Dove hanno sbagliato i “5 Stelle”? Intervista ad Andrea Scanzi

Nella “Rete” , tra i simpatizzanti e gli aderenti al “Movimento 5 Stelle”, c’è un forte dibattito sulla debacle elettorale del “Movimento”. Quali le ragioni della sconfitta? Quali prospettive per il “Movimento”? Su questi temi abbiamo intervistato il giornalista Andrea Scanzi, firma di punta del “Fatto Quotidiano “.Andrea Scanzi

Lei è un profondo conoscitore del “Movimento 5 Stelle”, ne conosce gli umori profondi, come è stata possibile questa  sorta di “ubriacatura” da vittoria certa (#Vinciamonoi!#) smentita, poi, dalla debacle elettorale?

“Il Movimento 5 Stelle si è clamorosamente sopravvalutato. Se non avesse imbastito una campagna elettorale anzitempo orgasmica, oggi potrebbe tutto sommato festeggiare una cifra depurata dal mero voto di protesta e rimasta comunque sopra il 20: un dato clamoroso, in un paese conservatore e tradizionalista come l’Italia. Invece l’hanno menata per mesi con ‘sta bischerata adolescenziale del #vinciamonoi: ma “vinciamo noi” de che? Adesso, giustamente, li sfottono tutti. Credo che si siano lasciati condizionare dall’affetto degli attivisti: piazze piene, urne vincenti. Ma non è sempre così, anzi. Le piazze piene vogliono solo dire che i 5 Stelle sono più partecipi dei piddini (Renzi, a volte, aveva le piazze semivuote). Anche Luttazzi riempiva i teatri, anche Santoro ha sempre fatto boom di ascolti: poi però vinceva Berlusconi. I 5 Stelle hanno convinto i già convinti, radicandone l’affetto, ma non hanno intercettato mezzo indeciso e hanno perso quasi tre milioni rispetto a febbraio 2013”.

Grillo è un grande uomo di spettacolo, questo non si traduce, però, automaticamente in un’efficace “comunicazione” politica. Quali sono stati, secondo lei, in campagna elettorale gli errori di “comunicazione” del Padre fondatore del Movimento? Non è stato un po’ troppo sottovalutato Renzi?

“Il problema della comunicazione di Grillo è eterno, se ne parlava già nel 2007 dopo il primo V-Day. Il suo parlare da comico crea continui cortocircuiti semantici, perché nel frattempo è diventato ormai un soggetto politico. Urlare e sfanculare andava bene, ora no. La narrazione di Renzi è da asilo nido, una roba tipo “noi siamo il bene e voi il male”, ma funziona. E la maggioranza degli italiani voleva essere rassicurata e “sperare”. Per questo ha preferito un bombarolo furbino come Renzi a un incazzato sincero come Grillo. Gli errori comunicativi sono stati tanti: il post su Auschwitz, la “peste rossa”, “oltre Hitler”, “la lupara bianca”, il “processo ai giornalisti”. Grillo provoca e non è certo un fascista, ma ha quasi tutta la stampa contro. Non appena presta il fianco, quasi tutti ci costruiscono un caso. Se il Pd regala 7 miliardi alle banche è normale, se il deputato 5 Stelle Sibilia contesta la Boldrini è uno “squadrista”. Ecco perché Grillo dovrebbe calcolare ogni parola e non regalare assist a chi vive per sputtanarlo, neanche fosse Mengele. Credo che il suo intento sia usare la violenza verbale per esorcizzare quella fisica: idea nobile, e senza M5S oggi avremmo Alba Dorata e Le Pen. Vaglielo a spiegare, però, alla casalinga di Voghera”.

Nel suo “messaggio”  Grillo, a commento dei risultati elettorali, se la prende con l’Italia dei pensionati che preferisce lo status quo invece che il cambiamento. Non è un po’ banale come analisi? Non è venuto il tempo, per il Movimento,  di pensare oltre la “rabbia buona” degli elettori?

“Certo che è venuto quel tempo. O i 5 Stelle fanno una seria riflessione autocritica, o rischiano come minimo un ridimensionamento drastico. Il video di Grillo che prendeva il Maalox era divertente e finalmente autoironico, ma l’analisi politica era debole. Se i pensionati non ti votano non è colpa dei pensionati: è colpa tua, perché non li hai convinti. I 5 Stelle furoreggiano tra gli under 30, tengono fino ai 45-50 e scendono addirittura sotto il 10% negli over 60. Vuol dire che quella fascia lì non solo non li vota ma ne ha pure paura, certo anche per colpa di una informazione  spesso disonesta intellettualmente. Grillo e i grillini devono cambiare i toni. Con la “peste rossa” e la claque urlante dei talebani duropuristi non vai da nessuna parte. Essere coerenti non significa essere integralisti: lo scazzo in streaming di Grillo con Renzi è stata una cazzata, il no a prescindere a Renzi sulla riforma elettorale è stata una cazzata (che ha consentito al Premier di consegnarsi a Berlusconi, uno dei suoi sogni di sempre). Questi errori, alla lunga, li paghi. Soprattutto tra gli elettori moderati e non più giovanissimi, che sono poi la maggioranza di questo paese”.

