo interno al partito sappia poi trasformarsi in unità nel voto in parlamento. Fu l’incapacità o l’impossibilità di fare questo passaggio che impedì, prima all’Ulivo e poi all’Unione, di dar vita a governi stabili e credibili. Ma chi fece cadere i governi Prodi, sia a sinistra che al centro, non è stato premiato dagli elettori.

Dopo questi mesi di governo, come definirebbe il “renzismo”?

Lo definirei come la consapevolezza della necessità ineludibile, per l’Italia e per l’Europa, di riforme profonde e coraggiose. A cominciare dal cambiamento radicale della politica: delle istituzioni, dei partiti e dei loro gruppi dirigenti, e soprattutto della cultura politica. E come il tentativo di fare le riforme con il popolo e non senza o magari contro il popolo.

“Io, killer mancato”. Il giornalista cresciuto con i mafiosi un libro di Francesco Viviano

SeriesBAW08ALTIl Libro

ll ragazzo sta per ammazzare un uomo. È in un vicolo di Palermo e deve vendicare suo padre. Quel ragazzo poco più che adolescente ha imparato a sopravvivere nel cuore nero della Sicilia e ora è a un bivio. Io,killer mancato è la storia di Francesco Viviano, cresciuto tra i mafiosi e diventato uno dei più importanti inviati italiani.

“Nel mio quartiere – scrive Viviviano – c’erano personaggi legati a diverse famiglie mafiose: Madonia, Riccobono, Scaglione, Troia, Liga Nicoletti, Di Trapani, Davì, Pedone, Gambino, Bonanno, Micalizzi e Mutolo, la crema di Cosa nostra. Vivevamo fianco a fianco.”

È la storia di un ragazzo che ce l’ha fatta. Che non si arrende ai soldi facili, che non cede alla vendetta: non vuole fare come i suoi amici e diventare il braccio destro dei boss della Piana dei Colli.

Cameriere, marmista, pellicciaio, muratore, commesso. Poi la svolta, fattorino e telescriventista per l’Ansa, quindi giornalista. Prima all’Ansa, poi a “la Repubblica”. È qui che Francesco Viviano tira fuori tutto quello che ha imparato tra i vicoli di Palermo, perché lui sa come muoversi e dove trovare le notizie, sa con chi deve parlare e come farlo.

Attraverso il suo sguardo, il lettore rivive gli anni folli delle guerre di mafia, il maxiprocesso nell’aula bunker dell’Ucciardone, gli omicidi Falcone e Borsellino, le grandi confessioni dei pentiti, l’arresto di Brusca, la caccia al papello di Riina, le prime rivelazioni sulla trattativa tra mafia e Stato. Viviano vuole i nomi e sa da chi ottenerli.

IO,KILLER MANCATO è anche la storia dell’amicizia con Peppe D’Avanzo, Mario Francese e Attilio Bolzoni, di chi ha fatto giornalismo cercando insieme gli scoop o strappandoseli di mano. È il ritratto della Sicilia e delle sue contraddizioni attraverso gli occhi di uno dei suoi migliori giornalisti.

L’autore

Francesco Viviano, cresciuto nel quartiere Albergheria di Palermo e inviato de “la Repubblica”, ha seguito i principali processi di mafia, analizzando l’evoluzione di Cosa nostra dalle stragi a oggi. Inviato in Iraq e in Afghanistan, è stato insignito di numerosi riconoscimenti e nominato più volte Cronista dell’anno (2004, 2007, 2008, 2009 e 2010). Per Aliberti ha pubblicato MICHELE GRECO, IL MEMORIALE (2008), MAURO DE MAURO, UNA VERITÀ SCOMODA (2009); con Alessandra Ziniti: I MALEDETTI E GLI INNOCENTI (2010), MOTI E SILENZI ALL’UNIVERSITÀ (2010), I MISTERI DELL’AGENDA ROSSA (2010), CAPACI,VIA D’AMELIO (2012) e VISTI DA VICINO (2012). Per Flaccovio, ANNETTA E IL GENERALE (2005).