Resta, comunque, per i “5 Stelle” una percentuale rilevante, il 21 %. Come investire politicamente questo consenso in Europa?  E poi: come rispondere a Renzi che li ha invitati ad uscire dall’isolamento?

Il Movimento 5 Stelle ha preso quasi sei milioni di voti: una cifra enorme. Si fa passare per normale che Di Battista abbia più voti di Berlusconi, ma è un cambiamento storico. E’ un risultato figlio di Grillo, che ha demeriti come pure meriti enormi, ma è anche figlio di una nuova classe di senatori e deputati che hanno lavorato bene e si sono contraddistinti per competenza e passione. Non tutti, per carità: quando ascolti Fucksia o Lombardi, ti chiedi cosa diavolo hai fatto nella vita per meritarti condanne simili. Se però avessimo avuto tanti Di Maio in questi vent’anni di mancata opposizione del centrosinistra, invece dei Violante e degli Speranza, Berlusconi sarebbe politicamente finito dopo sei mesi. Cito Di Maio non a caso: nel salotto di Bruno Vespa doveva andarci – anzi tornarci – lui. Non Grillo. Avrebbe fatto meno ascolti, ma avrebbe portato ai 5 Stelle molti più voti. Aprirsi troppo tardi alla tivù è stato un altro errore. Il M5S deve continuare nella sua opera di opposizione rigorosa, ora poi che Renzi vanta consensi bulgari. Ma deve anche dimostrare di saper pure costruire e “dire sì”.  In Italia come nel Parlamento Europeo. Di Europa hanno parlato poco, al di là dell’allergia per l’Euro, le invettive contro i “figli di trojka” e il no al fiscal compact. Non conosciamo gli eletti, se non per un video youtube e il loro curriculum online. Non sappiamo accanto a chi sederanno, né chi appoggeranno come Presidente. Quanto al tentativo di Renzi di stanarli, il punto non è accettare tutto quello che lui gli propone, ma valutare la proposta. Se Renzi gli propone ancora l’Italicum o la schifezzina della riforma del Senato, fanno bene a sfancularlo: sono proposte orribili. Da solo, però, il Movimento non può fare nulla se non combattere battaglie nobili ma spesso di Pirro. Politica è anche strategia. Qualcuno dovrebbe dirgli che l’elasticità mentale non è un reato e che non tutti sono uguali: per esempio Tsipras non è uguale al Pd, e con Tsipras dovrebbero fare sponda. Sarebbe il presidente migliore, ma a Yoko Casaleggio non piace perché è “connotato ideologicamente”: sì, buonanotte”.

Qual è la “lezione” profonda di queste elezioni?

Nessuna lezione profonda. Sono elezioni che ci dicono ciò che già sapevamo: che i sondaggi non servono a niente; che larga parte dell’informazione italiana ama correre in soccorso del vincitore. Che la tivù è ancora decisiva (Renzi è andato ovunque, riverito oltremodo, e ha fatto bene ad andarci). Ci ribadiscono poi, e soprattutto, che la maggioranza degli italiani tutto vuole tranne il cambiamento reale. Non appena sentono parlare di “rivoluzione”, hanno un mancamento. Preferiscono la velocità da crociera, il mantenimento dello status quo e il gattopardismo un po’ alla moda. L’uomo della provvidenza che tutto cambia perché nulla cambi. Il leader nuovo per nulla nuovo, fanfarone e sparaballe, simpatico o presunto tale, vagamente carismatico. Ieri Berlusconi, oggi Renzi. Un po’ Silvio e un po’ De Mita, un po’ Fanfani e un po’ Moccia, un po’ Cameron e un po’ Jovanotti. Tutto e niente, soprattutto niente. E il nulla, anzitutto in Italia, è rassicurante.

 

 

 

 

 

“E’ Stato la Mafia”. Un libro di Marco Travaglio sulla trattativa Stato-Mafia

E' Stato la mafia_piatto“Perché avvelenarci il fegato con queste storie vecchie di oltre vent’anni, con tutti i problemi che abbiamo oggi? La risposta è semplice e agghiacciante: sono storie attuali, come tutti i ricatti che assicurano vita e carriera eterna tanto ai ricattatori quanto ai ricattati. Da ventidue anni uomini delle istituzioni, della politica, delle forze dell’ordine, dei servizi e degli apparati di sicurezza custodiscono gelosamente, anzi omertosamente, i segreti di trattative immonde, condotte con i boss mafiosi le cui mani grondavano del sangue appena versato da Giovanni Falcone, da Francesca Morvillo, da Paolo Borsellino, dagli uomini delle loro scorte, dai tanti cittadini innocenti falciati o deturpati dalle stragi di Palermo, Firenze, Milano e Roma. E su quei segreti e su quei silenzi hanno costruito carriere inossidabili, che durano tutt’oggi… 

Chi volesse capire perché in Italia tutto sembra cambiare – gattopardescamente – per non cambiare nulla provi a seguire con pazienza il filo di questo racconto. Se, alla fine, avrà saputo e capito qualcosa in più, questo spettacolo e questo libro avranno centrato il loro obiettivo: quello di mettere in fila i fatti per strappare qualche adepto al Ptt, il partito trasversale della trattativa.”  Così scrive Marco Travaglio, Vice Direttore del Fatto Quotidiano, in questo che oggi presentiamo. Di seguito, per gentile concessione dell’Editore, pubblichiamo il Prologo del volume.