Per gentile concessione dell’Editore pubblichiamo un breve estratto del libro

 Vicolo Arena 12

La casa di mio nonno era composta da una sola stanza con il pavimento in cemento; una tenda separava la cucina da un gabinetto rudimentale. Il tappo sul water scavato nella roccia non riusciva a bloccare gli odori della fogna a cielo aperto che scorreva all’esterno. In quella casa-stanza in vicolo Arena 12 vivevamo in sette: mio nonno Francesco Viviano detto “don Ciccio”, mastro muratore, mia nonna Giovanna Spano, mia madre Enza Bruno, io, due sorelle e un fratello di mio padre. Altri tre zii dormivano dai parenti che abitavano nello stesso vicolo. Due di loro facevano i cordai vicino a casa, sotto

le mura di cinta di piazza Montalto. Io mi divertivo a guardare la ruota che attorcigliava i filamenti mentre i miei zii, con una saccoccia sulla pancia come quella dei canguri, sfilavano la canapa camminando all’indietro.

All’angolo del vicolo c’era via Albergheria, che finiva dritta dritta, fra case diroccate e distrutte dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale, nella piazza principale del mercato di Ballaro, nel cuore della vecchia Palermo. Il nostro era un quartiere popolarissimo, abitato prevalentemente da poveracci, borsaioli, scippatori, rapinatori, ricettatori, ma anche da persone perbene che riuscivano a sbarcare il lunario in maniera onesta.

Chi cercava un lavoro fisso si rivolgeva alle due uniche aziende del quartiere, quella per la lavorazione del pesce e delle olive, della famiglia Amodeo, e quella per l’inscatolamento del pomodoro, della caponata di melanzane e dei preparati di finocchietto per il condimento della pasta con le sarde, della famiglia Pensabene.

Io ero cresciuto li e ci stavo bene. Giocavo in strada con i ragazzi della mia eta, ben protetto da mia madre e soprattutto da mio nonno. Fra i suoi nipoti diretti e indiretti, che erano una quarantina, io ero il suo preferito perche ero il “figlio della buonanima”. Quando tornava dal lavoro, sporco di calce anche in faccia, mi portava con se nelle taverne del quartiere. All’ingresso ricevevamo sempre la stessa accoglienza: “un quarto di vino per don Ciccio e un bicchiere di passito per il figlio della

buonanima. Tutto pagato nostro”. Per non far bere i suoi clienti a stomaco vuoto, il taverniere portava una cesta di fil di ferro piena di uova sode e una pentola di coccio con “fave a coniglio” cotte in un brodo saporitissimo. Il venerdi c’era sempre un vassoio di baccala fritto.

Restavo li fino a quando il taverniere annunciava con molto tatto che era ora di chiudere, ma prima che la

saracinesca si abbassasse c’era sempre tempo per l’ultimo quarto di vino. Qualche volta per strada mio nonno barcollava, ma mi teneva sempre stretto per mano. Non diceva mai una parola, comunicavamo con gli sguardi. Lo adoravo, e lui adorava me. Tornati a casa trovavamo la cena pronta e il fuoco acceso

nella cardarella, il secchio di metallo che don Ciccio usava per impastare la calce. Per riscaldare quella piccola stanza non c’era bisogno di molta legna. La tavola quadrata poteva ospitare appena quattro persone per volta, perciò si mangiava a turno: prima i miei zii (i fratelli e le sorelle di mio padre), poi mia madre, i nonni e io. Non ho mai patito la fame. Divoravo le minestre di fagioli o quello che passava il convento, e chiudevo sempre il pasto con un po’ di pane e olio. Il secondo non c’era quasi mai. La domenica ci si trattava meglio: pasta al sugo con tritato, cotoletta di carne di cavallo, che costava meno di quella di vacca, oppure polpette con le “sarde a mare”,cioè niente sarde e molta mollica, pinoli e finocchietto di montagna. Si andava a letto prestissimo. Il primo era sempre mio nonno, che appena si stendeva sul materasso cominciava a russare, e mia nonna lo seguiva poco dopo. Quando c’era bel tempo ci si attardava sull’uscio di casa con i vicini, che in gran parte erano nostri parenti. Tutti sedevano fuori a chiacchierare. Si rideva, anche se molti non sapevano come avrebbero sbarcato il lunario il giorno dopo e se sarebbero riusciti a mettere in pentola qualcosa da mangiare. Per strada passavano i venditori che offrivano castagne bollite o piedini di agnello e di porco bolliti, e urlavano in dialetto: “Se non li vendo me li mangio”.