Prologo

Ci sono diversi modi per raccontare la trattativa Stato- mafia.

Il primo è quello dei politici, dei grandi giornali e delle tv: la presunta trattativa, la supposta trattativa, la pretesa trattativa, la cosiddetta trattativa. Forse, magari, chissà.

Il secondo è quello che raccontano le sentenze e i protagonisti.

Le sentenze sono quelle – definitive – dei processi celebrati a Caltanissetta sulle stragi di Palermo del 1992 (Capaci e via D’Amelio) e a Firenze sulle bombe di Firenze in via dei Georgofili, di Milano in via Palestro e di Roma alle basiliche di San Giovanni in Laterano e di San Giorgio in Velabro. Scrivono i giudici della Corte d’assise di Firenze (verdetto confermato fino in Cassazione):

I testimoni hanno espressamente dichiarato che la controparte mafiosa della trattativa erano i «corleonesi»; anzi, direttamente Riina. Brusca ha confermato che della trattativa gli parlò personalmente Riina. […] I testi hanno dichiarato che si mossero dopo la strage di Capaci; il col. Mori entrò in scena dopo la strage di via D’Amelio […]. In ciò che ha raccontato Brusca vi è quanto basta per essere certi del parallelismo tra la vicenda raccontata da lui e quella raccontata dal gen. Mori e dal cap. De Donno […]. L’iniziativa del Ros aveva tutte le caratteristiche per apparire come una «trattativa»; l’effetto che ebbe sui capi mafiosi fu quello di convincerli, definitivamente, che la strage era idonea a portare vantaggi all’organizzazione. Sotto questi profili non possono esservi dubbi di sorta, non solo perché di «trattativa», «dialogo», ha espressamente parlato il capitano De Donno (il generale Mori, più attento alle parole, ha quasi sempre evitato questi due termini), ma soprattutto perché non merita nessuna qualificazione diversa la proposta, non importa con quali intenzioni formulata (prendere tempo; costringere il Cian- cimino a scoprirsi; o altro) di contattare i vertici di Cosa nostra per capire cosa volessero (in cambio della cessazione delle stragi). Qui la logica si impone con tanta evidenza che non ha bisogno di essere spiegata.

Conclusione dei giudici di Firenze:

Non si comprende come sia potuto accadere che lo Stato, «in ginocchio» nel 1992 – secondo le parole del gen. Mori – si sia potuto presentare a Cosa nostra per chiederne la resa; non si comprende come Ciancimino, controparte in una trattativa fino al 18-10-1992, si sia trasformato dopo pochi giorni in confidente dei carabinieri; non si comprende come il gen. Mori e il cap. De Donno siano rimasti sorpresi per una richiesta di «show down», giunta, a quanto pare logico ritenere, addirittura in ritardo.

La stessa Corte d’assise di Firenze, nella sentenza di condanna all’ergastolo per il boss Francesco Tagliavia (già confermata in Appello) del 5 ottobre 2011, aggiunge:

Una trattativa indubbiamente ci fu e venne, quantomeno ini zialmente, impostata su un do ut des. L’iniziativa fu assunta da rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini della mafia.

Borsellino si oppose, giudicandola «la negazione stes- sa della battaglia condotta da sempre con Falcone» e prevedendo che la trattativa non avrebbe frenato, ma moltiplicato le stragi. Infatti fu ucciso. Per questo.

Ma di «trattativa», senza alcun aggettivo dubitativo, parlano anche i protagonisti, mafiosi e istituzionali. A cominciare da Giovanni Brusca, che per primo la rivelò nel 1996-97, costringendo i trafelati ufficiali del Ros, il generale Mario Mori (all’epoca vicecomandante) e il suo braccio destro, l’allora capitano Giuseppe De Donno, a confermarla. Ecco Mori il 27 gennaio 1998 davanti ai giudici di Firenze (dove, diversamente da quanto affer- mano i giudici, parla anche lui più volte di «trattativa»):

Incontro per la prima volta Vito Ciancimino a via di Villa Massimo dietro piazza di Spagna a Roma, nel pomeriggio del 5 agosto 1992. L’Italia era quasi in ginocchio perché erano morti due fra i migliori magistrati nella lotta alla criminalità mafiosa, non riuscivamo a fare nulla dal punto di vista investigativo, e cominciai a parlare con lui: «Signor Ciancimino, cos’è questa storia, questo muro contro muro? Da una parte c’è Cosa nostra dall’altra parte c’è lo Stato. Ma non si può parlare con questa gente?». La buttai lì, convinto che lui dicesse: «Cosa vuole da me, colonnello?». Invece disse: «Si può, io sono in condizioni di farlo». […] Ciancimino mi chiedeva se io rappresentavo solo me stesso o anche altri. Certo, io non gli potevo dire: «Be’, signor Ciancimino, lei si penta, collabori che vedrà che l’aiutiamo». Gli dissi: «Lei non si preoccupi, lei vada avanti». Lui capì e restammo d’accordo che volevamo sviluppare questa trattativa […]. Il 18 ottobre, quarto incontro. Mi disse: «Guardi, quelli accettano la tratta- tiva» […]. Poi la trattativa ebbe un momento di ripensamento.

Ecco, questi erano i rappresentanti dello Stato nel 1992: si stupivano del «muro contro muro» fra mafia e Stato, non si davano pace nel vederli l’una contro l’altro armati dopo decenni di festosa convivenza. Infatti si precipita- rono a ripristinare le «larghe intese», andando a trattare con un mafioso come Vito Ciancimino per ristabilire lo status quo. C’è tutta una filosofia, nelle parole di Mo- ri. Che va ben oltre il suo pensiero. È l’atteggiamento dello Stato italiano, che ha sempre dichiarato di voler «combattere la mafia», mai di volerla sconfiggere: al massimo, per contenerla quando alza troppo la cresta. Per sconfiggerla bisognerebbe dichiararle guerra e poi vincerla. E la guerra alla mafia per sconfiggere la mafia non l’avevano in testa nemmeno i carabinieri del Ros.

Il processo in corso a Palermo vede imputate dodici persone: sei per la mafia e sei per lo Stato. Perfetta par condicio. Anche se non si capisce bene dove finisca l’una e dove cominci l’altro.

Per la mafia: i boss irriducibili Salvatore Riina, Ber- nardo Provenzano (attualmente «stralciato» per le sue gravi condizioni di salute), Leoluca Bagarella, il mafioso pentito Giovanni Brusca, e gli «ambasciatori» di Cosa nostra Antonino Cinà e Massimo Ciancimino.

Per lo Stato: gli ex carabinieri del Ros Antonio Su- branni (all’epoca comandante), Mario Mori (viceco- mandante) e Giuseppe De Donno (braccio destro di Mori); gli uomini politici Calogero Mannino (nel 1992 ministro del Mezzogiorno del governo Andreotti), Ni- cola Mancino (nel 1992-93 ministro dell’Interno dei governi Amato e Ciampi) e Marcello Dell’Utri (presi- dente di Publitalia e ideatore di Forza Italia insieme a Silvio Berlusconi).

Ciancimino risponde di concorso esterno in associazione mafiosa e calunnia nei confronti di Gianni De Gennaro. Mancino è accusato «soltanto» di falsa testi- monianza. Gli altri dieci imputati sono a giudizio per il reato previsto dagli articoli 338 e 339 del Codice penale: «Chiunque usa violenza o minaccia a un Corpo politico, o amministrativo o giudiziario o a una rappresentanza di esso, o a una qualsiasi pubblica Autorità costituita in Collegio, per impedirne, in tutto o in parte, anche temporaneamente, o per turbarne comunque l’attività, è punito con la reclusione da uno a sette anni» (che, con le aggravanti delle armi e del numero dei colpevoli, possono arrivare fino a quindici anni di reclusione). Qual è il «Corpo politico o amministrativo» violentato e minacciato nel nostro caso? Il governo italiano, anzi i governi italiani presieduti da Giuliano Amato nel 1992, da Carlo Azeglio Ciampi nel 1993, da Silvio Berlusconi nel 1994 e così via.

In separata sede sono indagati altri tre rappresentanti delle istituzioni, per false dichiarazioni al pm: Giovanni Conso (già ministro della Giustizia dei governi Amato e Ciampi), Adalberto Capriotti (dal 1993 direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria presso il ministero della Giustizia) e Giuseppe Gargani (all’epoca parlamentare della Dc, poi di Forza Italia, ora in forza all’Udc). Per legge, saranno giudicati al termine del processo principale.

Nessun imputato è accusato di «trattativa»: il reato contestato è il Grande Ricatto ordito dai boss contro le istituzioni democratiche, con l’aiuto di esponenti delle istituzioni medesime che agevolarono il progetto di Cosa nostra e l’aiutarono a mettere in ginocchio vari governi, cioè lo Stato.

Si dice: per sapere se la trattativa è esistita, bisogna attendere la sentenza definitiva del processo. Eh no, troppo comodo. Sarebbe come dire: per sapere se Meredith Kercher è stata uccisa, bisogna attendere la sentenza definitiva del processo di Perugia. Il processo sulla trattativa serve ad accertare se vi furono dei reati, e in caso affermativo se sono proprio quelli contestati agli imputati, e in caso positivo se gli imputati li hanno commessi. Ma la trattativa è già certa oggi: sia perché esistono sentenze definitive che l’hanno accertata, sia perché la consecutio dei fatti la dimostra senza ombra di dubbio.