Ogni volta che qualcuno usciva di galera, e accadeva spesso, si organizzava u triunfo, una festa di vicinato. Si facevano gli schiticchi (pasti in compagnia) e una piccola banda suonava il violino, il contrabbasso e la fisarmonica.

Si restava in strada fino a tardi per festeggiare l’ex detenuto, che il piu delle volte finiva per tornare in prigione di li a breve.

Eravamo poveri, poverissimi, ma dignitosi. Mio nonno era molto rispettato nel quartiere. Nei vicoli, nei cortili e nei chioschi don Ciccio raccoglieva di continuo saluti deferenti. Molti andavano a trovarlo a casa per esporgli qualche problema da risolvere. Non era un mafioso, altrimenti non sarebbe stato cosi povero, ma era rispettato dai boss, che lo invitavano alle loro scampagnate

domenicali. In qualità di ≪figlio della buonanima≫, ero l’unico bambino ammesso a quelle tavolate, dove il vino non mancava mai. Bevevo sempre il passito, una sorta di gassosa colorata. Gli adulti parlavano tranquillamente, a bassa voce. Non ho mai assistito a risse o alterchi. Mio nonno era amico dei boss ma non faceva affari con loro.

Francesco Viviano, Io Killer Mancato. Il giornalista cresciuto con i mafiosi, Ed. Chiarelettere, Milano 2014, pagg. 160.

Ecco perché Bonanni ha lasciato la Cisl. Intervista a Carlo Clericetti

imagesDa ieri Raffaele Bonanni è dimissionario dall’incarico di Segretario Generale della Cisl, una decisione imprevista. Per saperne di più, e per capire dove andrà la Cisl del dopo Bonanni,  abbiamo intervistato Carlo Clericetti, giornalista economico del gruppo editoriale “Espresso”.

 

Clericetti, Raffaele Bonanni ha rassegnato le dimissioni da Segretario Generale della Cisl con un certo anticipo. In una intervista Bonanni ha affermato che “non è uomo per tutte le stagioni”,  però, a leggere alcune voci giornalistiche, sembrano più dimissioni “spintanee” che spontanee. Che è successo, secondo lei?

Quello che mi hanno riferito varie fonti interne alla Cisl è che circolava un dossier da cui risulterebbe che da alcuni anni i versamenti all’Inps per la pensione di Bonanni corrisponderebbero a uno stipendio mai visto nei sindacati. Non è chiaro se ci siano state o meno irregolarità, e di fatto se così non fosse sembrerebbe un po’ poco per provocare una tale reazione, ma comunque questo avrebbe provocato la richiesta di dimissioni immediate da parte dell’esecutivo della Cisl. D’altronde fino a pochissimi giorni fa non c’era stato assolutamente nessun segnale dell’intenzione di passare la mano, quindi è credibile che la cosa sia stata provocata da un evento improvviso e imprevisto come questo.

La Cisl di questi anni (gli anni di Bonanni) non ha brillato molto nello scenario politico-sindacale. Qual è secondo lei il bilancio della Segreteria Bonanni?

 Premesso che anche la Cgil appare in difficoltà non indifferenti, Bonanni lascia un sindacato che dà l’impressione di non avere alcuna strategia né capacità di proposta, e si limita a giocare di rimessa preoccupandosi più di conservare un ruolo di interlocutore del governo e della Confindustria che di contrapporre un disegno alternativo alla politica di svalutazione del lavoro figlia dell’ideologia neo-liberista, che nonostante i danni prodotti continua ad essere egemone. Una volta il sindacato era un centro di discussione, elaborazione e proposta, ma di queste cose oggi non si vede neanche l’ombra, di dibattito interno non si vede traccia e i tempi di Ezio Tarantelli appaiono da libro di storia.

Qual è stato il suo limite? 

Aver assecondato il disegno di divisione del sindacato confederale e di emarginazione della Cgil, perseguito tenacemente dall’ex ministro del Lavoro Maurizio Sacconi e da alcuni manager come Sergio Marchionne. Un errore particolarmente grave in una fase di debolezza del mondo del lavoro, prima pressato dalle conseguenze della globalizzazione, poi messo in ginocchio dall’esplosione della crisi e dalla sua gestione in una logica profondamente conservatrice. La divisione del sindacato, peraltro, non è solo una questione di vertici, è diffusa anche in una parte della base e dei quadri: in particolare nella Cisl c’è spesso una forte animosità nei confronti della Cgil. Invece di lavorare per ricucire, Bonanni ha fatto di questa divisione la cifra della sua politica. Questo ha ancor più aggravato le difficoltà già pesantissime e oggi, se non ci sarà un radicale cambiamento di linea, i sindacati corrono il rischio concreto di diventare irrilevanti. Alcuni aspetti dei provvedimenti annunciati dal governo, se passeranno così come sono stati ventilati, potrebbero segnare un rapido declino dei sindacati, Cisl compresa. Non sembra che Bonanni l’avesse capito.

Come si presenta al suo interno la Cisl dopo le dimissioni di Bonanni? Ripartirà il confronto?

Al momento si può solo sperarlo. Come ho detto, finora non c’era una vera opposizione a Bonanni, ma questo abbandono improvviso e imprevisto potrebbe rimescolare le carte e riaprire un dibattito interno da cui potrebbe emergere un nuovo leader. Al momento la cosa più probabile e più logica è che al prossimo Consiglio generale, già convocato per l’8 ottobre, venga affidata la guida all’attuale numero 2, Anna Maria Furlan, ma quasi certamente si deciderà di anticipare il Congresso, che si sarebbe dovuto tenere fra tre anni. Ora i tempi sono troppo stretti perché possa svilupparsi una discussione sui temi di fondo, che probabilmente invece si svilupperà nel periodo successivo.

Il prossimo Segretario Generale della Confederazione sarà dunque, molto probabilmente, Anna Maria Furlan. Sindacalista genovese, proveniente dalla categoria delle Poste. Per alcuni non ha “robustezza” sindacale. Come sarà , secondo lei, la Cisl della Furlan?

E’ difficile che si possa assistere a svolte immediate e radicali, anche se vale sempre il vecchio adagio che a volte un papa è molto diverso da quando era cardinale. Sulla carta quella della Furlan non sembrerebbe una segreteria “forte”, ma questo forse non è neanche un male, perché potrebbe favorire la riapertura del dibattito e un rinnovamento reale della dirigenza Cisl. La sua potrebbe anche essere una segreteria “di passaggio”. Vedremo presto se nella Cisl ci sono ancora uomini e risorse intellettuali in grado di restituire al sindacato quel ruolo di protagonista della politica nazionale che in passato è stato più volte determinante.

Alla vigilia del Sinodo scontro in Vaticano sulla Famiglia. Intervista a Marco Politi

Dal 5 al 19 Ottobre si svolgerà in Vaticano l’importante Sinodo sulla Famiglia. L’evento sta creando un forte dibattito all’interno della Chiesa Cattolica. Ne parliamo con Marco Politi, vaticanista del Fatto Quotidiano e autore di “Francesco tra i lupi” (ed. Laterza).

foto da www.lavanguardia.com

Politi, il “Corriere della Sera” oggi ha portato alla luce lo Scontro vaticano, alla Vigilia del Sinodo dedicato alla Famiglia che si aprirà il prossimo 5 ottobre a Roma, sulla pastorale familiare. La presa di posizione, con la pubblicazione “Permanere nella verità di Chiesa: Matrimonio e comunione nella Chiesa cattolica, di 5 Cardinali (tra cui Muller e Cafarra) contro    le aperture del Cardinale Kasper sulla comunione ai divorziati risposati e non solo. Insomma il fronte conservatore fa muro. Quanto è diffusa l’ostilità a questi tentativi di innovazione pastorale?