È, questo, il terzo modo di raccontare la trattativa: quello dei giornalisti (quelli veri, si capisce). L’informazione non deve fondarsi soltanto sugli atti giudiziari (che riguardano solo i reati provati al di là di ogni ragionevole dubbio), ma anche e soprattutto sui fatti accertati (in- dipendentemente dalla loro rilevanza penale). Fatti che stanno in piedi da soli, senza alcun bisogno di sentenze che li confermino. Fatti che continuerebbero a esistere anche se il processo non si celebrasse, e persino se gli attuali imputati dovessero finire tutti assolti. Fatti che possiamo raccontare già oggi, a prescindere dal processo.

«Io so, ma non ho le prove» diceva Pier Paolo Pasolini a proposito della strage di piazza Fontana. Noi, a proposito della trattativa Stato-mafia, siamo più fortunati: abbiamo le prove. Ma quasi tutti fanno finta di non sapere.

Marco Travaglio, È Stato la Mafia.Tutto quello che non vogliono farci sapere sulla trattativa e sulla resa ai boss delle stragi, Ed. Chiarelettere, Milano 2014, Libro + DVD, pagg.160, € 14,90

Renzi e il Sindacato. Un “dialogo” tra sordi? Intervista a Raffaele Morese

ROME ENERGY MEETING 2004Forte è stata la polemica, nei giorni scorsi, tra il Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, e tutto il Sindacato Confederale (Cgil, Cisl e Uil) sulla “concertazione” e più in generale sul ruolo del sindacato. Su questa polemica abbiamo intervistato Raffaele Morese. Morese è stato per anni un protagonista del movimento sindacale italiano (prima, negli anni ‘80, come Segretario Nazionale della Fim-Cisl e, successivamente, negli ’90, come Segretario Generale Aggiunto della Cisl). Durante i governi D’Alema e Amato (1998-2001) ha ricoperto l’incarico di Sottosegretario al Lavoro.

Morese, nei giorni scorsi, durante il Congresso della Cgil, abbiamo assistito ad una fortissima polemica tra la  Camusso, seguita a ruota da Bonanni e Angeletti, e Renzi sulla “concertazione”. Per Renzi la “musica è cambiata”, nel senso che per lui la “concertazione” è morta e sepolta: Lei che è stato, negli anni novanta, uno dei protagonisti della “concertazione” buona (con i governi Amato e Ciampi), qual è il suo giudizo su questo atteggiamento di Renzi? Non lo trova arrogante?

Quel “se il sindacato non è d’accordo, ce ne faremo una ragione” sa di sfida ed è irritante. Di converso, sostenere come fa Camusso che è espressione di “una torsione democratica” mi sembra altrettanto esagerato. Mi limito a dire che sulle questioni del lavoro una cosa è l’opinione via Internet di un pur ottimo impiegato dello Stato o di un intellettuale e un’altra è il pensiero del sindacato. La distinzione, anche nelle forme della consultazione, non può che essere diversificata. E tutto ciò senza scomodare la concertazione.

Lei è stato Segretario Generale della Fim-Cisl e successivamente Segretario generale aggiunto della Cisl, quindi ha una storia ricca nel Movimento Sindacale italiano. La Cisl, la sua antica “radice”, è il sindacato partecipativo e concertativo per eccellenza. La “concertazione” implica un “scambio politico” tra gli attori. Ora di fronte all’offensiva renziana non si riesce a cogliere bene però cosa contrappone Il Movimento sindacale italiano su questo punto.

E già. C’è una buona dose di confusione, piuttosto che un vero e proprio conflitto. Se fosse soltanto questo, non ci sarebbe da preoccuparsi. Il conflitto muove il progresso. Ma la confusione prevale e speriamo che non si trasformi in reciproca delegittimazione. Il dato fondamentale e importante è che il lavoro sta conquistando la prima fila nel dibattito politico e può  ritornare di attualità il conflitto tra primato della politica e primato del sociale. Era dai tempi della scala mobile, dell’inflazione a due cifre, della stagflation che non si assisteva ad una avvisaglia di contrapposizione tra politica e sociale, come quella che si profila. Ma non è un replay di quella fase. Neanche una sua brutta copia. Non ci sono più né un Berlinguer che non accetta di essere scavalcato da un’intesa tra un Governo – specie se a guida Craxi – e i sindacati, né un Carniti e Benvenuto che in nome dell’autonomia, interrompono l’unità con Lama. Non c’è più né il tentativo di realizzare una politica dei redditi concertata, né la scelta di dare un’alternativa al contrattualismo conflittuale, che aveva contrassegnato gli anni 70 e 80 e che tuttora aleggia nelle dinamiche tra le parti sociali.

Ma il Paese ha bisogno di migliorare la propria produttività complessiva, pena un irreversibile degrado. Il Governo ne ha fatto la propria cifra. Forse definendo non brillantemente le priorità, forse facendo dell’irruenza una bandiera inusuale. Ma ha posto una questione cruciale e di difficile contestabilità. Per di più, lo ha fatto caricando la molla più sulle inefficienze esterne alla produzione (istituzioni più snelle ed efficaci, pubblica amministrazione meglio organizzata, trasparenza nella gestione) che sulla solita ricetta della spremitura del lavoro per assicurare competitività al sistema delle imprese. Anche le definitive soluzioni sul contratto a tempo determinato e sull’apprendistato non sono ascrivibili alla cattiva flessibilità, indipendentemente dallo scambio proposto con gli 80 euro di sgravio fiscale a chi lavora e guadagna poco.