C’è una parte di Chiesa – non solo nella Curia, ma anche tra gli episcopati del mondo e tra i sacerdoti – che in  perfetta buona fede è rimasta ancorata ai veti del passato, chiudendo gli occhi  sul grande scollamento, che si è realizzato negli ultimi decenni  tra l’astratta dottrina dei vertici da una parte e lo stato d’animo dei fedeli e l’atteggiamento di misericordia di tanti parroci.

Il Sinodo ha avuto un’intensa preparazione, grazie anche alla consultazione con lo strumento del questionario diffuso a tutto il popolo cattolico, dove è emersa chiaramente tutta la problematica della famiglia nella sua realtà sociale (comprese ovviamente le nuove forme di famiglia). Le chiedo saprà il Sinodo essere all’altezza delle sfide?

Papa Francesco ha programmato ben due Sinodi sul tema della famiglia e della vita di relazione delle coppe e delle persone perché vuole rportare nella Chiesa il clima del libero dibattito conciliare. Come già al concilio Vaticano II assisteremo al Sinodo ad un confronto anche aspro tra le diverse opinioni.  Il libro  dei cinque cardinali, che respingono la possibilità di dare la comunione ai divorziati risposati,  è il segnale che l’opposizione alla nuova pastorale di Francesco si sta organizzando.

La Chiesa italiana come si è comportata nella preparazione al Sinodo? La mia impressione è che la Cei non ha brillato…

La Chiesa italiana finora sta andando a rimorchio del Papa. L’ “Avvenire” a suo tempo non ha pubblicato nemmeno on line  il sondaggio lanciato dal Vaticano sui problemi familiari e sessuali (lo ha confinato solo nell’inserto-famiglia). Ma, ricordando l’esperienza del Vaticano II, la libertà di dibattito voluta dal Papa finirà per dare coraggio anche a tanti vescovi che finora non si sono espressi.

Una domanda sul Prefetto della Congregazione sulla Dottrina della Fede, il Cardinale Muller.

Colpisce la sua apertura quasi totale sulla Teologia della Liberazione (in particolare sulla teologia di Gustavo Gutierrez) e colpisce pure questa rigidità estrema verso l’apertura ad “una teologia fatta in ginocchio” verso quei cristiani che hanno, per diversi motivi, fallito un percorso d’amore. Non trova contraddittoria la sua posizione?

E’ sempre sbagliato inchiodare una persona ad un’etichetta. Specialmente nella Chiesa.  Il cardinale Mueller,  a cui proprio Francesco ha voluto dare la porpora, come molti presuli può avere posizioni aperte su un problema e più tradizionali su un altro.  Ci sono presuli a favore di un atteggiamento misericordioso verso gli omosessuali ma contrari a dare posti di responsabilità alle donne nella Curia. Oppure aperti sulle questioni sociali e restii a cambiare la linea sul matrimonio.  La Chiesa è un mosaico e una stessa persona può avere un ventaglio di opinioni differenti.

Ultima domanda.  Come sta procedendo il cammino di Papa Francesco e la  sua opera di profondo rinnovamento?

Francesco è consapevole dell’opposizione al suo progetto di rinnovamento, specialmente quella nascosta e in particolare le varie forme di resistenza passiva. Ma, come ha detto sin dall’inizio, una Chiesa che non ha il coraggio di uscire dai recinti muore.

Marco Politi, autore di “Francesco tra i lupi” (ed.Laterza), vaticanista de Il Fatto Quotidiano