Il sindacato confederale  esca dal difensivismo. Non ragioni solo politicamente (“potere contro potere” fu slogan degli anni 70 dello scorso secolo). Non si faccia irretire da accuse strumentali di neolaburismo (sua  presunta etero direzione di almeno una parte del partito guidato dal Presidente del Consiglio). Non si rinchiuda nel fortino corporativo, aspettando che passi il cadavere dell’antagonista. Vada a bucare il palloncino. Faccia il suo mestiere, coniugandolo con i tempi attuali. Da una parte c’è la necessità di stare in Europa con un’ autonomia propositiva molto coesa e dall’altra occorre dare risposte alle voci che reclamano, in modi sempre più  perentori e rabbiosi, di ricomporre il mercato del lavoro. Ce n’è abbastanza per definire una strategia complessiva che convinca i propri iscritti e l’opinione pubblica. Una strategia che si collochi oltre il puro rivendicazionismo, oltre lo sterile opinionismo e sappia tenere insieme contrattazione e confronto istituzionale.

Il pendolo, finora è stato troppo esposto sul versante legislativo, risultato al dunque fragile e discutibile. Ci vuole una correzione più energica e innovativa verso la contrattazione, rivendicando ad essa il ruolo di primogenitura della ricomposizione del mondo del lavoro, in cambio di un sostegno senza riserve della crescita della produttività complessiva. Quindi, da una parte occorre accettare la sfida di ridurre le sacche di rendita politiche, burocratiche, professionali e finanziarie esistenti fuori dal sistema produttivo e dall’altra puntare  a rappresentare tanto i “ben occupati”, quanto “i male occupati” e i senza lavoro, ma anche i più deboli sul piano sociale (pensionati poveri, famiglie numerose, immigrati da integrare). Fare cioè il sindacalismo degli interessi generali, come si diceva una volta.

Maurizio Landini, con toni molto polemici nei confronti della Camusso, si è posto come un “rottamatore” della oligarchia sindacale in nome   della trasparenza e di un maggior protagonismo del sindacato. Dove ha ragione e dove ha torto il “conflittualismo” di Landini?

Non entro nel merito del conflitto interno alla CGIL sull’egemonia. Mi attengo ai fatti e da quel che emerge si può soltanto dedurre che quello di Landini non è un classico conflittualismo sindacale che presuppone che, se attivato, deve essere finalizzato ad un risultato contrattuale. Il suo è piuttosto un conflittualismo social politico, un po’ agitatorio che, nei limiti in cui non si traduce in una soluzione, rischia di trasformarsi in un puro e semplice “opinionismo”, legittimissimo, spesso applauditissimo ma sostanzialmente poco influente nella realtà dei fatti. Ovviamente, la FIOM firma anche accordi, anche importanti, come per ultimo quello alla Elettrolux, ma nell’insieme non favorisce un’azione incisiva del movimento sindacale, mette piombo nell’iniziativa della CGIL e ciò indebolisce oggettivamente la forza persuasiva del sindacato sia verso i lavoratori che verso le controparti imprenditoriali ed istituzionali.

Non sarebbe ora, per il Sindacato Confederale, di inaugurare una nuova stagione di unità mettendo da parte rendite di posizione ormai superate dalla storia?

Mi da fastidio la moda recente che tende ad associare il sindacato all’idea di conservazione. Al peggio, il sindacato negli ultimi tempi ha peccato di troppa rappresentanza dei propri iscritti, piuttosto che dell’insieme del variegato mercato del lavoro. Ma questo non è neanche corporativismo, figuriamoci se va iscritto nella casella conservazione. Detto questo, per il sindacato confederale c’è l’urgenza, come ho detto, di ricomporre il mercato del lavoro. Il decennio passato è stato quello di maggiore scomposizione del mercato del lavoro, senza incidere seriamente sul lavoro nero; con la conseguenza che la vertenzialità individuale giudiziaria ha registrato un boom senza precedenti, con i ringraziamenti del corpo forense.

Il risultato è che tutti sono insoddisfatti, dai cultori del diritto, agli osservatori economici, dai sindacati agli imprenditori ma soprattutto dalle persone che non riescono più a districarsi tra buona e cattiva flessibilità. Ora che si è trovato un punto di equilibrio (fragile) in Parlamento su contratto a termine e apprendistato, varrebbe la pena di fare il “tagliando” a tutta la regolamentazione del mercato del lavoro, con l’obiettivo della sua ricomposizione. Di conseguenza, la delega lavoro, presentata dal Governo, andrebbe ritirata o quanto meno congelata soprattutto per la parte relativa alla contrattualistica e rinviata ad una ampia discussione tra le forze sociali, professionali, economiche e culturali.

E’ in questo contesto che l’unità tra le centrali confederali può riprendere vitalità e prospettiva. Non è un problema di buona volontà dei gruppi dirigenti, ma di condivisione delle prospettive che si intendono perseguire e la fase ha bisogno di “visionari” piuttosto che di abili pattinatori nella congiuntura.

IL “PARTITO UNICO” DELLA FINANZA. INTERVISTA AD ANDREA BARANES

Andrea Baranes (www.emi.it)

Andrea Baranes (www.emi.it)

Quanto è forte il “partito unico” della Finanza? Quali le misure per contrastare il suo strapotere?
Ne parliamo con Andrea Baranes, Presidente della Fondazione Culturale Responsabilità Etica, della Rete Banca Etica. Una voce autenticamente fuori dal coro del “pensiero unico” di questi anni.

Baranes, siamo, ormai da troppi anni, immersi a livello mondiale nel “partito unico” della finanza. Nonostante la crisi che ha colpito il pianeta , questo “partito” è sempre più forte, tanto che un economista francese, Thomas Piketty, afferma che siamo come aI tempi di Marx in cui “l’economia è soffocata dal denaro”. Per lei siamo davvero a questo punto?

Per capire la forza del sistema finanziario, basta vedere cosa è successo negli ultimi anni. Nel 2007 la finanza privata provoca una crisi senza precedenti nella storia recente, e solo giganteschi piani di salvataggio pubblici evitano un completo collasso. Salvataggi che arrivano senza nessuna condizione: un assegno in bianco da migliaia di miliardi di dollari e di euro.
Oggi però è la stessa finanza pubblica, in difficoltà proprio a causa degli impatti della crisi, a essere sotto accusa mentre quella privata è ripartita come e peggio di prima. Nelle parole di Luciano Gallino, “Il paradosso è che la crisi, fino all’inizio del 2010, è stata una crisi delle banche. Poi è iniziata una straordinaria operazione di marketing: si è fatta passare l’idea che il problema fossero i debiti pubblici degli stati”. Al culmine del paradosso, oggi siamo costretti ad accettare i piani di austerità perché dobbiamo “restituire fiducia ai mercati”. La finanza privata che ha provocato la crisi detta le regole e impone sacrifici a Stati e cittadini che l’hanno subita. L’obiettivo dei governi non è il benessere delle persone, ma tenere sotto controllo lo spread. E’ in questo incredibile rapporto di forze tra finanza e politica che si può parlare di un “partito unico della finanza”.

Tra le conseguenze di questo predominio c’è la crescita a livello planetario della diseguaglianza. Quanto è cresciuta la diseguaglianza in questi anni nell’Occidente?

La disuguaglianza è cresciuta enormemente, almeno su due diversi piani. Uno è la differenza di reddito e ricchezza tra diverse fasce di popolazione. Tutte le statistiche confermano come, dal 2007 a oggi, tali differenze siano progressivamente aumentate, ovvero come il peso della crisi sia stato scaricato sui più poveri, mentre chi era in posizione di forza ha subito molto meno gli impatti, o addirittura ha guadagnato ulteriormente.
C’è però anche un’ulteriore disuguaglianza, forse ancora più preoccupante. Grazie all’assegno in bianco e alla continua liquidità immessa per tenere in piedi il sistema finanziario, questo è ripartito come se nulla fosse successo: gli indici di Borsa hanno superato i livelli pre-crisi, il mercato dei derivati segna nuovi record, i manager della City e di Wall Street si gratificano con bonus miliardari. L’aspetto peggiore non è nella pur inaccettabile ingiustizia sociale. L’economia reale rimane al palo, mentre la finanza continua a crescere: questa è la definizione stessa di una nuova bolla finanziaria. Se tale bolla dovesse scoppiare, chi ne pagherà le conseguenze? Quali Stati potrebbero mettere in campo nuovi piani di salvataggio? E ci verranno a dire un’altra volta che dobbiamo accettare sacrifici e pagare il conto?

Quali sono i “protagonisti” assoluti di questo “partito unico” della Finanza?

I protagonisti sono relativamente pochi. Alcuni conglomerati bancari, grandi fondi pensione e di investimento, che detengono parti sempre più consistenti della ricchezza mondiale. Per fare solo un esempio, negli USA cinque banche controllano oltre il 90% dei derivati. In Europa la situazione non è molto diversa. Una questione su cui riflettere è che in buona parte i soldi che circolano negli ingranaggi della speculazione sono, in ultima analisi, i nostri. Quando apriamo un conto corrente, o affidiamo i nostri risparmi a un gestore finanziario, o ancora sottoscriviamo un’assicurazione o aderiamo a u fondo pensione, ci domandiamo che fine fanno i nostri soldi? Stanno finanziando l’economia “reale” o finiscono in attività speculative e rischiose? In altri termini, quanto oltre che vittime siamo complici inconsapevoli dell’attuale sistema?

Si dice che è la politica l’unica arma di contrasto al “partito unico”. A ben guardare, però, è evidente la debolezza della politica. Quali possono essere gli strumenti politici per ripristinare un “primato” del bene comune rispetto alla speculazione?

In questo momento, effettivamente la politica appare estremamente debole. La gran parte delle proposte e delle soluzioni per chiudere questo casinò finanziario sono note da anni, a volte da decenni. Il problema non è nella difficoltà tecnica di adottare alcune regole, è nella volontà politica. Dalla tassa sulle transazioni finanziarie alla separazione tra banche commerciali e banche di investimento, dal controllo dei derivati a una maggiore trasparenza su specifici strumenti e intermediari, sappiamo cosa andrebbe fatto. Uno dei problemi è anche nell’inaccettabile peso delle lobby finanziarie e nella mancanza di una “contro-lobby” da parte di cittadini e società civile su questi temi. Per questo occorre partire da una formazione e informazione del pubblico sulle questioni finanziarie, e da campagne di pressione per chiedere l’adozione di alcune regole in grado di riportare la finanza a essere uno strumento al servizio dell’economia e non un fine in sé stesso per fare soldi dai soldi.

L’Europa può costituire un antidoto al potere del “partito unico”?

L’Europa potrebbe e dovrebbe fare da capofila su molte delle questioni accennate in precedenza mentre fino a oggi l’attenzione si è concentrata su debito e finanza pubblica. Se solo una parte dell’impegno messo per imporre fiscal compact, sacrifici e austerità ai Paesi fosse stato impiegato per regolamentare il sistema finanziario responsabile della crisi, probabilmente oggi la situazione sarebbe nettamente migliore. Su molti punti, al contrario, l’UE è persino più indietro degli USA e rappresenta di fatto uno degli ultimi baluardi della deregolamentazione finanziaria. Pensiamo al tema della separazione tra banche commerciali e di investimento. L’Amministrazione Obama l’ha approvata recentemente. In Europa, malgrado dei rapporti commissionati dalle stesse istituzioni europee riconoscano come si tratti di una misura fondamentale per evitare il ripetere di disastri come quelli vissuti negli ultimi anni, si va ancora avanti con il freno a mano tirato. La speranza è che le istituzioni che si insedieranno dopo le elezioni di maggio siano in grado di invertire la rotta.

Quali possono essere gli strumenti finanziari per tentare una inversione di tendenza allo strapotere del “partito unico”? Vede dei segnali di cambiamento?

Qualche segnale c’è, alcune cose sono state fatte, ma è ancora troppo poco e soprattutto in materia di regolamentazione finanziaria si procede con una lentezza esasperante rispetto ai tempi con i quali l’ingegneria finanziaria è in grado di studiare sempre nuove soluzioni e stratagemmi per eludere le regole esistenti. Per cambiare rotta occorre agire secondo due direzioni. Una, per cosi dire “dall’alto” è quella accennata in precedenza: poche regole per chiudere una volta per tutte il casinò finanziario che ci ha trascinato nella crisi. Nello stesso momento occorre agire “dal basso”, con una riflessione sull’uso dei nostri soldi. Anche se i nostri risparmi sono una goccia nell’oceano della finanza, i depositi sui conti correnti e le somme affidate ad assicurazioni, gestori finanziari, fondi pensione e di investimento, da milioni e milioni di risparmiatori e clienti, alla fine costituiscono buona parte della benzina che alimenta la finanza e oggi le manovra speculative. Abbiamo il diritto e per molti versi il dovere di esigere una piena trasparenza sull’uso del nostro denaro e di pretendere che questo sia impiegato nell’economia reale, per la creazione di posti di lavoro e non per finalità che non solo non hanno alcuna utilità sociale, ma esasperano instabilità e volatilità.

Ultima domanda: Come sta andando l’esperienza di Banca Etica?

Banca Etica sta andando benissimo. E’ una banca “normale”, che realizza tutte le operazioni degli altri istituti di credito, ma con alcune particolarità fondamentali. Una tra tutte, è l’unica in Italia a pubblicare sul proprio sito l’elenco completo dei finanziamenti erogati alle persone giuridiche, con il dettaglio dell’importo, del nominativo e altre caratteristiche del prestito. Un modo per garantire la completa trasparenza sui finanziamenti, che vanno unicamente ad alcuni settori ben definiti e con ricadute positive sulla società e l’ambiente: dalla cooperazione internazionale alle energie rinnovabili, dal sociale alla cultura ad altre ancora. Anche grazie alla completa trasparenza, alla fiducia tra richiedente e banca e alla valutazione degli impatti non economici delle attività economiche, i risultati sono ottimi: una banca in crescita anche negli anni della crisi, e i cui progetti sostengono forme di “buona economia”. Non solo. Oggi le banche italiane hanno delle sofferenze (ovvero la percentuale dei prestiti erogati che non viene restituita) intorno all’8%. Banca Etica, pur prestando a soggetti considerati “più rischiosi” ha oggi un tasso di sofferenza del 2%. Non uguale o leggermente migliore, ma quattro volte più basso delle banche “tradizionali”. Una dimostrazione che, dopo 15 anni di esistenza di Banca Etica, la finanza etica non può più essere considerata una nicchia per persone sensibili e magari un po’ stravaganti. E’ un modello che funziona e che dimostra concretamente come la finanza, oggi uno se non il principale problema che dobbiamo affrontare, può e deve al contrario essere una parte della soluzione.

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